Francisco Javier Borrego Borrego
Già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo

Il tribunale europeo DEI DIRITTI DELL’UOMO e l’Interpretazione “CREATIVA” della Convenzione eDU*

Sommario: 1. Introduzione – 2. Le foglie esterne: il recepimento e l’applicazione delle sentenze della Corte – 3.  Le foglie intermedie: il contenuto delle sentenze – 4. Le foglie vicine al cuore: i giudici della CEDU – 5. Il cuore: il sistema della Convenzione.

 

  1. Introduzione

 

L’impegno assunto dagli Stati che hanno ratificato la Convenzione e hanno scelto di sottomettersi alla giurisdizione del Tribunale è vincolato a “una concezione comune e un comune rispetto dei diritti dell’uomo”, che sono precisamente, come recita l’art. 1 della Convenzione, “i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della presente Convenzione”.

L’itinerario è chiaro: ci sono Stati europei che hanno una comune concezione e un comune rispetto dei diritti dell’uomo. Questi diritti sono definiti in un trattato denominato CEDU-Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Gli Stati si impegnano solennemente a riconoscere a ogni persona soggetta alla loro giurisdizione la protezione dei detti diritti dell’uomo, che hanno una comune concezione e un comune rispetto nelle Parti Contraenti. Terzo e ultimo passo nell’itinerario: gli Stati istituiscono un Tribunale per assicurare la realizzazione dell’impegno delle Parti Contraenti.

Teoricamente è perfetto. Loro tuttavia non sono qui per ascoltare la teoria, bensì la realtà, e se e quanto la realtà sia difforme rispetto alla teoria. Un grande regista cinematografico nordamericano, Cecil B. de Mille, diceva che per attrarre l’attenzione del pubblico un film dovrebbe iniziare con un terremoto e da lì in avanti andare in crescendo. Seguendo il suo suggerimento, inizierò con i noti Saggi de Il Federalista e con una affermazione dell’ex Presidente del Comitato Consultivo di esperti sulle candidature a giudici del Tribunale europeo. Nel Saggio 74 de Il Federalista Alexander Hamilton scrive: «I tribunali devono esprimere il significato delle leggi; e se fossero disposti ad esercitare la volontà invece del giudizio, la conseguenza sarebbe che il desiderio dei tribunali sostituirebbe il desiderio del corpo legislativo». Quando i tribunali si comportano così si dice che pratichino il cosiddetto attivismo giudiziario. Siamo nel secolo XXI, i giudici “attivisti” non hanno una buona fama. Ora invece dell’attivismo giudiziario esiste la c.d. “creatività giudiziaria”, che è la stessa cosa con una nuova maschera. Mr. John Murray, allora Presidente del Comitato Consultivo per la scelta dei giudici, nel marzo 2016 diceva al Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa che «the Convention means what the judges say it means».

I giudici, con la creatività giudiziaria, stanno scrivendo di fatto una nuova Convenzione, con diritti che la Convenzione non definisce, ma che essi sostengono essere contenuti nella loro interpretazione della Convenzione. I giudici, precedentemente chiamati giudici “attivisti”, e ora “creativi”, dicono che realizzano una interpretazione dinamica della Convenzione. Perché dinamica? Perché secondo loro la Convenzione è uno strumento vivo che deve essere interpretato nel momento attuale. Per tentare di spiegare bene la realtà della Corte di Strasburgo, mi permettereste di paragonarla a un carciofo al quale poco a poco andremo togliendo le foglie.

 

  1. Le foglie esterne: il recepimento e l’applicazione delle sentenze della Corte

 

L’articolo 46 della Convenzione obbliga gli Stati a “conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”. La Corte non controlla l’esecuzione delle sue sentenze: l’originalità nella sua creazione portò ad attribuire al Comitato dei Ministri, organo politico del Consiglio d’Europa, il compito della verifica dell’applicazione (art. 46). Il sistema funzionò in modo accettabile finché arrivò una sentenza contro il Regno Unito nel 2005, la sentenza Hirts, che qualificava violazione della Convenzione la proibizione di votare ai detenuti. Ricordo l’irritazione britannica per questa sentenza tanto che si arrivò a criticare il fatto che una giudice di un “tiny (minuscolo) State” (San Marino), osasse ordinare al Regno Unito che cosa dovesse fare.

