CORTE COSTITUZIONALE
ATTO DI INTERVENTO

 

nell’interesse dell’associazione UNIONE GIURISTI CATTOLICI ITALIANI, Unione Locale di Piacenza (…) in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore Avv. Livio Podrecca (…) e della UNIONE GIURISTI CATTOLICI DI PAVIA “BEATO CONTARDO FERRINI”, (…) in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore Dott. M. F. (…) assistiti dal medesimo Avv. Livio Podrecca con studio in (…) unitamente e disgiuntamente all’Avv. Paolo Voltaggio con studio in (…), elettivamente domiciliati in (…) come da procure speciali (…) su foglio separato unite al presente atto di intervento,

 

NEL GIUDIZIO DI LEGITTIMITà COSTITUZIONALE

 

dell’art. 3, commi 4 e 5 della legge n. 219/2017, sollevato dal Giudice Tutelare del Tribunale di Pavia D. ssa Michela Fenucci con ordinanza del 24 marzo 2018, iscritta al n. 116 del 2018 del Registro delle Ordinanze e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 12-9-2018, n. 36, con la quale ha sospeso il giudizio e disposto l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del predetto art. 3, commi 4 e 5 della legge n. 219/2017, nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina includa l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva  in ambito sanitario, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, in relazione agli artt. 2, 3, 13, 32 Costituzione.

 

  1. Legittimazione dell’UGCI all’intervento incidentale

 

L’art. 2 del vigente Regolamento della Unione Locale di Piacenza della Unione Giuristi Cattolici Italiani prevede che “l’Unione ha lo scopo di contribuire alla attuazione dei principi dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nella attività legislativa, giudiziaria e amministrativa, in tutta la vita pubblica e professionale. In particolare l’Unione intende: … Favorire l’affermarsi della concezione del diritto quale ordine di giustizia tra gli uomini; Impegnarsi per la tutela e la promozione della persona umana nel concreto dell’esperienza giuridica; Richiamare l’attenzione dei giuristi sui problemi giuridici emergenti dalla evoluzione della società, perché possano trovare soluzioni rispondenti al bene comune”.

Allo stesso modo l’art. 5 dello Statuto della Unione di Pavia: “1. L’Associazione fa proprie le finalità statutarie dell’U.G.C.I., per contribuire all’attuazione dei principi dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nell’attività legislativa, giudiziaria e amministrativa, in tutta la vita pubblica e professionale, in conformità al Magistero della Chiesa cattolica; 2. In particolare l’Associazione intende: a) promuovere un’adeguata e specifica preparazione spirituale, deontologica, culturale e professionale dei giuristi, con una particolare attenzione nei confronti dei giovani; b) favorire l’affermarsi della concezione del diritto quale ordine di giustizia fra gli uomini; c) impegnarsi per la promozione della dignità della persona umana nel concreto dell’esperienza giuridica, tutelando la vita, dal concepimento sino al suo naturale spirare, e la famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna; d) promuovere la funzione del diritto come strumento di regolazione dei rapporti tra gli Stati nella società internazionale; e) richiamare l’attenzione dei giuristi sui problemi giuridici emergenti dall’evoluzione della società, perché possano trovare soluzioni rispondenti al bene comune; f) prestare opera di consulenza giuridica alle istituzioni ed alle iniziative sociali d’ispirazione cristiana, compatibilmente con lo status e i doveri professionali di ciascun membro”.

È pertanto evidente il concreto interesse delle associazioni intervenienti a portare il proprio contributo e ad interloquire nella questione portata alla attenzione della Corte, di grande ed anzi precipua pregnanza morale, attenendo ai temi della salute, della vita e della morte, e dei diritti fondamentali agli stessi collegati e sottesi nella Carta Costituzionale e, in particolare, agli articoli 2, 3, 13 e 32 alla stregua dei quali la norma sospetta di incostituzionalità ha potuto essere oggetto della ordinanza di rimessione del Giudice Tutelare di Pavia.

Proprio il prevalente interesse etico della questione oggi all’esame della Corte dovrebbe indurre la Stessa a consentire una più larga partecipazione degli enti ed associazioni, come le odierne intervenienti, espressioni della società civile, portatori di interessi direttamente coinvolti nella disciplina normativa, in questo caso statuale, che li regola.

A maggior ragione laddove si consideri il carattere giusnaturalistico delle moderne costituzioni occidentali (tra le quali la nostra) e, quindi, il rimando delle norme della Carta Costituzionale ad un ordinamento che precede quello, positivo, della legge statale, e trova il suo più solido e profondo fondamento nell’ordine naturale delle cose, vale a dire nel diritto naturale.

