Giacomo Rocchi

Magistrato della Corte Suprema di Cassazione

 

Sommario: 1. Il contraddittorio mancato – 2. L’estraneità dal giudizio di atti significativi assunti nel corso delle indagini – 3. Un giudizio anticipato nel merito? – 4. Perché un contraddittorio effettivo sarebbe stato necessario – 5. Salute e autodeterminazione – 6. Perché l’ordinanza di rimessione è infondata – 7. Determinazione e agevolazione del suicidio – 8. Perché vietare l’aiuto al suicidio?  –  9. Giudizio Cappato: un caso pilota – 10. Il dovere di solidarietà.

 

 

  1. Il contraddittorio mancato

Vorrei iniziare il mio intervento citando un articolo della Costituzione diverso da quelli evocati nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale di cui ci occupiamo.

L’art. 111, comma 2 della Costituzione prevede che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale».

La mancanza di un effettivo contraddittorio nel processo penale a carico di Marco Cappato – con i Pubblici Ministeri, che in precedenza hanno chiesto l’archiviazione, che concludono per l’assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto o, in subordine, perché la Corte d’assise sollevi questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., con i difensori che adottano conclusioni identiche, sia principali che subordinate e con la mancanza di una parte civile – si percepisce chiaramente dal testo dell’ordinanza.

Del resto, dobbiamo registrare il fatto che la mancanza di un contraddittorio effettivo, concreto, tra le parti, è un dato costante dell’intera vicenda della progressiva affermazione dei “nuovi diritti”: basti pensare ai casi Welby (anche in quel caso il P.M. aveva chiesto l’archiviazione mentre, sul piano civile, il P.M. si era associato alla richiesta di Welby di un provvedimento di urgenza che autorizzasse il distacco del macchinario), ed Englaro, procedimento in cui il curatore speciale nominato proprio per assicurare il contraddittorio rispetto alla richiesta del tutore di interrompere la nutrizione e idratazione nei confronti dell’interdetta si era associato, fin dalla sua costituzione in giudizio, alle richieste del tutore; ma, in diverso settore, è sufficiente ricordare le ordinanze in materia di procreazione medicalmente assistita, tutte nate da procedimenti nei quali il contraddittorio era fittizio, perché si contrapponevano gli aspiranti genitori che volevano accedere a pratiche vietate dalla legge e le cliniche di fertilità che concordavano sull’opportunità che tali pratiche fossero permesse.

 

  1. L’estraneità dal giudizio di atti significativi assunti nel corso delle indagini

Il richiamo che ho fatto alla mancanza di un contraddittorio effettivo è giustificato sotto due profili.

In primo luogo ci si chiede come abbia fatto la Corte di Assise a giungere alla conclusione che l’imputato non avesse compiuto «alcuna delle condotte a lui ascritte di rafforzamento della decisione suicidaria», poiché «la decisione di Fabiano (Antoniani) di rivolgersi alla citata associazione svizzera (la Dignitas) era intervenuta in modo autonomo ed in epoca antecedente ai suoi contatti con Cappato»; la domanda è legittima, visto che i Pubblici Ministeri, nella richiesta di archiviazione, avevano scritto che «Valeria (Imbrogno), esplorando le strade possibili tramite informazioni reperite dai media, entrava in contatto con Marco Cappato. […] Questi faceva visita personalmente al malato […] Su richiesta dell’Antoniani, lo indirizzava verso la associazione elvetica Dignitas […] da lui ritenuta la più affidabile tra quelle operanti in quello Stato» e, nel prosieguo, annotavano che lo stesso Cappato aveva dichiarato «di avere lui stesso messo in contatto l’Antoniani con l’associazione Dignitas».

Dall’ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Milano che aveva rigettato la richiesta di archiviazione si trae il contenuto delle dichiarazioni rese dall’imputato e dalla Imbrogno rispettivamente nell’interrogatorio e nel verbale di sommarie informazioni. Il primo aveva riferito che, di fronte al proposito espresso dall’Antoniani di porre fine alla propria vita, gli aveva esposto che «si poteva ricorrere alla strada svizzera, ma c’era anche la strada italiana» dell’interruzione dei trattamenti terapeutici, aggiungendo che, scartata la “via italiana”, «veniva invece presa in considerazione l’ipotesi di rivolgersi ad una struttura in Svizzera, segnalata da Cappato stesso, ovvero la Dignitas»; secondo la Imbrogno, inoltre, «previo interessamento del Cappato, giunse via posta presso l’indirizzo di Fabiano un libretto della Dignitas, ove venivano descritte le esatte procedure già narrate dallo stesso Cappato ed una lista di documenti da presentare».