Il Regno Unito all’epoca non disse che non avrebbe applicato la sentenza. La risposta fu molto “british”: informò che un Comitato avrebbe studiato come dare seguito alla sentenza per autorizzare i detenuti a votare. Sono passati più di dieci anni dalla sentenza Hirts e oggi sono cinque le sentenze della Corte su questo argomento, la prima Hirts del 2005 e l’ultima Millbank del 2016: tutte dichiarano la violazione della Convenzione, ma gli inglesi non vi hanno dato seguito e il Comitato dei Ministri nel dicembre del 2015, quando ancora non era stata emessa la sentenza Millbank, esprimeva “la sua profonda preoccupazione in quanto rimane in vigore la proibizione generale del voto per i detenuti” (Risoluzione provvisoria CM/ResDH (2015) 251, del Comitato dei Ministri nella sua 1242 riunione dei Delegati dei Ministri che spostò l’esame di questi casi al più tardi a dicembre del 2016). Cosa accadde nell’ultima riunione del Comitato dei Ministri del 2016? Il governo del Regno Unito con tutta chiarezza disse che non poteva eseguire le sentenze in quanto il Parlamento si opponeva a modificare la norma che proibisce il voto ai detenuti, e che chiedeva altri dodici mesi per esaminare possibili opzioni su questo argomento: nel dicembre 2017, più di dodici anni dopo la sentenza Hirts. E nel Regno Unito i detenuti continuano a non poter votare.

Perché questo accade? Perché, su istanza del Regno Unito, l’articolo 46 della Convenzione venne modificato con il Protocollo 14. Conformemente a questa modifica, entrata in vigore il 1° giugno 2010, venne introdotto un curioso meccanismo: il Comitato dei Ministri, dopo aver verificato che uno Stato rifiuta di applicare una sentenza, può decidere, a maggioranza dei due terzi dei suoi membri, di trasmettere il problema alla Corte: se non viene constatata la violazione la Corte chiude il caso, se viene constatata la violazione (in tal caso, dell’articolo 46.1 della Convenzione) rimette il caso al Comitato dei Ministri perché “esamini i provvedimenti da prendere”. Un terzo dei membri del Comitato dei Ministri, corrispondente a 16 Stati, può bloccare la dichiarazione di violazione e l’invio alla Corte: nel frattempo il caso prosegue nell’agenda del Comitato dei Ministri con esame periodico.

 

  1. Le foglie intermedie: il contenuto delle sentenze

 

Nelle sentenze di Strasburgo i giudici in dissenso dalla maggioranza possono esprimere la propria opinione dissidente o concorrente: nella pubblicazione della sentenza sempre viene riportato se è stata emessa all’unanimità, o in caso contrario il numero di voti a favore e contro. Invece la Corte di giustizia dell’Unione Europea con sede a Lussemburgo non permette che siano resi pubblici i voti in dissenso, e non precisa se la sentenza sia stata emessa all’unanimità o a maggioranza. Personalmente preferisco il sistema di Strasburgo. Può avere qualche inconveniente, ma la giustizia che si amministra è più trasparente. In alcune occasioni il detto latino “excusatio non petita, accusatio manifesta” compare nel sistema di Strasburgo. Nel gennaio 2015 in occasione dell’apertura dell’Anno Giudiziario, il Presidente della CEDU, il giudice lussemburghese Spielmann affermò: «Il nostro compito (quello del Tribunale) non è essere popolare». E aggiunse: «Gli Stati ci accusano di attivismo quando sentenziamo contro di essi». Questa idea fu ribadita dalla sua collega dell’Estonia Laffrange durante il seminario in occasione di tale apertura, riconoscendo che «le vecchie democrazie hanno iniziato a mostrarsi ogni volta più reticenti nell’accettare le decisioni della Corte sulle questione politicamente sensibili».