È infatti innegabile che il primo ed imprescindibile diritto fondamentale che la nostra Costituzione riconosce, all’art. 2, corrisponde a quel dovere di solidarietà che irradia di sé l’intero impianto costituzionale e, in modo particolare, il Titolo II, nel cui alveo, all’art. 32, riposa la tutela costituzionale della vita e della salute.

Si ritiene, quindi, che, su temi quali quello oggetto della ordinanza di rimessione, contributi conoscitivi di associazioni quali la odierna interveniente debbano essere favoriti e valorizzati.

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  1. L’Ordinanza del Giudice Tutelare di Pavia

 

Nella propria Ordinanza del 24-3-2018, il Giudice Tutelare di Pavia dubita che l’attribuzione all’Amministratore di sostegno del potere di rappresentanza esclusiva in ambito sanitario (con il diritto, quindi, di ricevere le debite informative relative ai trattamenti sanitari ed il potere di negare conseguentemente il consenso agli stessi, anche quando necessari al mantenimento in vita del paziente) di beneficiario che, nel caso specifico, sia affetto da ritardo mentale grave e versante in stato vegetativo, possa di fatto consentire all’ADS, laddove il medico sia consenziente, di disporre della vita e della salute altrui secondo una volontà che, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, può anche non essere attribuibile al paziente beneficiario della amministrazione di sostegno, ma riferibile unicamente all’amministratore di sostegno, che verrebbe, così, a violare la sfera personalissima del rappresentato, sostituendosi allo stesso.

In primo luogo il Giudice remittente, a seguito di una attenta esegesi della norma, osserva che «il rifiuto delle cure può interessare tutti i trattamenti sanitari astrattamente oggetto delle DAT”, inclusi, quindi, “(anche) i trattamenti sanitari necessari per il mantenimento in vita».

In un successivo, affatto pregnante, passaggio, il G.T. osserva che «la circostanza di trovarsi in uno stato di incapacità non potrebbe, di per sé sola, escludere a priori il diritto a decidere sui trattamenti necessari al mantenimento in vita; non si potrebbe, ex ante, privare un incapace, soltanto per il fatto di essere incapace, del diritto di decidere sui citati trattamenti, pena la violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost. Lo stato di incapacità non legittimerebbe in alcun modo un affievolimento dei diritti fondamentali (come la libertà di autodeterminazione), l’incapace è una persona a tutti gli effetti, nessuna limitazione o disconoscimento dei suoi diritti si prospetterebbe come lecita; egli deve essere rispettato e tutelato nei suoi diritti e nella sua individualità, e perciò salvaguardato anche in relazione alla libertà di autodeterminazione e di rifiuto delle cure; e una simile ricostruzione deve considerarsi avallata dalla legge in esame». Lo stesso principio, come osserva, ancora, il Tribunale di Pavia, è stato ribadito proprio nella sentenza della Suprema Corte di Cassazione nel caso Englaro: «Il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore […] il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona» (Corte di Cassazione, sentenza n. 21748 del 2007). La medesima Suprema Corte aveva precedentemente chiarito, sempre nell’ambito della medesima vicenda Englaro, che, con riguardo alla decisione sulla cessazione dei presidi sanitari funzionali al mantenimento in vita dell’incapace, «giammai il tutore potrebbe esprimere una valutazione che, in difetto di specifiche risultanze (…), possa affermarsi coincidente con la valutazione dell’interdetta» (Corte di Cassazione, ordinanza n. 8291 del 2005).

Che la questione interpretativa sia attuale e determinante si desume, indirettamente, dal governo che delle stesse norme fa, p. es., il Giudice Tutelare di Modena, secondo il quale «con riguardo alla espressione del consenso informato (ovvero, al rifiuto) ai trattamenti medico-sanitari da parte di persona incapace – attenzione: non già di intendere e di volere! NDR, bensì solo – di esprimersi, la questione è stata risolta dalla recente l. 22 dicembre 2017, n. 219. Superando la tesi tradizionale che escludeva la rappresentanza in materia di atti personalissimi, quali quelli in discorso, fu la Corte Suprema a chiarire che il consenso potesse essere manifestato da parte del tutore di persona interdetta, a condizione che venisse ricercato il suo best interest e ricercandone la volontà precedentemente da lui espressa (Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748), con ciò dando attuazione all’art. 6 della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 (ratificata dall’Italia con l. 28 marzo 2001, n. 145), la quale ammetteva che il rappresentante legale (dell’incapace) potesse esprimere il consenso informato al trattamento medico al suo posto» (Tribunale Modena, Sez. II Civile, decreto 23-3-2018).

