Antonio Casciano
Dottore di ricerca in Etica e Filosofia politico-giuridica

Sommario: 1. La nascita del tomismo analitico – 2. Dal tomismo analitico alla scuola neoclassica – 2. 1 L’eredità dell’analytical jurisprudence nel pensiero di J. Finnis – 2. 2 Basic goods e legge naturale – 2. 3 La legge di Hume – 2. 4 Dei valori come principi pratici per l’agire umano – 2. 5 Fondamentalità, premoralità, incommensurabilità e mancanza di gerarchia dei beni fondamentali – 2. 6 Le “esigenze fondamentali della ragion pratica” e la dinamica dell’agire morale – 3. Uno sguardo critico sulla teoria neoclassica.

 

«Gli studiosi di etica e di culture umane assumono molto comunemente che queste ultime manifestano preferenze, motivazioni e valutazioni così ampie e caotiche nella loro varietà che nessun valore o principio pratico può dirsi evidente per gli esseri umani, giacché nessun valore o principio pratico è riconosciuto in ogni tempo e in ogni luogo[…]. Ma quei filosofi che hanno recentemente cercato di verificare questo assunto esaminando la letteratura antropologica hanno trovato con stupefacente unanimità che esso è ingiustificato».

(J. M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali)

 

  1. La nascita del tomismo analitico

 

Quest’anno ricorrono quarant’anni dalla pubblicazione di “Natural Law and Natural Rights”, l’articolata riflessione di John Finnis che, data alle stampe nel 1980, «ha segnato fin dal suo primo apparire una vera e propria svolta in filosofia del diritto ridando diritto di cittadinanza nel dibattito analitico contemporaneo al tema del diritto naturale e della fondazione oggettiva dei valori e princìpi morali»[1]. Un lavoro, dunque, destinato fin dall’inizio a fare epoca, ridando nuova vitalità al giusnaturalismo moderno per mezzo di un’impostazione analitica congiunta alla ripresa contestuale del diritto naturale classico e della analytical jurisprudence.

La Scuola Neoclassica, di cui Finnis è stato uno dei maggiori rappresentanti, nasce, come moto, dall’incontro tra l’onto-epistemologia aristotelico-tomista e lo stile di indagine speculativa proprio della filosofia analitica di matrice anglosassone. Il connubio tra le posizioni tomiste e la riflessione di stampo analitico ha generato, per la verità, un filone speculativo singolare ed inedito nella storia del pensiero, filone al quale la storiografia filosofica ufficiale ha scelto di dare il nome di “tomismo analitico”. Il carattere, invero, rigidamente antimetafisico e scientista della filosofia analitica delle origini, ispirata ad un’epistemologia di stampo rigorosamente empirista e positivista, permette di escludere, con certezza, qualsiasi indizio di un pregresso confronto dialogico tra le due tradizioni di pensiero, quella tomista e quella analitica appunto, che per un lunghissimo tempo si sono vicendevolmente e consapevolmente ignorate. E se a oggi il contributo di Tommaso è a ragione considerato ineludibile nella riflessione etica di stampo analitico[2], ciò si deve al fatto che, in questo lasso di tempo, molte cose sono cambiate, di cui due degne di nota: 1) la necessità di ripensare completamente l’etica analitica, smarcandola finalmente dall’eredità puramente meta-morale a cui era stata condannata dalla riflessione soprattutto di matrice inglese degli anni 1950; 2) l’opportunità di riconoscere l’assoluta singolarità e necessità del «rapporto con Tommaso d’Aquino e non invece solo, o soprattutto, con Aristotele»[3], e ciò in ragione del «ruolo che svolge, in questi autori, il tema della legge naturale o più in generale della norma morale»[4].

Le ragioni di questo cambiamento di paradigma nei rapporti tra tomismo e filosofia analitica, preludio alla nascita del tomismo analitico, possono rinvenirsi nell’influenza che ebbe non solo il cosiddetto Movimento di Oxford, ma anche la decisiva opera di progressiva alfabetizzazione tomista svolta, negli Stai Uniti e nel Canada, da Étienne Gilson e Jacques Maritain, tanto nell’ambito del Pontifical Institute of Medieval Studies di Toronto, quanto in quello della Faculté de Philosophie di Laval, Québec: «In questi anni si formò un’intera generazione di tomisti costituita in prevalenza da convertiti dal cattolicesimo che impararono a studiare ed apprezzare Tommaso da autodidatti, perché motivati da studio personale e sollecitati dal desiderio di trovare nuove argomentazioni e prospettive con cui entrare nei dibattiti analitici»[5].

Sul finire degli anni 1990 nell’Università di Notre Dame, John Haldane ebbe l’intuizione, inizialmente da lui stesso ritenuta provocatoria, di coniare l’espressione “tomismo analitico”, invitando i filosofi di tradizione cattolica ad aprirsi alla filosofia analitica e viceversa. Egli si rifaceva a una serie di autorevoli filosofi del secondo Novecento, influenzati soprattutto da Wittgenstein, oltre che da Aristotele e da Tommaso, come Elizabeht Anscombe, Peter Geach ed Anthony Kenny. E tuttavia, questa prima fase di contatto non fu particolarmente feconda, essendo scaturita da un clima iniziale di fiera opposizione, quando non di vera giustapposizione. Tuttavia, affinché la filosofia di Tommaso potesse fecondare dall’interno della scuola analitica, si comprese fin da subito come fosse necessario inaugurare, in seno a essa, un nuovo filone di studi interamente dedicato alla riscoperta della filosofia antica, e, in particolare, della feconda riflessione dello Stagirita. Fu così che la storia della filosofia antica smise di essere considerata come «una mera storia degli errori da evitare, da criticare o su cui ironizzare, ma le si riconobbe un valore intrinseco basato sulla capacità di portare argomentazioni e punti di vista validi nel dibattito analitico. Non si trattò semplicemente di riprendere gli studi storiografici – mai tralasciati dalla tradizione inglese – ma di fruirne in ordine allo sviluppo delle ricerche contemporanee»[6].

