Daniele Onori
Legal and business development specialist

IL GIURISTA NEL DIRITTO POSTMODERNO*

 

Sommario: 1. Dall’eclissi della sovranità statale all’interpretazione creativa del giudice nel silenzio della legge – 2.  Postmoderno fra frammentarietà e urgenza etica – 3. Le (in)certezze del Giurista ‒ 4. Dignità umana e biodiritto: il diritto al servizio della vita o contro la vita?

 

  1. Dall’eclissi della sovranità statale all’interpretazione creativa del giudice nel silenzio della legge

 

Viviamo la stagione del dopo, del postmoderno, l’epoca che viene dopo, innanzitutto il moderno, ma anche dopo il nichilismo, oltre le ideologie e i miti che hanno caratterizzato a lungo il pensiero dell’Occidente, generando spesso totalitarismi e violenze[1]: non ci sono più i blocchi di potere che spaventano per gli effetti di un’eventuale guerra planetaria, ma l’imprevedibilità di ciò che può accadere dopo l’11 settembre pone nella condizione di chi non sa più che cosa ci si possa attendere[2]

Di fronte a una modernità e a una stagione nichilista che parevano avere estromesso la religione dallo sviluppo storico, dichiarandone la morte e l’estinzione, riemergono conflitti che si connotano in modo religioso. Il presente pone, ancora, domande fondamentali che riguardano la vita, la morte e la cura della sofferenza; i fatti epocali, nei quali siamo ancora immersi, aprono nuovi scenari in cui dietro l’angolo c’è la difficile convivenza di civiltà diverse, perché non rinasca il rischio di un conflitto di religione.

A queste sfide una filosofia frammentata e disincantata stenta a trovare risposte, mentre riemerge nella solitudine delle coscienze il bisogno di essere riconosciuti, di essere chiamati per nome. Nel campo del diritto questo si manifesta col fatto che lo Stato non è più l’esclusivo produttore di diritto, i codici costituiscono oramai solo “una” delle fonti giuridiche e quindi solo una delle componenti in gioco, che a contatto con le “altre” vede mutare il significato e la portata delle previsioni che vi sono contenute. Contano sempre più, da un lato, il formarsi spontaneo del diritto all’interno della società, e, dall’altro, i referenti sovranazionali, soprattutto, ma non solo, europei. Ciò modifica il sistema stesso delle fonti, rappresentabile non più attraverso la “rassicurante” metafora “verticale” della piramide alla cui sommità è posta la legge di origine parlamentare, ma attraverso quella “orizzontale”, assai più instabile e fluida della rete di interconnessione tra fonti di provenienze diverse, chiamate a interferire e a interagire su identici oggetti[3]. Un sistema di fonti sempre più giurisprudenziale, a partire dalle due Corti europee, che si sono assunte il ruolo di creatrici di diritto. I giudici, con la creatività giudiziaria, stanno scrivendo di fatto nuove Convenzioni, con diritti che le Convenzioni non definiscono, ma che essi sostengono essere contenuti nella loro interpretazione delle Convenzioni. I giudici, precedentemente chiamati giudici “attivisti”, e ora “creativi”, sostengono di realizzare una interpretazione dinamica della Convenzione. Perché dinamica? Perché usano la Convenzione quale strumento, prodotto di un “dialogo” che queste Corti intessono tra di loro, con altre Corti a livello internazionale, nonché con le Corti costituzionali nazionali e con gli stessi giudici interni: dialogo che contribuisce a interconnettere ordinamenti giuridici diversi e a definirne i reciproci rapporti [4].

