Maurizio Ascione
Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano

 

 

Sommario: 1. Il valore costituzionale dell’ambiente ‒ 2. I principi della normativa primaria ‒ 3. La ricerca delle responsabilità.

 

  1. Il valore costituzionale dell’ambiente

 

Le più recenti interpretazioni costituzionalmente orientate tendono a riconoscere il valore giuridico dell’ambiente come bene assoluto e indisponibile, dotato di autonomo rilievo e, in quanto tale, azionabile in via esclusiva.

Dopo un iniziale approccio interpretativo, il quale proponeva una sfumata immagine del bene ecologia, tanto da garantirne tutela soltanto se strumentale alla tutela del bene centrale della salute della singola persona, per lo più attraverso la costruzione dogmatica dell’interesse diffuso ed indifferenziato del valore ambientale, la giurisprudenza più recente ha cominciato ad individuare il distinto ed esclusivo rilievo assunto da tale valore, la cui affermazione, anche in sede processuale, può e deve avvenire anche a prescindere dalla difesa di altri valori, pur essi fondamentali, ma non del tutto sovrapponibili al primo; per essere, quest’ultimo, dotato di autonoma dignità costituzionale, ai sensi dell’art. 9 Cost., trattandosi di bene strettamente funzionale alla garanzia di un sano ed equilibrato sviluppo della persona e della proficua interazione tra l’uomo ed il suo habitat naturale.

Traendo fondamento dalla Costituzione, in particolare dagli art. 2, 9 e 32, è stato possibile elevare l’ambiente a diritto individuale, tutelabile attraverso la tecnica della responsabilità civile extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., a fondamento della quale sta il precetto generale del neminem laedere; in parallelo si è sviluppata la tutela della proprietà contro immissioni intollerabili prevista dall’art. 844 cod. civ., intesa tuttavia secondo una logica non più meramente dominicale, ma in funzione del benessere dell’individuo e del suo interesse personale a godere di un habitat naturale salubre e incontaminato.

Quanto alla tecnica processuale mediante la quale il bene ambiente, per definizione non individualizzabile e non scomponibile, alla stregua di un  diritto senza titolare, può ricevere tutela giurisdizionale, va ricordato che, in una visione restrittiva, la legittimazione degli enti esponenziali si presenterebbe come eccezionale e, in quanto tale, richiederebbe una specifica disposizione che la consente, anche come conseguenza del principio generalissimo del diritto processuale civile per cui, ai sensi dell’art. 81 cod. proc. civ., fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui.

Tuttavia, la giurisprudenza ha più di recente spinto per un allargamento delle maglie della legittimazione alla azione a difesa dell’ambiente, affermando che, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, la possibilità di agire sussiste in capo a tutte quelle associazioni le quali rispondano a determinati criteri, costituiti dall’effettivo e non occasionale impegno a favore della tutela dell’interesse superindividuale, dall’esistenza di una previsione statutaria che qualifichi una tale protezione come compito istituzionale dell’associazione, e dalla rispondenza del paventato pregiudizio agli interessi giuridici posti al centro principale dell’attività dell’associazione.

Un tale indirizzo appare più consono ai valori espressi dalla Carta costituzionale, anzitutto in termini generici perché nel momento in cui, con l’art. 18, si riconosce la libertà di associazione, fra due possibili interpretazioni di una norma è preferibile quella che amplia, e non quella che restringe, le possibilità di azione dell’associazione stessa. Si osserva ancora che, ragionando nei termini opposti, si rischierebbe di rimettere alla discrezionalità del legislatore ordinario la tutela in giudizio di interessi di notevole peso e valore sociale, con evidente limitazione dell’effettività della tutela garantita dall’art. 24 Cost.

Il diritto a un ambiente salubre e incontaminato acquista dunque rango costituzionale, inserendosi nella categoria dei diritti inviolabili; i quali, tuttavia, non può negarsi che abbiano bisogno dell’esercizio del potere da parte della Autorità, allo scopo di regolarne gli spazi di manovra, in rapporto a diritti e interessi confliggenti, di analogo rango costituzionale e portata precettiva. Anche un diritto fondamentale, come l’ambiente, cioè, deve trovare una sua disciplina a opera della P.A., in quanto quest’ultima è chiamata a intervenire sulla base di una norma attributiva del potere (principio di legalità della azione amministrativa) e nel perseguimento dell’obiettivo di svolgimento della vita democratica in maniera ordinata e di garanzia per tutti i cittadini (art. 97 Cost.).