L’approdo al pensiero di Tommaso, infine, avrebbe rappresentato la precondizione ultima per il superamento definitivo dell’ingombrante eredità anti-metafisica e anti-ontologica del pensiero moderno per mezzo della riproposizione dello spirito della filosofia medievale, di quella linea di riflessione cioè che, recuperando il valore della trascendenza e la dimensione sapienziale della speculazione, consentisse di far fronte tanto alla frammentazione tipica del pensiero moderno, quanto alle sterili pastoie settorialistiche del razionalismo positivista[7]: «I filosofi che inneggiarono al cogito e si misero a percorrere la stessa strada di Descartes, la strada dell’io chiuso in se stesso e non dialogante con tutto ciò che esiste esternamente alla sua soggettività, non si resero conto che l’uomo moderno, così indottrinato, correva il rischio, come si è detto, di rappresentarsi il mondo e gli altri suoi simili a propria immagine e somiglianza, trasponendo in esso i propri limiti, i propri pre-giudizi e le proprie soggettive e limitate convinzioni, vere o false che fossero. Né lontanamente immaginarono che, se ogni uomo crea in questo modo dentro di sé una sua, ineliminabilmente interessata, rappresentazione del mondo e dei suoi simili, è inevitabile che ognuna di queste personali rappresentazioni sia in contrasto e in competizione con tutte le altre personali interpretazioni. E poiché manca il metro comune a tutte, ossia la realtà oggettiva “identica per tutti”, come aveva detto Aristotele nel primo capitolo del “De interpretatione” […], vengono con ciò stesso a mancare le condizioni necessarie per dialogare e, dialogando, per intendersi»[8].

Il dialogo presuppone una precondizione di mediazione simbolica intersoggettiva che siamo soliti identificare come codice linguistico. Da qui la preoccupazione metodologica costante degli analitici, che scorsero nell’analisi del linguaggio lo strumento principe di chiarificazione e risoluzione dei tradizionali problemi della filosofia, distinti tra quelli che hanno una consistenza effettiva e che dunque debbono a ragione assurgere alla dignità di vere questioni e quelli che, privi di consistenza reale, nascono invece proprio in ragione di patenti improprietà/equivoci nella fruizione dello strumento linguistico. Gli anni a cavallo della metà del Novecento, in particolare, rappresentano il momento di massima espansione delle correnti filosofiche che consideravano il linguaggio come il primo e privilegiato oggetto della riflessione speculativa, strumento principe del lavoro filosofico. Mentre in Inghilterra tuttavia l’analisi filosofica privilegerà, come oggetto di indagine, principalmente il linguaggio ordinario, di uso comune, negli USA l’analisi prediligerà il linguaggio formale, artificiale, elaborato logicamente e purificato dalle inessenzialità del linguaggio quotidiano[9].

Decisivo, nella storia dell’analisi filosofica del linguaggio, è stato, come noto, il contributo di Ludwig Wittgenstein. Dopo aver dato alle stampe il Tractatus, il filosofo austriaco si era ritirato a vita privata, svolgendo le più disparate attività lavorative. A circa dieci anni dalla pubblicazione, grazie ai contatti e alle insistenze del giurista Hans Kelsen e dell’economista Frank Ramsey, egli tornò alla docenza al Trinity College e dunque alla filosofia attiva. Proprio dal confronto con Ramsey, nacquero i presupposti sui quali sarà fondata la rivisitazione profonda di molte delle tesi esposte nel Tractatus. In particolare, fermo restando l’assunto per il quale le proposizioni complesse possono essere rappresentate come funzioni di proposizioni elementari, a mutare radicalmente sarebbe stato l’approccio funzionale verso le espressioni del linguaggio, cui viene ora riconosciuto un ruolo squisitamente pragmatico, cioè di orientamento del comportamento umano: le proposizioni hanno dunque un significato che non dipende solo dalla connessione tra le espressioni di cui sono composte, o tra queste e gli oggetti che esse designano, ma anche dall’uso che gli uomini normalmente ne fanno. Tuttavia l’uso non è riconducibile a regole positive applicabili, una volta per tutte, alle elaborazioni espressive, ma è invece il modo d’essere stesso del linguaggio, nelle sue dinamiche di concretizzazione sintattica, di strutturazione significante.

Il linguaggio ideale, logicamente perfetto, del Tractatus – a cui il linguaggio ordinario avrebbe dovuto incessantemente tendere e su cui avrebbe pedissequamente misurato la sua significanza e funzionalità – non è più al centro degli interessi di Wittgenstein. Ora il linguaggio ha un senso in funzione dello scopo a cui assolve e la spiegazione del suo significato non è unico e univoco, ma particolare, contingente, legato al farsi della situazione concreta.

Il linguaggio insomma non è più un’entità idealmente fissata una volta per tutte, ma una forma di vita, svolgimento di un’attività governata da regole diverse a seconda delle circostanze concrete, dell’intenzione del parlante.

Non esiste un modello capace di unificare tutte le forme possibili, ma una pluralità di usi alternativi e complementari, che si modificano ed aumentano in ragione dell’evoluzione delle umane esigenze e conoscenze: si tratta di una sorta di gioco, governato da regole predeterminate, ma i cui esiti possono essere tanto imprevedibili quanto incalcolabile può essere il numero delle mosse che ogni giocatore può ipoteticamente compiere[10].