Quel che sta accadendo, soprattutto ‒ e non per caso ‒ nel settore dei cosiddetti «nuovi diritti», è l’esito coerente di un processo di networking, che va ben al di là dei confini del giudiziario, lungamente preparato e profondamente radicato. È una rete che ha come epicentro l’ideologia secondo cui spetta al giudice esercitare la missione di dare concreta attuazione ai “nuovi diritti”, rappresentando la condivisione di questa missione lo spartiacque fra i giudici attenti ai diritti e tutti quanti gli altri[5]. Si attua così una decostruzione dell’ordine precedente non solo nel momento della sua genesi “normativa” ma anche, e soprattutto, nel momento della sua concreta applicazione pratica. Un effetto vistoso di questa commistione e sovrapposizione tra logiche giuridiche diverse è rappresentato dal fatto che le norme nazionali di matrice codicistica, nelle quali si invera la modernità giuridica, che esprimono “regole” fondate sul modello della “fattispecie” si trovano a dover interagire con i “principi” di cui è intriso il diritto europeo [6]. Un fenomeno che in altre forme si era già presentato con l’avvento della Costituzione, ma che ora non comporta solo l’esigenza per le regole di corrispondere ai princìpi (pena, nel sistema costituzionale, una declaratoria di illegittimità), ma – per effetto degli strumenti di adeguamento del diritto interno a quello europeo (disapplicazione e interpretazione conforme) – include la possibilità per esse di essere direttamente sostituite dalle norme europee, o di combinarsi con queste, dando luogo alla creazione di norme “nuove” a opera del giudice, in entrambi i casi con un chiaro effetto di decodificazione applicativa. Il che – unitamente alla dimensione sempre più giudiziale del diritto – propizia una visione e una gestione sempre più pragmatica e dinamica degli strumenti giuridici, improntata a razionalità pratica[7]. Sempre più si ragiona in termini di “peculiarità del caso”, di “ragionevolezza” della soluzione, di “bilanciamento tra valori”, di “equità”, di “proporzione”; sempre meno della mera sussunzione del fatto nell’astratta descrizione della norma.

 

  1. Postmoderno fra frammentarietà e urgenza etica

 

In questo mare della libertà si naviga liberi non se si vaga senza meta, in balia delle correnti, ma se si va da un porto, da un punto di partenza, a un approdo. Nell’epoca in cui «la tecnica si è interamente impossessata della nuda vita dell’uomo» [8], perché l’essere umano possa creare un sistema decisionale che favorisca scelte ragionevoli è necessario che svolga una indagine approfondita su cosa effettivamente possa essere ritenuto lecito, moralmente ineccepibile, e cosa non lo sia[9]. L’indagine è resa ancora più difficile perché uno dei primi elementi caratterizzanti la post-modernità è il passaggio dal sistema ai frammenti.  Tale trapasso si pone da una parte come l’eredità dell’illuminismo, dall’altra però contro l’illuminismo riducendo al frammento il pensiero metafisico e sistematico[10]. Una volta eliminato ogni riferimento metafisico assoluto l’etica viene svuotata da qualsiasi contenuto sostantivo della persona. La persona umana non è più considerata come unità di spirito e corpo, secondo quella che Elio Sgreccia definisce la «concezione integrale della persona umana»[11], cioè un essere con valore di soggetto e non di oggetto in cui la vita è un bene basilare in quanto fonte necessaria e condizione di ogni attività umana nella prospettiva della legge naturale. Le ragioni sono da ricercarsi nella necessità di assicurare apparentemente una società pacifica, in cui ciascuno è libero di rigettare le imposizioni morali che vengono dall’esterno: si tratta del definitivo tramonto dello Stato etico[12].

Il compito dello Stato viene ridotto a un intervento di natura meramente burocratica scevro da qualsiasi idea di autorità che possa vincolare moralmente i cittadini. L’ideologia postmoderna dei diritti umani sta distruggendo la persona umana. Quest’affermazione sembra paradossale. Eppure esprime una drammatica verità dei tempi attuali.

Il fondamento dei diritti umani nelle correnti relativistiche che hanno imposto la loro agenda ai governi di tutto il mondo dopo la Conferenza Internazionale del Cairo sulla Popolazione e lo Sviluppo del 1994 e la IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, tenuta a Pechino nel 1995, sta esclusivamente nella libertà di scelta del soggetto, nell’autodeterminazione assoluta, nella trasformazione in diritto umano di ogni atto libero del soggetto o di ogni atto al cui compimento il soggetto presta il consenso. Secondo questa impostazione, che potenti lobby cercano d’introdurre nelle leggi degli Stati e che, in larga misura, si è guadagnata l’adesione delle Corti di giustizia poste ai vertici degli apparati giurisdizionali, il diritto non è più una facoltà morale pertinente al soggetto, che lo Stato non costituisce, ma riconosce, fornendole protezione coattiva, facoltà pertinente al soggetto per il solo fatto di essere persona, affinché esso realizzi il bene consentaneo alla sua natura di ente razionale capace di conoscere il vero e di attuare il buono e il giusto. Alla stregua di siffatta concezione la persona e la libertà di cui è dotata non sono ordinate alla verità[13]

