Vittorio Tusa
Avvocato in Milano

 

LA COLLEGIALITÀ NELLA CHIESA A CINQUANT’ANNI DAL CONCILIO VATICANO II*

 

Sommario: 1. Introduzione – 2. Le categorie della collegialità – 3. Istituzioni in aiuto al Romano Pontefice – 4. La rappresentanza ecclesiale – 5. Il voto ed il valore della consultazione – 6. Conclusioni.

 

  1. Introduzione

 

La collegialità è una dimensione costitutiva del governo della Chiesa, ed è radicata nei principi teologici ontologici dell’organizzazione ecclesiale, primo fra tutti quello di comunione. Il principio di collegialità nella storia è fondato sulla diretta volontà di Cristo, fondatore e Pastore della Chiesa per l’eternità. Si fa riferimento alla chiamata degli apostoli, costituiti poi come collegio stabile, cui a capo Gesù pose Simon Pietro, principio e fondamento visibile dell’unità del Collegio e della sua volontà[1]. Il collegio apostolico continua oggi nel Collegio dei Vescovi, cui a capo è posto il romano Pontefice, successore di Pietro. L’equilibrio tra primato e collegialità ed il fondamento sacramentale di tale rapporto, e del potere stesso nella Chiesa, costituiscono un tema di centrale interesse per il canonista e per la comprensione della comunione ecclesiale.

Il Collegio dei Vescovi, il cui capo-membro è il Sommo Pontefice, esercita la sua potestà suprema sulla Chiesa universale in modo solenne nel Concilio ecumenico[2]. Sulla base di tale disposizione è possibile affermare che la realtà teologica del Collegio dei Vescovi, che ha fondamento direttamente nel diritto divino[3], non si esaurisce nell’istituto del Concilio ecumenico che, sebbene si radichi nel diritto divino, costituisce una configurazione giuridica di diritto umano. Lungo la storia della Chiesa i Concili ecumenici hanno avuto forme giuridiche differenti, però in ciascuno di essi si riscontra la presenza di alcuni elementi costanti. Il Concilio si è sempre caratterizzato come assemblea solenne di tutti i Vescovi, e le sue decisioni, di grande importanza per l’intera Chiesa, per essere vincolanti nei confronti di tutti i fedeli devono essere approvate dal Pontefice insieme con i Padri conciliari, ed infine confermati e promulgati personalmente dal Papa[4].

Il Collegio può inoltre esercitare la stessa piena potestà sulla Chiesa universale mediante l’azione congiunta dei Vescovi di tutto il mondo, quando essa è recepita liberamente o indetta dal Papa. Anche in tale caso si realizza un atto propriamente collegiale. Perciò si può affermare che la potestà suprema del Collegio Episcopale si esercita collegialmente in senso stretto anche in modo non solenne, extraconciliare[5]. Ciò avviene quando «dispersi per il mondo, conservando il legame di comunione fra di loro e con il successore di Pietro, convergono in un’unica sentenza da tenersi come definitiva nell’insegnare autenticamente insieme con il medesimo Romano Pontefice una verità che riguarda la fede o i costumi»[6].

Alla luce di quanto illustrato circa l’esercizio della potestà suprema da parte del Collegio dei Vescovi, atteso che il Pontefice, Pastore Supremo della Chiesa universale, ha potestà piena e suprema sull’intera Chiesa, verrebbero ad individuarsi due soggetti dotati di potestà suprema. Tale contraddizione è soltanto apparente in quanto il Collegio si riunisce insieme al suo capo e mai senza di esso, perciò la distinzione nell’esercizio della potestà suprema non è da intendersi tra Pontefice e Collegio[7], ma piuttosto tra Pontefice singolarmente e Collegio riunito cum Petro et sub Petro. Con riferimento al Concilio ecumenico si può infatti affermare che il rapporto con il Papa è condizione di validità e legittimità dell’assemblea e delle relative deliberazioni[8].

Nel Concilio ecumenico il voto ha carattere deliberativo. Tale profilo porta a distinguere nettamente il Concilio dalle altre forme collegiali a carattere consultivo, concepite in aiuto al Pontefice per il governo della Chiesa universale. In dottrina, anche sulla base del suddetto carattere distintivo, si è così affermata la categoria della collegialità in senso stretto.

Se il Concilio ecumenico è in grado di rappresentare interamente l’Episcopato in quanto riunisce tutti i Vescovi del mondo insieme al Romano Pontefice, il Collegio può riunirsi in ulteriori modi che esprimono, seppur parzialmente, la dimensione collegiale.

Il primo tra essi è il Sinodo dei Vescovi[9], istituito da Papa Paolo VI con il Motu Proprio Apostolica sollicitudo nel 1965. Tale organismo di natura consultiva in aiuto al Romano Pontefice ha sollevato un intenso dibattito dottrinale, al culmine del quale si colloca la discussa mancata concessione di potestà deliberativa in relazione alla ridotta capacità rappresentativa. Se il Codice dell’83 disciplina espressamente la possibilità, da parte del Pontefice, di delegare discrezionalmente potestà deliberativa al Sinodo, parte della dottrina ha rilevato l’opportunità di sancire a livello normativo la sua funzione strutturalmente consultiva[10].