Elizabeth Anscombe, allieva prediletta di Wittgenstein, esattamente come il suo maestro, segnerà un nuovo inizio in filosofia, in particolare, nella riflessione morale. Nella sua critica alla distinzione fatti-valore, alla concezione legalistica della moralità e al consequenzialismo situazionista, ella ricorse alla filosofia della mente, alla filosofia del linguaggio, a una particolare prospettiva storica, occasionando una focalizzazione immediata sui temi etici concreti[11]. La prospettiva proposta da Anscombe, nella specie, implicava la messa in discussione radicale dei principi fondanti la filosofia morale moderna e un recupero della terminologia aristotelica e tomista riguardo ai concetti morali fondamentali. Molti seguiranno Anscombe, in particolare l’amica e collega Philippa Foot. Quest’ultima, in due articoli pubblicati negli anni 1950 ‒ Moral ArgumentsMoral Beliefs, entrambi del 1958[12] ‒,  argomentando contro il prescrittivismo di Hare, espose le idee centrali della sua riflessione in ambito etico: le credenze morali devono concernere tratti del carattere e comportamenti che sono dimostrabilmente benefici o dannosi agli uomini; ciò che sarà considerato come benefico e dannoso non è questione di decisione umana, ma implica il riferimento ad attività e disposizioni che sono costitutive degli esseri pensanti come l’uomo. Il riferimento a tali elementi naturali esterni all’uomo vincola necessariamente il contenuto delle valutazioni morali. I termini morali, infatti, hanno dei significati descrittivi intrinseci. Ci sono cioè limiti e vincoli imposti dalla nostra natura, dal tipo di esseri viventi che siamo; dunque, date le condizioni in cui, come esseri umani, inevitabilmente ci troviamo, sarà impossibile, per una persona, vivere una vita soddisfacente senza esercizio delle virtù. Ma l’influsso di Anscombe in etica si diffuse anche attraverso il contributo di MacIntyre che, pur non essendo un filosofo analitico, risentì profondamente della critica di Anscombe alla filosofia morale moderna e contemporanea e, lavorando in un contesto analitico, entrerà ben presto in una relazione dialettica con questo[13].

Ma perché tali impostazioni potessero venire implementate in un discorso organico tale da mettere capo ad un nuovo filone di pensiero, fu necessaria una lunga gestazione, durante la quale, dall’approccio inizialmente circospetto nei confronti nell’elaborazione tomista, si giunse al punto di scorgere in essa i presupposti di una nuova semantica da porre al servizio della filosofia della prassi. Il pensiero dell’Aquinate, infatti, rappresentava un luogo teoretico irripetibile, nel quale cogliere la magistrale composizione del momento analitico – si pensi alle sottili distinzioni che compie Tommaso nell’affrontare una qualsiasi quaestio, all’analisi dei vari significati che può assumere un qualsivoglia termine, alle suddivisioni concettuali genere-specie che sono l’impalcatura portante di tutta la Summa Theologiae – con quello sintetico – Tommaso riesce ricondurre tutto a Dio, vertice della piramide teoretica in cui inserire ogni argomentazione. La riproposizione di tale pensiero condurrà ad un’apertura di credito, da parte di filosofi analitici, a favore di temi che fino a quel momento erano rimasti ai margini della loro attenzione speculativa, anche grazie alla «critica di Wittgenstein al mentalismo cartesiano e, nel contempo, al rappresentazionalismo, specialmente di matrice empirista»[14].

Del resto, quando Haldane usò per la prima volta, durante una conferenza tenuta nel 1992, coniandola ex novo, l’espressione “tomismo analitico”, lo fece muovendo dal presupposto che un difetto costante della riflessione di matrice analitica fosse stato proprio l’assenza di una dimensione metafisica nella trattazione dei problemi filosofici tradizionali:«Ritengo che il pensiero di Tommaso sia interessante, completo e coerente, ma sono anche dell’idea che gran parte di esso – certamente le parti filosofiche centrali ed importanti – sia vero. Penso anche che esso sia complementare alla parte metodologica enfatizzata dalla filosofia analitica: se questa è la forma di analisi critica e di rigore argomentativo più sviluppata della nostra storia, la prima è una fonte ricchissima di idee metafisiche in forme che sono esse stesse ben definite e logicamente curate»[15].  

Mentre, risale al 1995 il suo primo tentativo di abbozzare una definizione sintetica ed esaustiva di come intendesse il nascente “tomismo analitico”: «Un tipo di approccio filosofico ad ampio raggio che mutua insieme gli stili e le preoccupazioni della filosofia recente di lingua inglese e i concetti e i temi condivisi da Tommaso e dai suoi seguaci. Tale approccio ha qualche relazione con quei filosofi di Oxford, per esempio Austin e Ryle, che hanno cercato di rintrodurre nell’analisi del pensiero e dell’azione concetti quali quelli di capacità e disposizioni, che sono centrali nella filosofia aristotelica»[16].

 

La ripresa di Tommaso, doveva insomma avvenire non all’insegna di una sterile, ancorché meritoria, opera filologica, tesa a consegnare alla posterità una esegesi rigorosa della sua riflessione, ma nella prospettiva di offrire alla filosofia contemporanea un armamentario concettuale utile in vista della concreta risoluzione di problematiche filosofiche reali, scongiurando le secche contenutistiche a cui ci aveva abituati la filosofia analitica, «patologicamente afflitta da crampi mentali che rischiano di condurla a un prematuro decesso. […] Questi difetti, [della filosofia analitica, nda], secondo Haldane, furono quelli che determinarono la decadenza della tarda scolastica: evitarli è vitale per la filosofia analitica»[17].

