Angelo Contrino
Avvocato e Professore Ordinario di Diritto tributario, Università Bocconi di Milano

Francesco Farri
Avvocato e Professore a contratto di Diritto tributario, Università Bocconi di Milano

Sommario: 1. La sostanziale estraneità al dibattito della riforma dell’IRPEF dei temi della fiscalità familiare – 2. La necessità costituzionale di una revisione del sistema dell’imposizione reddituale della famiglia – 3. L’assegno unico familiare e la sua insufficienza a rendere il sistema impositivo conforme ai principi costituzionali – 4. La necessaria introduzione di una forma di splitting dei redditi coniugali – 5. Gli ulteriori correttivi necessari – 6. Infondatezza delle tesi che vedono nello splitting dei redditi un disincentivo al lavoro femminile – 7. Le reali cause della crisi del lavoro femminile in Italia e i possibili strumenti fiscali per farvi fronte – 8. Conclusioni.

 

  1. La sostanziale estraneità al dibattito della riforma dell’IRPEF dei temi della fiscalità familiare

 

Uno degli obiettivi dichiarati della presente XVIII Legislatura è fornire al Governo in carica una delega per provvedere a una organica riforma dell’imposta personale sul reddito delle persone fisiche. Numerose sono le proposte formulate da più parti sull’argomento e approfondito appare l’esame da parte delle Commissioni Finanze della Camera e del Senato. Molteplici risultano i temi discussi, che spaziano dalle modalità di fissazione dell’aliquota progressiva alla tassazione dei redditi di natura finanziaria.

Tutto sommato assente dal dibattito, a parte rare eccezioni, rimane invece il tema del regime fiscale della famiglia.

Ciò potrebbe indurre a ritenere che il tema risulti di secondaria importanza nel contesto fiscale attuale, o che comunque esso abbia raggiunto un equilibrio tale da non richiedere particolari aggiustamenti. In verità, non è così. La Costituzione richiede di conferire alla famiglia una rilevanza centrale per l’ordinamento anche per quanto attiene alle dinamiche della finanza pubblica (artt. 29 e 31 Cost.)[1] e la giurisprudenza costituzionale, a più riprese chiamata ad affrontare l’argomento, ha costantemente evidenziato i limiti del sistema attuale e chiamato il legislatore a renderlo più adeguato ai valori fondamentali.

Vale quindi la pena esaminare nel dettaglio la questione per individuare quali possano essere gli strumenti più adeguati per rendere il regime di tassazione della famiglia più conforme ai principi costituzionale.

 

  1. La necessità costituzionale di una revisione del sistema dell’imposizione reddituale della famiglia

 

Quanto meno a decorrere dagli anni Settanta, non esiste nel sistema dell’IRPEF un regime fiscale riservato al “nucleo familiare”, quale possibile “microcosmo tributario” cui è riferibile una capacità contributiva diversa e autonoma rispetto a quella dei singoli elementi che lo compongono.

Fino al 1976, esisteva un sistema di cumulo dei redditi coniugali, per cui in capo al marito dovevano sommarsi anche i redditi della moglie e il cumulo così formato essere assoggettato ad aliquote progressive unitarie. L’effetto era altamente penalizzante per le famiglie, poiché per effetto del sommarsi dei redditi aumentavano anche le aliquote progressive marginali applicabili rispetto a quelle che si sarebbero applicate se i redditi fossero stati tassati separatamente in capo ai coniugi.

Il sistema venne dichiarato incostituzionale dai giudici della Consulta con una storica sentenza, la n. 179 del 1976[2], la quale tuttavia centrò la motivazione, più che sulla ingiusta discriminazione che il sistema provocava per le famiglie rispetto ai singoli individui[3], su una interpretazione del principio di capacità contributiva che venne inteso, a prima lettura, come richiesta di individuare il soggetto passivo dell’IRPEF esclusivamente nella persona fisica.

Così, gli interventi legislativi che hanno dato attuazione alla pronuncia (L. n. 751/1976 e L. n. 114/1977) hanno individuato il perno dell’imposizione nel singolo membro della famiglia e i legami familiari sono recuperati, in chiave tributaria, attraverso una serie, frastagliata di correttivi (a cominciare dalla detrazioni per familiari a carico), frutto di interventi contingenti e sempre più slegati fra loro, che hanno progressivamente reso il complesso delle regole fiscali dedicato alla famiglia un quadro paragonabile, per linearità e razionalità, a un’opera d’arte di Jean-Michel Basquiat.

Eppure, fu fin da subito evidente che tale impostazione determinava importanti profili di frizione con i principi costituzionali e, in particolare, con il principio di uguaglianza. Furono così sollevate dai giudici di merito rilevanti questioni di costituzionalità e, in relazione a esse, la Corte Costituzionale ha in più occasioni ammonito che «dai calcoli tributari si constata senza dubbio che l’attuale trattamento fiscale della famiglia penalizza i nuclei monoreddito e le famiglie numerose con componenti che non producono o svolgono lavoro casalingo. Queste famiglie infatti – che dovrebbero essere agevolate ai sensi dell’art. 31 della Costituzione – sono tenute a corrispondere un’imposta sui redditi delle persone fisiche notevolmente superiore rispetto ad altri nuclei familiari composti dallo stesso numero di componenti e con lo stesso reddito, ma percepito da più di uno dei suoi membri» (così Corte Cost., n. 358/1995; in senso analogo, n. 76/1983).

Nonostante la chiarezza dei principi da essa affermati, la Corte Costituzionale non ha usato in materia quegli strumenti che ha, negli anni più recenti, messo in campo per “costringere” il legislatore ad adottare certe discipline, soprattutto in materia di cd. “nuovi diritti”[4]. L’atteggiamento che ha accompagnato l’affermazione dei principi in materia di tassazione della famiglia è stato quindi di ampia deferenza verso la discrezionalità del legislatore: si è così affermato che «i rimedi per il necessario ristabilimento dell’equità fiscale in materia e la tutela della famiglia sotto questo aspetto non possono essere apprestati da questa Corte mediante l’accoglimento della questione nei termini in cui è proposta, in quanto ciò implicherebbe pluralità di complesse scelte, come emerge dalle varie ipotesi prospettate dalla citata sentenza n. 76 del 1983, dalle diverse esperienze di altri Stati e dall’ampio recente dibattito parlamentare: scelte che competono esclusivamente al legislatore. Né sarebbe percorribile la via indicata nell’ordinanza di rimessione, e cioè una pronuncia che, senza prefigurare in positivo l’articolazione di nuovi criteri di tassazione dei redditi della famiglia, di spettanza del legislatore, si limiti a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni vigenti: ciò infatti sarebbe fonte di inammissibili lacune nella disciplina, riguardo ad una materia che richiede, invece, il costante equilibrio del sistema. Nell’ambito della complessità delle scelte e della modulazione delle soluzioni che si intendono introdurre, al legislatore spetta pertanto tener conto anche delle eventuali ricadute delle auspicate innovazioni, oltre che del reperimento delle risorse relative alla ripercussione sul gettito tributario. In ogni caso, pur con queste cautele e nella prospettiva di tutto il quadro delle varie situazioni, il legislatore non dovrà consentire ulteriormente, per rispetto ai principi costituzionali indicati ed ai criteri di giustizia tributaria, il protrarsi delle indicate sperequazioni in danno delle famiglie monoreddito e numerose» (Così, Corte Cost., sent. n. 358/1995).