Proprio in merito al carattere consultivo del Sinodo dei Vescovi, discriminante è la mancanza di un’esatta identificazione tra i membri che compongono il Sinodo e l’Episcopato nella sua interezza. Se da un lato il decreto conciliare Christus Dominus afferma che il Sinodo esprime come tutti i Vescovi partecipano alla comunione gerarchica nella sollecitudine per la Chiesa universale[11], il citato Motu Proprio Apostolica sollicitudo, più che evidenziare il profilo collegiale dell’istituzione sottolinea il suo compito di coadiuvare il Pontefice nell’esercizio della potestà primaziale, cioè in funzione di aiuto al munus petrinum. I pareri del Sinodo dei Vescovi, se formalmente hanno una natura consultiva, certamente sul piano sostanziale posseggono una particolare e rilevante autorità ecclesiale in virtù dell’organo che li ha emanati[12].

In tema di prospettive di riforma si è auspicato in dottrina, riscontrando le istanze di revisione da più parti avanzate, un ampliamento della partecipazione oltre ai Vescovi, così da ricomprendere e rispecchiare la pluralità dei carismi presenti nel Popolo di Dio, esprimendo in tal modo la dimensione più prettamente sinodale e comunionale dell’istituzione. Si rilevano inoltre richieste di attribuire maggiori responsabilità al Sinodo, riconoscendogli potere deliberativo, fino a tramutarlo in una forma ristretta di Concilio ecumenico[13].

Ulteriori manifestazioni collegiali a livello universale, ma con capacità di esprimere solamente un giudizio consultivo in aiuto al Pontefice, così come il Sinodo dei Vescovi, sono il Collegio cardinalizio, ed il Consiglio di Cardinali, istituito da Papa Francesco nel 2013.

Il Concistoro cardinalizio[14], di millenaria tradizione, nacque letteralmente come “consiglio del Pontefice”. Dopo un lungo periodo di progressivo svuotamento della sua funzione attiva con riduzione del potere ad atti solenni e formali[15], al Concistoro, per quanto concerne il suo ruolo collegiale, rimaneva la competenza di eleggere il Pontefice ed i poteri da esercitare in caso di vacanza della Sede Apostolica[16].

A partire dal Concilio Vaticano II, si riscontra una “reviviscenza[17] del Collegio cardinalizio, convocato con maggiore intensità per affrontare questioni di grande rilievo per la Chiesa (si rammenti il Concistoro del 20 febbraio 2014 in vista del Sinodo Straordinario sulla famiglia), divenendo uno strumento centrale di consultazione in aiuto al Romano Pontefice.

 

  1. Le categorie della collegialità

 

Prima di evidenziare le principali categorie della collegialità, occorre preliminarmente sottolineare che il concetto di collegialità eminentemente coincide, come mostrato, con quello di collegialità episcopale, tra i Vescovi ed il Pontefice.

La canonistica ha elaborato ulteriori categorie di collegialità. La collegialità episcopale, che attiene al governo della Chiesa universale, si definisce in senso stretto o stricte collegialis qualora esercitata nel Concilio ecumenico. Con collegialità in senso ampio o late collegialis[18], si individua l’esercizio, in comunione con il Papa, del magistero universale dei Vescovi sparsi in tutto il mondo, e gli altri organi-assemblee di Vescovi distinti dal Concilio Ecumenico.

Se la collegialità in senso proprio descrive essenzialmente la relazione tra il Pontefice e l’Episcopato a livello universale, nell’ambito delle Chiese particolari pur non potendosi parlare propriamente di dimensione collegiale, è possibile individuare degli organi-collegi capaci di esprimere la dimensione sinodale e comunionale della Chiesa (si pensi al Sinodo diocesano)[19]. Si fa rifermento ai metodi di corresponsabilità presbiterale, tra Vescovo e sacerdoti, e di partecipazione, suo modo et pro parte, dei laici.

Si distingue in questo modo il concetto di collegialità da quello più ampio di sinodalità, che deriva da syn-odos, cioè strada insieme. Tale termine, che vanta di una lunga tradizione risalendo alle origini della Chiesa, comunicherebbe non solo un concetto giuridico ma anche teologico e precisamente quello di communio[20].

La collegialità nella Chiesa non solo si esprime mediante organi collegiali giuridicamente strutturati e disciplinati in quanto a composizione, attività, competenze e funzionamento, ma anche come spirito collegiale[21] tale per cui, ferma l’autorità di Colui e coloro cui è stato affidato il governo pastorale della Chiesa, ciascuno concorre, secondo il ministero, l’ufficio affidatogli, ed il suo stato, all’edificazione della Chiesa comunione ed istituzione. A tal proposito si distingue la collegialitas effectiva, cioè la collegialità effettiva, dalla collegialitas affectiva, cioè l’affetto collegiale. Secondo il magistero pontificio, la collegialitas affectiva consiste nel “signum fraterni vinculi cordium”, il vincolo di fraternità e carità, originato dalla struttura sacramentale dell’Episcopato[22].