Orbene, l’intento esplicito di reinterpretare l’etica e la politica di Aristotele e di Tommaso, che ha spinto gli ideatori a denominare neoclassica la loro teoria, ha suscitato interessi in molte aree del pensiero, ben oltre i confini della filosofia del diritto, in ambito cioè più propriamente etico-filosofico[18], in teologia morale[19] e nel dibattito etico-politico contemporaneo[20], così che pare sia divenuto sempre più urgente delineare i singoli tratti della teoria secondo il preciso ordine logico che li intesse e che di seguito cercheremo di presentare sistematicamente, muovendo dapprima «dal concetto stesso di valori fondamentali dell’esistenza umana, e da una comprensione adeguata delle caratteristiche formali con cui vengono descritti. Tale concetto infatti, come vedremo subito, è il vero punto di origine del sistema di Finnis e Grisez da cui bisogna partire se si vuole valutarne appieno la coerenza»[21].

 

  1. Dal tomismo analitico alla scuola neoclassica

 

Stiamo assistendo, già da qualche decennio, a una ripresa vigorosa degli studi tomisti, in particolare da correnti di pensiero di ispirazione analitica. Ciò potrebbe, a prima vista sorprendere, se solo si consideri che, come già evidenziato, i filosofi analitici, in particolare per ciò che riguarda la riflessione filosofica avente ad oggetto la morale e il diritto, hanno fin dall’inizio mostrato un certo disagio nei confronti delle dottrine della legge naturale, professando, di contro, una fede incondizionata per quegli approcci speculativi ispirati alla meta-etica non-cognitivista, piuttosto che alle teorizzazioni proprie del positivismo giuridico formalista[22]. Lo stesso Finnis, del resto, avrebbe affermato che «Bentham, Austin, Kelsen, Weber, Hart e Raz hanno tutti vigorosamente ripudiato quella che essi intesero come la teoria della legge naturale»[23].

Eppure, lo studio sistematico del pensiero dell’Aquinate ha progressivamente rivelato, agli occhi di pensatori di formazione diversissima, la perenne attualità della sua poderosa struttura teoretica, idonea, come nessun’altra a realizzare, l’integrazione della razionalità scientifica con quella filosofica, della ragione naturale con la fede religiosa, della filosofia con la teologia – interpellando ora la gnoseologia (i diversi livelli di astrazione e conoscenza della realtà), ora l’epistemologia (il problema dei fondamenti del sapere scientifico), ora l’antropologia (le risposte alle domande di senso che sorgono sul soggetto conoscente a partire dall’esperienza del reale). Nella misura in cui, cioè, la teoresi di ispirazione tomista ha reso nuovamente pensabile il superamento definitivo della frammentazione del sapere consegnataci dalla modernità, è risultato altresì nuovamente plausibile tanto il superamento della postura anti-ontologica dell’agnosticismo, con la conseguente riaffermazione della questione della verità e della sua unità (esiste una verità fuori di me ed io posso conoscerla), quanto la consegna agli archivi della storia del pensiero della gnoseologia cartesiana del kantismo, con la teorizzata divisione fra il “conoscere” della ragion pura ed il “pensare operativo” della ragion pratica, così da approdare finalmente al riconoscimento del reale come luogo teorico insieme oggetto della conoscenza scientifica e fonte della normazione morale.

Ebbene, la Scuola Neoclassica, tenuta a battesimo, nel 1962, da German Grisez, John Finnis e John Boyle, si inserirà esattamente in questo nuovo fermento culturale[24]. L’impostazione teorica prescelta lascia emergere fin da subito echi metodologici della analytical jurisprudence, non rinunciando tuttavia ad attingere ai contenuti del realismo classico, in particolare aristotelico e tomista, nei confronti della cui eredità essi mostreranno di sentirsi talvolta come i depositari ultimi della sola possibile interpretazione, e talaltra come i soli pensatori capaci di una distanza veramente critica dalla lettera dei relativi testi, al punto di tacciare di convenzionalità quanti non avessero accettato gli esiti della loro impresa ermeneutica[25]. Ma, al di là delle considerazioni possibili sulle conseguenze di tali distanze, sulle quali si dovrà tornare, va detto che la Scuola Neoclassica, inaugurava di certo uno sguardo innovativo sulla legge naturale, una visione teorica che pretendeva «di incorporare e riesaminare le generali intuizioni del cosiddetto positivismo giuridico moderno, ma anche di trascenderle e di reinserirle all’interno di una teoria della natural law adeguatamente sviluppata»[26].

Finnis, da parte sua, avrebbe messo a punto una prospettiva teorica capace di coniugare l’eredità del pensiero tomista con gli studi più recenti della analytical jurisprudence, in particolare con le riflessioni, sul punto di vista interno, del giuspositivista Herbert Hart, di cui era stato allievo e al quale riconoscerà sempre il merito di aver ridato vigore alla jurisprudence, riaprendo al suo interno la strada verso un’analisi dei valori che guidano concretamente la condotta umana: «Ogni autore ha il suo ambiente; questo libro [Natural Law, Natural Rights, nda]  affonda le sue radici in una tradizione moderna che può essere chiamata analytical jurisprudence, ed il mio personale interesse per quella tradizione precede il tempo in cui cominciai a sospettare per la prima volta che ci sarebbe potuto essere qualcosa di più nelle teorie della legge naturale che superstizione e oscurità»[27].

 

  1. 1 L’eredità dell’analytical jurisprudence nel pensiero di J. Finnis

 

Prima di procedere oltre, una doverosa premessa. Finnis, prima ancora di essere un filosofo generale, è stato un eminente filosofo e teorico del diritto, interessato a mettere a punto una teoria che si situasse nel punto di convergenza tra il portato culturale classico, anche se profondamente rielaborato, e le esperienze filosofiche di matrice anglosassone: una sintesi tuttavia mai sfociata nel sincretismo, ma che ha dato vita piuttosto ad un originale costrutto teorico, basato su una metodologia che ha prediletto un approccio al fenomeno giuridico a partire dagli strumenti di analisi offerti dalla filosofia del linguaggio oltre che dalla sociologia[28]. In che modo, allora, il ricorso congiunto alla filosofia analitica e all’eredità teoretica del tomismo ha permesso a Finnis di elaborare una sua personalissima teoria del diritto?