La Corte Costituzionale, in proposito, ha negato la configurabilità di una riserva di giurisdizione dei diritti fondamentali a favore del giudice ordinario (sentenza n. 140/2007), ritenendo che anche il giudice amministrativo possa offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche quelli costituzionalmente garantiti, quando emerga la contemporanea esigenza dell’esercizio della funzione amministrativa e della cura dell’interesse pubblico.

 

  1. I principi della normativa primaria

 

Nell’ordinamento giuridico la questione ambientale acquista sempre più rilievo, man mano che aumenta la consapevolezza nella comunità scientifica, nel mondo degli affari e nei palazzi della politica, sul fatto che viene qui in discussione un tema che avvince davvero tutti, e che non è più procrastinabile né discutibile; se davvero si vuol salvare la casa comune, l’ambiente che ci ospita da sempre e che rappresenta, al tempo stesso, memoria della nostra specie e orizzonte del domani, garantendo un naturale e autentico patto tra generazioni, occorre agire da subito.

In tal senso, in attuazione di principi di origine comunitaria, ma poi sempre più avvertiti anche nella comunità internazionale come basi del diritto generale, riveste fondamentale importanza la previsione di cui all’art. 3 ter del codice dell’ambiente (d.lgs n. 152/2006), laddove è stabilito che la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi naturali, e del patrimonio culturale, deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio “chi inquina paga” che, ai sensi dell’articolo 174 co. 2 del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della Comunità in materia ambientale.

L’art. 3 quater riprende poi il principio dello sviluppo sostenibile, in forza del quale ogni attività umana giuridicamente rilevante deve garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future. Il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell’ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell’ambiente anche futuro.

Il legislatore dell’ambiente intende, evidentemente, e apprezzabilmente, assicurare continuità fra le generazioni che sono state e quelle che verranno, tutte in quanto ospiti dello stesso pianeta, tutte indistintamente creature della vigna del Signore, e quindi egualmente meritevoli di godere dei suoi frutti. I principi appena richiamati costituiscono espressione di una esigenza molto avvertita, specie in epoca recente, su livelli transnazionali, in ambito europeo, ma anche altrove; e infatti, i concetti di sviluppo sostenibile, di precauzione e il principio del ‘chi inquina paga’ sono il frutto di una elaborazione di vasta portata, non più certamente relegabile tra le fonti residuali e di chiusura del sistema normativo tra Stati, come invece un tempo si riteneva, guardando al disposto di cui all’art. 38 paragrafo c) dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, alla luce della inquietante casistica sulla alterazione del sistema ecologico, formatasi in diversi Paesi, e in virtù del bisogno di individuare risposte tecniche, politiche e giuridiche immediate, innovative ed appropriate, per fronteggiare un problema crescente, di dimensioni allo stato non preventivabili.

 

  1. La ricerca delle responsabilità

 

Sono davvero tanti i casi, purtroppo anche recenti, e spesso di portata sovra-nazionale, che dimostrano come al progresso e alla crescita del livello di conoscenze tecnologiche dell’uomo si accompagni purtroppo un innalzamento del livello di rischio del verificarsi di disastri per le popolazioni interessate e per l’equilibrio ecologico del territorio, piuttosto che il raggiungimento di più alti livelli di sicurezza e di benessere per il singolo cittadino e per la comunità di appartenenza.

Da qui l’emergere di principi di origine comunitaria o internazionale, come quello della “sostenibilità” dello sviluppo industriale, la regola positiva del legislatore comunitario del “chi inquina paga” e il principio di precauzione (art. 191 n. 2 TFUE). in base a essi la Corte di Giustizia dell’UE ha affermato la necessità di adottare misure atte a prevenire i rischi per la sicurezza e la salute, oltre che per l’ambiente; anteponendo tali valori a quelli della tutela degli interessi economici e imponendo al singolo operatore economico, che provochi un danno ambientale, di sostenere il costo delle necessarie misure prevenzione o riparazione (Direttiva Europea n. 2004/35).