La collegialitas effectiva è il “principium communionis operae nostrae[23] e corrisponde alla «collegialità portata ad effetto in strutture giuridiche, così come prefigurato dal Concilio e volta per volta sancito dal diritto»[24].

La collegialità può essere quindi intesa in senso formale o sostanziale. Nel primo caso si fa riferimento all’atto di un organismo collegiale, un collegio, all’interno del quale la volontà dei singoli membri si fonde in un’unica volontà che sfocia in un atto disciplinare o dottrinale[25]. In senso sostanziale la collegialità nel governo della Chiesa è intesa come quella modalità per cui pur senza che vi sia stata l’attività di un collegio in senso stretto, una pluralità di soggetti ha concorso alla produzione di un atto che esprime la loro concorde volontà. Tale atto sostanzialmente collegiale non perderebbe la sua natura nemmeno nel caso in cui sia stato emanato da un solo soggetto.

Apprezzabile è inoltre la distinzione tra espressioni piene della collegialità ed espressioni parziali[26], intendendosi con la prima categoria il solo Concilio ecumenico ed il Collegio Episcopale, sparso nel mondo, chiamato ad un’azione congiunta.

 

  1. Istituzioni in aiuto al Romano Pontefice

Il fenomeno collegiale nella Chiesa universale non si esaurisce nella sola collegialità episcopale in senso stretto. Anzi, nel tempo presente si esprime in un’intensa attività di collegialità affettiva, tramite la convocazione di organi consultivi a “carattere collegiale”, quali il Sinodo dei Vescovi, il Collegio cardinalizio ed il Consiglio di Cardinali.

Si tratta di istituzioni sinodali in aiuto al Romano Pontefice per il governo della Chiesa universale, strumenti che si pongono a servizio del ministero petrino. Si può rilevare che nel pontificato di Papa Francesco la funzione consultiva è vissuta come momento centrale per il cammino ecclesiale.

Con particolare riferimento al Synodus episcoporum il Santo Padre, nel discorso celebrativo per il cinquantesimo della sua istituzione, ne ha ripercorso la storia[27], ed ha indicato una strada sinodale, sia per le Chiese particolari che per la Chiesa universale: «Dobbiamo riflettere per realizzare ancor più, attraverso questi organismi, le istanze intermedie della collegialità, magari integrando e aggiornando alcuni aspetti dell’antico ordinamento ecclesiastico. L’auspicio del Concilio che tali organismi possano contribuire ad accrescere lo spirito della collegialità episcopale non si è ancora pienamente realizzato. Siamo a metà cammino, a parte del cammino».

Infatti, in una Chiesa sinodale «non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare decentralizzazione»[28].

Il Papa ha concluso ricordando che a livello della Chiesa universale «il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l’episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale[29]. Due parole diverse: “collegialità episcopale” e “Chiesa tutta sinodale”. Esso manifesta la collegialitas affectiva, la quale può pure divenire in alcune circostanze “effettiva”, che congiunge i Vescovi fra loro e con il Papa nella sollecitudine[30] per il Popolo di Dio».

Tra i temi più discussi in dottrina rimane aperto quello relativo natura collegiale del Sinodo dei Vescovi anche alla luce delle prospettive di riforma. Se il concetto di collegialità in senso stretto non ricomprende l’intera gamma ben più ampia delle esperienze sinodali, è indubbio che la collegialità esprima profondamente la dimensione della sinodalità ecclesiale.

È condivisa la distinzione tra le forme di governo universale della Chiesa, e le forme poste in aiuto al Pontefice, per il governo della Chiesa universale. Esemplare, per quanto riguarda la seconda categoria indicata, è il nuovo Consiglio di Cardinali, detto “Consiglio dei nove”, segno di una riforma in atto il cui «disegno complessivo lo si coglierà compiutamente solo alla fine»[31].

Il Papa, accogliendo il suggerimento delle Congregazioni Generali di Cardinali precedenti al Conclave, con un Chirografo ha istituito il 28 settembre 2013 il predetto Consiglio, ovvero un gruppo ristretto di membri dell’Episcopato di diverse parti del mondo, che potesse consultare, singolarmente o in forma collettiva. Con chiarezza indicava gli scopi del Consiglio, primo dei quali «aiutarmi nel governo della Chiesa universale»[32].

Un consiglio che inizialmente contava otto Cardinali consiglieri ed un Vescovo con funzioni di segretario, costituito dal Pontefice per «consigliarLo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor Bonus sulla Curia Romana»[33].

