Si riporta il testo della relazione di Roberto Respinti*, depositata in seguito alla richiesta da parte della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica.

 

Ringrazio la Commissione Giustizia del Senato della Repubblica per la richiesta di questo contributo ai lavori sul Disegno di legge in oggetto.

In seno al Centro studi Rosario Livatino – in considerazione delle diverse audizioni e memorie scritte in corso di presentazione da parte di suoi esponenti – si è operato un coordinamento al fine di armonizzare i contenuti delle relazioni di ciascuno e agevolare i lavori della Commissione.

In tale contesto il mio contributo si concentra sull’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, aspetto caratterizzante il d.d.l. in esame.

 

  1. Premesse: ambito e obiettivi del presente contributo

 

Il d.d.l. in esame intende modificare gli artt. 604-bis e 604-ter del codice penale – che hanno sostituito, recependone i contenuti, le disposizioni della legge n. 674/1975 (Reale) e del d.l. n. 205/1993 (Mancino), e che delineano il sistema normativo penale vigente in tema di contrasto alle discriminazioni – estendendone l’ambito di applicazione alle fattispecie della violenza o discriminazione per motivi «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità»

In proposito giova premettere due considerazioni, che delineano anche l’orizzonte del presente contributo:

1.1 A dispetto della sua titolazione, riferita anche alla “disabilita”, l’impianto e la formulazione del testo nel suo insieme rivelano che in concreto non è alle persone disabili che sono indirizzate le nuove norme. L’ambito della “disabilità” non è infatti presente pressoché in tutte le principali norme che compongono l’articolato, già a partire dall’art.1, che traccia il perimetro della materia oggetto di disciplina qualificando tutte le fattispecie a cui si vorrebbe garantire una tutela rafforzata, e in cui non vi è alcun riferimento alla “disabilità”.

Di ciò si è tenuto conto anche ai fini della redazione del presente contributo.

1.2 Il sistema vigente, impostato sulle norme penali sopra richiamate, è da sempre oggetto di letture critiche, in quanto considerato ai limiti della compatibilità con la Costituzione con riferimento all’art. 21 Cost. che sancisce il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, in particolare nella parte in cui prevede fattispecie di reato connesse alla diffusione pubblica di idee.

Il tema è stato rilevato dalla dottrina sia costituzionale[1] che penale e messo in luce anche in precedenti audizioni e memorie presso la Commissione Giustizia della Camera dei deputati nel corso dei lavori che hanno condotto al testo del d.d.l. poi approvato dall’Aula, a quali rinvio.

In tale prospettiva dò una lettura del d.d.l. in esame dal punto di vista del suo possibile impatto su tale libertà come delineata nel nostro sistema costituzionale.

 

  1. Il contesto giuridico internazionale, comunitario e costituzionale (cenni)

 

La valutazione dell’opportunità o meno di qualunque intervento normativo che direttamente o indirettamente abbia riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero deve avvenire alla luce della Costituzione e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nel contesto del quadro internazionale ed europeo.

Il consolidato impianto giuridico delineato da tali fonti, tra loro diverse ma pienamente coerenti, è caratterizzato dall’ampio riconoscimento e dalla forte tutela di tale libertà come “pre-condizione” per il concreto esercizio di diritti primari della persona, a prescindere dai contenuti di ciò che la persona esprime pubblicamente, entro il solo limite di fattispecie di reato specifiche [2].

In tale contesto, come è stato autorevolmente affermato, (…) il diritto penale va utilizzato come un mezzo di ultima istanza, nell’ottica di quello che la Corte cost. ha definito «principio di sussidiarietà» della repressione penale «per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (sent. n. 487/1989, n. 447/1998, n. 317/1996 e n. 49/2015)”. “Per il resto, resta fermo che l’art. 21 protegge anche opinioni odiose e stupide, lasciando che esse siano sanzionate dal discredito dei consociati e sottraendole a repressione penale. Non è compito degli organi della repressione penale rilasciare patentini di stupidità, ma solo prevenire e «far cessare turbamenti della sicurezza pubblica»” [3].

