Angelo Salvi
Avvocato del foro di Roma

 

Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso Lenford – 3. La legittimazione ad agire delle associazioni in materia antidiscriminatoria.

 

  1. Premessa

 

Le direttive comunitarie di seconda generazione[1] valorizzano il ruolo di associazioni, organizzazioni ed enti esponenziali preposti al contrasto delle discriminazioni, cui attribuiscono – a determinate condizioni – la legittimazione processuale attiva «per conto o a sostegno» della persona che si ritiene discriminata e «con il suo consenso».

Accanto a tali ipotesi, la disciplina nazionale italiana di recepimento delle direttive in menzione ha introdotto un’ulteriore ipotesi di legittimazione ad agire in favore dei soggetti collettivi, che ricorre nel caso in cui «non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».

Per questa tipologia di azioni il soggetto collettivo vanta una legittimazione iure proprio, che prescinde dal consenso di terzi e si radica nella considerazione del ruolo fondamentale che gli enti esponenziali assumono nel contrasto alle discriminazioni “diffuse”, ove vittima è una categoria di persone e non un soggetto immediatamente individuabile.

In termini generali, le questioni di diritto processuale attinenti la legittimazione attiva iure proprio dei soggetti collettivi in ambito antidiscriminatorio sono due: 1) quella attinente al rapporto che intercorre tra la normativa nazionale italiana e la normativa europea, che non prevede espressamente una tale tipologia di azioni; 2) quella concernente i limiti entro i quali tali azioni possano essere esperite[2].

Con la sentenza resa nella causa C-507/18 (NH // Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford) la Corte di Giustizia dell’Unione Europea non solo riafferma il principio secondo cui la normativa nazionale italiana è coerente con la ratio sottesa alle direttive europee, che non precludono agli Stati membri di adottare disposizioni più favorevoli in materia, ma definisce altresì i criteri in base ai quali una associazione o organizzazione possa ritenersi rappresentativa del diritto o dell’interesse leso, connotando così – in concreto – la generica formula utilizzata dal legislatore italiano.

 

  1. Il caso Lenford

 

La controversia ha ad oggetto l’accertamento del contenuto discriminatorio di alcune dichiarazioni rese dall’avvocato NH nel corso di una trasmissione radiofonica e secondo le quali egli non avrebbe inteso avvalersi, nel suo studio di avvocati, della collaborazione di persone omosessuali.

Ritenendo che NH avesse pronunciato delle frasi costituenti un comportamento discriminatorio fondato sull’orientamento sessuale dei lavoratori, in violazione dell’art. 2, co. 1, lettera a), del D. Lgs. n. 216 del 2003, l’Associazione A.L.R. – un’associazione di avvocati che per statuto difende in giudizio i diritti delle persone LGBTI – conveniva NH in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo.

Con ordinanza del 6 agosto 2014, il menzionato Tribunale dichiarava illecito, in quanto direttamente discriminatorio, il comportamento di NH e lo condannava a versare all’Associazione € 10.000,00 a titolo di risarcimento del danno, ordinando la pubblicazione dell’ordinanza per estratto su un quotidiano nazionale.

Successivamente, con sentenza del 23 gennaio 2015, la Corte d’appello di Brescia confermava l’ordinanza del Tribunale di Bergamo.

Il processo giungeva quindi in Corte di Cassazione, innanzi la quale NH deduceva; 1) l’erronea applicazione dell’art. 5 del D. Lgs n. 216 del 2003, avendo il giudice d’appello riconosciuto la legittimazione ad agire dell’Associazione; 2) la violazione o erronea applicazione dell’art. 2, co. 1, lettera a), e dell’art. 3 del citato decreto legislativo, determinata dal fatto che egli avrebbe espresso un’opinione concernente la professione di avvocato non presentandosi in veste di datore di lavoro, bensì come semplice cittadino, e che le dichiarazioni in questione erano avulse da qualsiasi ambito professionale effettivo.