Una interpretazione, come si vede, non condivisibile e forzata, contrastante con gli autentici principi solidaristici (presidiati dall’art. 2 Cost.) e con i doveri che dagli stessi discendono, smentita da un lato dalla stessa pronuncia della S.C. citata, nei termini riportati dal Giudice rimettente, ed anche dalla Convenzione di Oviedo, il cui art. 6 dispone che «Sotto riserva degli articoli 17 e 20, un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa», dove il riferimento al ‘diretto beneficio’, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata (in particolare dagli artt. 2 e 32 Cost.), esclude la possibilità di sacrificio della salute o del bene supremo della vita di terzi in assenza di eventi ineluttabili quali una malattia che non possa essere contrastata se non incorrendo nell’accanimento terapeutico.

Sotto altro profilo, nella ordinanza 14-2-2018, nella quale solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., la Corte di Assise di Milano, «pone poi attenzione alla recentissima legge sul biotestamento (l. 219/2017), ritenendo che i principi fondanti di questa legge possano essere d’aiuto anche ai fini della interpretazione dell’art. 580 c.p. Più precisamente, si osserva che la nuova normativa riconosce la possibilità di ogni individuo di disporre anticipatamente le proprie volontà sul “fine-vita”, fino ad affermare che lo stesso può decidere effettivamente di porvi fine. La Corte sottolinea, dunque, che “nel caso di malattia” il legislatore ha espressamente riconosciuto “il diritto a decidere di lasciarsi morire a tutti i soggetti capaci”. Il mancato riconoscimento da parte del legislatore di un diritto al suicidio assistito, peraltro, secondo la Corte implicherebbe l’impossibilità di pretendere dai medici del servizio pubblico la somministrazione o la prescrizione di un farmaco che procuri la morte, ma non può portare a negare la sussistenza della libertà della persona di scegliere quando e come porre fine alla propria vita, posto che una simile libertà troverebbe fondamento nei principi espressi dagli articoli 2 e 13 della Carta costituzionale».

Come si vede, sotto questo profilo l’intervento chiarificatore della Corte adita, nel senso della indisponibilità del bene vita e, da parte di terzi, dei beni oggetto di diritti personalissimi, è intuitivamente molto importante e decisivo per arrestare la grave deriva libertaria e nichilista che rischia, anziché di tutelare e rafforzare il diritto fondamentale di autodeterminazione, di comprometterlo e sacrificarlo all’altare della sbrigativa (e non di rado interessata, per esempio a fini economici e/o ereditari) soluzione, con l’eliminazione fisica del paziente, dei casi difficili o semplicemente non (economicamente) convenienti o scomodi.

Valgano, in proposito, tra le tante possibili, due semplici considerazioni: il sopraggiungere della malattia, con l’esperienza del dolore e dell’angoscia che, in misura varia ed anche intensa, le si accompagnano, può far cambiare ad una persona le proprie idee sulla vita ed i propri convincimenti rispetto alla malattia, alla salute, alle cure. Le più recenti acquisizioni della diagnostica strumentale, d’altra parte, dimostrano che dietro uno stato di apparente incoscienza e di vita definita vegetativa vi può essere uno stato vigile e di maggior o minore coscienza e consapevolezza, ancorché sensazioni e volontà non siano percepibili all’esterno. Basterebbe questo, secondo una ragionevole applicazione del principio di precauzione, per impedire decisioni di rifiuto delle cure che implichino effetti di carattere definitivo ed esiziale. È per questo che l’art. 9 della Convenzione di Oviedo dispone che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno – non vincolanti per il medico, come irragionevolmente dispone la Legge 219/2017, NDR, ma – tenuti in considerazione».

Tornando all’ordinanza di remissione, premesso che, giusta la prospettazione del Giudice Tutelare di Pavia, «il comma 5° dell’art. 3 legge 219/2017 consenta all’amministratore di sostegno di rifiutare i trattamenti necessari al mantenimento in vita […] quindi l’amministratore di sostegno potrebbe presentarsi dinnanzi al medico, manifestare il rifiuto con conseguente fattuale interruzione delle cure, senza coinvolgimento del giudice tutelare», ne scaturisce un sistema che favorisce gli abusi, con rifiuto delle cure e conseguente soppressione di pazienti incapaci, per interessi che possono intuitivamente essere i più diversi, e realizzare, sotto la facciata e la ‘copertura’ di un presunto best interest del paziente, convinzioni, visioni della vita, interessi e convenienze ad esso del tutto avulse ed estranee, mentre, come correttamente riferisce il Tribunale rimettente, «l’amministratore non deve decidere né ‘al posto dell’incapace, né per l’incapace’; postulato della citata proposizione è la concezione della decisione del rifiuto delle cure come una valutazione di pertinenza del solo interessato, in ragione delle sue caratteristiche eminentemente personali, valutazione della quale non può in alcun modo essere espropriato mediante la sua consegna  alle determinazioni di un altro soggetto».