E allora: come è giunta la Corte di Assise ad esprimere la valutazione che abbiamo ricordato? Non conosciamo il testo delle deposizioni della Imbrogno e nemmeno se Cappato abbia reso l’esame dibattimentale; quello che è certo è che entrambi gli atti (le sommarie informazioni della Imbrogno e l’interrogatorio di Cappato) erano utilizzabili dai Pubblici Ministeri per le contestazioni e l’interrogatorio reso nel corso delle indagini preliminari poteva entrare a far parte del materiale utilizzabile dal giudice per la decisione.

Come mai la Corte adotta una versione dei fatti opposta a quella – scritta nero su bianco – dai Pubblici Ministeri e dal G.I.P.?

Come non ricordare che i P.M., nella richiesta di archiviazione, pur non negando che i fatti fossero avvenuto così come narrati da Cappato e dalla Imbrogno, avevano ritenuto che non vi fosse stato alcun «rafforzamento del proposito suicidario di Fabiano Antoniani» ma che, su questo punto, erano stati sconfessati dal G.I.P., tanto da essere costretti ad inserire le condotte di rafforzamento nel capo di imputazione? Ecco che le condotte contestate – ritenute pacifiche dagli stessi P.M. – “scompaiono” in dibattimento sulla base delle dichiarazioni della stessa Imbrogno, “teste” che, secondo le stesse conclusioni dei P.M. in udienza, potrebbe trasformarsi in imputata del medesimo reato («In caso di condanna i P.M. chiedono la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica perché proceda nei confronti di altri soggetti che avrebbero agevolato il suicidio di Fabiano Antoniani»).

 

  1. Un giudizio anticipato nel merito?

Il secondo profilo che giustifica il richiamo alla norma costituzionale sta proprio nel tenore dell’ordinanza nella parte in cui tratta la condotta di rafforzamento del proposito suicidario di Antoniani (siamo, quindi, nel medesimo tema). La Corte scrive: «per gli accertamenti svolti in dibattimento, deve quindi concludersi che la condotta di Marco Cappato non ha inciso sul processo deliberativo di Fabiano Antoniani in relazione alla decisione di porre fine alla propria vita e, pertanto, l’imputato deve essere assolto dall’addebito di averne rafforzato il proposito di suicidio».

Ora: come l’esperienza giudiziaria insegna, tutti i giudici di merito, nelle ordinanze dibattimentali, sono e devono essere molto attenti a non esprimere anticipatamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione, al fine di evitare possibili ricusazioni o, comunque, per non dare alle parti l’impressione di non essere più “giudici terzi ed imparziali”. Invece, qui siamo di fronte ad una convinzione manifestata di innocenza dell’imputato su una delle condotte contestate.

Se si trattasse di un processo con un reale contraddittorio, all’esito del giudizio di costituzionalità, i giudici potrebbero essere ricusati dal P.M. e dalla parte civile o, quanto meno, invitati a valutare la sussistenza di “gravi ragioni di convenienza” per la loro astensione.

Ma questo non avverrà.

 

  1. Perché un contraddittorio effettivo sarebbe stato necessario

Mi sono soffermato su questi aspetti per sottolineare che, a mio parere, l’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale è frutto di una strategia condivisa tra Pubblici Ministeri e difesa dell’imputato i quali, dopo il rigetto della richiesta di archiviazione, hanno individuato nuovi obiettivi e nuovi strumenti.

Osserviamo gli effetti del provvedimento. In primo luogo l’ordinanza impedisce alla Corte Costituzionale di pronunciarsi per intero sulla legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen.: evento troppo rischioso, perché una sentenza di rigetto potrebbe costituire una pietra tombale sui fautori del suicidio assistito e dell’eutanasia (le due condotte sono ovviamente legate: se è un diritto essere aiutati a suicidarsi, perché non dovrebbe essere un diritto farsi uccidere direttamente su richiesta?), costringendo i giudici a condannare gli imputati di tali condotte.