Principio assoluto ed incontestabile diventa l’autonomia personale realizzata attraverso la forma del consenso libero e informato. Il principio di autonomia assurge a concetto giuridico che, decontestualizzato, porta alla giustificazione dell’indifferenza più totale e dell’individualismo più egoistico, al trionfo del più forte e del più abile a scapito dei soggetti più deboli. Questa tendenza si diffonde grazie alle concezioni individualistiche e anarchiche della libertà, che la distaccano dal rapporto costitutivo con la verità, e identificano la dignità dell’uomo in una qualità della vita determinata secondo standard utilitaristici ed edonistici. Queste radici filosofiche si sono insinuate nell’etica e nel diritto, inquinando il fondamentale principio del consenso informato del paziente ai trattamenti medici. È stato così assolutizzato il principio di autonomia, che costituisce tradizionalmente, insieme con i principi di beneficità ‒ comprendente come suo presupposto il primum non nocere ‒ e di giustizia, uno dei criteri utili per assumere la decisione giusta circa le cure da praticarsi nelle fasi terminali della vita.

Il principio di autonomia viene ulteriormente esasperato. Affiora così con sempre maggiore frequenza nelle legislazioni l’istituto, di origine anglosassone, del Living Will ‒ denominato talora come “direttive o dichiarazioni anticipate di trattamento”, talora come “testamento biologico” ‒, che favorisce l’accettazione sociale e giuridica dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio della persona consenziente[14].

 

  1. Le (in)certezze del Giurista

 

Se c’è un elemento che accomuna gli uomini, questo è rappresentato dalla domanda continua sul senso delle proprie azioni e sul loro essere giuste o sbagliate. Un quesito che scuote la coscienza di ogni individuo e, dunque, anche del giurista che si interroga sul ruolo che il diritto dovrà assolvere in una epoca storica caratterizzata da continue, profonde e inarrestabili innovazioni della scienza e delle relative tecniche. Centra il punto chi ravvisa nel «mutamento del paradigma giuridico» la conseguenza «dell’avanzamento delle tecniche e delle scienze biomediche» e chi, similmente, rileva come l’evoluzione scientifica abbia investito appieno le stesse «categorie tradizionali» del diritto. Sicché queste «subiscono un effetto di spiazzamento e di riformulazione, che sembra quasi richiedere un “nuovo” diritto», «basi e modelli inediti», secondo i quali ricostruire e “rigenerare” «il rapporto tra ordinamento giuridico, persone fisiche, idee di vita»[15].

Giuridificare la vita significa metterla in forma e, di conseguenza, incidere direttamente su destini, scelte, progetti: mai come in questo caso il diritto si costruisce come tecnica, e insieme potere, che aggiudica libertà e limiti, possibilità che si aprono e contingenze che ne riducono gli spazi. Tra la vita e le regole il gioco si snoda sempre su equilibri provvisori e instabili, scandito tra le diverse dimensioni (individuale, sociale, esistenziale, costituzionale, privata, pubblica, reale, virtuale e giuridica, quest’ultima sempre più dilatata) della vita stessa, gli ambivalenti poteri della tecnica e le domande crescenti che vengono rivolte all’etica e al diritto.

Il biodiritto allora dovrebbe «ripensare se stesso innanzitutto attraverso la creazione di un nuovo paradigma giuridico antropologicamente fondato, dispensatore di scopi e fini autonomi – sia da quelli scientifici che da precetti etici di parte […] – in quanto basato su valori e principi il più largamente condivisi, Che trovano nei diritti fondamentali sanciti nelle carte costituzionali nazionale ed europea […] il riferimento obbligato ed imprescindibile»[16]. Se è attraverso la Carta costituzionale che l’ordinamento attinge ai “valori correnti”, ai «valori che la coscienza collettiva avverte e di cui ha nutrito la vicenda storica», sicché «il diritto legale non sfugge […] alla impietosa verifica con il divenire della coscienza collettiva e dei suoi valori»16, è su questo piano che dovrà spingersi lo sguardo del giurista. È senza dubbio arduo elaborare una biolegislazione che riesca a conciliare le diverse istanze etiche: sovente le leggi bioetiche sono criticate per la loro ambiguità, elusività, mancanza di rigore. Il dovere del giurista è di elaborare una regolamentazione legislativa, per evitare il pericolo che il giudice svolga una funzione di supplenza in assenza della legge (la c.d. “bioetica dei tribunali”), col rischio dell’interpretazione creativa. La legislazione non potrà contemplare tutte le singole fattispecie, ma è chiamata a recepire le istanze sociali e riempire i vuoti normativi dell’ordinamento giuridico: le questioni bioetiche sono di tale importanza che richiedono una regolamentazione esplicita che sappia offrire indicazioni di comportamento, il più possibile chiare e applicabili dalla collettività. Si aggiunga che il compito del biodiritto non può esaurirsi nell’ambito della biolegislazione nazionale ma deve anche essere rivolto ad armonizzare la regolamentazione nel contesto delle legislazioni dei diversi paesi. Obiettivo principale è scongiurare il grave pericolo rappresentato dal fatto che se le legislazioni risultano difformi si lascia spazio al fenomeno del “turismo bioetico”, la tendenza a realizzare ciò che si vuole nel Paese che lo permette (sia “turismo procreativo” o “pellegrinaggio eutanasico”).