Si è già detto che Finnis è stato un allievo di Herbert Hart. Questi, sulla scia del secondo Wittgenstein, fa sua l’ispirazione di riabilitare il linguaggio ordinario o quotidiano, rispetto alla elaborazione meta-linguistiche del neopositivismo. La teoria del significato come uso era appunto diretta non a costruire artificialmente linguaggi scientifici, ma a scoprire l’effettiva modalità di funzionamento del linguaggio ordinario. Si prepara così la svolta pragmatica nella teoria del linguaggio. A differenza degli analitici della prima ora, che muovevano dal considerare l’analisi del linguaggio ordinario come strumento per la dissoluzione dei tradizionali “pseudo-problemi” della filosofia, Hart, sulla scia di John Austin, sarà tra quanti riterranno che tali problemi hanno invece una dignità filosofica loro propria e che l’analisi del linguaggio ordinario debba fornirci quanto necessario alla loro risoluzione e non alla loro dissoluzione.

Il linguaggio ordinario era per Austin il prodotto di un secolare processo di sedimentazioni linguistiche, di un’elaborazione ininterrotta di soluzioni espressive che presuppone esperienze in numero incomparabilmente maggiore rispetto a quelle presupposte da qualsiasi costruzione teorica; ciò però non esclude errori, falsità, incongruenze, superstizioni, che rischierebbero di non essere colti nel caso di un approccio acritico ed immediato al linguaggio ordinario: da qui la necessità di integrarlo ed emendarlo, facendo di esso il punto di partenza e mai di arrivo di ogni ricerca. In pratica, non esisterebbe un modello ideale di linguaggio, messo a punto una volta per tutte in sede teorica e capace in quanto tale di unificare tutte le sue possibili declinazioni espressive, ma una pluralità di usi alternativi e complementari dello stesso, che si modificano in ragione dell’evoluzione delle umane esigenze e conoscenze.

La teoria del significato come uso, allora, non permette più di pensare il linguaggio come indipendente dal contesto in cui si esercita, contesto la cui considerazione permette invece di riportare al centro tutto ciò che concorre a determinarlo, ovvero, bisogni, desideri, interessi, in uno con quella concezione del linguaggio inteso come un’attività legata alle forme più varie del vivere e del fare umano, inteso cioè come “forma di vita” nel senso di Wittgenstein. Ad Hart, dunque, il merito di avere inaugurato questa strada nell’ambito della riflessione sul diritto, di avere cioè «offerto la possibilità di un uso della filosofia analitica nell’ambito della scienza giuridica, che aspira a collocarsi in quel ristretto spazio intermedio tra puro rigore metodico e concezione sostantiva, configurando la teoria del diritto positivo come programma di ricerca aperto alla filosofia dell’azione umana senza veti preconcetti»[29]. A Finnis, invece, il merito di aver riabilitato, forte del metodo offerto dalla filosofia analitica del linguaggio e della pregressa elaborazione hartiana, l’uso pratico della ragione, di quella famigerata “ragion pratica” che Kelsen avrebbe considerato come la madre di tutti i più gravi errori filosofici[30].

Orbene, fin dall’inizio della sua opera, Finnis, nel riaffermare il carattere puramente descrittivo della scienza giuridica, sulla scia della analytical jurisprudence, sottolinea come la definizione del diritto presupponga pur sempre una precomprensione del luogo teorico nel quale sia possibile rinvenirne le tracce. Ebbene, se è dato riconoscere l’esistenza, a diversi livelli, di ordinamenti di diritto positivo, vuol dire che esistono dei beni che non potrebbero essere tutelati se non attraverso tali strumenti. Dunque, è esattamente in tale prospettiva teleologica, in ordine cioè alla necessaria tutela tali beni, che può essere avviata la ricerca sullo statuto ontologico del diritto.

Tra i beni tutelati dal diritto vi è anzitutto quello della pacifica convivenza umana e sociale, bene in assenza del quale nessuno potrebbe ragionevolmente puntare al fine della piena fioritura personale. L’accettazione condivisa di tale fine, come prospettiva teleologica propria della natura umana, e della necessità conseguente di postulare strumenti sociali che ne permettono la realizzazione – le regole che assicurano la convivenza sociale – è esattamente ciò che siamo soliti definire “diritto”: «Come ha mostrato Hart, una ‘concezione’ di un ‘sistema giuridico’ come ‘fenomeno sociale’ è ‘realistica’ solamente se riproduce il modo in cui le regole funzionano come regole nelle vite di quei membri della società che volontariamente accettano le regole come standard comune di condotta: quei membri che hanno un’attitudine ‘interna’ per le regole»[31].

Siamo al cuore della teoria hartiana, alla definizione di quel “punto di vista interno” che lo scienziato intento a definire obbiettivamente il fenomeno del “diritto” deve necessariamente far proprio. Il punto di vista esterno, oggettivo, scientifico, dello studioso, cioè, dovrà necessariamente coincidere con quello interno, connotato com’è da una ineludibile qualificazione morale: «Una teoria sociale descrittiva […], nelle sue descrizioni, non può fare a meno dei concetti che gli uomini forniti di ragionevolezza pratica hanno ritenuto adatti per descrivere a se stessi ciò che stimano degno di essere fatto e realizzato, a dispetto di qualunque contingenza, incomprensione e mito che si opponga alla loro prassi»[32].