In tale contesto, la Corte di Cassazione sospendeva il giudizio, rimettendo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l’interpretazione dell’articolo 9 della direttiva [2000/78] sia nel senso che un’associazione, composta da avvocati specializzati nella tutela giudiziale di una categoria di soggetti a differente orientamento sessuale, la quale nello statuto dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, si ponga automaticamente come portatrice di un interesse collettivo e associazione di tendenza non profit, legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria, in presenza di fatti ritenuti discriminatori per detta categoria.

2) Se rientri nell’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria predisposta dalla direttiva [2000/78], secondo l’esatta interpretazione dei suoi articoli 2 e 3, una dichiarazione di manifestazione del pensiero contraria alla categoria delle persone omosessuali, con la quale, in un’intervista rilasciata nel corso di una trasmissione radiofonica di intrattenimento, l’intervistato abbia dichiarato che mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di dette persone nel proprio studio professionale [di avvocati], sebbene non fosse affatto attuale né programmata dal medesimo una selezione di lavoro».

Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva, secondo le quali tale persona mai assumerebbe o si avvarrebbe, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale rientrano nell’ambito di applicazione materiale della direttiva 2000/78/CE, anche se al momento del rilascio di tali dichiarazioni non fosse in corso o programmata alcuna procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico.

Con riferimento alla prima questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha statuito che la direttiva 2000/78/CE non osta alla normativa italiana in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva ed eventualmente ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi della direttiva in parola, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa.

La Corte ha precisato, al riguardo, che «sebbene la direttiva non imponga il riconoscimento di una simile qualità ad un’associazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale qualora non sia identificabile alcuna persona lesa, essa prevede la possibilità per gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alla tutela del principio della parità di trattamento rispetto a quelle in essa contenute. Spetta pertanto agli Stati membri che hanno operato tale scelta decidere a quali condizioni un’associazione possa avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far constatare l’esistenza di una discriminazione e a sanzionarla. Essi sono tenuti segnatamente a stabilire se lo scopo di lucro o meno dell’associazione debba avere un’influenza sulla valutazione della sua legittimazione ad agire in tal senso, e a precisare la portata di tale azione, in particolare le sanzioni irrogabili all’esito di quest’ultima, tenendo presente che tali sanzioni devono, a norma dell’articolo 17 della direttiva “antidiscriminazioni”, essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non sia identificabile alcuna persona lesa»[3].

 

3. La legittimazione ad agire delle associazioni in materia antidiscriminatoria

 

In ambito euro-unitario la particolare tutela giurisdizionale approntata per il contrasto alle discriminazioni si articola su tre specifiche linee di disciplina, aventi a oggetto la legittimazione ad agire, il riparto dei carichi probatori ed il regime sanzionatorio previsto in caso di accertamento della condotta discriminatoria.

Rinviando ad altro lavoro l’approfondimento dei temi concernenti gli ultimi due aspetti, benché anch’essi di particolare attualità[4], per quanto concerne la legittimazione ad agire le direttive europee in materia prevedono – come detto – che la stessa sia riconosciuta non solo alla vittima della discriminazione, ma anche ad associazioni ed organizzazioni specificamente preposte a garantire il rispetto della normativa antidiscriminatoria.

Così, l’art. 9 della Direttiva n. 2000/78/CE[5] prevede che «1. Gli Stati membri provvedono affinché tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese, ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. 2. Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. 3. I paragrafi 1 e 2 lasciano impregiudicate le norme nazionali relative ai termini per la proposta di azioni relative al principio della parità di trattamento».

Norma analoga è contenuta all’art. 7 della Direttiva n. 2000/43/CE[6]. Per effetto di tali previsioni, quindi, i soggetti collettivi possono agire in giudizio non solo a sostegno della vittima di discriminazione, ma addirittura in nome e per conto della stessa; in ogni caso, con il consenso del soggetto che si ritiene vittima della discriminazione.