Andando a fondo nella sua accurata e penetrante disamina, il Tribunale remittente, ribadita la essenza personalissima del rifiuto delle cure, osserva che «prevedere l’autorizzazione della autorità giudiziaria per l’esplicazione di una serie di atti attinenti la sfera patrimoniale e al contempo non prevederla per l’atto di rifiuto delle cure, sintesi ed espressione del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, si profila come irrazionale; l’ordinamento appresterebbe  a un interesse di ordine patrimoniale salvaguardia e presidi tutelativi superiori rispetto a quelli stabiliti per i richiamati diritti alla vita, alla salute, all’autodeterminazione e alla dignità della persona. Si deve poi osservare […] come, in ordine alla domanda di separazione avanzata dall’amministratore in nome e per conto del beneficiario della amministrazione, la giurisprudenza, dalla qualificazione della suddetta domanda come atto personalissimo, faccia discendere la necessità dell’autorizzazione del giudice, calibrata sulla ‘ricostruzione del vissuto dell’incapace’ (Trib. Cagliari 15.6.2010)».

Nel rilevare, infine, una intima contraddizione nello stesso apparato approntato dalla Legge 219/2017, laddove il testo normativo si prefigga l’ «intento di valorizzare ed accordare centralità alle manifestazioni di volontà dei singoli», quando rispetto agli incapaci un tale elemento volontaristico venga privato, con riferimento alle norme sospettate di illegittimità costituzionale, di qualsiasi “meccanismo di tutela o di controllo”, il Giudice remittente ritiene che l’art. 3, commi 4 e 5, legge 219/2017 sia incostituzionale laddove non preveda il necessario intervento del Giudice Tutelare quando, in assenza di dichiarazioni anticipate di trattamento, il rifiuto ai trattamenti sanitari opposto dal legale rappresentante della persona inabilitata o interdetta o dall’amministratore di sostegno sia condiviso dal medico. Il pensiero del Tribunale rimettente si precisa nel senso che, in tale caso, non possa procedersi de plano secondo il rifiuto alle cure ma compito del Giudice Tutelare, in assenza di DAT, sia quello di accertare la volontà del paziente incapace, desunta anche dalle sue convinzioni, dal suo stile di vita o da quanto dallo stesso dichiarato rispetto al tema in questione. Il tutto sulla scorta e sulla scia di quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione nel noto caso Englaro (Cass. 21748/2017).

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III. Della illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, Legge 219/2017

 

La rigorosa e penetrante disamina condotta dal Giudice Tutelare di Pavia merita una piena condivisione quanto alle premesse, al difetto di adeguata considerazione e tutela della volontà del soggetto incapace ed alla censura di illogicità ed irragionevolezza, sotto tale profilo, delle disposizioni censurate.

Si ritiene, tuttavia, che una tale inadeguatezza persisterebbe anche nel caso in cui la Corte aderisse alle tesi del tribunale rimettente, laddove dovesse, ipoteticamente, ritenere sufficiente ed adeguata a motivare l’autorizzazione giudiziale al rifiuto, nell’interesse del rappresentato, da parte dell’amministratore di sostegno o, comunque, del legale rappresentante dell’incapace, dei trattamenti sanitari sulla scorta di una volontà solo presunta del rappresentato (o beneficiato), ricostruita sulla base di elementi presuntivi tratti dalle precedenti fasi di vita, come è avvenuto per Eluana Englaro sulla scorta della citata decisione della Suprema Corte.

Pare, infatti, drammaticamente evidente il carattere di fictio iuris di una tale metodologia, del pari irrispettosa (e lesiva del suo diritto di autodeterminazione) della reale e ipoteticamente diversa volontà che il paziente potrebbe esprimere attualmente, da sé, se ne fosse in grado.