È necessario un crescente dialogo biogiuridico transnazionale e interculturale, in taluni ambiti bioetici di particolare urgenza (si pensi a questioni che mettono in gioco l’identità dell’uomo, della specie umana, e della vita sulla terra), al fine di formulare proposte efficaci e globali per garantire quel “ponte verso il futuro”, espressione che definisce la bioetica nell’intitolazione del primo libro che ha visto la comparsa di questo termine[17]: essa investe il diritto di un compito complesso e difficile, ma indispensabile per una costruzione solida che sappia guardare lontano, che si opponga alla tecnocrazia, orientando i percorsi della scienza nella direzione della difesa dell’uomo e nella tutela dei diritti umani fondamentali. In questo contesto, la filosofia del diritto può svolgere un ruolo propositivo nel mostrare che l’alternativa a una negazione scettica dell’esistenza e della conoscibilità della verità non è il dogmatismo: è, attraverso il diritto, o meglio attraverso la riflessione fenomenologica sul senso costitutivo del diritto, una via intermedia individuabile nel riconoscimento razionale dell’esigenza della relazionalità intersoggettiva, quale riconoscimento condivisibile etico “minimo” da parte di tutti gli uomini[18].

 

  1. Dignità umana e biodiritto: il diritto al servizio della vita o contro la vita?

 

La riflessione sul diritto consente di comprendere che il diritto può trovare l’etica dentro di sé, al suo interno: non si tratta di fare una scelta tra le etiche nel contesto della pluralità che caratterizza il dibattito attuale. Il diritto è chiamato a rendere ragione fino in fondo del significato interno del diritto stesso, quale strumento volto alla difesa della coesistenza umana e della dignità di ogni uomo, quale presupposto e condizione di possibilità strutturale della stessa esistenza e coesistenza umana. La filosofia del diritto richiama il biodiritto al significato strutturale della giuridicità, evidenziando il pericolo di un diritto che si estranei radicalmente dall’etica o che affidi l’etica alle sole scelte arbitrarie soggettive, il pericolo di un uso del diritto contro l’uomo. Nel diritto è importante recuperare quella consapevolezza, che è progressivamente maturata e si è consolidata dopo le atroci esperienze storiche dei totalitarismi: la consapevolezza che il diritto non può divenire mero strumento asservito alla volontà di chi è più forte e non può limitarsi alla registrazione della prassi, quale essa sia.

In altri termini: la funzione del diritto non può essere solo formale ed empirica. Il giurista per quanto intenda essere neutrale nell’ambito della società plurale postmoderna, non può essere indifferente rispetto alla valutazione sostanziale, almeno ad una valutazione sostanziale minima, che riconosca la valenza etica del diritto nella difesa della dignità oggettiva dell’essere umano, nella tutela dei diritti fondamentali. In questo senso il biodiritto è chiamato a tematizzare la giustizia, quale esigenza etica intrinseca al diritto, elaborando ed applicando ai temi bioetici i criteri di uguaglianza, simmetria e riconosciuto che questi diritti derivano dalla dignità inerente alla persona umana.

Appellarsi al principio di uguaglianza significa ritenere che ogni uomo, per il solo fatto di essere uomo, non può divenire oggetto di discriminazione: ogni uomo deve essere trattato come soggetto avente una dignità forte intrinseca, a prescindere da considerazioni estrinseche quali l’appartenenza politica, religiosa, culturale, ma anche la differenza sessuale, cronologica o di condizioni di esistenza (salute/malattia). Il principio di uguaglianza si radica nell’essere dell’uomo, indipendentemente dal suo agire: il diritto riconosce all’uomo una dignità speciale e sostanziale (non generica ed accidentale) in forza della sua appartenenza alla specie umana in vista della salvaguardia della sua identità antropologica, essendo la dignità un dato naturale da riconoscere non una qualificazione da attribuire o conferire.