Se il rispetto verso la discrezionalità del legislatore e la sua responsabilità politica, che la Corte ha mostrato in materia, è certamente apprezzabile sotto il profilo istituzionale, e merita di essere particolarmente evidenziato in un contesto come quello attuale in cui sta invece avvenendo troppo spesso il contrario in materie diverse da quella fiscali, non vi è dubbio che l’inerzia del legislatore abbia comportato una pressoché totale inattuazione dei principi considerati.

Dopo quasi cinquant’anni dalla sentenza n. 179 del 1976, l’impianto dell’IRPEF continua infatti a trascinarsi il grave problema della discriminazione delle famiglie monoreddito e, più in generale, di quello delle famiglie in cui il reddito non è distribuito in modo omogeno tra i coniugi. Tale problema è solo mitigato dalla detrazione per il coniuge a carico, decrescente al crescere del reddito, la cui entità è a dir poco modesta (l’importo più alto, in caso di reddito complessivo non superiore a 15.000 euro, è di 800 euro)[5] e appena sufficiente a tamponare il problema di evitare declaratorie di incostituzionalità del tributo in attesa di una riforma che non è mai arrivata.

Nel corso degli anni, la ristrutturazione reiterata del complesso degli oneri deducibili e delle detrazioni soggettive riferibili alla famiglia – che pur costituisce una delle possibili forme di intervento per correggere le distorsioni esistenti – non ha consentito il superamento del problema, né tanto meno il disegno di un razionale regime fiscale della famiglia. Per altro verso, i tentativi di affiancare alla tassazione individuale dei meccanismi correttivi opzionali – come, in concreto, la proposta di introduzione del “quoziente familiare” alla francese, contenuta nella Legge delega n. 428/1990, ma rimasta inattuata; o, in astratto, l’idea di istituire un “fattore famiglia”, con la creazione di una “no tax area” latrice di una “imposizione negativa” – sono naufragati di fronte a scogli di matrice politica e ideologica, ma anche a quello – sempre presente e sempre difficile da aggirare – della copertura finanziaria, comportando riforme di questa natura un significativo alleggerimento del prelievo per le famiglie e, correlativamente, una perdita di gettito per l’erario.

Alla luce di quanto sopra esposto, tuttavia, oggi come in passato parlare di riforma dell’IRPEF significa anche dover parlare di riforma della tassazione della famiglia e affrontare la necessità di valorizzare il nucleo familiare per garantire l’equità orizzontale, senza discriminazione delle famiglie monoreddito o a composizione reddituale disomogena, e per tener conto del contributo che la famiglia già dà in natura alle spese pubbliche, circostanza, questa, assolutamente fondamentale ma troppo spesso dimenticata ([6]).

E ciò non può che essere fatto spogliandosi di pregiudizi politici e ideologici, ancorando le riflessioni e le possibili soluzioni tecniche nei principi fondamentali della nostra Costituzione, così come esplicitati dal giudice delle leggi, i quali – contrariamente a quanto a volte taluno ha pensato e detto trovandosi con essi in disaccordo – sono tutt’altro che inutili orpelli che frenano il progresso, necessariamente recessivi al cospetto di modelli economici di stampo teorico che sarebbero ontologicamente dotati di una “divina” superiorità assiologica: la Costituzione repubblicana è – costituirà sempre – «patto fondamentale sui valori che orientano e unificano l’intero ordinamento e quindi ne determinano la fisionomia»[7] da cui, fortunatamente per tutti, non si può prescindere neppure a fronte di problematiche economiche e tributarie.

Ancorché dovrebbe essere superfluo ricordarlo, i principi della nostra Costituzione – che costituiscono patrimonio condiviso e reso oggettivo dalla giurisprudenza costituzionale – devono essere il riferimento primo e imprescindibile, il “faro” che deve necessariamente guidare ogni ipotesi di riforma della tassazione dell’IRPEF, in generale[8], e della tassazione della famiglia, in particolare.

In questa prospettiva, occorre chiedersi, dapprima, se le riforme appena approvate riguardanti in senso lato la famiglia – il riferimento è, segnatamente, al c.d. assegno unico – vadano nella direzione tracciata dalla Corte Costituzionale e come esse si collochino all’interno dell’odierno assetto dell’IRPEF.

E, poi, se dovessero essere ritenute insufficienti, quale potrebbe essere un’ipotesi di intervento strutturale che si affianchi a tali riforme per garantire appieno – in un sistema di tassazione delle persone fisiche con aliquote progressive, qual è quello attuale e quale sarà verosimilmente quello futuro, anche se riformato – il rispetto del principio di uguaglianza di trattamento tra famiglie con diversa distribuzione reddituale al loro interno[9].

 

  1. L’assegno unico familiare e la sua insufficienza a rendere il sistema impositivo conforme ai principi costituzionali

 

L’introduzione del c.d. assegno unico e universale, oggetto della recente legge delega n. 46/2021, è certamente meritevole sotto il profilo della razionalizzazione dell’arcipelago di misure a sostegno della natalità attualmente esistente, e altrettanto certamente va nella direzione dell’attuazione di quel favor familiae radicato nell’art. 31 Cost.

Ciò nonostante, la predetta proposta non può considerarsi strumento attuativo dei principi reiteratamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale in materia di tassazione della famiglia, né si amalgama con le caratteristiche proprie dell’IRPEF e la politica fiscale da perseguire per la sua riforma.

Quanto al primo aspetto, l’assegno unico non vale a conferire attuazione ai principi scolpiti dalla giurisprudenza costituzionale, e sopra riportati, perché costituisce misura a vantaggio della filiazione, e non della famiglia in quanto tale. E infatti, come peraltro esplicitato nella relazione illustrativa di accompagnamento, la proposta ha l’obiettivo di riordinare e potenziare le misure di sostegno per i figli a carico e di favorire la fruizione dei servizi a sostegno della genitorialità, nella prospettiva generale di porre un freno alla crisi demografica nel nostro Paese e, correlativamente, avviare una correzione agli squilibri delle finanze pubbliche che, come dimostrato univocamente dai demografi[10], si prospettano minacciosi all’orizzonte a causa del progressivo invecchiamento della popolazione.

Quanto al secondo aspetto, l’assegno unico non è linea con le caratteristiche dell’IRPEF e le politiche fiscali di riforma da perseguire, perché – proponendosi di sostituire, insieme all’attuale congerie di assegni, premi, bonus e provvidenze pubbliche, anche le detrazioni per figli a carico – esso incide ulteriormente in senso negativo sulla “personalità” dell’IRPEF, sottraendovi degli elementi: si esclude, infatti, la valorizzazione ai fini del tributo di quella parte del reddito che, essendo destinata al sostentamento dei figli, dovrebbe considerarsi esclusa da imposizione in quanto rientrante nel c.d. minimo vitale riguardante la prole. Se tale circostanza è mitigata dal correttivo pratico della prevista irrilevanza ai fini IRPEF dell’assegno goduto, l’ulteriore scivolamento del tributo verso il campo delle imposte reali, accentuato dalla paventata riduzione delle deduzioni e detrazioni per oneri sostenuti dal contribuente, appare irreversibile[11].