Come detto, gli eventi dolorosi della vita (e, tra questi, la esperienza della malattia), possono incidere profondamente sulle convinzioni delle persone, e modificarle profondamente, in un senso o nell’altro, e tale convinzione può esistere anche nell’animo e nella mente di un soggetto apparentemente incosciente, che, semplicemente, non è in grado di esprimerla. Per questo, come pacificamente avviene in campo patrimoniale, un valido consenso o rifiuto delle cure non può insorgere anteriormente al verificarsi del quadro patologico rispetto al quale si pone la necessità di dare l’informativa prevista in vista del consenso (o, simmetricamente, del dissenso) ai trattamenti sanitari. Propriamente per tale ragione tra i requisiti indefettibili per il rilascio del consenso (o del rifiuto) informato deve essere inclusa la attualità della informativa rispetto al quadro patologico nel quale si pone la necessità dei trattamenti sanitari che sono oggetto della informativa stessa, restando, poi, il paziente libero di revocare in qualsiasi momento il consenso (o il dissenso) prestato, in particolare quando si sia verificata una evoluzione in senso positivo o negativo del quadro clinico.

La Corte di Cassazione è stata chiamata ad esprimersi sulla correttezza della motivazione della sentenza con cui il precedente Giudice ha ritenuto non più operante il rifiuto espresso da un paziente, al momento del ricovero, di sottoporsi ad una trasfusione sanguigna, alla luce di un quadro clinico fortemente mutato, con imminente pericolo di vita e senza possibilità di interpellarlo perché anestetizzato. La condotta dei sanitari, i quali hanno effettuato il trattamento trasfusionale con l’obiettivo di salvar la vita al paziente, è stata ritenuta legittima, «avendo essi operato nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido ed operante»; ciò «in virtù delle seguenti considerazioni: che anche il dissenso, come il consenso, dev’essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole» (Corte di Cassazione, sentenza n. 4211 del 2007).

La medesima esigenza di attualità del consenso rispetto alla patologia alla quale ineriscono i trattamenti sanitari oggetto della informativa medesima traspare, con evidenza, dal tenore e dai contenuti della pronuncia n. 438/2008 di Codesta Corte, nella quale si afferma che «la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello alla autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione». È evidente che una tale connotazione della informativa sulle cure, finalizzata alla tutela della salute ma anche della libertà individuale, è incompatibile con una volontà pregressa non formatasi sulla base della informativa.

Nella Direttiva 2001/20/CE – Preambolo, inoltre, si afferma che di fronte a soggetti incapaci deve prevalere la possibilità dei benefici sui rischi di nocumento. Parimenti nel D. Lgs. 211/2003 si disciplina il consenso informato. Dal tenore letterale della norma si evince che il consenso informato deve illustrare, con riferimento al caso specifico, il percorso terapeutico con riferimento al concreto quadro patologico in cui il trattamento sanitario di inserisce. In difetto, quindi, di attualità, per il paziente incapace non è data alcuna certezza sulla persistenza volitiva, in mutato quadro delle condizioni di salute, di eventuali disposizioni date anticipatamente, in fasi della vita diverse e non segnate dalla esperienza, fisica, psichica ed esistenziale, della malattia, con le precise, diverse ed imprevedibili nella loro complessità, coordinate fisiche e psichiche che la possono caratterizzare.

In campo patrimoniale, molti sono gli esempi in cui la tutela degli interessi delle persone comporta la nullità di pattuizioni o rinunce preventive: si pensi, per esempio, al divieto di patti successori, alle nullità connesse alle rinunce preventive al diritto di prelazione (urbana o agraria). Ma si pensi, a contrario, al caso in cui si dovesse dare valore, in campo patrimoniale (p. es., successorio) a volontà presunte ricostruite (o ricostruibili) sulla base di stili di vita, amicizie, dichiarazioni di impegno ad eredità o lasciti.

Le superiori considerazioni, si ritiene di evidente validità logica e giuridica, riverberano direttamente i loro effetti, per attenerci ai contorni della questione portata all’esame della Corte, sulle norme censurate. Il problema della valutazione della persistenza del rifiuto di trattamenti sanitari nell’interesse dell’incapace, infatti, esiste e permane anche in caso di precedenti disposizioni anticipate di trattamento, proprio per la naturale volatilità della volontà delle persone rispetto ai fatti ed alle stagioni della vita. In questo senso, l’intervento del Giudice Tutelare dovrebbe essere volto non già ad una ricostruzione di una volontà che risulterebbe o solo presunta ed assolutamente ed indiscutibilmente fittizia o, quand’anche chiara ed espressa in apposite disposizioni anticipate, tuttavia non attuale e non informata, e quindi non tale da poter assumere un effetto vincolante per i medici, nel rispetto dei principi di indisponibilità della vita e di solidarietà scolpiti nella Carta Costituzionale. Più realisticamente, la funzione del Giudice Tutelare dovrebbe essere quella di autorizzare terapie che non costituiscano accanimento terapeutico e forniscano invece, secondo un indefettibile principio di precauzione, adeguata salvaguardia dei beni della salute e della vita, secondo i doveri solidaristici che informano di sé la materia.