La dignità è inviolabile, non è negoziabile, è oggetto di rispetto morale e giuridico incondizionato, e la sua violazione costituisce un atto intrinsecamente malvagio. Il filosofo tedesco Joseph Seifert ha messo in luce quattro distinte radici e fonti della dignità umana: la prima, che si riferisce a ciò che è l’uomo in quanto persona, cioè l’essenza, l’essere e la sostanza, come fonti della dignità umana; la seconda, che riguarda l’operare della coscienza e l’attuazione della personalità; la terza, che concerne la realizzazione della vocazione personale e della trascendenza morale dell’uomo; la quarta, che attiene ai doni che ciascuna singola persona possiede. Su questa premessa, Seifert ha osservato che il diritto alla vita attinge fondamento in modo inviolabile e inalienabile nella prima radice della dignità, riconoscibile da tutti in base alla natura razionale della persona e dalla ragione stessa di colui che osserva con umiltà il reale, e che è in grado di riconoscere la natura razionale di ogni essere umano. Insegna al riguardo Seifert: «L’essere persona, non importa se sana o malata, se maschio o femmina, se vecchia o giovane, se cosciente o in coma, è la prima base della dignità umana, dal momento che la libertà, la consapevolezza e la conoscenza, come pure il carattere di io e di che appartengono all’essenza della persona, richiedono chiaramente un soggetto, che vive e sussiste in sé nell’essere, e non dipende da questi atti né inerisce ad un’altra cosa come suo accidente»[19].

Il giurista è chiamato a difendere, attraverso il diritto, la dignità dell’essere umano come bene indisponibile, sottratto all’arbitrio del più forte, proibendo ogni forma di strumentalizzazione del corpo umano e violazione della vita umana nella consapevolezza che la vita umana è degna perché l’uomo è l’unico soggetto naturale capace ontologicamente di identificarsi, di dire di sé stesso io e di riconoscere relazionalmente l’altro come un tu[20]. L’adeguamento del diritto al senso della giustizia si esprime in una duplice dimensione: a un primo livello il giurista è chiamato a entrare nel contenuto delle singole norme giuridiche esistenti, allo scopo di esprimere una valutazione critica sul diritto vigente, interrogandosi sulla conformità di esso (leggi, sentenze, regole) rispetto alle spettanze obiettive della natura umana, promovendo uno sforzo di riforma nella direzione della adeguazione del diritto positivo al senso proprio del diritto, laddove si rilevassero incongruenze o ambiguità; a un secondo livello il giurista ha il compito di ricercare nuovi modi di positivizzare le spettanze obiettive dell’umano, nel momento della formulazione e della elaborazione di regole giuridiche, nella continua e dinamica ricerca di esplicitazione della normatività dalla natura, garantendo all’uomo le condizioni per attuare pienamente la propria dignità, a partire dalla tutela generale della integrità fisica. Tale sforzo critico è particolarmente complesso nell’ambito della bioetica dove è in gioco il riconoscimento dei diritti ai confini della vita, di fronte al rapido avanzare della scienza e della tecnologia biomediche. Il biodiritto è chiamato a ritematizzare la soggettività giuridica umana, mostrando la necessità che tutti i soggetti umani godano di un’uguale tutela giuridica, anche coloro che per motivi accidentali o provvisori, dovuti all’età, allo stadio di sviluppo o a condizioni di malattia, provvisorie o permanenti, non sono in grado di gestire determinate capacità o le gestiscono debolmente, divenendo dunque particolarmente vulnerabili e fragili di fronte alle pressioni dell’avanzamento del progresso biotecnologico[21].

Si tratta, in altri termini, di richiamare e attualizzare la dottrina dei diritti umani, rispetto alla quale si è registrato un consenso universale, sottolineando la necessità biogiuridica della protezione del corpo biologico dell’essere umano, dall’inizio alla fine, di fronte alle nuove possibilità di manipolazione e di intervento sperimentale non terapeutico. Di fronte al pluralismo etico il compito della biogiuridica non è quello di combattere il pluralismo e tantomeno di negarlo, né di imporre dogmaticamente una visione etica come prioritaria ed assoluta, bensì quello di identificare e giustificare i limiti invalicabili di fronte al “potere” della tecnoscienza, evitando il pericolo di asservire la tecnoscienza alla volontà arbitraria individuale o politica o alle mutevoli esigenze sociali, riconoscendo la rilevanza “etica minima” della difesa della dignità umana[22].