 

  1. Il d.d.l. 2005 al vaglio del principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione

 

3.1 pluralità di diritti e necessità di un bilanciamento: la corretta “uguaglianza” nell’art. 3 Cost. come criterio regolatore

 

Partendo dai presupposti che

  • qualunque persona, a prescindere dal sesso e dell’orientamento sessuale, in quanto tale deve essere sempre rispettata nella sua dignità e quindi adeguatamente tutelata,
  • le ingiuste discriminazioni devono sempre essere prevenute e contrastate,
  • la libertà di manifestazione del pensiero deve sempre essere ampiamente riconosciuta e tutelata,

la condizione affinché l’ordinamento giuridico, e in esso specificamente il sistema penale, si conservi orientato a un efficace bilanciamento tra diversi diritti, è che esso resti ancorato alla corretta nozione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.

Un principio fondamentale che, secondo la consolidata interpretazione della giurisprudenza e della dottrina costituzionale – proprio al fine di conseguire una uguaglianza effettiva – in molte situazioni richiede che siano previsti trattamenti non uguali bensì differenziati – che nulla hanno a che vedere con le ingiuste discriminazioni – evitando un “trattamento ingiustificatamente parificatorio”.

«Il principio di eguaglianza, nella prospettiva della ragionevolezza […] richiede al legislatore di trattare in modo uguale ciò che è uguale e in modo diverso ciò che è diverso, secondo le sue peculiarità e le sue differenze. Come sono illegittime le leggi ingiustificatamente discriminatorie, così sono illegittime le leggi ingiustificatamente parificatorie, che trattano in modo uniforme fattispecie radicalmente diverse: il principio di eguaglianza presuppone infatti non solo che situazioni uguali siano trattate in maniera uguale, ma anche che situazioni diverse siano trattate in maniera ineguale» [4].

Dunque, non si realizza uguaglianza laddove si operino “ingiustificati livellamenti di situazioni diverse” (Corte Cost. sent. n. 139/1982).

 

3.2 Il problema del rispetto dell’«uguaglianza» ex art. 3 Cost. nel d.d.l. 2005

 

Con il d.d.l. in esame si invoca l’introduzione di nuove specifiche norme a tutela

  • solo di alcune persone
  • e a motivo del loro orientamento sessuale.

Il che pare oggettivamente non rendere giustizia

  • né a tali persone, che hanno diritto di essere tutelate al pari di chiunque altro, come persone in quanto tali e non solo a fronte di una specifica condizione;
  • né alle altre persone, poiché aumentare il livello di protezione solo di alcuni genera l’inevitabile oggettiva conseguenza che da quel momento tutti gli altri iniziano ad avere una protezione di grado inferiore. Dunque norme che, con l’intenzione di evitare discriminazioni, ne introdurrebbero altre.

Non vi è alcun dubbio che la dignità di ogni persona deve essere sempre rispettata in qualunque forma, nei comportamenti personali e collettivi e nella disciplina giuridica, che eventuali violazioni sono contrarie ai più elementari principi alla base della convivenza civile e che quindi laddove si verifichino vanno stigmatizzate con fermezza.

La dignità è un carattere intrinseco a qualunque persona, e l’orientamento sessuale individuale – come qualunque altra caratteristica personale – non è certo un elemento differenziatore di questo: omo / transessuali, in quanto persone, hanno gli stessi diritti delle altre persone, incluso il diritto di non essere trattate in modo offensivo della loro dignità personale.

Proprio per questo la giusta tutela e l’esercizio dei diritti per la persona omo / transessuale risultano rafforzati se – come per qualunque persona di diverso orientamento – i medesimi diritti sono riconosciuti a motivo del suo essere persona, senza necessità di specificazioni accessorie, ossia nei termini di diritti umani fondamentali; mentre diventerebbe più debole se avvenisse solo a motivo della specifica condizione omo / transessuale, peraltro espressamente fluttuante.

Tanto più se la tutela resta addirittura in balìa della identificazione personale soggettivamente (momentaneamente?) «percepita» e delle «aspettative sociali connesse al sesso», che il d.d.l. in esame assume come criteri giuridici per identificare la fattispecie oggetto di tutela rafforzata mediante l’inasprimento della sanzione penale (art.1).