Del resto, la tutela dell’ambiente rientra espressamente tra i diritti fondamentali dell’Unione Europea, prevedendo l’art. 37 della Carta di Nizza, varata nel 2000, coerentemente con il precedente art. 35, che si occupa invece della protezione della salute di ogni singola persona, che un livello elevato di tutela dell’ambiente e un miglioramento della sua qualità devono implementare le politiche dell’Unione e devono essere garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile. In difetto di un reale coordinamento, con cui si incarna il principio della leale cooperazione di cui all’art. 4 n. 3 TUE, vi sono le condizioni per la verifica di responsabilità dello Stato membro inadempiente, suscettibile di condurre alla attivazione di una procedura di infrazione, ai sensi dell’art. 258 TFUE.

L’ampia portata della previsione procedurale comunitaria, estesa in ipotesi alla censura di qualunque comportamento, o atto normativo, o pratica amministrativa o provvedimento giurisdizionale, i cui contenuti integrino un attentato alle regole europee poste a presidio del bene ambiente, del principio di precauzione e della sostenibilità delle attività imprenditoriali o industriali, consente alla Corte di vagliare un ampio spettro di situazioni di fatto o di diritto, in astratto ricollegabili al pregiudizio ambientale, chiedendone direttamente conto allo Stato interessato dalla vicenda, sebbene in concreto l’opera dannosa sia riconducibile a terzi soggetti, all’operato di un’impresa o alla cattiva organizzazione di singole realtà territoriali.

Emblematico è il caso del procedimento di infrazione avviato dalla Commissione contro l’Italia per violazione della direttiva 2006/12/CE relativa ai rifiuti, per la mancata realizzazione nella Regione Campania di una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento. Nella specie, l’Italia aveva sostenuto che l’inadempimento addebitatole non le poteva essere imputato, in quanto esso doveva essere ricondotto a taluni eventi costituenti casi di forza maggiore, come l’opposizione della popolazione alla installazione di discariche sul territorio dei loro Comuni, nonché la mancata esecuzione da parte delle controparti contrattuali dell’amministrazione degli obblighi ad esse incombenti di realizzare taluni impianti necessari alla regione.

A fronte di tali obiezioni i giudici europei hanno però ricordato che la procedura di infrazione fonda sulla oggettiva constatazione del mancato rispetto, da parte di uno Stato membro, degli obblighi che a esso impone il Trattato, o un atto di diritto derivato; e che, giunti a un tale accertamento, è irrilevante che l’inadempimento sia legato alla volontà del Paese interessato, piuttosto che alla sua negligenza, oppure a difficoltà tecniche, cui quest’ultimo abbia dovuto far fronte.

Il tema non è per niente agevole nella misura in cui vengono a confronto valori in teoria tutti suscettibili di riconoscimento giuridico e relativa tutela giurisdizionale, perché i beni individuali e collettivi della salute del singolo e della difesa del territorio costituiscono il fondamento naturale di ogni relazione sociale, e di ogni organizzazione di comunità; al tempo stesso, però, gli interessi economici e sociali, sottesi a determinate attività di impresa e di produzione industriale, spesso di dimensioni sovranazionali, sono anch’essi dotati di elevata dignità morale e sociale, e legittimamente richiedono anch’essi riconoscimento di principio e tutela giuridica, nella misura in cui attraverso attività pur oggettivamente rischiose, ma socialmente utili, si tende alla crescita del sistema Paese nel suo complesso, si regolano i rapporti di forza e di concorrenza con gli altri Stati, viene supportato il ceto imprenditoriale e bancario, oltre che le sue capacità di investimento ed innovazione; ma, soprattutto, viene in tal maniera assicurata l’affermazione della persona, i sui diritti individuali e quelli manifestazione di una collettività, viene assicurato un livello di reddito e la dignità economico – sociale alla parte più debole e, al tempo stesso, più ampia di una popolazione (art. 2, 4, 41 Cost.).

Non a caso, al verificarsi di incidenti o disastri ambientali di dimensioni tali da scavalcare i confini nazionali e coinvolgere territori e comunità limitrofi, ci si è posti il problema di come declinare i profili di responsabilità, in presenza di attività, certamente segnate da un oggettivo profilo di rischio per la salute dell’uomo e per l’ambiente, ma, al tempo stesso, indubbiamente necessarie a soddisfare i bisogni generali di una comunità, le sue esigenze di raggiungere certi livelli socio-economici.