E non sono parimenti rilevanti – nella prospettiva richiesta dalla Corte Costituzionali dell’equità orizzontale tra famiglie – neanche altre proposte contenute in disegni di legge affini, come il n. S1892, con l’introduzione di agevolazioni fiscali per la locazione dell’abitazione principale da parte di “giovani coppie”, la detrazione per i libri di testo universitari o per le spese di locazione degli universitari, ecc. Lo stesso dicasi a maggior ragione per l’agevolazione all’acquisto della prima casa previsto dall’art. 64 del d.l. n. 73/2021, che si presta a essere applicato anche a giovani single.

Il tutto, peraltro, senza considerare che la parametrazione dell’assegno unico e di altri benefici all’ISEE corre addirittura il rischio, per inadeguatezza dello strumento a sostenere le famiglie numerose, di condurre a risultati deteriori rispetto allo status quo.

 

  1. La necessaria introduzione di una forma di splitting dei redditi coniugali

 

Le proposte di contorno già approvate o attualmente in discussione sono, dunque, inidonee a contrastare gli attuali effetti distorsivi della tassazione individuale dei redditi dei coniugi e non risultano collimanti con l’assetto dell’IRPEF.

Un intervento più strutturale è pertanto necessario, nel contesto di una riforma del tributo di più ampio respiro, pena l’accentuarsi delle distorsioni attualmente esistenti per effetto dell’oramai incontrollata erosione della base imponibile e della susseguente, denunciata crisi della progressività del tributo[12].

E in tale contesto – considerata la sostanziale impossibilità di sfoltire e/o rimodulare al ribasso il complesso sistema degli oneri deducibili e delle detrazioni, in quanto la quasi totalità non sono agevolazioni, ma riguardano spese personali e familiari la cui valorizzazione ai fini IRPEF è costituzionalmente necessitata[13] – l’unica possibilità per riportare in equilibrio costituzionale l’attuale trattamento fiscale delle famiglie con diversa distribuzione interna del reddito è un intervento che valorizzi la famiglia come “unità impositiva” ai fini della tassazione dei redditi[14].

I due modelli in campo sono, notoriamente, il quoziente familiare alla francese e lo splitting alla tedesca, modelli, questi, che – oltre a garantire l’equità orizzontale tra famiglie richiesta dalla Corte Costituzionale – renderebbero il sistema dell’IRPEF meno manovrabile per ragioni di finanza pubblica, essendo ben più facile ridurre l’importo di una detrazione riconosciuta caso per caso piuttosto che scardinare un meccanismo strutturale come il quoziente familiare o il sistema dello splitting.

Dei due modelli possibili, il quoziente familiare presenta maggiori criticità. Anzitutto, esso oggi si porrebbe strutturalmente in contrasto col sistema dell’assegno unico ormai approvato. In ogni caso, esso si fonda tradizionalmente su un meccanismo che presta il fianco a critiche nella misura in cui il divisore (fattore famiglia) generalmente non è composto conferendo a ciascun membro della famiglia valore di una unità, ma facendo progressivamente decrescere il valore conferito ai membri successivo al primo, secondo un sistema di scala di equivalenza. Sennonché, tale meccanismo della scala di equivalenza si fonda su un presupposto, quello delle presunte economie di scala di cui godrebbero i membri della famiglia successivi al primo, che si mostra fallace[15].

Valga il seguente, semplice esempio. In una famiglia con tre figli, le spese sono sostanzialmente triple rispetto a quelle della famiglia con un figlio solo, poiché occorreranno tre lettini, tre seggiolini, il triplo dei pannolini, il triplo delle pappe, il triplo consumo idrico e così via. Sicché continuare a utilizzare meccanismi di scale di equivalenza nei vari comparti di finanza pubblica corrisponde a una negazione della realtà che merita senz’altro di essere evitata o corretta, laddove presente come nel sistema italiano dell’ISEE. E ciò è tanto più evidente se, al contrario, quando il numero dei familiari agisce come moltiplicatore (anziché come divisore), il legislatore è ben lungi (si pensi al sistema del tributo sui rifiuti) dal diminuire il peso “ponderato” dei membri successivo al primo.

Fra l’altro, con la recente sentenza n. 219/2017 la nostra Corte Costituzionale ha stigmatizzato la tendenza a diminuire il “peso” ponderato dei membri della famiglia successivi al primo, onde l’eventuale implementazione di un meccanismo di quoziente familiare alla francese dovrebbe fare i conti anche con tale monito.

Per tale ragione si ritiene che lo scenario di una modifica della tassazione della famiglia debba essere imperniato sul modello di splitting tedesco, se del caso con alcuni correttivi idonei a minimizzare, se non a sterilizzare, eventuali effetti distorsivi di un trapianto ex abrupto nel nostro sistema di tassazione IRPEF.

Il modello dello splitting attualmente in uso in Germania prevede la sommatoria (cumulo) dei redditi dei coniugi, la divisione per due di tale cumulo (due essendo i coniugi) e l’applicazione sul totale del reddito (suddiviso tra i due coniugi ai fini degli obblighi strumentali) dell’aliquota marginale applicabile al risultato della divisione.

In questo modello il divisore familiare prende il posto della detrazione per il coniuge a carico, mentre vanno mantenute, per importi effettivi, le detrazioni per figli a carico e le deduzioni o detrazioni (in sede di formazione dell’imponibile o di determinazione dell’imposta) delle somme corrispondenti alle spese di tutti i membri della famiglia (coniugi e figli) la cui valorizzazione ai fini IRPEF è costituzionalmente necessaria.

Il modello garantisce perfettamente l’eguaglianza di trattamento tra famiglie e minimizza i rischi dell’utilizzo di scale di equivalenza penalizzanti, sebbene – è opportuno evidenziarlo – non ponga il sistema al riparo da interventi opportunistici del legislatore sull’ammontare delle permanenti detrazioni per figli a carico.

Un esempio[16] permette di chiarire bene il suo funzionamento.

Ipotizzando un contribuente celibe/nubile tedesco possessore di un reddito imponibile pari a euro 25.000 (nel 2020), il prelievo fiscale complessivo ammonta a euro 3.918,27: in tale caso l’aliquota media sarà pari al 15,68 per cento e l’aliquota marginale al 28,40 per cento.

Ipotizzando due coniugi tedeschi possessori di un reddito imponibile complessivo (in caso di dichiarazione congiunta) pari a euro 50.000 (nel 2020), il prelievo fiscale complessivo sui due coniugi ammonta a euro 7.836,24 esattamente pari al doppio dell’onere fiscale del contribuente celibe/nubile percettore di un reddito imponibile di euro 25.000. Il sistema tedesco dello splitting, applicabile ai contribuenti coniugati, lascia inalterata l’aliquota media al 15,68 per cento e l’aliquota marginale al 28,40 per cento applicabile al menzionato reddito complessivo, quale che sia la distribuzione interna del reddito tra i due coniugi, ossia anche se ciascuno percepisca un reddito diverso da euro 25.000 ma che – sommato al reddito dell’altro coniuge – dia comunque come risultato il doppio di euro 25.000.