Papa Francesco ha precisato di riservarsi la possibile scelta di nuovi componenti da aggiungere al gruppo consiliare, che Egli stesso definisce essere «un’ulteriore espressione della comunione episcopale e dell’ausilio al munus petrinum che l’Episcopato sparso per il mondo può offrire». Nel corso delle sessioni tenute sino ad ora si evidenzia in particolare l’invito, quale nuovo membro, del Cardinale Segretario di Stato e la costante convocazione di diverse nuove commissioni consultive, per riferire sul proprio operato (tra queste ultime vi è la Pontificia Commissione per la tutela dei minori).

Padre Lombardi, già Direttore della Sala Stampa Vaticana, ha definito il Consiglio come nuova forma di consultazione, che arricchisce «gli strumenti già a disposizione del Santo Padre per il governo della Chiesa tramite la consultazione, l’aiuto»[34]. Non è stata perciò introdotta una nuova forma di esercizio collegiale della potestà suprema, ma si è intervenuti a rafforzare la funzione consultiva a livello della Chiesa universale.

 

  1. La rappresentanza ecclesiale

 

Rappresentanza e voto sono due elementi interdipendenti che hanno suscitato un profondo dibattito in dottrina. La rappresentanza espressa dall’organo collegiale o sinodale presenta un profilo ontologico ed un tecnico. Il prodotto della deliberazione, ossia il voto deliberativo o consultivo, diffusamente viene posto quale criterio distintivo tra ciò che è collegiale e ciò che non lo è. Una parte di dottrina differentemente si interroga se il voto sia piuttosto da considerare come modalità di espressione di ciò che è collegiale e non, distinguendosi in deliberativo e consultivo a seconda della rappresentanza espressa, che si porrebbe in tal modo come criterio discriminante.

Il Concilio ecumenico rappresenta l’Episcopato nella sua interezza, riunendo la totalità del Collegio Episcopale, ossia il Pontefice Romano e tutti i Vescovi del mondo. Il Collegio si riunisce parzialmente in altre forme – tra le quali il Sinodo – che esprimono pertanto una minore capacità rappresentativa.

Nel Concilio il voto è deliberativo. Nelle altre assemblee, a minore capacità rappresentativa, il voto ha carattere consultivo. Tale diversa potestà dipenderebbe perciò dal grado di rappresentatività collegiale dell’organo, criterio che segnerebbe il limite della collegialità in senso proprio. Il carattere deliberativo o consultivo del voto pertanto non potrebbe giustificarsi esclusivamente in base al potere riconosciuto all’organo dalla norma giuridica, secondo una logica meramente positivistica. Presupporrebbe invece sempre la capacità rappresentativa dell’organo, che pone il problema teologico-giuridico della rappresentatività del singolo Vescovo in rapporto al Collegio[35].

Una prima concezione di rappresentanza, relativa al ministero individuale e collegiale dell’Episcopato, ci viene indicata dalla Costituzione conciliare Lumen Gentium, e precisamente al punto “Sacramentalità dell’episcopato”. Il Vescovo, assistito dai sacerdoti, è colui che rappresenta il Signore in mezzo alla comunità dei credenti. I Vescovi, come afferma San Leone Magno, sono la comunità dei Suoi pontefici e, nell’esercizio dell’ufficio paterno[36], rendono Cristo presente, ovvero Lo rappresentano (re-ad-praesentàre che può essere tradotto “rendere presente di nuovo a”).

Occorre poi considerare che nella Chiesa la dinamica della rappresentazione si distingue da quella propria del parlamentarismo moderno. In quest’ultimo infatti il potere è conferito come delega da parte del popolo mediante il suffragio universale. Diversamente, nella Chiesa la sacra potestas deriva dal sacramento, e non dall’investitura da parte della comunità, ovvero ha radice sacramentale e non sociale. Il potere nella Chiesa, concepito come servizio (diakonía), si esercita in forza del sacramento dell’ordine. Esso conferisce interamente il sacro potere, che viene specificato nei suoi limiti mediante la missione canonica data dall’autorità, che è investita dell’ordine sacro. La rappresentazione infatti nella Chiesa spetta a livello universale solo al Pontefice e al Collegio, e a livello particolare al Vescovo.

Inoltre la rappresentazione nella comunità cristiana si distingue da quella parlamentare secolare, perché coincide con il concetto di testimonianza[37]. Sulla base delle predette precisazioni si può affermare che solo la testimonianza personale del Vescovo sulla fede, e su quella della sua Chiesa particolare, può avere forza vincolante. Per tale motivo il voto in un’assemblea di rappresentanti di una parte dell’Episcopato può essere (ordinariamente) solo consultivo: un Vescovo non potrebbe rappresentare in modo vincolante il giudizio di fede (il voto) di un altro Vescovo e della relativa comunità affidatagli.

 

  1. Il voto ed il valore della consultazione

 

Alla luce delle suesposte considerazioni il carattere del voto dipenderebbe dal grado di rappresentanza dell’assemblea. Oltre ad affrontare in concreto la distinzione tra voto consultivo e deliberativo, sembra utile proporre alcune riflessioni di contenuto peculiari alla realtà ecclesiale dove lo stesso si manifesta.