 Un buon esempio di questa critica al Tribunale lo abbiamo nella sentenza Lautsi contro Italia del 3 novembre 2009. All’unanimità una sezione constatò la violazione della Convenzione per il fatto che venisse autorizzato un crocifisso in uno spazio pubblico, l’aula di una scuola. Questa sentenza, molto lodata dai sedicenti progressisti, conobbe un’impressionante reazione di rigetto; ricordo come un giudice mi mostrava un amplissimo dossier di stampa di tutto il mondo, e mi diceva: «siamo sull’orlo del precipizio».  Un anno e mezzo dopo la Grand Chambre annullò questa sentenza con una maggioranza ampia.

Le sentenze della Corte EDU si occupano sempre di più non dell’applicazione dei diritti umani stabiliti dalla legge interna, bensì della conformità della legge interna con la Convenzione, cioè se il frutto del lavoro del Parlamento nazionale è accettabile alla luce della Convenzione. Così nel caso Sejdic e Finci contro la Bosnia-Erzegovina (2009), la Corte verificò la Costituzione bosniaca, redatta a seguito dell’Accordo di Dayton del 1995, e concluse con una sentenza per la violazione della Convenzione alla stregua di una presunta discriminazione tra i chiamati a partecipare alle elezioni. Il giudice maltese Bonello terminava la sua dura opinione in dissenso verso tale pronuncia con la frase: «Non posso dare la mia adesione a una Corte che semina ideali e raccoglie stragi».

Nel caso Vallianatos e altri contro la Grecia (2013), la Corte decise che una legge che autorizzava le unioni di fatto esclusivamente tra persone di sesso diverso era contraria a la Convenzione per discriminazione in relazione al diritto al rispetto della vita privata (art. 8 della Convenzione). Nel suo voto in parziale dissenso, il giudice portoghese Pinto de Alburquerque espresse l’opinione che non erano state esaurite le vie interne, e affermò che «la Grand Chambre della Corte, nel valutare di essere competente, si comportò come un “legislatore positivo”, rispondendo alla diretta richiesta dei ricorrenti. Neppure Hans Kelsen, l’architetto del sistema di revisione giudiziaria costituzionale concentrata, ha potuto sognare che un giorno si facesse questo passo in Europa».

Nel caso Parrillo contro Italia (2015) la Corte ha affrontato la questione se un embrione sia un bene nel senso dell’art. 1 del Protocollo 1, e ha concluso all’unanimità che, dato il rilievo economico e patrimoniale legato a questo articolo, il ricorso era inammissibile. L’esame riguardava la conformità alla Convenzione di una legge del Parlamento italiano, la legge n. 40 del 14 febbraio 2004, che tra l’altro proibisce la sperimentazione sull’embrione umano.

Le sentenze di Strasburgo entrano sempre di più in temi delicati e sensibili, come la vita, il matrimonio, e così via, e interpretano il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 della Convenzione come se fosse un diritto “periferico”[1]. Così fa Strasburgo: davanti a un caso giudiziario che attiene al diritto alla vita o al matrimonio, invece di esaminarlo dal punto di vista degli art. 2 o 12, preferisce applicare l’art. 8, che attiene alla vita privata e familiare. In questo modo la Corte decide casi molto sensibili, riguardanti per esempio l’aborto, senza compararli col diritto alla vita, bensì riferendosi a un diritto “periferico”, in questo caso la privacy. Ancora un esempio: il caso Paradiso e Campanelli contro Italia, sui figli nati da utero in affitto. Il diritto applicato fu il diritto privato e familiare (art. 8), non il diritto alla vita o la tutela del matrimonio: per cinque voti contro due una sezione della Corte sentenziò la violazione dell’art. 8; due anni più tardi la Grand Chambre sentenziò con undici voti contro sei che non ci fosse violazione dell’art. 8. Altro esempio: Tysiac contro la Polonia, sull’aborto; la Corte decise con sei voti contro uno che la Polonia aveva violato l’art. 8 della Convenzione non permettendo l’aborto che richiedeva la donna. La Polonia non chiese il riesame del caso davanti alla Grand Chambre.