Se i due coniugi tedeschi – che possiedono un reddito imponibile complessivo pari a euro 50.000 (ad esempio, 30.000 euro prodotto dal coniuge A e 20.000 euro prodotto dal coniuge B nel 2020) – rinunciano allo splitting, il prelievo fiscale sul reddito di A ammonta a euro 5.472,28 (aliquote media al 18,24% e aliquota marginale al 30,52%), mentre il prelievo fiscale sul reddito di B ammonta a euro 2475,03 (aliquota media al 12,38% e aliquota marginale al 26,28%): il prelievo fiscale complessivo ammonta a euro 7.947,31 e, quindi, è peggiorativo rispetto a quello risultante dall’applicazione dello splitting.

Invece, se lo stesso reddito imponibile di 50.000 euro è prodotto da un contribuente celibe/nubile tedesco, il prelievo fiscale ammonta a euro 12.808.75, con la conseguenza che l’aliquota media è pari al 25,62 per cento e l’aliquota marginale al 39 per cento. Onde appare evidente che la conformità del sistema dello splitting con la valorizzazione dei nuclei familiari ove entrambi i coniugi lavorano e producono reddito.

Il modello dello splitting alla tedesca – che, come si è visto, consentirebbe l’attuazione dei principi affermati dalla Corte costituzionale italiana in tema di imposizione del reddito della famiglia – sarebbe mutuabile e innestabile nel sistema dell’IRPEF senza grandi sconvolgimenti. Esso potrebbe altresì essere accompagnato, eventualmente, da una rimodulazione dell’attuale scala di “progressività per scaglioni” del tributo, di cui si parla spesso, e a tal fine potrebbe essere adottato anche un modello sostanzialmente equivalente alla “progressività continua” di stampo tedesco.

A tale fine, considerato che l’attuale curva dell’aliquota media IRPEF presenta la principale e più significativa criticità dopo il superamento della soglia di reddito di 28.000 euro, sarebbe sufficiente frazionare opportunamente l’attuale terzo scaglione di reddito (28.000 – 55.000), differenziando altrettanto opportunamente le aliquote marginali, per giungere a un risultato finale di sostanziale equivalenza ed evitare la radicale sostituzione dell’attuale sistema di progressività per scaglioni con il metodo di progressività continua adottata in Germania.

L’introduzione all’interno dell’IRPEF del metodo dello splitting dovrebbe essere accompagnato da alcuni accorgimenti necessari o anche solo opportuni, per fini diversi, che possono essere sintetizzati nelle seguenti proposte.

 

  1. Gli ulteriori correttivi necessari

 

Il sistema dello splitting coniugale dovrebbe essere introdotto, quanto meno nella fase iniziale, come regime opzionale. E ciò perché il carattere opzionale consente di: (i) valorizzare le eventuali valutazioni di maggior convenienza che i coniugi, per qualsiasi ragione (a cominciare dalla privacy), riservino al regime attuale; (ii) evitare ogni questione, pur infondata, circa il rispetto del principio di personalità della capacità contributiva.

La sua introduzione dovrebbe comportare, e non potrebbe essere diversamente, l’eliminazione detrazione per coniuge a carico, ma anche l’integrazione di misure di riduzione del carico fiscale per i figli a carico.

Inoltre, poiché – come detto – è stata appena approvata una legge delega che prevede la sostituzione dell’attuale sistema delle detrazioni e l’introduzione dell’assegno unico familiare, risulterà indispensabile:

  • abolire o riformulare la scala di equivalenza posta a base dell’ISEE, che – come dimostrato da alcuni importanti studi economico-demografici[17] – risulta tra le più penalizzanti d’Europa per le famiglie con figli;
  • in caso di rideterminazione, fissarne i criteri nel rispetto del principio di riserva di legge, posto che la determinazione dei presupposti di accesso alle provvidenze pubbliche è riservata alla competenza del legislatore (cfr., da ultimo, Corte cost., sent. n. 219/2017): l’attuale sistema ISEE si fonda, invece, su una scala di equivalenza per la quale la norma primaria (art. 5, D.L. n. 201/2011) non fornisce alcuna indicazione o criterio direttivo per l’autorità amministrativa[18];

(iii) mantenere le deduzioni (dall’imponibile IRPEF familiare) o le detrazioni (dall’imposta lorda familiare) connesse a spese sostenute per soddisfare diritti costituzionalmente garantiti dei figli e dei coniugi (segnatamente, diritto alla salute e libertà educativa, con connesse deduzioni o detrazioni per spese mediche, farmaceutiche e rette scolastiche dei figli).

 

  1. Infondatezza delle tesi che vedono nello splitting dei redditi un disincentivo al lavoro femminile

 

Ancorché i risultati degli studi scientifici in merito non siano concordi[19], ci si deve fare comunque carico della possibile obiezione secondo cui il metodo dello splitting produrrebbe un effetto di disincentivo al lavoro femminile[20], perché il confronto andrebbe fatto raffrontando non la tassazione complessiva dei due coniugi, bensì il prelievo fiscale su base individuale del coniuge con il reddito più basso con lo splitting e senza lo splitting.

Tale obiezione è il frutto dell’applicazione meccanicistica di sottostanti ipotesi e modelli che prescindono dalla ratio dell’istituto e dall’assetto complessivo del tributo in cui dovrebbe innestarsi.

E infatti, se lo splitting è misura finalizzata a eliminare le distorsioni impositive tra famiglie monoreddito e bireddito (o, comunque, con distribuzione reddituale disomogenea tra i due coniugi), ogni valutazione non può che essere effettuata tenendo conto degli effetti complessivi della fiscalità della famiglia, e dunque considerando entrambi i coniugi: nel sistema dello splitting la “unità di tassazione” non è più l’individuo, ma la famiglia. Peraltro, proprio perché stiamo parlando di “famiglia”, è verosimile che le decisioni di ciascun coniuge anche in ordine all’opportunità di lavorare siano assunte tenendo conto della fiscalità complessiva della famiglia medesima; circostanza, questa, che già attenua i paventati effetti di disincentivo al lavoro del secondo coniuge valutati in maniera individuale, contro la logica stessa del sistema dello splitting.

A ciò si aggiunga che tutti gli studi effettuati in merito, ivi compresi quelli che hanno concluso per l’esistenza di un effetto di disincentivo al lavoro femminile, sono stati realizzati nel contesto dell’attuale sistema di tassazione IRPEF e non tengono conto del fatto che lo splitting potrebbe innestarsi – come si è subito evidenziato in apertura – nel ceppo di una riforma della “progressività” del tributo in senso lineare, o modulando l’attuale scala italiana delle aliquote o importando direttamente la progressività continua tedesca, la quale riduce significativamente l’ipotetica penalizzazione sull’offerta di lavoro della maggiore aliquota gravante sul coniuge con reddito minore.