Nell’incertezza, il paziente incosciente non deve poter subire condotte tali, come il rifiuto di cure salvavita che, esclusa ogni forma di accanimento terapeutico, possano rivelarsi dannose o esiziali rispetto ai beni vita e salute, oltreché lesive del diritto fondamentale alla autodeterminazione in campo sanitario, da coniugarsi armonicamente con il dovere di solidarietà che impedisce ai consociati di abbandonare i malati al loro destino, quand’anche essi, per ragioni le più diverse (senso di inutilità e di abbandono; di solitudine; mancanza di senso della vita; insopportabilità del dolore, tenendo conto che la componente psichica del dolore è talora la maggior causa di sofferenza, rispetto al dolore fisico; stati depressivi, ecc.).

In tal senso, si può ricordare che la citata Convenzione di Oviedo correttamente non ascrive valore vincolante a precedenti desideri del paziente rispetto ad ipotetiche patologie future, ma semplicemente obbliga il medico a tenerne conto. Come richiamato da Codesta Corte nella sentenza 23 dicembre 2008, n. 438, l’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145 (seppure non risulti ancora depositato lo strumento di ratifica), prevede che ‘un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona informata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato’, e, all’art. 9, che, se esistenti, le dichiarazioni anticipate di trattamento sono non già, come prevede l’art. 5 della legge 219/2017, vincolanti, ma semplicemente “tenute in considerazione dal medico”.

Nel caso dell’incapace, la necessaria attualità del consenso o del dissenso informato pone un limite preciso ed inequivocabile in ambito di tutela della salute. Il relativo superamento consegna la società al rischio di gravi e ripetute violazioni e soprusi, conseguenti all’arbitrio ed all’abuso di norme che rischiano, disgraziatamente, di fornirne una deprecata legittimazione formale.

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  1. Considerazioni UGCI Pavia

 

In una propria nota, l’Unione di Pavia esprime proprie specifiche considerazioni, in gran parte ricalcanti quanto sopra esposto. Si ritiene tuttavia utile riportarle nella loro esatta consistenza testuale.

  1. Oggetto della disposizione scrutinata.

L’ordinanza del Giudice Tutelare di Pavia investe la disciplina del potere dell’amministratore di sostegno in ambito sanitario ex lege n. 219/2017, in particolare all’art. 3, cc. 4 e 5. Ai sensi dell’art. 3, c. 4, in assenza di DAT del paziente/amministrato di segno contrario, l’amministratore – cui siano stati conferiti poteri in ambito assistenziale e sanitario di interesse dell’amministrato – può assumere una decisione unilaterale sul rifiuto e sulla interruzione di trattamenti sanitari, anche salvavita, pure consistenti nell’idratazione, alimentazione (e probabilmente ventilazione) artificiali.

La decisione è direttamente eseguita dal medico, se questi vi consente, senza vaglio giudiziale.

L’opposizione del medico, ai sensi del c. 5 dell’art. 3, fa sì che la decisione possa essere rimessa al giudice, su ricorso del medico medesimo, o della struttura sanitaria di ricovero, o dell’amministratore di sostegno, o di altri soggetti ex artt. 406 ss. c.c.

  1. Non sostituibilità del convincimento del paziente, su questioni di vita e di morte, con quello del medico e dell’amministratore di sostegno.

Il giudice remittente condivisibilmente dubita della legittimità costituzionale della previsione normativa di simile potere: trattandosi di diritti personalissimi (quali sono il diritto alla vita, alla salute, alle terapie, alle cure), l’amministratore potrebbe al più eseguire la volontà dell’amministrato, ma non sostituirsi nel processo di formazione ed elaborazione della volontà medesima, attinente a convinzioni “squisitamente soggettive” (v. Cass. n. 8291/2005; v. anche Cass. n. 21748/2007).

Analogamente, a tale convincimento, per lo stesso motivo, non potrà sostituirsi un accordo tra amministratore e medico, vincolante per il soggetto terzo interessato. Si tratterebbe infatti di un negozio giuridico privato efficace ultra partes e per di più avente ad oggetto diritti fondamentali e personalissimi.

La volontà dispositiva, in caso di soggetto incapace di esprimerla in maniera consapevole, libera e attuale, e in assenza di DAT, dovrà semmai potersi ricostruire, e dunque accertare, dall’organo giurisdizionale/giudice tutelare, come ha sostenuto il giudice remittente nell’ordinanza.