Il debito di Finnis nei confronti di Hart, quindi, non può essere limitato alla sola teorizzazione da parte di quest’ultimo del cosiddetto contenuto “minimo” del diritto naturale, bensì, e soprattutto, nella concezione che quegli inaugura del diritto considerato nella sua parte puramente fattuale, ossia, come regola per la condotta dei consociati: «Invitandoci e incitandoci a riflettere sulle implicazioni delle nostre proprie disposizioni ad agire, “The Concept of Law” ripristina il vigore teoretico della jurisprudence e la sua apertura verso tutta quanta la filosofia e le altre scienze delle cose umane. […]. Ma essendo stati spinti oltre l’osservazione e la correlazione di eventi esterni e risposte comportamentali, veniamo invitati non solo a collegare tali modelli di attività con modelli di usi linguistici, ma anche, e più fruttuosamente, a collegare sia l’attività esterna sia l’uso del linguaggio con le attitudini, disposizioni, desideri, interessi, benevolenze, presupposizioni e, invero, le ragioni che abbiamo, o potremmo renderci conto di avere, in relazione a tali modi di agire e parlare. Modelli di condotta e di attività linguistica rivelano in pari misura modelli di ragione (ragionamento) e volontà (willingness); la jurisprudence avanza andando dietro il display»[33].

Modelli di condotta, dunque, ovvero regole intese a normare tanto la vita dei governati come dei governati. E siccome questa tipologia di regole assume una connotazione morale, in ragione del fatto che dalla loro osservanza dipendono le precondizioni della piena fioritura individuale all’interno del consesso civile, ecco che esse verranno fatte proprie da tutti i consociati, verranno cioè introiettate per mezzo dell’assunzione generalizzata, in ordine ad esse, del cosiddetto punto di vista interno.

È in tale prospettiva, teleologica e insieme psico-sociale, tesa a dimostrare l’esistenza delle ragioni che giustificano il “perché” del diritto, che si introduce il contributo del realismo classico aristotelico-tomista. Il diritto descrive infatti l’insieme delle motivazioni ragionevoli che spingono l’uomo saggio ad agire per far suoi alcuni beni fondamentali. Ecco allora che il diritto trova il suo fondamento ultimo proprio nella ragionevolezza umana e qui acquisisce il suo carattere oggettivo ed astratto. Ma non bisogna dimenticare che il valore della ragionevolezza, come norma generale delle azioni, delle attività, delle opere umane, era già presente nelle analisi wittgensteiniane sul linguaggio ordinario.

Ciò vuol dire che l’attenzione agli aspetti pratici del linguaggio o al “punto di vista pratico” dell’agire umano, richiede pur sempre un uomo capace di essere praticamente ragionevole, cioè di avere la virtù della ragionevolezza, la virtù di colui che è capace di vagliare ogni singola operazione umana, cogliendone le ragioni al di sotto dei desideri, degli interessi e dei fini estemporanei che possono muoverle: «Secondo l’Aquinate, il modo per scoprire che cosa è moralmente giusto (virtù) o sbagliato (vizio) consiste nel chiedersi non che cosa sia in accordo con la natura umana, ma che cosa sia ragionevole […]. Dall’inizio alla fine dei suoi discorsi morali, per Tommaso d’Aquino le categorie principali sono il “bene” e il “ragionevole”; il “naturale” è, dal punto di vista della sua etica, un’appendice speculativa aggiunta tramite la riflessione metafisica, non uno strumento con cui andare verso, o muoversi da, i pratici prima principia per se nota»[34].

Secondo Finnis, dunque, l’atteggiamento proprio del teorico del diritto deve essere sì rivolto alla ricerca della legge naturale, però non già intesa come un insieme di precetti derivati dalla natura umana, bensì come lo studio del diritto positivo, colto alla luce di quei princìpi pratici che sono per tutti praticamente ragionevoli. Detto altrimenti, se il diritto è un’impresa consociativa, le istanze molteplici e varie di singoli e gruppi tendono a comporsi e a consolidarsi in tendenze comuni e in strutture istituzionali condivise e la ragionevolezza pratica è la sola chiave capace di cogliere unitariamente il senso di tale fenomeno articolato e complesso. In quest’ottica, il cosiddetto “diritto naturale” non viene più concepito come altro dal diritto positivo, secondo quanto accaduto nella lunga tradizione del giusnaturalismo di ispirazione cristiana, ma come un metodo per elaborare una teoria del diritto positivo e, in definitiva, l’idea stessa del diritto in generale. Per questo l’obiettivo ultimo di Finnis sarà quello di mettere a punto una teoria giusnaturalistica del diritto positivo («a natural law theory of positive law»), dacché «there is no proper piace far a positivism outside natural law theory»[35].

 

  1. 2 Basic goods e legge naturale

 

Descritti il background culturale e, più in particolare, l’humus filosofico in cui matura la teorizzazione della Scuola Neoclassica, è ora importante spostare il focus sui contenuti dottrinali precipui della New Classical Theory, a partire dalla concezione della “legge naturale”.

Ebbene, essa risulterebbe basata su due elementi fondanti: da una parte, alcuni beni fondamentali, che concorrono a determinare l’orizzonte teleologico di riferimento, ultimo e definitivo, dell’agire umano, dall’altra alcuni criteri d’azione che costituiscono “indicatori pratici” necessari in vista del conseguimento effettivo e reale di tali beni. La “norma morale” risulterebbe dall’intersezione tra la tensione naturale ai “beni fondamentali” e la fruizione operativa degli “indicatori pratici” in vista del conseguimento di detti beni. Muovendo, dunque, dal presupposto dell’universalità delle “legge naturale”, ovvero, dall’idea di una legge morale che sia valida per tutti gli uomini di tutti i tempi, siffatta legge deve potersi riscontrare empiricamente nel comportamento degli uomini.