Non è forse un caso, che i Paesi in cui il regime dello splitting è adottato registrino percentuali di occupazione femminile superiori rispetto a quelli dei Paesi che adottano un regime diverso. In Germania il tasso di occupazione femminile è del 75,2 per cento, al terzo posto in Europa dopo Svezia e Lituania, cioè abbondantemente al di sopra della media UE, che è del 66,5 per cento, e al dato italiano, penultimo in Europa, con il 52,5 per cento[21]. Ciò dimostra che non è certo lo splitting l’elemento determinate ai fini della propensione femminile al lavoro e che, invece, altre sono le variabili che incidono in modo decisivo sul dato.

Da ultimo, rispetto alla proposta concreta di introduzione dello splitting effettuata in questa sede, l’obiezione in esame risulta fortemente indebolita, a tacer d’altro, da due circostanze importanti.

La prima è che l’introduzione dello splitting alla tedesca è prospettata secondo il modello della “opzione”, lasciando dunque ai contribuenti e alle famiglie italiane la libertà di scegliere fra le due possibilità. Così configurato, lo splitting non può essere obiettivamente considerato il male assoluto che pur taluno rappresenta in punto di disincentivo all’ingresso dell’altro coniuge nel mondo del lavoro. Negarne aprioristicamente l’introduzione nei termini qui proposti risulterebbe una presa di posizione meramente ideologica, e solo per tale ragione da respingere con fermezza, che finisce ingiustamente col negare l’accesso a un “diritto” a chi intenderebbe esercitarlo.

La seconda circostanza è che – nonostante sia da tempo sostenuto da autorevolissimi scienziati delle finanze, assurti anche alle massime cariche istituzionali nell’ambito della finanza pubblica, che «i possibili effetti di disincentivo al lavoro connessi con l’adozione del reddito familiare quale misura della capacità contributiva devono essere considerati un costo, la cui entità potrebbe anche essere modesta, da sostenere per ottenere una maggiore equità fiscale»[22] – nell’ipotesi prospettata lo splitting ben potrebbe essere accompagnato da agevolazioni all’ingresso nel mercato del lavoro, e ciò sia dal lato dell’offerta sia dal lato della domanda, che. Se valutate insieme alla scelta di adottare il modello “opzionale” e, eventualmente, alla modifica del sistema della progressività, misure del genere contribuirebbero in ogni caso a rendere minimi, se non nulli, i paventati effetti negativi in punto di disincentivo del lavoro femminile.

 

  1. Le reali cause della crisi del lavoro femminile in Italia e i possibili strumenti fiscali per farvi fronte

 

L’efficacia delle misure di incentivazione del secondo coniuge ad accedere al mercato del lavoro è subordinata all’individuazione delle cause concrete che possono indurre uno dei due coniugi a non cercare accesso ovvero ad abbondare il mercato del lavoro.

Tali misure, inoltre, non possono tradursi in una discriminazione a danno delle famiglie in cui uno dei coniugi decida di dedicarsi al lavoro casalingo, ponendosi altrimenti la misura in contrasto con il principio scolpito negli articoli 4 e 37 della Costituzione[23].

In questa prospettiva, una delle principali cause che induce uno dei coniugi a non cercare accesso o ad abbandonare il mercato del lavoro sembra, notoriamente, essere la difficoltà di garantire la necessaria assistenza ai figli in pendenza di un rapporto di lavoro o dello svolgimento di una professione[24].

È su tale aspetto che occorre, quindi, concentrare l’attenzione al fine di avanzare misure idonee a incentivare il secondo coniuge a cercare accesso al mercato del lavoro.

Accanto a misure strutturali (come il potenziamento del sistema pubblico e privato di asili nido e scuole materne) e giuslavoristiche (che sono di importanza centrale ma esulano dal versante propriamente fiscale della tematica)[25], l’obiettivo di incentivare il lavoro del secondo coniuge nell’ambito di un sistema di imposizione familiare del reddito potrebbe essere ottenuto tramite, fra le altre, le seguenti, due misure fiscali.

La prima, e più semplice da realizzare, è quella di rendere strutturale un bonus fiscale per le babysitter (sul modello di quello già introdotto in via temporanea dalla legislazione emergenziale, mediante la concessione di un onere deducibile o di una detrazione che compensi in tutto o in parte il relativo costo) nel caso in cui i coniugi che optino per lo splitting producano reddito da attività lavorativa di qualsivoglia natura (id est, lavoro dipendente, lavoro autonomo, impresa).

La seconda, forse più difficile da attuare per ragioni di finanza pubblica, ma pur sempre ispirata alla legislazione emergenziale del 2020, è quella di consentire ai nonni di bambini piccoli – i cui genitori siano entrambi lavoratori che intendono affidare a un nonno anziché a una babysitter il compito di accudire i figli durante la loro attività lavorativa – di accedere al pensionamento con almeno un anno di anticipo rispetto al termine ordinario. Una misura del genere appare più appropriata rispetto a consentire alle madri lavoratrici un pensionamento anticipato: esso, infatti, produce per sua natura effetti tardivi e non correlati rispetto al bisogno di ausilio nell’accudimento della prole, per cui si configura più come una misura premiale che come un incentivo concreto ed efficace alla natalità.  La misura qui proposta dovrebbe essere alternativa al bonus baby-sitter e consentita nel numero di un nonno per ciascun figlio dei genitori lavoratori, rimettendo alla famiglia la scelta di quale sia il nonno cui attribuire il compito e inserendo, ovviamente, adeguati meccanismi antielusivi volti a scongiurare l’uscita volontaria dal mercato del lavoro di uno dei due coniugi non appena ottenuto il beneficio previdenziale.

La configurazione delle misure illustrate come “compensative” dell’effetto disincentivante del lavoro del secondo coniuge – che sarebbe prodotto, in tesi, da un sistema di imposizione familiare che comprende lo splitting – varrebbe a giustificarne la correlazione, sotto il profilo della ratio, al solo regime opzionale dello splitting, concretamente adottato, e la non estensione alla generalità del sistema IRPEF.

L’obiettivo di incentivazione dell’accesso al lavoro delle madri dovrebbe essere perseguito anche tramite misure fiscali sul versante della domanda di lavoro.

In tale caso, il presupposto non sarebbe correlato al regime fiscale adottato dalla lavoratrice, onde sarebbe applicabile anche al di fuori dello splitting, ma al semplice fatto che la persona sia madre di figli piccoli.

La differenza di trattamento rispetto ai padri appare giustificata alla luce del tenore dell’art. 37 della Costituzione, il quale – affermando che «le condizioni di lavoro devono (…) assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione» – consente di creare condizioni di accesso al mercato del lavoro speciali rispetto a quelle degli uomini. Ciò anche in relazione al principio di cui all’art. 3, comma 2 Cost., che consente di fare oggetto di speciale promozione le categorie sociali per le quali si ritenga che il rispetto del principio di uguaglianza formale non sia in grado di garantire di fatto l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, come sembra potersi dire – dati alla mano – in relazione all’accesso e alla permanenza delle donne madri sul mercato del lavoro.