Il voto deliberativo dei Vescovi nel Concilio ecumenico costituisce un atto di constatazione più che di decisione. Infatti la votazione è funzionale ad esprimere che i Vescovi, e le Chiese loro affidate (che essi rappresentano in forza del loro sacro ministero), si trovano in comunione nel giudizio di fede o di disciplina. Nel Concilio, differentemente dai parlamenti, si raggiunge un giudizio comune non in base ad un “giudizio di maggioranza”[38], ma ad un “giudizio di comunione” con il Pontefice. Il voto quindi tende all’unanimità. In ciò si esprime con evidenza la differenza fondamentale tra il fatto collegiale (e sinodale) e la dinamica parlamentare. La votazione a carattere deliberativo nel Concilio non costituisce una forma di esercizio discrezionale del potere, secondo una logica volontaristica umana. Piuttosto essa esprime l’inappellabilità ed irrinunciabilità della testimonianza di fede dei Vescovi e delle Chiese da loro rappresentate. La fede non può essere definita con la volontà umana, è piuttosto un fatto preesistente. La testimonianza personale di fede, peraltro, non può essere “testimoniata” a sua volta secondo la logica della rappresentazione[39].

La peculiarità del voto consultivo nell’ordinamento della Chiesa sta nel fatto che esso non consiste in una limitazione di potere rispetto al voto deliberativo. Si esprime piuttosto come una necessità nell’ontologia della comunione che caratterizza l’intera dinamica istituzionale della Chiesa. Infatti è la modalità in cui si esprimono anche gli altri fedeli, i chierici ed i laici, che contribuiscono a livello strutturale a formulare il giudizio comune di fede dei ministri, che sono chiamati ad esprimerlo per tutti in modo vincolante. Nella logica di comunione ecclesiale i sacri ministri tengono conto del “sensus fidei” – che si radica nel sacramento comune del battesimo – perché esprime un’opinione su fede e disciplina[40]. Il giudizio in fede e dottrina diviene comune e valido per tutti solo con l’intervento della parola e della testimonianza del Vescovo.

Quindi sia voto deliberativo che consultivo esprimono una testimonianza di fede, che non segue la mera logica del potere. Anche il più piccolo tra i fedeli può testimoniare la verità della fede. A coloro che detengono l’autorità nella Chiesa «spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (1 Ts 5, 12 e 19-21)»[41] e compete deliberare il giudizio di comunione.

In concreto, come evidenziato nel precedente paragrafo, elemento discriminante per il carattere consultivo del voto del Sinodo dei Vescovi è la mancanza di un’esatta identificazione tra i membri che compongono il Sinodo e l’Episcopato nella sua interezza. Il fatto che sia il Decreto Christus Dominus che il Motu Proprio Apostolica Sollicitudo affermino che il Sinodo dei Vescovi rappresenti “tutto l’episcopato cattolico[42], deve intendersi teologicamente come richiamo alla dimensione della collegialità affettiva[43] (sollecitudine del Vescovo per l’intera Chiesa) e non a quella effettiva (in senso stretto, ovvero quando il Collegio si riunisce per intero mediante il Concilio). In effetti il Codex Iuris Canonici dell’83, con riferimento al Sinodo dei Vescovi, non riporta le parole dei documenti sopra richiamati[44].

Anche sotto il profilo giuridico si può affermare che il singolo Vescovo, a capo di una Chiesa particolare, esercita la potestas sacra individualmente solo sulla determinata porzione di popolo di Dio affidatagli. Non esercita il governo pastorale sulle altre Chiese locali, né da solo sulla Chiesa universale[45]. I Vescovi presenti nel Sinodo quindi non potrebbero rappresentare l’intero Episcopato cattolico – anche la porzione non presente – con atti di governo universale della Chiesa, ma lo rappresenterebbero in quanto (e nel senso di essere) chiamati ad avere quella sollecitudine nella carità nei confronti dell’intera Chiesa universale, della totalità delle Chiese particolari[46].

Con grande chiarezza Mons. W. Onclin dichiara «Se il Sinodo dei vescovi rappresentasse veramente tutti i vescovi, sarebbe come il Concilio ecumenico e dovrebbe avere voto deliberativo, e i suoi atti sarebbero collegiali. Ma questo non corrisponde alla realtà. Il Sinodo dei vescovi non si può considerare come un collegio di tutti i vescovi; sarebbe un Concilio ecumenico»[47]. La soluzione del CIC di non definire il Sinodo come rappresentante di tutto l’Episcopato cattolico sembra inoltre del tutto coerente con la fenomenologia del Sinodo stesso, che si può riunire anche solo per una determinata regione, nella forma dell’Assemblea speciale[48].