Per questo motivo, assumono un’importanza cruciale le conquiste dell’antropologia culturale, grazie alle quali verificare l’esistenza di alcuni lineamenti assiologici comuni, al di là della diversità delle culture e delle latitudini, che danno ragione del carattere meta-storico di alcuni valori: «Gli studiosi di etica e di culture umane assumono molto comunemente che queste ultime manifestano preferenze, motivazioni e valutazioni così ampie e caotiche nella loro varietà che nessun valore o principio pratico può dirsi evidente per gli esseri umani, giacché nessun valore o principio pratico è riconosciuto in ogni tempo e in ogni luogo […]. Ma quei filosofi che hanno recentemente cercato di verificare questo assunto esaminando la letteratura antropologica (comprese le analoghe indagini generali fatte dagli antropologi professionisti), hanno trovato con stupefacente unanimità che esso è ingiustificato. Queste ricerche ci autorizzano, in effetti, a fare alcune asserzioni piuttosto promettenti. Tutte le società umane mostrano riguardo per il valore della vita umana; in tutte l’autoconservazione è generalmente accettata come un motivo adeguato per l’azione, e in nessuna l’uccisione di altri esseri umani è permessa senza una giustificazione accuratamente [fairly] definita. Tutte le società umane considerano la generazione di una nuova vita umana come in se stessa una cosa buona, a meno che non sussistano speciali circostanze. Nessuna società umana manca di porre limiti all’attività sessuale; in tutte esiste una certa proibizione dell’incesto, una certa opposizione alla promiscuità illimitata e allo stupro, un certo favore per la stabilità e la permanenza nelle relazioni sessuali. Tutte le società umane mostrano riguardo nei confronti della verità educando i giovani non solo in questioni pratiche (per esempio, come evitare i pericoli) ma anche speculative o teoretiche (per esempio, la religione). […]. Tutte conoscono l’amicizia. Tutte hanno una certa concezione del meum e del tuum, titolo o proprietà, e della reciprocità. Tutte attribuiscono valore al gioco, serio e formalizzato o rilassato e ricreativo. Tutte trattano i corpi dei membri defunti del gruppo in un modo tradizionale e rituale, diverso dalle loro procedure per l’eliminazione dei rifiuti. Tutte mostrano riguardo per poteri o princìpi che devono essere rispettati in quanto sovrumani; in una forma o in un’altra, la religione è universale. […]. Il mio attuale interesse è per l’universalità di quei giudizi fondamentali di valore che si manifestano non solo in varie esigenze e restrizioni morali, ma anche nelle molteplici forme della cultura, dell’iniziativa e delle istituzioni umane»[36].

Esisterebbe dunque una pluralità di giudizi fondamentali di valore irriducibili gli uni agli altri – come la vita, la religione, la conoscenza, l’amicizia, il gioco, il culto dei defunti, la regolazione della sessualità – presenti in ogni cultura, ad ogni latitudine, e che, nel loro insieme, verrebbero a comporre il primo nucleo prescrittivo di quella cosa che è stata chiamata, nella tradizione del pensiero occidentale, “legge naturale”. Sarebbero tali valori, infatti, «l’unico sfondo valutativo che colora il quadro dell’etica. La vita morale si muove delineandosi all’interno di questo quadro, e le norme morali non possono che trovare in esso il loro orizzonte di significato. Data inoltre l’assenza di altre componenti assiologiche, e vista l’irriducibilità dei valori gli uni agli altri, essi vanno pensati come delle monadi, formalmente identiche tra loro, che si muovono nell’universo morale dell’uomo senza che nessun elemento oggettivo possa indirizzare la motivazione dell’agente verso uno di essi piuttosto che verso un altro»[37].

Dunque, ogni bene fondamentale rappresenta un valore assoluto, qualcosa che viene ricercato come fine a se stesso – diversamente, sarebbe infatti un bene meramente strumentale. Detto altrimenti, quanto alle ragioni del nostro e dell’altrui agire, troviamo che esistono cose che cerchiamo interamente o principalmente per il loro bene. Queste cose sono i beni di base, sono valori fondamentali in quanto sono ricercati per se stessi. Inoltre, sono da Finnis e Grisez chiamati intelligibili, perché li intuiamo come ragioni ultime per l’agire individuale, come tali proposti dalla stessa ragione pratica ad ogni singolo agente morale.

 

  1. 3 La legge di Hume

 

Chiarito che esistono, in tutte le culture umane, alcuni valori universali, meta-storici e meta-culturali, in nessun modo da tale dato fattuale si dovrebbe arguire la conseguenza per cui l’uomo debba necessariamente perseguirli. Siamo al cuore di quel principio logico-filosofico che nella storia del pensiero è andato sotto il nome di Legge di Hume. Ebbene, Finnis riconosce la validità di detta legge, assumendo che non è logicamente possibile dedurre il “dovere essere” dall’ “essere”, ovvero, andare da premesse puramente fattuali e descrittive a conclusioni aventi natura valutativa o prescrittiva. Del resto, secondo il Nostro, i principali autori di diritto naturale (da Platone ad Aristotele a Tommaso d’Aquino) avrebbero riconosciuto la distinzione logica tra “essere” e “dover essere” e ne avrebbero dato piena contezza nella differenza da loro teorizzata tra ragione speculativa e ragione pratica e tra i principi primi, distinti ed auto-evidenti, relativi a ciascuna di essa. Non avrebbero violato, dunque, il principio di non dedurre i precetti direttivi dell’agire pratico dai fatti della natura umana.