Nel caso di soggetto da sempre incapace di esprimere simile volontà, il giudice concluderà per la prosecuzione dei trattamenti (non configuranti accanimento), non contemplando la l. n. 219/2017 il diritto a morire, che sarebbe comunque non compatibile con i vincoli costituzionali e i principi generali dell’ordinamento (cfr. L. Eusebi, Note sui disegni di legge concernenti il consenso informato e le dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, in Criminalia, 2006).

Appare dunque evidente la violazione dell’art. 2 Cost. (implicante il diritto alla vita) e dell’art. 32 (contenente il diritto alla salute e alle terapie) letto (anche) alla luce del primo, da parte dell’art. 3, cc. 4 e 5, l. n. 219/2017.

  1. Ulteriori profili di illegittimità costituzionale.

Si possono però profilare ulteriori aspetti di illegittimità costituzionale, rispetto a quelli sollevati dal giudice pavese.

3.1. Diversità strutturale dei sostegni vitali rispetto alle terapie propriamente intese.

Si può anzitutto dubitare che, in ogni caso, a prescindere cioè dall’esistenza di DAT di qualunque tenore e dalla ricostruzione attuale o storica della volontà dell’individuo, l’amministratore di sostegno possa decidere per il rifiuto o l’interruzione dell’alimentazione, dell’idratazione (e della ventilazione) artificiali.

Simile facoltà contrasta infatti:

– con l’art. 2 Cost., perché idonea a privare la persona delle più elementari forme di sostegno vitale (pertanto in contrasto con il principio di tutela della dignità della persona umana) comportando un lento e inesorabile deperimento dell’organismo umano sino alla morte;

– con l’art. 32, c. 2, Cost., perché non tiene conto del fatto che, quantomeno, è dibattuta la possibilità di ascrivere simili trattamenti a terapie mediche (v., anzi, i pareri del CNB, specialmente L’alimentazione e l’idratazione dei pazienti in stato vegetativo persistente, 30 settembre 2005), mentre la norma costituzionale testé citata concerne i soli trattamenti sanitari;

– con l’art. 3 Cost., perché, analogamente, la l. n. 219/2017 equipara irragionevolmente trattamenti “farmacologici” (o di altro tipo) e trattamenti di mero sostegno vitale: si consideri che chi decede per la privazione di alimentazione e idratazione non decede a causa della malattia, ma perché privato, appunto, di sostegni che consentirebbero la prosecuzione dell’esistenza nonostante la malattia.

Come detto, i trattamenti di sostegno vitale sono infatti strutturalmente diversi e la relativa qualificazione è oggetto di dibattito scientifico, che non spetta al legislatore risolvere.

3.2. La limitata capacità di intendere e volere.

La norma sul potere dell’amministratore di sostegno, in materia, appare poi costituzionalmente illegittima nella parte in cui consente all’amministratore di decidere per una soluzione letale, dovendosi solo “tenere conto” della volontà espressa dal soggetto amministrato “in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere” (cfr. art. 3, c. 4).

Simile ipotesi contrasta:

– con l’art. 2 Cost., per la lesione del diritto personalissimo alla vita e alla salute, che solo il titolare può esercitare;

– con l’art. 3 Cost., perché irragionevolmente si equipara la posizione di chi è totalmente incapace con quella di chi può, seppure parzialmente, manifestare la volontà in ordine a un diritto per di più fondamentale e personalissimo;

– con l’art. 32 Cost., per i medesimi motivi.

3.3. La questione della indisponibilità del diritto alla vita.

A ben vedere, la norma legale denunciata, letta in combinato disposto con altre norme della medesima legge immediatamente correlate, presenta ulteriori vizi di costituzionalità, ancora più radicali.

Si può infatti dubitare, più in generale, della legittimità della privazione di trattamenti sanitari salvavita:

  1. a) come già visto, in assenza di DAT di rinuncia ai trattamenti;
  2. b) ma anche in presenza di esse;
  3. c) e, comunque, ogni qual volta difetti l’attualità del consenso informato, nonostante la ricostruzione giudiziale della volontà storica;
  4. d) e persino in presenza di un consenso informato e attuale.
  5. a) In assenza di DAT di rinuncia.

L’art. 3, cc. 4 e 5, contrasta, oltre che come detto con gli artt. 2 e 32, anche con l’art. 3 Cost.: solo il soggetto amministrato (o minore o interdetto) potrebbe infatti essere privato dei trattamenti sanitari e persino del diritto alla vita senza la garanzia delle DAT, a differenza di tutte le altre persone fisiche ai sensi degli artt. 1 e 4. Si tratta di una disparità di trattamento ingiustificabile e anzi paradossale, per la particolare debolezza di questi soggetti.