 

  1. Conclusioni

 

Primato e Collegialità sono principi di governo della Chiesa universale che solo apparentemente si pongono in contrasto tra loro. Infatti il Papa ed il Collegio, soggetti cui è affidato il governo supremo della Chiesa, sono legati da un rapporto che non si limita al piano giuridico formale, ma che si estende anche al piano sacramentale, profilo sostanziale del Collegio Episcopale. Il Pontefice e gli altri Vescovi sono legati da un vincolo fraterno, costituito dall’unico sacramento dell’ordine, nella forma più piena dell’Episcopato. Il rapporto tra loro è descritto da due elementi indissolubili, che non sono in contraddizione: la comunione e la gerarchia. La comunione gerarchica consiste essenzialmente in ciò: il Papa è Vescovo membro del Collegio, ed il Collegio non ha autorità se non in comunione con il Pontefice, successore di Pietro che detiene il potere primaziale su tutti i pastori ed i fedeli[49].

La communio permea quindi ogni ambito dell’esistenza cristiana, anche quello istituzionale. Le strutture collegiali e sinodali ecclesiali sono informate da tale principio che ne costituisce la specificità. Il giudizio di comunione, la decisione comune, non può essere ridotta ad una mero attivismo associazionistico per ottenere un deliberato, ma consiste sempre in un’esperienza di comunione, di vita comune a cui si è chiamati da Cristo stesso.

I Vescovi, che governano le Chiese particolari, nelle quali e dalle quali esiste la sola Chiesa cattolica, detengono il potere sacro sulla porzione di Popolo di Dio loro affidata. Essi rappresentano nella fede l’intera Chiesa particolare, e possono esprimere il giudizio comune della propria comunità cristiana, rimanendo sempre in comunione nella fede con la Chiesa universale. Ciò è possibile non in virtù di un mandato rappresentativo, ma mediante il sacramento. Si può dire quindi che la rappresentanza nella Chiesa si traduce sempre in una testimonianza di fede. Sul piano giuridico la rappresentanza-testimonianza del giudizio comune, esercitata dal Vescovo per la sua Diocesi, ha valore vincolante, e si traduce in un voto in seno al Collegio.

Nel Concilio ecumenico, che riunisce il Papa e tutti i Vescovi, tale voto ha valore deliberativo. La votazione nella Chiesa, anche sul piano formale, non può essere considerata meramente come affermazione di una maggioranza al pari di ciò che avviene nelle assemblee secolari. Non è solo un atto di potere, è anche un atto di constatazione di quali Chiese, rappresentate dai singoli Vescovi, hanno raggiunto un giudizio di comunione sul tema oggetto del deliberato. Nell’ambito della testimonianza-rappresentanza collegiale, la comunione con il Vescovo di Roma è per diritto divino il fattore costitutivo del rapporto stesso di comunione tra i Vescovi. La forza deliberativa del voto del Vescovo, nella prospettiva ecclesiale, non dipende da una forza di volontà umana in una logica politica, ma dal valore della rappresentanza espressa dal Vescovo per la sua comunità, che è da intendere come inappellabile, ultima. La fede peraltro può essere solo constatata, e non volontaristicamente decisa[50].

Il Romano Pontefice, nell’esercizio del proprio ministero di pastore della Chiesa universale, si avvale dell’aiuto di diversi organi a carattere collegiale, quali il Sinodo dei Vescovi, il Collegio dei Cardinali e il nuovo Consiglio di Cardinali. Non si tratta di organismi di governo universale in senso stretto, ma di istituzioni consultive in aiuto al Pontefice.

L’esercizio del voto consultivo in tali assemblee non deve essere osservato attraverso le lenti utilizzate per descrivere le dinamiche proprie delle società civili. La consultazione potrebbe infatti sembrare un’esclusione o una parziale riduzione dell’esercizio della potestas, o dell’intensità del principio di collegialità. Occorre invece considerare la natura del voto ecclesiale, che consiste nella testimonianza di fede della comunità, manifestata dal Vescovo. Il valore ontologico del voto prescinde dalla forza consultiva o deliberativa dello stesso, che dipende dal grado di rappresentanza ecclesiale dell’assemblea: integrale o più o meno ampia. Solo in tale prospettiva è possibile riconoscere il senso proprio della consultività.

La sinodalità nella Chiesa è un fenomeno che include non solo la collegialità in senso stretto, ma anche la dimensione consultiva, la collegialità affettiva. A livello strutturale è irriducibile il principio per cui il Vescovo rappresenta personalmente l’unità della sua Chiesa. La sua rappresentanza vincolante – per natura peculiare – non potrebbe essere delegata ad altri o ad una maggioranza. Tali considerazioni non escludono il valore e la ricchezza delle varie esperienze sinodali[51].

Il Consiglio di Cardinali costituisce un riscontro particolarmente attuale dell’effettività e del valore della consultazione di cui si avvale il Santo Padre. Per quanto concerne la struttura dell’organo e la sua composizione, il carattere essenziale della qualità episcopale che riveste ogni membro del Consiglio, sottolinea ulteriormente la centralità dell’elemento sacramentale nel governo della Chiesa, prima ancora di ogni altro fattore, quale potrebbe essere la dignità cardinalizia.