La Corte di Assise distingue, così, tra le condotte di rafforzamento del proposito suicidario, vale a dire quelle che “incidono sul processo deliberativo” del suicida, e quelle di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, “mera attuazione di quanto richiesto da chi aveva fatto la sua scelta liberamente e consapevolmente”; in questo modo la volontà del suicida viene “distillata” e resa pura “autodeterminazione”: parola che permette di collegarsi, direi così, ad un “mondo”, appunto quello dei “nuovi diritti”.

Questa scelta, poi, costituisce un “paracadute” che dovrebbe garantire, in ogni caso, l’assoluzione dell’imputato: sia perché – appunto – viene impedito alla Corte Costituzionale di “mettere il naso” nell’intera condotta contestata, sia perché l’esito della questione potrà essere in ogni caso strumentalizzato a questo scopo: in caso di accoglimento della questione di costituzionalità, per una trionfale assoluzione per entrambe le condotte; in caso di giudizio di inammissibilità – esito che si intravede chiaramente – per un’assoluzione basata sulla giurisprudenza dei giudici di merito (Tribunale di Vicenza, Corte d’appello di Venezia, Corte di Assise di Messina) in dissenso consapevole con il dettato della Corte di Cassazione.

 

  1. Salute e autodeterminazione

Un merito deve essere, però, riconosciuto all’ordinanza della Corte di Assise di Milano: in questa sua “distillazione” della volontà del suicida, della sua “autodeterminazione”, i riferimenti allo stato di salute cadono.

In effetti, nella richiesta di archiviazione, i Pubblici Ministeri facevano ampio richiamo alla malattia di Antoniani, sottolineando che «è ben possibile che alcune ‘vite’ (la parola era messa tra virgolette) siano percepite, da chi le vive, come indegne, inumane, troppo dolorose per essere vissute» e sostenendo che «pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita, quando siano connesse a situazioni, oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile e indegna dal malato stessa»; la condotta dell’imputato sarebbe, quindi, consistita – al pari di una rinunzia ad una terapia salvavita – in una “terapia finalizzata allo scopo suicidario”.

Nelle conclusioni precisate in dibattimento, i Pubblici Ministeri, coerentemente, avevano chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale anche con riferimento all’art. 32, comma 2, della Costituzione.

Al contrario, la questione è sollevata con riferimento ad altri parametri costituzionali, primo fra tutti l’art. 13 della Costituzione, secondo cui «la libertà personale è inviolabile»; è un paravento che cade, qui stiamo parlando della “libertà di decidere quando e come morire”: si parla, appunto di autodeterminazione dell’individuo, che prescinde dalla condizione in cui egli si trova e dai motivi per cui intende suicidarsi.

Prendiamo atto di questa impostazione, ma non possiamo non riflettere sul fatto che, in realtà, in tutti questi anni, l’art. 32 della Costituzione è stato usato come grimaldello per giungere a questo risultato.

Diritto di rifiutare le terapie? No, diritto di suicidarsi!

 

  1. Perché l’ordinanza di rimessione è infondata

Se questo è il quadro, la questione di costituzionalità prospettata dalla Corte di Assise di Milano è, comunque, manifestamente infondata.

Un primo argomento di carattere logico.

La Corte distingue, come si è visto, tra le condotte di agevolazione all’esecuzione del suicidio, che sarebbero mera attuazione di ciò che aveva chiesto colui che aveva fatto la sua scelta liberamente e consapevolmente, e quelle di determinazione al suicidio o di rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio. La distinzione è basata su una lettura della fattispecie incriminatrice dell’art. 580 cod. pen. in base alla quale il bene tutelato è il diritto di ciascuno ad autodeterminarsi, cosicché dovrebbero essere sanzionate solo le condotte che ‘in qualsiasi modo’ abbiano alterato il percorso psichico del soggetto passivo, impedendogli di addivenire in modo consapevole e ponderato a tale scelta.

Ma la condotta di “rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio” non comporta affatto, necessariamente, che il suicida sia leso nella propria autodeterminazione! Al contrario, se esiste un diritto di decidere quando e come morire, per quale motivo il soggetto dovrebbe giungere alla decisione da solo? Perché persone a lui vicine, o medici o familiari non potrebbero discutere con lui dell’opportunità di suicidarsi e, valutando come lui che si tratta della scelta giusta, non dovrebbero aiutarlo a rendere ferma e serena la sua decisione?

Quindi, rafforzare la decisione altrui di uccidersi – in un quadro in cui il suicidio è un diritto – non significa affatto “pregiudicare la libertà della sua decisione”; anzi, può comportare una sua valorizzazione, in modo che l’aspirante suicida giunga ad una determinazione – che è pur sempre “autodeterminazione” – ponderata, oltre che libera.