Al fine di rendere vantaggioso per datori di lavoro e clienti il lavoro svolto da madri di figli piccoli, si potrebbero prevedere, fra le altre, le seguenti due misure promozionali di natura fiscale, oltre naturalmente ai dovuti interventi sul piano previdenziale in termini di importanti sgravi contributivi da finanziare a carico della collettività.

La prima è una “superdeduzione” (in misura, ad esempio, del 110 per cento) del costo che il datore di lavoro sostiene per il pagamento del salario di madri di figli piccoli: nell’ipotesi prospettata, la percentuale dovrebbe essere configurata in termini crescenti al crescere del numero di figli (120 per cento con due figli, 130 per cento con tre figli, ecc.).

La seconda misura è la concessione di un credito d’imposta per i soggetti (consumatori o esercenti imprese, arti o professioni) che si avvalgano di servizi prestati o beni ceduti da professioniste o imprenditrici madri di figli piccoli: il credito (ad esempio, il 5 per cento del costo del servizio) dovrebbe essere, anche in questo caso, di misura crescente con il numero dei figli.

Quest’ultima misura sarebbe, fra l’altro e insieme agli sgravi contributivi, una delle poche idonee a incentivare il lavoro indipendente di professioniste o imprenditrici madri, rendendolo più competitivo.

La misura potrebbe essere affiancata da una proposta a livello europeo di riduzione, nei medesimi casi, di un punto dell’aliquota IVA per ogni figlio della madre professionista o imprenditrice.

 

  1. Conclusioni

 

Dalla disamina svolta emerge che, se vi è veramente la volontà di innovare il sistema della tassazione della famiglia in senso costituzionale, l’assegno unico appena approvato e gli altri benefici previsti dalle proposte in discussione vanno integrati con un intervento di carattere strutturale, come in particolare l’introduzione dello splitting familiare, accompagnato – per scongiurare eventuali effetti di disincentivo al lavoro femminile – con misure previdenziali e fiscali “compensative” sul fronte sia dell’offerta sia della domanda di lavoro, molte già sperimentate con successo dalla legislazione emergenziale.

Rimane un solo problema, che è quello ricorrente e non di poco momento: la copertura finanziaria.

Una proposta strutturale come quella ipotizzata in questa sede, che dovrebbe comunque collocarsi nel contesto di una riforma più ampia dell’attuale impianto dell’IRPEF, comporta innegabilmente una perdita di gettito rilevante, che non può certo essere compensata con un aumento delle aliquote d’imposta, in quanto già al massimo (se non oltre), o con un taglio alle agevolazioni fiscali in senso lato attualmente esistenti, in quanto la cancellazione di quelle effettivamente eliminabili (siccome non costituzionalmente necessarie) non raggiunge – secondo quanto calcolabile in base al rapporto sulle tax expenditures – la cifra di 2 miliardi su 80 di spesa complessiva.

L’esperienza di quest’ultimi decenni dimostra, purtroppo, che le riforme fiscali “a costo zero” sono soltanto un palliativo e che la relativa formula è solo apparentemente “magica” ma concretamente “vuota”: esse costituiscono – come in effetti hanno costituito fino ad oggi e senza eccezione alcuna – un gioco di illusionismo.

Visto l’enorme spreco di risorse finanziarie attualmente in corso realizzato con la concessione di prebende “a pioggia”, senza un disegno complessivo (cashback, lotteria degli scontrini, voucher occhiali, bonus idrico, bonus bici, bonus moto elettriche o ibride, ecobonus per auto, eliminazione del tributo sui money transfer, ecc.), rimane l’auspicio che le risorse finanziarie “a debito” in arrivo dall’Europa per la pandemia possano essere utilizzate anche per finanziare una vera riforma fiscale che getti le basi per un sistema tributario più equo ed efficiente.

Si tratterebbe, in verità, della migliore forma di riduzione delle imposte sulle persone fisiche attuabile, riguardando direttamente il “cuore” del sistema Paese ed essendo potenzialmente idonea garantire una ripresa dei consumi e dell’occupazione, oltre a essere un contributo alla risposta da dare al più presto agli squilibri demografici nel medio-lungo termine.

[1] Sul tema cfr., per tutti, C. Sacchetto (a cura di), La tassazione della famiglia: aspetti nazionali e comparati, Soveria Mannelli, 2010; A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario. Parte Prima. I modelli di tassazione dei redditi familiari, Torino, 2012; Id., La famiglia nell’ordinamento tributario. Parte seconda. Tra favore e limiti del sistema, Torino, 2015; A. Giovannini, Famiglia e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 230 ss.; M. Logozzo, Il trattamento della famiglia nell’ordinamento tributario, in V. Ferrante (a cura di), Lavoro, cittadinanza, famiglia, Milano, 2016, p. 93 ss.; F. Farri, Punti fermi e profili di irrazionalità nel regime fiscale della famiglia, in Riv. dir. trib., 2016, I, p. 89 ss.; Id., Un fisco sostenibile per la famiglia in Italia, Milano, 2018.

[2] Tra i principali commenti cfr. E. De Mita, L’illegittimità costituzionale del c.d. cumulo, in Dir. prat. trib., 1976, II, p. 337 ss.; A. Fedele, Possesso di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. Cost., 1976, p. 2159 ss.; A.E. Granelli, Finalmente abolita la… “tassa di maritaggio”, in Boll. trib., 1976, p. 1172 ss.; L. Perrone, Il cumulo dei redditi, il principio di capacità contributiva e la progressività del sistema tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, II, p. 113 ss.; R. Braccini, Osservazioni sulla rilevanza tributaria dei doveri economici familiari, in Dir. prat. trib., 1977, I, p. 1239 ss.; F. Gallo, Regime fiscale della famiglia e principio di capacità contributiva, in Riv. dir. fin., 1977, I, p. 94 ss.

[3] Elemento che, invece, dovrebbe considerarsi il cuore della sentenza, come emerge anche dalle considerazioni di F. Gallo, op. cit., p. 94; L. Paladin, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Riv. dir. trib., 1997, I, pp. 306-307.

[4] Il pensiero corre alle ordinanze n. 207/2018 (in materia di aiuto al suicidio), n. 33/2021 (in materia di figli da maternità surrogata) e n. 97/2021 (in materia di ergastolo ostativo). Sulla nuova “tendenza” della Corte cfr. da ultimo Centro Studi Livatino, Corte Cost. su “ergastolo ostativo”: di nuovo detta contenuti e tempi al Parlamento, 16 aprile 2021.