Se il Legislatore esce dal criterio per cui la tutela della persona è un diritto-dovere assoluto, ossia per qualunque persona in quanto tale, e lo sminuisce a valore relativo, per cui la tutela troverebbe fondamento solo in presenza di una determinata connotazione (identitaria o di altro tipo) della persona, il sistema si indebolisce: non solo perché risulterebbe necessario di volta in volta trovare uno specifico motivo per dare fondamento giuridico alla tutela della persona, ma pure perché ciò innescherebbe un irrealistico processo volto a incrementare l’individuazione di singole specificità necessarie a giustificare la tutela, cui si accompagnerebbe altresì l’inevitabile difficoltà/impossibilità a discernere quali specificità meritano di avere tale portata valoriale e quali no.

Un corto circuito logico prima ancora che giuridico, che svilirebbe il riconoscimento delle libertà e dei diritti della persona, con l’esito paradossale che, dall’eventuale introduzione di norme invocate per una presunta necessità di tutela di alcune persone, scaturirebbe un oggettivo peggioramento dello stato di salute della nostra democrazia, a scapito quindi non di alcuni ma di tutti.

Disciplinare la protezione della persona in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere significa sradicare la sua tutela da un terreno solido per appoggiarlo su uno instabile. Se a fondamento della tutela non vi fosse più la semplice esistenza della persona, bensì una sua condizione che per definizione – a detta degli interessati – non è stabile ma mutevole, in quanto priva di un carattere oggettivo, il livello di protezione giuridica varierebbe in funzione del variare della condizione: quanto ciò è compatibile con il quadro dei diritti fondamentali?

La formulazione del d.d.l. in esame, impostato sulla assoluta fluidità delle fattispecie a cui collega l’introduzione di nuove sanzioni penali, richiama con accresciuto valore e pertinenza il frutto dei lavori svolti nel corso della XVI legislatura su analoghe proposte di legge [5] e in particolare:

  • le considerazioni svolte dalla Prof.ssa Marilisa D’amico nella audizione informale del 26 gennaio 2011 in merito al testo unificato delle proposte di legge A.C. 2802 e A.C. 2807, elaborato dal relatore on. Concia in Commissione Giustizia e poi respinto dalla Commissione stessa, “la quale aveva tra l’altro rilevato: con riguardo all’aggravante connessa all’omofobia, che «problemi dovuti al carattere soggettivo dell’aggravante potranno presentarsi, ma solo su di un piano probatorio, poiché potrebbe risultare difficile, a seconda dei fatti, ricostruire i motivi che hanno determinato l’agente»; con riguardo all’introduzione di autonome fattispecie di reato, che sussisterebbe «il rischio di scivolare sul delicato terreno dei reati di opinione e, dunque, di introdurre nell’ordinamento illegittime violazioni della libertà di manifestazione del pensiero»”;
  • l’approvazione della questione pregiudiziale di costituzionalità in cui si evidenziava, da un lato, la violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza, posto che chi subisce violenza, presumibilmente per ragioni di orientamento sessuale, riceverebbe una protezione privilegiata rispetto a chi subisce violenza tout court; dall’altro, l’indeterminatezza dell’espressione «orientamento sessuale» per violazione del principio di tassatività delle fattispecie penali di cui all’art. 25 della Costituzione.

 

  1. Il d.d.l. 2005 al vaglio del «diritto alla libertà di manifestazione del pensiero» ex art. 21 della Costituzione

 

4.1 La libertà di manifestazione del pensiero: fondamento e articolazione del principio costituzionale, necessario parametro per la legislazione ordinaria 

 

La “libertà di opinione” ‒ cioè la facoltà di esprimere giudizi di valore, in vario modo motivati, sui più diversi fenomeni ‒ costituisce il contenuto essenziale della libertà di pensiero, al quale spetta una protezione di particolare intensità. Libertà di pensiero e libertà di manifestazione del pensiero non coincidono:

  • la prima è presupposto della seconda;
  • la seconda è intrinseca e inscindibile dalla prima, affinché non sia una libertà teorica, ma concreta, effettivamente rispettosa della persona in uno dei diritti fondamentali che la caratterizzano. Consiste della possibilità di esprimere, di rendere pubblico, ciò che penso, senza ingiuste limi

Si tratta dunque di un diritto specifico, che si differenzia:

  • dalla semplice libertà di pensiero, individuale, che resta nella sfera privata e che non viene manifestata pubblicamente;
  • dalla semplice comunicazione ad altri del proprio pensiero, che è indirizzata a uno o più destinatari determinati, mentre la manifestazione del proprio pensiero ha invece destinatari indeterminati, essendo rivolta a chiunque.