  1. b) e c) Anche in presenza di DAT e in ogni caso di mancato consenso informato e attuale.

L’art. 4 consente, attraverso il ricorso alle DAT, che un soggetto possa essere privato di diritti in ambito sanitario, fondamentali e personalissimi, in carenza del consenso informato necessariamente attuale, in quanto formatosi sulla fattispecie concreta.

Il contrasto è con gli stessi parametri di cui alla ipotesi sub a): il contrasto con l’art. 3 Cost. è in particolare ravvisabile nel fatto che un soggetto, qui particolarmente debole, potrebbe subire conseguenze negative in ordine alla propria sfera giuridica, senza il previo diritto al consenso informato e attuale goduto dalla generalità dei soggetti. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, il consenso informato si configura infatti quale vero e proprio diritto della persona (cfr. ad es. Corte cost. n. 438/2008).

La mancanza del consenso informato e attuale dovrebbe pertanto precludere all’amministratore di sostegno, alla stregua dei parametri costituzionali, scelte su diritti fondamentali e personalissimi altrui.

Sub d) Anche in caso di consenso informato e attuale.

L’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 3, cc. 4 e 5, con gli artt. 1 e 4, emerge non solo alla luce di una lettura sistematica, e più coerente con la ricostruzione della intenzione del Costituente, dell’art. 32 Cost., norma di tutela della salute e a fortiori della vita umana quale diritto non rinunciabile (cfr. M. Ronco, Eutanasia, in Digesto – Discipline penalistiche, 2010). Ma anche alla luce del fatto che, ex art. 3 Cost., appare irragionevole che l’ordinamento tuteli diritti patrimoniali (si pensi al diritto alle ferie) e personali (si pensi all’obbligo delle cinture di sicurezza, alle cautele antinfortunistiche sul lavoro, alla disciplina sugli stupefacenti, ecc.), anche contro la volontà della persona interessata; e, per contro, ammetta il diritto della persona a sortire per sé conseguenze letali o, addirittura, a ottenere collaborazione passiva o attiva nella scelta di esse.

Simili effetti discendono dalle disposizioni sul consenso informato (art. 1). Ma, autorevolmente, si è correttamente sostenuto che si ha un diritto alla vita e non sulla vita (cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, 24 ottobre 2008).

A fortiori, simili decisioni non potrebbero essere assunte da un soggetto terzo, quale è l’amministratore di sostegno, ex art. 3, cc. 4 e 5.

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  1. Considerazioni finali e conclusioni

 

Finalmente, ci si può chiedere donde derivi la indisponibilità di determinate situazioni giuridiche soggettive. Venire al mondo comporta non solo diritti ma doveri, dovere di spendersi nella collettività secondo le proprie capacità. Diritto di nascere. Il contenuto dei diritti è sempre in funzione della tendenza di ciascuna cosa all’essere ed al perfezionamento, cui naturalmente tende. La collaborazione nella realizzazione di una tale tendenza costituisce precisamente il contenuto dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art. 2 Cost. Sotto questo profilo, non può esistere nell’ordinamento un “diritto a morire”, perché il morire, cioè la tendenza al non essere, non può mai corrispondere ad un interesse meritevole di tutela né essere in sé un bene tutelabile dalla norma giuridica. Poiché la morte è il fine ineluttabile di ogni vita fisica, viene il momento in cui la vita fisica si esaurisce, per cause naturali ivi inclusa la malattia, ed un tale epilogo è ineluttabile, senza mai poter costituire l’oggetto, in senso tecnico, di un diritto. Anche a fronte di ferme e motivate volontà suicidarie, la morte non può mai costituire in sé un valore ed un bene meritevole di tutela giuridica, stanti i vincoli di solidarietà tra le persone.

La vita è il presupposto di ogni diritto, l’essere è un fatto, forse (come evidenziato dalla filosofia esistenzialista del secolo scorso) il più irrazionale che esista in ordine alle sue ragioni originarie. Ma ogni cosa tende verso l’essere ed il suo perfezionamento, e ciò non può che coincidere con il bene, secondo una visione giusnaturalistica che è esattamente la stessa espressa nei diritti fondamentali delle costituzioni occidentali moderne.

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Si chiede quindi che Codesta Corte voglia, in accoglimento della questione posta dal Tribunale di Pavia, dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219/2017, nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina includa l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva  in ambito sanitario, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, in relazione agli artt. 2, 3, 13, 32 Costituzione.

 

Si allegano: n. 2 copie statuti sociali.

 

Piacenza – Roma, 27 settembre 2018.

(Avv. Livio Podrecca)