 

  1. Le foglie vicine al cuore: i giudici della CEDU

 

Ci sono persone ossessionate dalla questione del numero di giudici donne che devono far parte della Corte. È una preoccupazione curiosa, perché la Corte prova a presentarsi come un organo asessuato. Questo accade da quando in una riunione plenaria nel 2007, i giudici con una ristretta maggioranza decisero di sopprimere i titoli di cortesia dei giudici nelle sentenze. Personalmente reagii contro questa risoluzione nella sentenza Kafkaris contro Cipro. Questa assenza di Monsieur/Madame crea difficoltà per conoscere il sesso di giudici con nomi non frequenti. Se quello che si pretende con questa soppressione del titolo di cortesia è dimostrare che non c’è differenza nel giudicare tra un giudice uomo e una giudice donna, perché quest’ansia perché la Corte sia composta da più donne?

Seconda la mia modesta opinione e in base alla mia esperienza come Giudice della Corte, la distinzione più importante da operare è fra “giudici pratici” (giudici, pubblici ministeri o avvocati) e “giudici teorici” (professori). I professori di solito non conoscono la realtà giudiziaria, e da Strasburgo non si possono decidere casi senza conoscere come è un sistema giudiziario, come funzionano i Tribunali. Oggi a Strasburgo ci sono più giudici teorici che pratici. Ricordo la mia opinione in dissenso nel caso Königc contro Slovacchia (2004): un accusato nell’esercizio del suo diritto all’ultima parola nel processo per affermare di essere innocente e per chiedere la libertà. Secondo i miei colleghi la Corte, invece di pronunciare la sentenza, avrebbe dovuto risolvere prima circa la richiesta di libertà che aveva presentato l’accusato con il ricorso!

 

  1. Il cuore: il sistema della Convenzione

 

È ancora necessaria la Corte EDU? Secondo la mia opinione decisamente sì. Gode di buona salute il sistema? Relativamente.

Soffre della malattia di Giano, il dio romano con due facce: una faccia indica la porta aperta (Patulsius) e l’altra la porta chiusa (Clausius). Nella giurisprudenza di Strasburgo è frequente l’applicazione del cosiddetto “margine di valutazione” degli Stati, ovvero rispettare l’interpretazione realizzata per via interna, con attenzione alla prossimità con il caso e con le differenti identità culturali e tradizionali.

La Corte ha posto la sua faccia Clausius su una serie di sentenze “sensibili” e, senza tener conto del margine interno di valutazione, impone la sua visione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. Questa malattia può portare a una perdita di credibilità della Corte e a un rifiuto di essa in quanto esercita una “creatività giudiziaria” dei diritti: questa è una realtà della quale sono coscienti nella Corte. Ma sono disponibili ad affrontarla? Dipende dalla personalità della CEDU, che altro non è se non l’insieme delle personalità dei giudici. Un esempio: secondo l’art. 12 della Convenzione «uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto». Una donna che aveva contratto matrimonio con il rito gitano chiese la pensione di reversibilità. Lo Stato della Spagna non l’aveva concessa perché il matrimonio gitano non ha alcun effetto civile, ma la Corte ha deciso (2007) che il rifiuto spagnolo violava la Convenzione e che il matrimonio gitano doveva aver effetti civili. Il giudice olandese Mr. Myers affermò nella sua opinione dissenziente che «la Corte rischia di perdere la sua credibilità con sentenze come questa, in quanto la sua competenza non arriva a creare diritti, per quanto utili o desiderabili possano essere».

Come è possibile curare questa malattia? La cura è semplice. È sufficiente che gli Stati tutti e ogni singolo Stato selezioni candidati «della più alta considerazione morale e possedere i requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie o essere giuristi di riconosciuta competenza» (art. 21). Gli Stati, ogni Stato, conosce i suoi candidati. Se propone attivisti o estremisti di qualsiasi tendenza oppure sciocchi e codardi, non può poi criticare la Corte. La Corte in definitiva è ciò che gli Stati vogliono che sia.

 

* Trascrizione e traduzione della relazione svolta da Francisco Javier Borrego Borrego, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, al Convegno Giudici senza limiti? organizzato dal Centro Studi Livatino a Roma il 20 ottobre 2017 presso l’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari.

[1] È “periferica” la via che permette di passare attraverso la città aggirandola, senza entrare per il centro.