L’auspicio è che la biogiuridica trovi principi comuni di giustizia in bioetica, nell’ambito di una integrazione giuridica internazionale. Emerge l’esigenza di individuare principi giuridici comuni che costituiscano un biodiritto che, pur rispettando la specificità politica, la diversità culturale e la eterogeneità etica, sia estensibile universalmente, in senso transnazionale ed interculturale. Un biodiritto che individui nel riconoscimento dei diritti umani fondamentali (espressi nelle dichiarazioni, convenzioni, patti e documenti internazionali) i principi irrinunciabili dell’agire bioetico.

Stiamo camminando in una terra di mezzo che non è più il “prima”, ma che, però, non è ancora il “dopo”. Un luogo nel quale molto dell’antico apparato – le istituzioni pubbliche, le formazioni sociali, gli strumenti e gli istituti giuridici del passato – rimane, ma assume significati e ruoli diversi, subisce un’anamorfosi di cui non sono sempre chiari la portata e i contorni. Ed è un quadro la cui complessità sembra destinata semmai ad aumentare nella nostra società occidentale, sempre più composita e multietnica, al cui interno dunque si troveranno sempre più a convivere modelli di vita, valori, codici comportamentali e comunicativi assai diversi, che renderanno ancora più difficile governare il molteplice. L’errore più grave sarebbe quello di ostinarsi a ignorare il nuovo, di nasconderlo per paura di mettere in discussione vecchie certezze consolidate, che, peraltro, spesso sono state ammantate della forza del mito[23].

Il giurista deve coltivare onestà intellettuale, sforzandosi umilmente di cogliere con la maggiore obiettività possibile il senso e la portata dei cambiamenti in atto. Il primo passo consiste sicuramente nell’avere il coraggio di riuscire ad andare oltre le coordinate ricevute dalla tradizione, elaborando dei salti di paradigma che consentano di “vedere” con occhi diversi realtà diverse. Un’operazione sempre necessaria quando si è di fronte a svolte importanti, che non possono essere affrontate al livello degli approcci mentali del passato. La flessibilità, la gradualità, la proporzionalità, il rifiuto della rigida logica binaria, l’approccio fattuale, che appaiono come un generale contrassegno della postmodernità giuridica, la quale in ciò recupera, peraltro, una visione premoderna del diritto, possono certo preoccupare per la componente di relatività e di incertezza che introducono nella regolazione dei rapporti umani; ma si possono rivelare, proprio in ragione di queste loro intrinseche caratteristiche, strumenti utili per adattare meglio l’applicazione del diritto alla concretezza dei fatti della vita.

I settori che affidano la regolamentazione del diritto alla volontà dei privati se ne giovano da tempo con vantaggio Il profondo mutamento di prospettive, il diverso modo di porsi di fronte al diritto e di concepirlo che caratterizza la postmodernità giuridica non rappresenta però né il frutto di un cambiamento repentino, né un fatto culturalmente isolato. Non è il frutto di un mutamento repentino, anche se oggi si fa certamente sempre più accelerato, perché si colloca all’interno della linea che si è venuta tracciando nel corso del Novecento, a partire dall’enunciazione della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici da parte di Santi Romano, che contraddiceva il disegno illuminista dello Stato quale unico monopolistico produttore di diritto, per passare poi al paradigma della Costituzione rigida, che metteva in crisi il primato della legge, costringendola a conformarsi ai suoi princìpi fondamentali, per giungere, ancora, al riconoscimento del valore creativo della giurisprudenza e alla consapevolezza, sviluppata soprattutto dalla corrente filosofica dell’ermeneutica[24], che il testo della norma trova completamento e compiutezza solo attraverso la mediazione dell’interprete[25], fino ad approdare all’avvento del diritto europeo – quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prima e quello dell’Unione poi – che ha sviluppato in modo conclamato e anche con accenti nuovi quel mutamento globale che era stato preparato nel tempo, scardinando gli assetti ereditati dalla concezione positivistica ottocentesca della legge e dello Stato. Con la sua primazia e la sua forza di incidenza sui diritti nazionali il diritto dell’Unione costringe ormai anche il giurista più riottoso a prendere atto di una realtà profondamente mutata. Infine, l’ultima tappa di questo percorso porta all’apertura verso un diritto “globale”, enfatizzando su scala mondiale il carattere pluralistico del diritto postmoderno.