Per essere una libertà concreta e non teorica deve essere riconosciuta e tutelata come un diritto del suo titolare; e il titolare della libertà è la persona in quanto tale, chiunque sia. Poiché a ogni diritto corrispondono dei doveri di altri verso il titolare del diritto, qui il dovere consiste nel riconoscere tale libertà, consentirne l’effettiva espressione senza generarne conseguenze negative, astenersi da indebite limitazioni, rispettarla sempre e in ogni modo, quindi anche nell’eventuale esercizio della critica e del dissenso.

Le condizioni di legittimità di qualunque limite alla libera manifestazione del pensiero, siano essi “espliciti” o impliciti”, sono state indicate con chiarezza dalla Corte con la sent. n. 9/1965: «limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell’interpretazione giuridica». Dunque, dottrina e giurisprudenza costituzionale (sent. n. 9/1965 e n. 100/1981) ritengono che per la determinazione dei limiti vi sia una riserva di legge implicita nell’art. 21: in via generale spetta cioè al Legislatore individuarli, ma nei binari delle previsioni costituzionali e sotto il vaglio della Corte costituzionale, che verifica il bilanciamento operato dal Legislatore tra libertà di manifestazione del pensiero e singoli interessi costituzionalmente rilevanti che essa può vulnerare, in primis i diritti della personalità, quali l’onore e la reputazione.

 

4.2 L’art. 4 del d.d.l. 2005 su «pluralismo delle idee e libertà delle scelte»

 

Così tracciato anche il ruolo del Legislatore, appare chiaro come risulta a esso estraneo il potere di attribuire, in un determinato ambito, il diritto di potersi esprimere pubblicamente, mediante legislazione ordinaria, tra l’altro facilmente superabile da una fonte normativa successiva che quel diritto potrebbe agevolmente modificare o eliminare.

Proprio questa invece è la configurazione dell’art. 4 del d.d.l. in esame (cosiddetta “clausola salva idee”), il cui testo, benché apparentemente possa sembrare meno problematico rispetto alle prime formulazioni adottate nel corso dei lavori alla Camera dei deputati (l’espressione «sono consentite» è stata modificata in «sono fatte salve»), reca in sé gravi vizi, per almeno due ordini di motivi:

  1. a seguito dell’eventuale entrata in vigore della nuova norma, la «libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte» non godrebbero più di una tutela generalizzata e di un pieno riconoscimento in espressione dell’art.21 della Costituzione – condizione più che sufficiente per l’esercizio di tali diritti. Senza che occorra alcun intervento di legislazione ordinaria –, ma risulterebbero «fatte salve» solo «ai fini della presente legge».

Lungi dal costituire un compromesso accettabile, è evidente che tale norma, anziché salvaguardare la libertà di manifestazione del pensiero, la indebolisce, svilendo la portata in un principio fondamentale su cui, nell’architettura della nostra Costituzione, si regge l’intero sistema dei diritti e delle libertà personali;

  1. lo scenario è aggravato dalla seconda parte della norma. La (presunta) salvaguardia della libertà di «espressione», delle «condotte» e delle «scelte» in realtà è soggetta a limitazioni il cui contenuto è altamente vago e indeterminato, conseguentemente suscettibile delle più diverse interpretazioni, e che pertanto si presta anche a possibili valutazioni arbitrarie in ossequio alla (variabile) ideologia dell’operatore del diritto che nei diversi casi è chiamato a darne concreta applicazione. Il quale avrà a disposizione criterio, dai confini incerti, indicato dalla norma per decidere se tali espressioni, condotte e scelte siano o meno «riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte» oppure «idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

La debolezza e la gravità di un sistema che di fatto apre alla individuazione e alla sanzione dei reati di opinione si mostra qui in tutta la sua evidenza, compromettendo sia la qualità della legislazione ordinaria e sia il rispetto dei principi costituzionali.

 

  1. Il d.d.l. 2005 compromette il valore e la centralità del ruolo del Legislatore

 

5.1 perché introduce norme gravemente generiche

 

Al Legislatore spetta il non facile compito di operare – lontano da condizionamenti e mantenendo l’autonomia e l’equilibrio che gli sono propri nell’esercizio della funzione legislativa – con sapiente ponderazione in merito ai contenuti e alla lettera delle norme che compongono l’ordinamento giuridico.