[5] La palese insufficienza delle detrazioni previste dal TUIR è comunemente riconosciuta: per tutti cfr. L. Tosi, Considerazioni sul regime fiscale della famiglia: discriminazioni ai danni delle famiglie monoreddito, prospettive di riforma e problematiche di ordine costituzionale, in Rass. trib., 1988, I, p. 379; F. Moschetti, La capacità contributiva. Profili generali, in A. Amatucci (diretto da), Trattato di diritto tributario, I, t. 1, Padova, 1994, p. 259; L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, Milano, 2005, p. 132, pp. 137-140; G. Gaffuri – M.V. Cernigliaro Dini, La tassazione della famiglia (trattamento fiscale della famiglia: favore o disfavore del legislatore?), in Iustitia, 2005, p. 131 ss.; Corte Cost., sentt. nn. 76/1983, 85/1985, 358/1995. Un accurato esame storico dell’evoluzione della disciplina delle detrazioni per carichi di famiglia è condotta da A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario, I, cit., p. 76 ss. e II, cit., pp. 9-80, ove si evidenzia altresì come la valorizzazione della famiglia debba tradursi, oltre che in adeguate detrazioni per familiari a carico, anche nell’adeguato riconoscimento di deduzioni e detrazioni per le spese sostenute per prendersi cura della famiglia e dei familiari stessi, che non si prestano a essere sostituite dal sistema di splitting e di quoziente familiare e che, quindi, devono essere mantenute e incentivate anche in aggiunta a essi.

[6] Si rimanda, sul punto, alle considerazioni di F. Farri, Un fisco sostenibile per la famiglia in Italia, cit., 36 ss. ove si rileva che «un sistema – come quello costituzionale italiano – caratterizzato da una marcata connotazione in termini di sussidiarietà non può ritenere che il riparto degli oneri della collettività sia unicamente quello che avviene con il trasferimento di mezzi finanziari, ma deve tener conto anche di forme di concorso alle pubbliche spese che avvengono ‘in natura’ grazie alle attività delle istituzioni cui l’ordinamento costituzionale riconosce un ruolo di stabile preordinazione alla diretta soddisfazione di esigenze della persona che altrimenti sarebbero accollate all’amministrazione pubblica. Correlativamente, lo schema fondamentale di riparto degli oneri della collettività deve tradursi in un sistema di vera e propria ‘contabilità sociale’ che valorizzi il ruolo di quei corpi che il patto fondamentale ha riconosciuto come stabilmente funzionali alla gestione a livello autonomo di esigenze fondamentali della persona, tra i quali – come indicato dall’art. 29 Cost. – rientra per prima la ‘famiglia come società naturale fondata sul matrimonio’. Da ciò deriva, in particolare, che l’equilibrio tra entrate e spese della pubblica amministrazione deve tener conto dei risparmi di spesa pubblica che l’attività di tali corpi intermedi individuati dal patto fondamentale permettono di conseguire rispetto alla ipotesi in cui i compiti da essi svolti gravassero direttamente sui pubblici apparati … La rilevanza del valore dei ‘servizi’ endofamiliari nel quadro delle valutazioni di finanza pubblica emerge con chiarezza quando essi fanno fronte a quelle situazioni di fragilità della persona umana che la famiglia è strutturalmente preordinata ad accogliere ed affrontare (si pensi al valore del ‘servizio’ endofamiliare di assistenza degli anziani, enucleato dalla già citata Corte Cost., n. 2/2016, ovvero a quello di cura ai malati non necessitanti di ospedalizzazione, ovvero a tutti quelli che ruotano attorno all’allevamento dei bambini, richiesti direttamente dall’art. 30 Cost.) e che, in mancanza, dovrebbero essere gestite dall’amministrazione pubblica. Tale valore è riconosciuto anche dalla dottrina economica: cfr., per tutti, Seltzer L.H., The personal exemptions in the income tax, New York (USA) 1968, 101-102, ove si evidenzia, ad esempio, che ‘in rearing children, parents may be said to provide economic and other service of considerable public importance’ e che quindi si è di fronte a forme di ‘burden of supporting persons who might otherwise require some measure of public support’».

[7] Così, per tutti, M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995, p. 5.

[8] Sul punto cfr., da ultimo, F. Farri, Spunti di riflessione in tema di riforma dell’imposizione personale sul reddito e principi costituzionali, in Riv. telem. dir. trib., 21 maggio 2021.

[9] Sul tema cfr. già A. Contrino, Sulla riforma della fiscalità della famiglia: una proposta strutturale e articolata, che va oltre il c.d. assegno unico, tra ineludibili moniti del giudice delle leggi ed eliminabili effetti collaterali in punto di disincentivo al lavoro femminile, in Riv. telem. dir. trib., 2020, p. 781 ss.

[10] Cfr., per tutti, G.C. Blangiardo, L’Italia fa i conti con l’inverno demografico, in Atlantide, 39, 2017, pp. 7-14.

[11] Sulla rilevanza sistematica dell’assegno unico cfr. F. Pepe, Vantaggi, criticità ed implicazioni sistematiche dell’istituendo “Assegno Unico e Universale per Figli a carico”, in Riv. telem. dir. trib., 9 ottobre 2020; F. Farri, Garanzie del minimo vitale e coordinamento tra sistema tributario e provvidenze sociali (note a margine di Corte Cost. n. 152/2020), in Riv. telem. dir. trib., 19 maggio 2021.

[12] Sul tema cfr., per tutti, L. Carpentieri, L’illusione della progressività. Contributo allo studio del principio di progressività nell’ordinamento tributario italiano, Roma, 2012.

[13] Cfr., da ultimo, F. Farri, Garanzie del minimo vitale e coordinamento tra sistema tributario e provvidenze sociali (note a margine di Corte Cost. n. 152/2020), cit.

[14] Cfr. già A. Contrino, Sulla riforma della fiscalità della famiglia: una proposta strutturale e articolata, che va oltre il c.d. assegno unico, tra ineludibili moniti del giudice delle leggi ed eliminabili effetti collaterali in punto di disincentivo al lavoro femminile, cit.

[15] Sulla inidoneità delle ordinarie scale di equivalenza a stimare in modo ragionevole, ad esempio, il costo dei figli a carico cfr. anche A. Cigno, Economics of the family, Oxford, 1991, p. 90 ss.; Id., Cost of children, parental decisions and family policy, in 10 Labour, 1996, pp. 463-467 e p. 473.

[16] Si mutua, per semplicità, quello portato all’attenzione dell’opinione pubblica da Giuseppe Corasaniti con l’articolo “Modello alla tedesca per ritrovare equità”, pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 6 febbraio 2020. Gli importi sono ottenuti dal calcolatore del Ministero federale tedesco.

[17] G.C. Blangiardo – A. Vernizzi, Demographic trends and personal income tax in Italy in the context of raising children, in Silesian statistical review, 2013, p. 49 ss., prendendo le mosse dalle più recenti definizioni econometriche di sistema impositivo “equitable” (N. Kakwani – P.J. Lambert, On measuring inequality in taxation: a new approach, in 14 European Journal of Political Economy, 1998, pp. 369-380), concludono che le maggiori iniquità dell’attuale sistema fiscale italiano riguardano le famiglie con figli a carico (“by looking at both the implicit costs recognised by the personal tax system, and the violations of three axioms, which according to Kakwani and Lambert, a fair tax system should respect … the Italian tax system recognises rather low implicit costs to income earners when they have to take care of children: moreover these implicit costs are an inverse function of taxable income and become irrelevant for middle level incomes. With reference to Kakwani and Lambert’s axioms, the overwhelming majority of violations are made against families with children”). C. Declich -V. Polin, Individuo e famiglia: quale fisco?, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2007, par. 5, evidenziano che l’I.S.E.E. italiano assume una scala di equivalenza la quale «assegna in generale coefficienti più bassi rispetto alla scala francese» posta a base del quoziente familiare ivi applicato. G. Boesso – A. Vernizzi, Carichi di famiglia nell’Imposta sui Redditi delle Persone Fisiche in Italia e in Europa: alcune proposte per l’Italia, in Econ. pubbl., 2001, p. 5 ss. evidenziano che «il sistema dell’imposta personale dei redditi italiano è fra quelli che in Europa sono meno favorevoli al riconoscimento dei carichi di famiglia». Già in passato, ma con considerazioni valide ancora oggi in mancanza di una organica riforma dell’IRPEF sul punto, N. Rossi, Caratteristiche familiari e redistribuzione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 297 evidenziava che «il sistema vigente è tutt’altro che neutrale. Risultano infatti fortemente incentivate le famiglie unipersonali … Al contrario l’ordinamento penalizza pesantemente le famiglie numerose in misura crescente al crescere del reddito».