Il fine principale del Consilium Cardinalium Summo Pontifici è quello di aiutare il Papa consigliandolo nel governo della Chiesa universale. Ciò non solo conferma la centralità della dottrina sul Primato, ma pone in risalto anche l’elemento della fraternità episcopale – evocata dallo stesso Pontefice – che lega i Vescovi al Papa, nella responsabilità e servizio di governare la Chiesa.

Come autorevolmente confermato, il gruppo di Cardinali consiglieri è stato «costituito per offrire consigli al Papa e non per prendere decisioni proprie»[52]. Quindi «si tratta di un organo consultivo, non decisionale» che compie un’azione determinante nella Chiesa, poiché «teologicamente il consigliare ha una funzione di assoluto rilievo: aiutare il superiore nell’opera del discernimento, nel comprendere cioè quello che lo Spirito chiede alla Chiesa in un preciso momento storico. Senza questo riferimento, del resto, non si capirebbe nulla nemmeno del significato autentico dell’azione di governo nella Chiesa»[53].

Si tratterebbe anche in questo caso di atti che non sono del collegio nel suo pieno esercizio, ma che sono compiuti nel collegio[54]. Ovvero, pur non essendo evidentemente atti di tutto il Collegio Episcopale, sono atti “in un collegio”. La dimensione collegiale possiede pertanto diverse gradazioni.

A conclusione della presente riflessione si ritiene che sia possibile comprendere in profondità i concetti e gli istituti affrontati solamente considerandone la forma giuridica alla luce del significato teologico. Gli elementi teologici applicati all’analisi del rapporto tra primato e collegialità, al concetto di rappresentanza, al voto consultivo etc., hanno permesso di mettere a fuoco le peculiarità e specificità dei richiamati istituti di diritto canonico. Ogni indagine scientifica richiede un metodo adeguato all’oggetto di studio. Per la realtà ecclesiale, disciplinata da diritto divino e diritto umano, è parso pertanto efficace procedere con metodo non solo giuridico ma anche teologico. In dottrina si è peraltro affermato che il diritto canonico costituirebbe una metodologia teologica. Tra diritto e teologia non vi sarebbe un rapporto di contraddizione ma di complementarietà[55].

Fermo il diritto divino, il principio di collegialità si manifesta in istituzioni che mutano nella storia. Nella consapevolezza della responsabilità che «ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore», la speranza e l’ideale che anima la costituzione della Chiesa è che «le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica». Poiché «qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo» – afferma Papa Francesco«senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza fedeltà della Chiesa alla propria vocazione»[56].

 

* Contributo sottoposto a valutazione. Nella “Sezione Documenti”, curato dallo stesso Autore, si veda anche “Conversazione con S.E.R. Monsignor Marcello Semeraro, Vescovo di Albano – Segretario del Consiglio di Cardinali”.

[1] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, n. 18 “Affinché lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione” e n. 23.

[2] CIC, Can. 337 §1.

[3] CIC, Can. 330.

[4] G. Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, Roma, 1990, pp. 510-511. Si veda il Can. 341 §1.

[5] L. Gerosa, Il diritto della Chiesa, Como, 1995, p. 231.

[6] CIC, Can. 749 §2.

[7] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, “Nota esplicativa previa”.

[8] C. Cardia, Collegialità (diritto canonico), in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. VI, Roma, 1988.

[9] CIC, Can. 342 ss.

[10] G. P. Milano, Forme e contenuti dell’attività consultiva con particolare riguardo al collegio episcopale, in Ephemerides iuris canonici, 46, 1990.

[11] Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 5.

[12] J. I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, Milano, 1997.

[13] G. Feliciani, Le basi del diritto canonico, Bologna, 2002.

[14] CIC, Can. 349 ss.

[15] G. Feliciani, Cardinali, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. II, Torino, 1987.

[16] C. Fantappiè, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Bologna, 2011.

[17] M. Miele, “Munus petrinum” e funzione consultiva, in Diritto canonico e comparazione, a cura di R. Bertolino – S. Gherro – L. Musselli, Torino, 1992.

[18] W. Bertrams, Commentarium in litteras apostolicas ‘Apostolica sollicitudo’, in Periodica de re morali, canonica et liturgica, 1966, p. 123.

[19] CIC, Can. 460 ss.

[20] E. Corecco, Sinodalità, in AA.VV., Nuovo Dizionario di Teologia, Milano, 1985, pp. 1466-1495.

[21] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Motu Proprio Apostolos Suos, n.13, Roma, 1998 e Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, n. 23.

[22] G. P. Milano, Il Sinodo dei vescovi, Milano, 1985, p. 384.

[23] Ancora si ricorda Giovanni Paolo II, Discorso alla Segreteria generale del Sinodo del 30 aprile 1983, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI, Città del Vaticano, 1983, p. 1102. In particolare le parole “Collegialitas effectiva et affectiva Episcoporum adiuvat maxime primatiale ministerium Petrianum”.