Accanto a tale categoria di azioni collettive preposte al contrasto di discriminazioni individuali, il legislatore nazionale italiano – in sede di recepimento della normativa europea – ha ritenuto opportuno introdurre un’ulteriore categoria di azioni collettive, per le ipotesi di c.d. discriminazione collettiva, ovverosia «qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione»[7]. Si tratta di quelle ipotesi di «discriminazione senza vittime», delle quali la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si era già interessata in passato[8], riconoscendo anche per tali ipotesi la legittimazione processuale degli enti esponenziali, se prevista da una normativa nazionale più favorevole.

In termini generali, nel diritto italiano l’azione collettiva esperibile iure proprio non è peraltro una novità in materia, come evidenziato dalla stessa Corte di Cassazione, secondo cui la legittimazione ad agire in capo ad un soggetto collettivo rappresenta «una regola ampiamente presente nel settore, in sintonia con l’esigenza tipica della materia di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria, ad una serie indeterminata di soggetti dal rischio di una lesione avente natura diffusiva e che perciò deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva»[9].

Sotto questo profilo, dunque, la sentenza in commento non arricchisce di ulteriori contenuti un quadro che appariva già chiaro, limitandosi a ribadire (ma è pur sempre utile) che, benché le direttive europee non richiedano l’introduzione di un’azione collettiva finalizzata al contrasto di discriminazioni collettive (ma solo un’azione collettiva finalizzata al contrasto di discriminazioni individuali), nulla esclude che il singolo stato membro possa, per il principio della parità di trattamento, adottare disposizioni più favorevoli.

In effetti, le stesse corti territoriali italiane hanno in diverse occasioni ritenuto esperibili ed ammissibili dette azioni[10], in linea con la già citata giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Il caso Lenford assume, invece, particolare interesse nella parte in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si occupa della questione concernente i criteri di individuazione degli enti esponenziali titolari della legittimazione attiva ai sensi del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216.

Va premesso sul punto che il legislatore italiano in sede di recepimento delle direttive europee ha ritenuto opportuno diversificare i requisiti che consentono ai soggetti collettivi la possibilità di accesso alle azioni previste da un lato nell’ambito della tutela antidiscriminatoria relativa ai fattori religione, convinzioni personali, handicap, età e tendenze sessuali[11] e dall’altro nell’ambito della tutela antidiscriminatoria relativa ai fattori razza e origine etnica[12].

Così, mentre l’art. 5 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 215 (con cui è stata recepita la direttiva 2000/43/CE) ha previsto che la legittimazione ad agire in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione sia riconosciuta solo ad associazioni ed enti «inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione»[13], un analogo elenco non è previsto nel caso di azioni collettive esperite ai sensi dell’art. 5 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216 (con cui è stata recepita la direttiva 2000/78/CE), il quale si limita a prevedere che «1. Le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio»[14].

Si deve, inoltre, segnalare che l’attuale formulazione dell’art. 5 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216 è il risultato di una modifica legislativa operata con il D.L. 8 aprile 2008 n. 59, con il quale la legittimazione in discorso – originariamente prevista solo in favore delle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale – è stata estesa a tutte «le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso»[15]; una formula, questa, che avrebbe potuto lasciare spazio a diverse interpretazioni: «pare infatti di capire che se si considerano dette associazioni come rappresentative dell’interesse leso, sarà necessario verificare che i loro associati appartengano alla categoria dei soggetti lesi dalla discriminazione; se invece, dette associazioni sono qualificate dal legislatore quali enti esponenziali, cioè portatrici di un interesse collettivo, sarà sufficiente, ai fini della legittimazione ad agire, che il loro scopo statutario sia la tutela dell’interesse leso, ossia l’effettività del principio di non discriminazione con riferimento ad uno dei fattori contemplati dalla normativa»[16].

Se si ritiene che la fonte della rappresentanza sia legale sarà sufficiente la sola verifica delle finalità statutarie dell’associazione; diversamente, nel caso si ritenga che la fonte della rappresentanza sia negoziale, sarà necessario verificare che gli associati appartengano alla categoria di soggetti lesi dalla discriminazione.

Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sceglie la via “statutaria”, ritenendo che il solo scopo statutario sia sufficiente a qualificare l’ente come esponenziale dell’interesse leso. I giudici di Lussemburgo forniscono quindi un’interpretazione a maglie larghe della normativa in esame, che consente un’estensione della platea dei soggetti collettivi legittimati ad agire iure proprio ed appare condivisibile anche alla luce delle considerazioni svolte circa la rilevanza delle tutela processuale collettiva in contesti nei quali l’azione individuale può risultare paralizzata dalla mancanza di una vittima ben individuata e dal carattere diffuso dell’intervento discriminatorio, volto a pregiudicare un’intera categoria di soggetti.

* Contributo sottoposto a valutazione.

 

[1] V., in proposito, la Direttiva n. 2000/43/CE del 29 giugno 2000 e la Direttiva n. 2000/78/CE del 27 novembre 2000.

[2] Vi é poi un terzo aspetto, di carattere sostanziale, concernente la questione se può aversi discriminazione diretta anche in assenza di soggetti immediatamente individuabili, ovvero a prescindere dall’esistenza di un soggetto ben individuato che asserisca di essere stato vittima di una discriminazione; un tema, questo, già affrontato dalla Corte di Giustizia nelle cause C/-54/07 (Feryn) e C-81/12 (Accept) e risolto in senso affermativo.

[3] Così Corte di giustizia dell’Unione europea, comunicato stampa n. 48/20 del 23 aprile 2020.

[4] Senz’altro di interesse, sotto il profilo sanzionatorio, il tema del c.d. danno punitivo da violazione di norme in materia di diritto antidiscriminatorio, portato alla ribalta prima da Cass. civ. Sez. Unite, 05-07-2017, n. 16601 e poi da Tribunale Bergamo Ord., 30-03-2018. In argomento si legga anche a M. Biasi, Danni punitivi – il caso Ryanair e l’ingresso del “danno punitivo” nel diritto del lavoro italiano, in Giur. It., 2018, 10, p. 2191.

[5] Direttiva c.d. “quadro”, in quanto mira a stabilire «un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

[6] Direttiva c.d. “razza”, in quanto mira a stabilire «un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

[7] V., in proposito, l’art. 5, co. 3, del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 215 e l’art. 5, co. 2, del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216.

[8] V., in proposito, C. Giust. 10 luglio 2008, causa C-54/07, Feryn, e C. Giust. 25 aprile 2013, causa C-81/12, Accept.

[9] Così Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 08-02-2017) 08-05-2017, n. 11165, che prosegue richiamando, tra l’altro, anche l’azione individuale o collettiva di cui all’art. 4 della legge 1 marzo 2006, n. 6, recante misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni.

[10] In tal senso si rimanda a Tribunale Vicenza, 31-05-2011, Tribunale Torino Ord., 14-04-2014 e Tribunale Bergamo Ord., 30-03-2018.

[11] V., in proposito, art. 5 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216.

[12] V., in proposito, art. 5 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 215.

[13] Elenco nel quale «possono essere inseriti le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all’articolo 52, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, nonché le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all’articolo 6».

[14] La disciplina processuale è per il resto analoga, in quanto l’art. 28, co. 1, del D. Lgs. 1 settembre 2011 n. 150, specificamente dettato per le controversie in materia di discriminazione, prevede che «le controversie in materia di discriminazione di cui all’articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, quelle di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, quelle di cui all’articolo 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67, e quelle di cui all’articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo».

[15] L’intervento normativo si era reso necessario a seguito della procedura di infrazione n. 2006/2441 che lo Stato italiano aveva subito a causa dell’errato recepimento della direttiva 2000/78/CE.

[16] M. Pirone, Le azioni collettive contro le discriminazioni nel lavoro, in Dirittifondamentali.it, 2020, 2, p. 229.