Per questo, in sede di produzione normativa, è chiamato ad evitare formulazioni che si prestano agevolmente ad un’attività giudiziaria disinvolta che, andando ben oltre l’esercizio del normale ruolo giurisdizionale, sconfina in un’opera “creatrice” di “nuovo diritto”, con indebito esercizio della funzione che tipicamente compete al Legislatore.

Nozioni come «propaganda di idee» e «finalità di odio o di discriminazione» su cui si basa la normativa vigente sono già di per sé sufficientemente indeterminate e potenzialmente interpretabili in modo eccessivamente ampio da parte della magistratura. Riferirle ad ulteriori situazioni come l’«orientamento sessuale», il «genere», l’«identità di genere» – intrinsecamente mutevoli in funzione delle libere determinazioni soggettive, come afferma proprio chi ne rivendica il rispetto e come recepito anche nella formulazione dell’art. 1 del d.d.l. in esame – mostra evidenti rischi di scardinamento dell’equilibrio del sistema, già oggi impostato su un difficile bilanciamento fra il giusto perseguimento delle fattispecie di reato e la salvaguardia del diritto fondamentale alla libertà di espressione.

In linea generale, la continua rivendicazione del riconoscimento di “nuovi diritti” e la spinta sui correlati doveri in capo a chiunque di astenersi da qualunque manifestazione di un diverso pensiero o opinione, o di un dissenso, anche se esposti in modo corretto, fino ad arrivare a sostenere che anche il solo manifestare un convincimento differente sia sanzionabile, tutto questo elimina in radice l’opera di sapiente ponderazione e di bilanciamento fra le libertà, ossia la negazione di ciò che è proprio, tipico, caratterizzante il ruolo del Legislatore.

Nello specifico, la pressante invocazione di continui nuovi diritti da affermare con forza dietro lo scudo della non discriminazione, paradossalmente genera invece la negazione di uno dei diritti inviolabili connaturali alla persona, che è anche patrimonio di una cultura e di una civiltà giuridica fondate sulla libertà.

 

5.2 perché con legge ordinaria contraddice un principio fondamentale di rango costituzionale

 

La libertà di manifestazione del pensiero è libertà di poter dire ciò che si ritiene essere vero: è quindi espressione della dignità della persona; come tale, non tollera limitazioni. Introdurre nell’ordinamento giuridico una disciplina, come di fatto è quella prevista dal d.d.l. in esame, che invece ne delimiti l’esercizio entro i confini di ciò che altri consentono di dire e di non dire, così degradandola alla “libertà” di esprimere non ciò che la persona pensa, bensì ciò che altri hanno deciso che meriti di essere manifestato, significa confinare il libero giudizio personale nei limiti dettati da un pre-giudizio altrui.

Analogamente, qualora la libertà di pensiero venisse circoscritta alla sola sfera privata, costituirebbe una inaccettabile mortificazione della persona nel suo diritto a conformare il “foro esterno”, estrinsecazione della sua personalità, al “foro interno” della coscienza, costringendolo a una illegittima censura di sé.

Né risulterebbe conforme alla ratio della previsione costituzionale una normativa che, nel regolare la manifestazione pubblica del pensiero, ne selezionasse gli ambiti e/o i destinatari, così determinando una “libertà condizionata”.

Tali ipotesi presenterebbero profili problematici nella prospettiva di garantire il rispetto della dignità umana, senza “se” e senza “ma”.

Il dialogo intellettualmente onesto e sincero, quindi libero, finalizzato a far emergere – pur se in un confronto dialettico – il bene, il buono, il giusto, in ultima analisi il vero, come tale non può patire limitazioni.

La libertà di manifestazione del pensiero è funzionale alla promozione di un’ordinata convivenza civile in cui è riconosciuta pari dignità (di espressione) a chiunque, se si realizza nella dinamica dell’et – et e non dell’aut – aut.

Nella dinamica dell’et – et va preteso che ogni posizione sia esprimibile in un libero confronto di argomenti, a prescindere dai contenuti; è la condizione che offre la possibilità di un dialogo autentico, tipico di una democrazia fondata su valori fondamentali imprescindibili quali la libertà, il diritto di esprimersi, il rispetto del prossimo e il pluralismo delle posizioni.