[24] G. P. Milano, Il Sinodo dei vescovi, Milano, 1985, p. 234.

[25] W. Aymans, Diritto canonico e comunione ecclesiale, Torino, 1993.

[26] J. Manzanares, Il romano Pontefice e la collegialità dei vescovi, in A.A. Il Codice del Vaticano II. Collegialità e primato, Bologna, 1993, p. 64.

[27] Francesco, Discorso del Santo Padre di Commemorazione del 50.mo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi, Città del Vaticano, 17 ottobre 2015: «Fin dall’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell’ultima assise conciliare. Per il Beato Paolo VI, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l’immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo. Lo stesso Pontefice prospettava che l’organismo sinodale “col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato”. A lui faceva eco, vent’anni più tardi, San Giovanni Paolo II, allorché affermava che “forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente”. Infine, nel 2006, Benedetto XVI approvava alcune variazioni all’Ordo Synodi Episcoporum, anche alla luce delle disposizioni del Codice di Diritto Canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese orientali, promulgati nel frattempo».

[28] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 16, Roma, 2013.

[29] Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 5.

[30] Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Post-Sinodale. Pastores Gregis, n. 8, Roma, 2003.

[31] M. Semeraro, Curia Romana – La riforma di Papa Francesco, in il Regno, n. 14, Bologna, 2016.

[32] Francesco, Chirografo del Santo Padre Francesco per l’istituzione della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, Roma, 22 marzo 2014.

[33] Sala Stampa della Santa Sede, Bollettino, Comunicato della Segreteria di Stato, 13 aprile 2013.

[34] Sala Stampa della Santa Sede, Bollettino, Briefing del Direttore della Sala Stampa a proposito della riunione del Papa con il Gruppo degli otto Cardinali, 30 settembre 2013.

[35] E. Corecco, Ontologia della sinodalità, in Pastor bonus in Populo. Figura, ruolo e funzioni del Vescovo nella Chiesa, a cura di A. Autiero e O. Carena, Roma, 1990, pp. 303-329.

[36] 1 Cor. 4, 15.

[37] E. Corecco, Sinodalità e partecipazione nell’esercizio della «potestas sacra», in Esercizio del potere e prassi della consultazione. Atti dell’VIII Colloquio internazionale romanistico – canonistico (10-12 maggio 1990), a cura di A. Ciani e G. Duini, Città del Vaticano, 1991, pp. 69-89.

[38] J. Ratzinger, Scopi e metodi del Sinodo dei Vescovi, in A.A., Il Sinodo dei Vescovi. Natura, Metodo, Prospettive, Città del Vaticano, 1985, pp. 52-53.

[39] E. Corecco, Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?, in Strumento internazionale per un Lavoro Teologico: Communio, n. 1, 1972, p. 35.

[40] E. Corecco, Ontologia della sinodalità, in Pastor bonus in Populo. Figura, ruolo e funzioni del Vescovo nella Chiesa, a cura di A. Autiero e O. Carena, Roma, 1990, pp. 303-329.

[41] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, n. 12.

[42] Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 5: «totius Catholici Episcopatus partes agens».

[43] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, n. 22.

[44] CIC, Can. 342: “Il Sinodo dei Vescovi è un’assemblea di Vescovi i quali, scelti dalle diverse regioni dell’orbe, si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi stessi, e per prestare aiuto con i loro consigli al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi, nell’osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica e inoltre per studiare i problemi riguardanti l’attività della Chiesa nel mondo”.

[45] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, n. 23.

[46] Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 6.

[47] W. Onclin, Parere del 20 settembre 1983 accluso alla Risposta della Pontificia Commissione per la Revisione del Codice di Diritto Canonico sul canone 342 CIC.

[48] CIC, Can. 346 §3: “Il Sinodo dei Vescovi che si riunisce in assemblea speciale è composto di membri scelti soprattutto da quelle regioni per le quali il sinodo viene convocato, a norma del diritto peculiare da cui è retto il sinodo”.

[49] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, nn. 22-23.

[50] T. Bertone, Lectio magistralis in occasione dell’apertura dell’anno accademico della Facoltà di diritto canonico San Pio X, Roma, 4 dicembre 2008.

[51] M. Miele, Papa Francesco e gli sviluppi recenti del metodo sinodale, in Jus-online n. 1/2015.

[52] Sala Stampa della Santa Sede, Bollettino, Briefing del Direttore della Sala Stampa a proposito della riunione del Papa con il Gruppo degli otto Cardinali, 30 settembre 2013.

[53] L’Osservatore Romano, Intervista al sostituto della Segreteria di Stato, S.E. Mons. Angelo Becciu: la riforma di Papa Francesco, 1 maggio 2013.

[54] M. Semeraro, Mistero, Comunione e Missione, Bologna, 1996, p. 184.

[55] A. M. Ruoco Varela – E. Corecco, Sacramento e Diritto antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del Diritto canonico, Milano, 1971.

[56] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, n. 26, Roma, 2013.