Si noti: la Corte di Assise sostiene implicitamente che la punizione delle condotte di rafforzamento dell’altrui proposito suicidario è legittima costituzionalmente ma evita di sottoporre alla Corte Costituzionale il quesito mediante quella separazione di cui abbiamo parlato prima; evita, cioè, di farsi ripetere dalla Corte Costituzionale ciò che la Corte di Cassazione ha affermato: che cioè la tesi secondo cui “non possa ravvisarsi alcun illecito penalmente rilevante nella condotta di colui che si limiti ad agevolare il proposito suicida di altri, senza minimamente influire sul processo formativo della volontà di questi di porre fine alla propria esistenza” è “chiaramente contraria alla lettera e allo spirito della norma in esame e violante della volontà del legislatore di punire la condotta di chi, in qualsiasi modo, agevoli l’esecuzione del suicidio”.

In effetti, come ha sostenuto la Cassazione (Sez. 1, n. 3147 del 06/02/1998 – dep. 12/03/1998, P.M. in proc. Munaò, Rv. 210190), il legislatore ha voluto sanzionare «qualsiasi interferenza o partecipazione, sia di natura psichica o morale che di natura fisica o materiale, non soltanto nella ideazione, ma anche nella realizzazione del proposito suicida espresso da altri. La legge, nel prevedere, all’art. 580 cod. pen., tre forme di realizzazione della condotta penalmente illecita (quella della determinazione del proposito suicida prima inesistente, quella del rafforzamento del proposito già esistente e quella consistente nel rendere in qualsiasi modo più facile la realizzazione di tale proposito) ha voluto quindi punire sia la condotta di chi determini altri al suicidio o ne rafforzi il proposito, sia qualsiasi forma di aiuto o di agevolazione di altri del proposito di togliersi la vita, agevolazione che può realizzarsi in qualsiasi modo: ad esempio, fornendo i mezzi per il suicidio, offrendo istruzioni sull’uso degli stessi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongano alla realizzazione del proposito ecc., o anche omettendo di intervenire, qualora si abbia l’obbligo di impedire la realizzazione dell’evento».

 

  1. Determinazione e agevolazione del suicidio

D’altro canto, si deve contestare l’affermazione secondo cui la condotta di aiuto al suicidio, così come delineata dalla Corte di Assise, non influisca sulla determinazione del soggetto di procedere al proprio suicidio.

La “autodeterminazione”, così come “distillata” dalla ordinanza, in realtà non esiste, perché la consapevolezza dell’esistenza di persone (o di associazioni come la Dignitas) disposte ad aiutare coloro che hanno deciso di suicidarsi a mettere in atto i loro propositi costituisce un rafforzamento di per sé al proposito di suicidio.

Si tratta di affermazione dimostrabile anche sotto il profilo statistico o sociologico; io provo ad argomentare sulla base dei miei strumenti di giurista.

Il tema è decisivo proprio perché, sollevando la questione di legittimità costituzionale, la Corte di Assise vuole ottenere un risultato che va oltre la posizione dell’imputato Cappato, che cioè prescinde dal fatto che egli abbia o meno rafforzato la volontà di Antoniani di suicidarsi, che abbia o meno «inciso sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida», per usare le espressioni dell’ordinanza.

Qui stiamo facendo riferimento ad una legge generale che, modificata dalla Corte Costituzionale nel senso voluto dal giudice remittente, sancirebbe che, in tutti i casi, le condotte di aiuto o agevolazione al suicidio non sono sanzionabili; che, cioè, renderebbe lecite sia condotte di singoli che, ad esempio, si prestano a spingere da un ponte il soggetto che ha deciso di morire, ma non riesce a farlo da solo, sia di associazioni come la Dignitas.

 

  1. Perché vietare l’aiuto al suicidio?

Non si può, allora, non richiamare la sentenza della Corte EDU Pretty contro Regno Unito, tutt’altro che “superata”, come afferma l’ordinanza in commento, come aveva dimostrato quella del G.I.P.