Diversamente, nella logica dell’aut – aut un interlocutore del potenziale dialogo, che resta solo potenziale perché a quel punto il dialogo diviene impossibile, resta tacitato a priori, essendogli preclusa la possibilità di esprimere una posizione diversa da quella consentita per legge, sotto la minaccia della sanzione penale. Un ulteriore evidente limite di tale impostazione è che il perimetro di ciò che è lecito esprimere e di ciò che è vietato viene inevitabilmente tracciato da chi in quel determinato frangente storico ha la possibilità di farlo sul piano politico, giuridico e mediatico: quindi una libertà costituzionale che acquisisce un contenuto variabile e discrezionale, mentre il principio costituzionale è la tutela della libertà in quanto tale, come pre-condizione.

In tal senso garantire la libertà di manifestazione del pensiero in quanto tale è un valore per il bene di tutti: a beneficio anche di chi oggi vorrebbe limitarla e che domani potrebbe ritrovarsi vittima della stessa limitazione.

Il diritto di esprimere pubblicamente il pensiero resta garantito in modo oggettivo e permanente se è riconosciuto come diritto in quanto tale, a prescindere dal contenuto di ciò che viene espresso. Se invece deve sottostare alla condizione di esprimere solo ciò che una legge consente, la sua tenuta è lasciata in balìa della visione politico-giuridica di chi, di volta in volta, ha il potere e il dovere di far rispettare la libertà stessa.

Affinché una disciplina sia orientata da un approccio equilibrato, lontano da tentazioni o degenerazioni manichee, occorre sempre essere prudenti nella scelta del metodo; in materia di diritti e libertà il metodo di tutelare qualcuno mettendo il bavaglio a qualcun altro risulta fallace.

L’obiettivo di tutela perseguito con la norma incriminatrice basata sull’assunto che la mera affermazione di un pensiero di per sé opererebbe una ingiusta discriminazione di chi non si riconosce in tale pensiero, mostra una palese contraddizione.

Per tutelare la libertà di manifestazione del pensiero (di alcuni) si reprime la libertà stessa (di altri): così facendo, il riconoscimento giuridico di tale libertà resta teorico e non permette la libertà concreta per tutti, essendone precluso ad alcuni l’effettivo esercizio. Verrebbe effettuata una precisa scelta iniziale su chi ha diritto di manifestare il proprio pensiero e chi questo diritto non lo ha, per poi utilizzare il principio della libertà di manifestazione del pensiero in via quindi meramente strumentale per dare un fondamento alla scelta di promuovere l’affermazione di taluni a scapito di altri.

La disciplina sanzionatoria deve invece avere sempre come presupposto una chiara distinzione tra la mera opinione, espressione della libertà di manifestazione del pensiero, che come tale di per sé mai deve configurarsi come reato, e un’eventuale concreta azione di danno, o di propaganda, o di istigazione a compiere l’azione medesima. Quest’ultima, anche qualora abbia avuto un ruolo rilevante nella formazione del proposito personale del soggetto agente, non deve attrarre nella sfera del penalmente rilevante anche l’opinione, che è espressione di solo pensiero; altra ovviamente è l’ipotesi in cui quanto viene espresso nei confronti di un soggetto determinato sia lesivo di beni personali rilevanti, così configurando la commissione di reati tipici (come l’ingiuria, la diffamazione, etc.).

 

  1. Considerazioni conclusive

 

I criteri proposti sono tipici di un modello che alla difesa preventiva da attuarsi con la minaccia della sanzione penale privilegia la libertà, nel quale la sanzione è strumento eventuale che interviene ex post solo a fronte di fatti e azioni specifiche. Ossia per correggere situazioni in cui non il corretto esercizio della libertà – che implica sempre responsabilità nell’ambito di una convivenza improntata al rispetto e alla solidarietà –, bensì la condotta del singolo, autoreferenziale e mosso solo da un’autodeterminazione assoluta, provochi una frattura nella trama relazionale che vivifica la comunità sociale.

A nessuno può essere chiesto di rinunciare ad affermare ciò che ritiene vero, anche pubblicamente; e nella misura in cui ciò avviene nella libertà, il tasso di rispetto della persona e di democraticità del sistema risultano elevati.

Le strumentalizzazioni possono risultare più facili quando la sanzione penale è a portata di mano per essere usata, impropriamente, per impedire il libero confronto delle idee.