[18] Ciò in contrasto con il principio (cfr., ex multis, Corte cost., n. 83/2015) per cui, «se è indubbio che la riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione abbia carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, va rilevato – in conformità al consolidato orientamento di questa Corte – che ciò “non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa ‘in bianco’, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa … affida[ndo] ad una valutazione soggettiva ed empirica l’individuazione [del parametro di determinazione del divisore dell’I.S.E.E.] e nemmeno offre[ndo] elementi dai quali ricavare, anche in via indiretta, i criteri e i limiti volti a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nella definizione [di esso]». Né sussistono norme tecniche dalle quali il contenuto delle scale di equivalenza possa dedursi in modo ragionevolmente univoco, considerato che «the search for one, true, definitive set of scales seems a chimera since no completely superior method exists for their extimation» (Nelson J., Household equivalence scales: theory versus policy, in 11 Journal of Labor Economics, 1993, p. 471 ss.; l’aspetto è pacifico e cfr., tra i moltissimi che lo hanno evidenziato: C. Declich – V. Polin, Individuo e famiglia: quale fisco?, cit., par. 3.4.: «è importante sottolineare che non esiste in letteratura una scala di equivalenza corretta o migliore delle altre in senso assoluto e che la scelta della scala da applicare non è neutrale»; N. Sartor – D. Franco, Stato e famiglia. Obiettivi e strumenti del sostegno pubblico dei carichi familiari, Milano, 1990, 55).

[19] La circostanza è pressoché pacifica e la evidenziano chiaramente le parole di N. Sartor – D. Franco, Stato e famiglia, cit., p. 47, i quali, con specifico riferimento al problema delle «valutazioni sulla distribuzione del reddito” ma con valenza generale per tutte le problematiche di cui qui si discute, rilevano che tali valutazioni “implicano necessariamente confronti interpersonali dell’utilità che, come noto, non è possibile effettuare senza introdurre giudizi di valore»; ivi, pp. 71-76 sottolineano altresì che «le conclusioni circa la struttura ottimale dei sussidi raggiunta» dai vari studi economici «sono assai varie e sono tanto meno univoche quanto più numerose sono le variabili prese in considerazione da tali studi» e che «in numerose circostanze si porrà il problema più fondamentale di attribuire diverse priorità a obiettivi tra di loro in conflitto». In questo contesto, del resto, «la struttura ottimale dei sussidi dipende simultaneamente da numerosi parametri, la cui conoscenza è modesta» e spesso non derivante «dall’osservazione empirica ma dalle ipotesi circa la precisa formulazione matematica della funzione di utilità».

[20] In tal senso, ad esempio, F. Colonna – S. Marcassa, Tassazione e partecipazione al mercato del lavoro: il caso italiano, in Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), n. 191, Banca d’Italia, 2013.

[21] Dati EUROSTAT, elaborazione AGI – Openpolis, in Occupazione 2020. Focus Europa, p. 16.

[22] Così, N. Sartor – D. Franco, Stato e famiglia, cit., p. 70. In senso analogo C. Declich – V. Polin, Individuo e famiglia: quale fisco?, cit., par. 3.5., laddove si rileva che, per quanto attiene ai possibili effetti della tassazione familiare sull’offerta di lavoro, «le indicazioni offerte dalla teoria della tassazione ottimale trascurano alcuni aspetti rilevanti per l’analisi. L’affermazione secondo cui il sistema tributario non debba scoraggiare l’offerta di lavoro si basa sull’ipotesi che l’alternativa tra lavorare e non lavorare sia effettiva, mentre in alcuni casi tale scelta è determinata dalle condizioni del mercato del lavoro, più che dalle decisioni individuali. Un’analisi completa dovrebbe quindi approfondire gli effetti che può avere la variazione dell’offerta di lavoro sulla domanda».

[23] Al riguardo, la Corte costituzionale ha espresso fin dalla sentenza n. 179 del 1976 «l’auspicio che … possa essere data ai coniugi la facoltà di optare per un differente sistema di tassazione … che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice», la quale deve considerarsi tutelata (cfr. Corte cost., n. 28/1995) dall’articolo 4 della Costituzione. Sotto altro profilo, la dottrina economica più precisa ha dimostrato sotto il profilo empirico che «productivity in household production is also a determinant of bargaining power» (“potere negoziale” in ambito familiare che può ragionevolmente considerarsi come traduzione economica del sostrato dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi cui opera riferimento l’art. 29, comma 2 della Costituzione italiana), per cui «joint taxation does not appear to disadvantage women in bargaining» (cfr. R.A. Pollack, Family bargaining and taxes: a prolegomenon to the analysis of joint taxation, in 57 Cesifo economic studies, 2011, p. 216 ss.)

[24] In dottrina, è assodato anche il dato inverso, ossia che l’occupazione del secondo coniuge aumenta sì il reddito complessivo della famiglia, ma rende anche più alto il cd. “costo-opportunità” del tempo dedicato ai figli, con la conseguenza che di per sé diminuisce la propensione alla natalità (cfr. N. Sartor – D. Franco, Stato e famiglia, cit., pp. 41-44; J. Ermisch, An economic analysis of the family, Princeton USA, 2003, pp. 114-116). Ne consegue, anche sotto questo profilo, l’esigenza che l’intervento a sostegno dell’occupazione femminile sia mirato a rendere compatibile l’attività lavorativa con la decisione di avere figli: a nessuna donna dovrebbe porsi la drammatica alternativa tra lavorare e diventare madre ed è questo il punto chiave sul quale il legislatore deve incidere per favorire l’occupazione femminile. Ciò anche in attuazione dei principi di cui agli artt. 4, 30, 31 e 37 Cost.

[25] In questa prospettiva, alcuni spunti possono essere tratti dalla legislazione emergenziale dell’anno 2020, nel senso di estendere a regime la possibilità di smart working per i genitori di figli piccoli e di ottimizzare il sistema di permessi e congedi. Il problema più complesso, delicato e urgente rimane, tuttavia, quello delle professioniste, per le quali la struttura dell’attività svolta mal si presta a essere gestita con i tradizionali strumenti giuslavoristici. Per una possibile misura fiscale a sostegno di tale categoria si rinvia al testo.