Autorevole dottrina ha descritto il fenomeno cui stiamo assistendo in termini di “eclissi del diritto civile”, in cui i principi costituzionali, la giurisprudenza creativa di tipo “rimedialista” e il diritto privato europeo, soprattutto nella sua elaborazione da parte della Corte di Giustizia, determinano tre principali conseguenze: una perdita della neutralità del formalismo pandettistico; la sostituzione di una sussunzione del fatto nella fattispecie con un apprezzamento del fatto medesimo alla stregua di un valore; il passaggio da una regolamentazione neutrale, secondo fattispecie scandite dalla legge, a un rimedialismo più vicino ai bisogni, ma non avallato da una distinta scelta legale, il tutto a scapito del principio di legalità. Principi come la solidarietà, l’eguaglianza, la funzione sociale, la tutela della persona, ossia quelle clausole generali di cui, come sopra visto, parla Natalino Irti, vengono usati come «specchi deformanti degli istituti, sobri nella loro coerenza, del diritto civile»[26].

Perde rilievo la funzione della norma legale, che regola i rapporti attraverso il meccanismo della sussunzione; cresce invece la pratica del bilanciamento, in cui l’interprete, se non è chiara la gerarchia tra i principi bilanciati, con la sua scelta concorre a produrre la norma. Viene alla luce un problema che pare destinato a non trovare mai soluzione: se l’excursus storico permette di inquadrare l’origine e l’evoluzione della questione, mettendone in risalto gli aspetti più problematici, sul piano della prassi (o tecnica) giuridica, il discorso sembra naufragare sullo scoglio di un’incomunicabilità di fondo tra posizioni che, partendo da presupposti antitetici ed applicando metodi divergenti, rimangono l’una di fronte all’altra senza pervenire ad alcun compromesso. D’innanzi al medesimo fenomeno giuridico, infatti, alcuni parlando delle storture di una giurisprudenza creativa, mentre altri guardano con favore a quel procedimento ricognitivo che permette di estollere dal magma sociale un diritto già formatosi nei fatti.

Conviene forse rimanere sul piano del discorso filosofico, dove la comunicazione è sempre possibile. In tale ambito, è consentito muoversi, come fa Jürgen Habermas[27], lungo un percorso discorsivo che incorpora in sé la premessa secondo la quale «nella dimensione dell’obbligatorietà giuridica, la tensione fattualità/validità non può essere cancellata». Di fronte ai due corni di un dilemma si possono adottare due diverse strategie. Per un verso si possono afferrare le corna e tentare di dimostrare che una o entrambe le opzioni non sono corrette; differentemente si può passare in mezzo alle corna mostrando che non si è di fronte a una realtà alternativa, poiché ve ne sono di intermedie o ulteriori, ovvero che le premesse delle opzioni non stanno tra loro in relazione vicendevolmente escludente (aut-aut) bensì includente (vel-vel).

La funzione politica del diritto non può esercitarsi in un altrove estraneo alla realtà che intende amministrare, facendo calare le sue norme come da un mondo iperuranico. All’origine e al termine della prassi giuridica, dalla formazione all’applicazione del diritto, vi è un soggetto consapevole inserito in una comunità (mutevole) discorsivamente relazionata. Pertanto, come insegna Habermas, che si parta dal fatto oppure dalla norma non importa, se si ragiona con quella circolarità per cui ciò che conferisce legittimità e validità non è altro che il principio democratico.

Se la tentazione è antica, il pericolo rappresentato dal nuovo paradigma è radicalmente più grave rispetto al passato, in relazione ai mezzi enormemente più potenti che l’uomo oggi annovera a sua disposizione rispetto alle epoche precedenti. Attraverso la manipolazione diretta sulle fonti della vita, attraverso le molteplici modalità oggi tecnicamente possibili, un potere immenso è stato concesso agli stregoni della nuova religione, a quegli uomini che vogliono sacrificare a “Gaia”, sentendosi in “diritto” addirittura di selezionare, in base a criteri di convenienza utilitaristica, l’umanità futura.

Impedire con la forza del diritto che uomini irrispettosi del limite si approprino e usino di tali poteri, contro il principio di prudenza e di cautela, nel disprezzo della sacralità della vita e della dignità dell’uomo, è compito da svolgere con umiltà e fermezza[28].

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

 

[1] G. Chiurazzi, Il postmoderno, prima ed., Milano 2002, p. 12.

[2] E. Lecaldano, La riflessione sulla morale tra bioetica ed etica teorica, in La filosofia italiana in discussione, a cura di F.P. Firrao; prima ed., Milano 2001, p. 164; Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, prima ed., Milano, 2002, p. 273.

[3] F. Ost – M. van De Kerchove, De la pyramide au réseau?, Bruxelles, Publications de Facultés universitaires Saint Luis, 2002.

[4] J. Borrego, Il tribunale europeo dei diritti dell’uomo e l’Interpretazione “creativa” della Convenzione Edu, in L-JUS, 1/2019, p. 7; S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, p. 10 ss.