Si è allora affermata la figura della responsabilità oggettiva da atto lecito, per non essere gli incidenti conseguenza di azioni illegali, quindi escludendosi forme di ristoro di carattere risarcitorio in senso stretto, ma soltanto liquidazioni forfettarie, dirette certamente a rifondere la parte lesa del pregiudizio patito, ma senza passare per una ammissione di responsabilità da fatto illecito. La tematica è stata oggetto di attenzione specifica anche in sede ONU, perché dopo avere inizialmente intrapreso la codificazione unitaria della responsabilità dello Stato da atto lecito, nel 1997 la Commissione dei lavori istituita presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha deciso di dividere la materia in due sottosezioni, da trattare separatamente.

L’esercizio della sovranità territoriale pensata in termini assoluti potrebbe in effetti consentire ad uno Stato di intraprendere sul proprio territorio attività rischiose per Stati terzi, e quindi porre il rischio di eventi catastrofici a carico degli altri soggetti della comunità internazionale.

Come nel caso degli incidenti nucleari, che la storia recente purtroppo insegna essere non impossibile: qui, un avvenimento naturale imprevedibile (es., un terremoto seguito da uno tsunami), oppure la colpevole violazione di standard di sicurezza delle procedure, come pare sia accaduto in occasione della esplosione della centrale di Chernobyl, produce la morte di tantissima gente, o quanto meno danni alla salute per molte persone, tra cui gravi forme tumorali, la contaminazione di un vasto territorio per chissà quanti anni, e poi la perdita di migliaia posti di lavoro, la irreversibile crisi economico-finanziaria della società titolare dell’impianto ove si è verificato l’incidente, infine il pregiudizio per l’immagine e la credibilità dello Stato interessato sulla scena internazionale.

Proprio ultimamente si è purtroppo tornati a discutere del grave incidente accaduto alla centrale atomica di Fukushima, in Giappone, nel marzo 2011, allorché alcuni tra i reattori dell’impianto furono gravemente danneggiati nelle strutture per effetto della spaventosa ondata di tsunami successiva al fortissimo terremoto, verificatosi al largo dell’Oceano Pacifico. Ebbene, a distanza di ben dieci anni dall’incidente, si avverte come un avvenimento di disastro ambientale, piuttosto che lentamente sfumare dalla memoria di un popolo e dalle cronache della storia di un Paese, rappresenti, invece, un incubo per il presente e, soprattutto, il futuro di una vasta area e della sua comunità.

Lo sfortunato territorio di Fukushima e la sua comunità sembrano rappresentare, infatti, soltanto il punto di partenza di una mostruosità ecologica che potrebbe non avere limiti geografici, né temporali, rischiando di vagare per tutti gli angoli del mondo, partendo dalle onde dell’Oceano Pacifico. È stato, infatti, comunicato che il Giappone nei prossimi anni riverserà in mare l’acqua contaminata, finora custodita nella centrale nucleare: la Tokyo Electric Power, azienda che gestisce l’impianto, ha accumulato più di un milione di tonnellate di acqua contaminata, usata per raffreddare i reattori e perciò radioattiva.

Entro il 2022 nei serbatoi disponibili attorno alla centrale nucleare non ci sarà più spazio per contenere tutta l’acqua usata nei lavori di smantellamento dei reattori; il governo giapponese ritiene che disperdere l’acqua in mare sia la scelta migliore, dopo avere rimosso molti degli elementi radioattivi ivi presenti. Senonché la Corea del Sud, il cui territorio è molto vicino a quello del Giappone, ha dichiarato che intende impugnare davanti al Tribunale internazionale del mare, con sede ad Amburgo, la citata decisione, mirando a ottenere la sospensione dell’iniziativa del Governo nipponico, ritenendola tale da suscitare grande preoccupazione.

È evidente che la risposta diplomatica di Seul, che di fatto preannuncia un contenzioso giurisdizionale internazionale, cui potrebbero aggiungersi le iniziative di altri grandi Paesi dell’area dell’estremo Oriente, già di suo, tra l’altro, tradizionalmente caratterizzata da forti tensioni geopolitiche, costituisce l’ennesima dimostrazione di come la emergenza ambientale non ha confini geografici e politici e non può essere considerata un affare domestico del singolo Paese.

Il danno derivante dal disastro ecologico, in effetti, non tende col tempo a svanire, a far perdere le tracce di sé, ma al contrario esso, proprio come un cancro, tende ad annidarsi nel territorio e all’interno della sua comunità, in maniera subdola, avvolgente e strisciante, diventandone il suo incubo e, soprattutto, la maledetta eredità per le generazioni che verranno.

 

* Contributo sottoposto a valutazione.