Pertanto anche per il Legislatore nell’ambito in questione il criterio guida non può non essere quello della libertà, di cui deve essere sempre garantito il rispetto integrale, mediante la conservazione e promozione delle condizioni affinché il suo esercizio risulti concretamente possibile a chiunque e in tutte le sue declinazioni.

Nel perseguire meritoriamente la salvaguardia di beni primari, quali la tutela delle persone in quanto tali – a prescindere da qualunque connotazione, caratteristica, provenienza, inclinazione individuali – e dell’ordine pubblico, il Legislatore dovrà avere cura di conservare costantemente l’assetto dell’ordinamento giuridico entro i canoni della ragionevolezza e dell’equilibrio.

Conseguentemente evitando di introdurre norme che, travalicando i confini della giusta punibilità di condotte e fatti specifici ingiusti, nella loro formulazione si prestino a compromettere beni altrettanto primari quali la libertà di manifestazione del pensiero, così conservando il pieno rispetto dell’art. 21 Cost.

Alla luce dei criteri e degli argomenti esposti, l’analisi del d.d.l. 2005 mi porta a concludere con certezza circa la non opportunità dell’intervento normativo.

Infatti, in un ambito che già a legislazione vigente si regge su un equilibrio delicato, se non precario, appare doveroso un atteggiamento di cautela nell’esercizio dell’attività normativa; nel caso specifico, ciò suggerisce di evitare un ulteriore ampliamento di fattispecie sanzionatorie dai confini incerti, che risulterebbe pericoloso per i singoli e la collettività.

La necessità di salvaguardare un bene primario per ciascuno, e quindi per l’intera società, richiede di astenersi da interventi legislativi che rischiano di compromettere gravemente lo spazio per il suo effettivo esercizio, come accadrebbe in presenza di nuove norme che ponessero l’ipoteca della sanzione penale sulla libertà (di espressione) delle persone.

Avvocato in Milano e Dottore di ricerca in Diritto costituzionale

 

[1] M. Olivetti, Diritti fondamentali, Torino, ultima edizione disponibile.

   [2] In ambito internazionale e comunitario: art. 19 Patto internazionale sui diritti civili e politici sottoscritto dall’ONU nel 1966 e in vigore in Italia dal 1978; art. 10 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata dal Consiglio Europeo nel 1950 e in vigore in Italia dal 1953; art. 11 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in vigore anche in Italia dal 2009. Come noto nella Costituzione italiana – ove sono esposti i Principi fondamentali – la libertà di pensiero è certamente annoverabile tra i «diritti inviolabili dell’uomo» che a norma dell’art. 2 Cost. «la Repubblica riconosce e garantisce, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»; quindi anche nella sua pubblica espressione e manifestazione, sancita poi specificamente nella Parte Prima della Costituzione dedicata ai singoli Diritti e doveri dei cittadini, nel Titolo Rapporti civili, come libertà di manifestazione del pensiero, all’art. 21 co. 1: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». La Corte costituzionale ha più volte qualificato la libertà di manifestazione del pensiero come «un diritto, come altre volte è stato detto (cfr. sent. n. 9 del 1965) coessenziale al regime di libertà garantito dalla Cost., inconciliabile con qualsiasi disciplina che direttamente o indirettamente apra la via a pericolosi attentati» (sent. n. 11/1968), come la «pietra angolare dell’ordine democratico» (sent. n. 84/1969) e come, forse, «il più alto fra i diritti fondamentali» (sent. n. 168/1971).

[3] M. Olivetti, cit.

[4] A. Barbera-F. Cocozza-G. Corso, Le situazioni soggettive. Le libertà dei singoli e delle formazioni sociali. Il principio di eguaglianza, in G. Amato-A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, Bologna, 19863, p. 272. Per un’applicazione di tale criterio cf. Corte cost. sent. n. 21/1961; sent. n. 5/1980. Per F. Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 200011, p. 653: «In via astratta, diversità di trattamento fondate sulle prospettate diversità di situazione obiettiva, non possono escludersi, essendo evidente che le diversità naturali che intercorrono fra uomo e donna possono creare situazioni nelle quali la parità di trattamento, e non la disparità, violerebbe il principio di eguaglianza».

[5] Camera dei Deputati, XVIII Legislatura, Documentazione per l’esame di Progetti di legge. Modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere A.C. 569. Schede di lettura, n. 217, 23 ottobre 2019, pp. 9-10.