[5] D. Airoma, Dai «Tribunali di Babele» alla Babele del diritto, Cristianità, n. 377/2015.

[6] R.E. Kostoris, Processo penale, diritto europeo e nuovi paradigmi del pluralismo giuridico postmoderno, in Riv. it. di dir. e proc. pen., 2015, p. 1185 ss.

[7] H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 358 ss., traduzione di Gianni Vattimo, Collezione Studi, Milano, 1983-2001.

[8] E. Lecaldano, Etica, Torino, 1995, pp. 1-15;

[9] N. Irti, Il diritto nell’età della tecnica, Napoli, 2007, p. 41. Sul paradigma tecnoscientifico vedi J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino, 2002; H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, 1993; N. Irti – E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari, 2001.

[10] C. Zuccaro, Bioetica e valori nel postmoderno in dialogo con la cultura liberale, Brescia, 2003, pp. 13-14.

[11] E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, vol. 1, in Vita e Pensiero, Milano, 1994, p. 541.

[12] C. Zuccaro, op. cit., p. 82.

[13] M. Ronco, Intervento tenuto il 10 dicembre 2010 durante il Convegno Nazionale di Studio sul tema

Identità sessuale e identità della persona, organizzato dall’UGCI, dal 9 all’11 dicembre 2010.

[14] M. Ronco, L’indisponibilità della vita: assolutizzazione del principio autonomistico e svuotamento della tutela penale della vita, in Cristianità, 2007 (n. 341-342).

[15] A. D’Aloia, Norme, giustizia, diritti, nel tempo delle bio-tecnologie: note introduttive, in Id. (a cura di), Bio-tecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia costituzionale, in Atti del seminario di Parma, svoltosi il 19 marzo 2004, Torino, 2005, XI, XII.

[16] G. Baldini, Riflessioni di biodiritto, cit., p. 7 e p. 14 ss., Padova, 2019.

[17] V.R. Potter, Bioetica ponte verso il futuro (1971), tr. it., Messina, 2000.

[18] L. Palazzani, Introduzione alla biogiuridica, Torino, 2002; D. Folscheid – B. Feuillet-Le Minter- J.F. Mattéi, Philosophie et droit de l’éthique médicale, PUF, Paris, 1997; G. Hottois, Essais de philosophie bioéthique et biopolitique, Vrin, Paris, 2000; L. Lombardi Vallauri (a cura di), Il meritevole di tutela, Milano, 1990; A. Ollero, Derecho a la vida, derecho a la muerte, Rialp, Madrid, 1997; A. Tarantino, Diritti umani e questioni di bioetica naturale, Milano, 2003; D. Vila-Coro, Introducción a la biojurídica, Universidad Complutense, Madrid, 1995; F. Viola, Dalla natura ai diritti. I luoghi dell’etica contemporanea, Roma, 1997; E. Sgreccia – G.P. Calabrò (a cura di), I diritti della persona nella prospettiva bioetica e giuridica, Cosenza, 2002; E. Sgreccia – M. Casini, Diritti umani e bioetica, in «Medicina e Morale», 1, 1991, pp. 17-47.

[19] M. Ronco, Il diritto al servizio della vita o contro la vita?, in  Cristianità, n. 328, 2005; J. Seifert, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana, in Pontificia Academia pro Vita, Natura e dignità della persona umana a fondamento del diritto alla vita. Le sfide del contesto culturale contemporaneo. Atti dell’Ottava Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita, Città del Vaticano, 25-27 febbraio 2002, edito da J. de Dios Vial Correa e E. Sgreccia, Libreria Città del Vaticano, 2003, pp. 193-215.

[20] F. D’Agostino, Filosofia del diritto, Torino, 2001; Id., Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino, 1997.

[21] S. Amato, Biogiurisprudenza. Dal mercato genetico al self-service normativo, Torino, 2007.

[22] F. D’Agostino, Dalla bioetica alla biogiuridica, in S. Biolo (a cura di), Nascita e morte dell’uomo. Problemi filosofici e scientifici della bioetica, Genova, 1993, pp. 137-147.

[23] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001.

[24] R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, p. 90 ss.

[25] C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015.

[26] N. Irti, La crisi della fattispecie, in Id., Un diritto incalcolabile, Torino, 2016.

[27] J. Habermas, Fatti e norme, Roma-Bari, 2013, p. 49.

[28] M. Ronco, Il diritto al servizio della vita o contro la vita?, op.cit.