Il caso Pretty aveva caratteristiche assai simili a quello oggetto del processo contro Cappato: non c’era alcun dubbio che la sig.ra Pretty avesse deciso di morire con piena libertà e dopo ampia riflessione, esercitando appieno la sua autodeterminazione. La condotta del marito che ella chiedeva fosse preventivamente scriminato dalla Gran Bretagna era proprio quella di agevolazione del proprio suicidio, proprio un’agevolazione od esecuzione materiale, che in nessun modo avrebbe inciso sulla sua volontà di morire.

Eppure, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, consapevole della volontà della Pretty, disse quello che sappiamo: che a) il riconoscimento del diritto alla vita non porta con sé il diritto opposto, vale a dire il diritto a morire; b) il trattamento di ventilazione artificiale non costituisce né tortura, né trattamento inumano o degradante, poiché la sofferenza è conseguenza della malattia e non di un’azione dello Stato: e il suicidio assistito non avrebbe comportato l’attenuazione o soppressione del danno; c) una possibile violazione del diritto della vita privata e familiare della ricorrente era giustificata dalla “protezione dei diritti altrui”; d) nel rifiuto dello Stato di consentire il suicidio assistito della Pretty non vi era alcuna violazione della libertà religiosa o di culto; e) il fatto che la Pretty non fosse in condizioni fisiche di suicidarsi da sola (al contrario di altri malati) non comportava alcuna discriminazione nei suoi confronti.

Osservò, soprattutto, che «la legge inglese che punisce il suicidio assistito è stata concepita per salvaguardare la vita, proteggendo le persone debole e vulnerabili – specialmente quelle che non sono in grado di adottare decisioni con cognizione di causa – contro gli atti che mirano a porre fine alla vita o ad aiutare a morire. Certamente la condizione delle persone che soffrono di una malattia in fase terminale varia di caso in caso. Ma molte di tali persone sono fragili, ed è proprio la vulnerabilità della categoria a cui appartengono che fornisce la ratio legis della disposizione in oggetto. Spetta, in primo luogo, agli Stati di valutare il rischio di abuso e le probabili conseguenze degli abusi eventualmente commessi che un’attenuazione del principio generale di suicidio assistito o la creazione di eccezioni di principio implicherebbe. Esistono rischi manifesti di abuso, nonostante le argomentazioni sviluppate in merito alla possibilità di prevedere barriere e procedure di protezione».

 

  1. Giudizio Cappato: un caso pilota

Ecco che emerge il tentativo di creare con il suicidio assistito di Fabiano Antoniani (così come era avvenuto con Piergiorgio Welby) un “caso pilota” in cui sono nascosti i possibili e probabili sviluppi, quelli che non si conosceranno attraverso i messaggi televisivi o attraverso i social.

Se la Corte Costituzionale riterrà fondata la questione, l’esecutore dell’altrui volontà di suicidarsi dovrà verificare che la scelta sia stata davvero libera? Che la richiesta di aiuto al suicidio sia frutto di vera autodeterminazione?

Il depresso che chiede di essere aiutato a morire dovrà essere aiutato o si dovrà curare la sua depressione?

L’anziano abbandonato nella casa di riposo o in ospedale dovrà essere accudito, curato, sostenuto, amato oppure si potrà – o dovrà – dare attuazione alla sua richiesta di morire?

Il padre di famiglia che ha perso il lavoro dovrà essere assistito, incoraggiato, indirizzato ad altre possibilità o si potrà/dovrà spingerlo da un alto ponte?

Esistono “rischi manifesti di abuso”: pensate che la Corte manifestava la sua preoccupazione rispetto ad un quadro di “attenuazione” del divieto generale di suicidio assistito, con mere “eccezioni” e un sistema di “barriere e procedure di protezione”.

L’accoglimento della questione di legittimità costituzionale non introdurrebbe eccezioni, ma una regola generale – si può aiutare chi lo chiede a suicidarsi – senza alcuna procedura o barriera di protezione.

 

  1. Il dovere di solidarietà

Concludo osservando che, ancora una volta, il tentativo di affermare il principio assoluto di autodeterminazione dell’individuo, che rivendica il diritto di fare qualunque cosa desideri, anche se si tratta di provocare la propria morte, corrisponde all’abbandono del principio di solidarietà tra uomini che l’art. 2 della Costituzione ci indica.

Riconoscere il diritto ad essere aiutati a suicidarsi significa lasciare le persone sole, in balia dei loro problemi, delle loro malattie, delle loro angosce, delle loro debolezze.

In una società come questa sopravvivranno i forti, i ricchi, i sani.

Gli altri saranno aiutati a farsi da parte.