La conoscenza pratica, infatti, è pratica fin dall’inizio, dal momento che i principi primi suoi propri non sono dedotti dalla conoscenza speculativa della natura umana. Lo stesso Tommaso, secondo Finnis, confermerebbe la validità indiscussa di tale legge: «Come l’ente è ciò che per primo cade in assoluto nell’apprensione, così il bene è ciò che per primo cade nell’apprensione della ragione pratica, la quale è ordinata all’operazione. Infatti, ogni agente agisce in vista del fine, che ha natura di bene», e «i precetti della legge di natura si rapportano alla ragione pratica come i primi principi indimostrabili delle dimostrazioni si rapportano alla ragione speculativa. Infatti, entrambi sono dei principi di per sé noti». I fini ultimi dell’agire umano, dunque, avrebbero per Finnis valore di bene e sarebbero al contempo i primi princìpi della ragion pratica, che in quanto tali non possono essere dedotti da alcunché, essendo indimostrabili. Il dovere di perseguirli è perciò originario e non dipende in via deduttiva dalla conoscenza dei fatti, né da alcuna ontologia naturale: è così fugato il rischio di incorrere in una forma di fallacia naturalistica.

Tali argomentazioni se da una parte avvicinano le tesi finniane al giusnaturalismo classico, postulando l’esistenza di norme morali universali, assolute ed oggettive, dall’altra le allontanano in ragione del fatto che il valore deontico di tali norme riposerebbe non su una conoscenza descrittiva della natura umana, bensì sulla descrizione fenomenologica dell’agire desiderante dell’uomo: «La comprensione dell’ordine cognitivo dell’agente ricopre un’importanza fondamentale perché indica che all’origine di ogni scelta umana c’è sempre un giudizio di importanza (valore) che, proprio per questa sua posizione originaria (per il suo essere sempre “la premessa”), non può essere inteso, nell’ordine pratico, come dedotto o derivato da nient’altro. È questo il senso ultimo dell’autonomia della ragion pratica affermata da Finnis e Grisez: non che il giudizio di importanza de quo non dipenda in nessun modo da altre nozioni di natura metafisica o che il ragionamento pratico non implichi necessariamente delle conoscenze fattuali, ma che la natura di “premessa prima del ragionamento pratico” comporta necessariamente che il giudizio di importanza, nel suo ordine, non sia frutto di deduzione ma di una percezione originaria, seppur problematica, del valore da parte dell’agente».

Qui le teorie neoclassiche confermano una volta ancora la prossimità all’impostazione meta-etica di stampo analitico, che, in ordine a questo specifico aspetto, prevale in maniera evidente sul lascito di matrice aristotelico-tomista. Ma su questo punto, si tornerà oltre. Qui basti ribadire che, per Finnis, la motivazione concreta che spinge all’azione è pur sempre un fatto non della volontà ma della ragione partica, la quale sola può comprendere, per mezzo di tale percezione valoriale originaria, che quella stessa azione, orientata al conseguimento di un dato oggetto, è al tempo stesso rivolta verso un bene per l’individuo agente. Allo stesso modo, la medesima ragione potrà distinguere le pulsioni buone da quelle cattive, valutandone l’idoneità nella prospettiva della partecipazione ai beni fondamentali. Le pulsioni moralmente buone, in particolare, saranno quelle orientate al conseguimento dei basic goods, quelle non buone, invece, risulteranno in contrasto con il conseguimento di tali beni. In questo senso, allora, un comportamento umano non sarà valutato dalla ragione come ragionevole e buono a motivo della sua naturalità, ma, seguendo un percorso opposto, la ragione pratica prima verifica quali azioni sono conformi alla ragionevolezza pratica e poi potrà definire le stesse come buone e naturali. Per l’uomo, infatti, il “naturale” nell’agire consiste nell’ agire “secondo ragione”. La ragionevolezza assurge a criterio-guida nella messa a punto di una teoria morale della legge naturale rispettosa della legge di Hume.

 

  1. 4 Dei valori come principi pratici per l’agire umano

 

Abbiamo visto come esista un universo morale fatto di una pluralità di valori fondamentali, incommensurabili e irriducibili tra loro, che costituiscono i fini ultimi dell’agire umano in generale. Siccome essi costituiscono i princìpi primi e indimostrabili della ragion pratica, non possono in alcun modo dedursi dai fatti dell’osservazione empirica e ciò pone al riparo la teoria morale della Scuola Neoclassica dall’incorrere nella violazione delle Legge di Hume. E tuttavia, la riflessione sui valori come princìpi pratici, è il caso di chiarirlo, non spiega ancora il significato dell’espressione “valori fondamentali”, ma serve soltanto a mostrare come «valori e princìpi entrino in ogni considerazione delle buone ragioni per l’azione e in ogni compiuta descrizione della condotta umana»[38].

Ebbene, Finnis assume che prestando attenzione alle ragioni del nostro agire, è possibile scorgere un piccolo numero di beni di prima necessità che ogni uomo persegue naturalmente. Le apparentemente numerose e diverse ragioni per l’azione che le persone concretamente hanno e i beni che cercano, possono essere ridotti in un numero limitato di categorie di basic goods. Finnis, Grisez e Boyle, in uno scritto pubblicato di congiuntamente del 1987[39], hanno proposto sette categorie di beni di base, che sono divisibili in due gruppi: i beni sostanziali e i beni riflessivi. Il primo gruppo contiene tre categorie di beni che, si potrebbe dire, riguardano l’uomo in quanto creatura animata o vivente, come la vita, la salute e il loro mantenimento; l’uomo in quanto creatura razionale, come la conoscenza e l’esperienza estetica; l’uomo in quanto creatura insieme animale e razionale, come le varie pratiche simboliche per mezzo delle quali “attribuire significato” e “creare valore”. Il secondo tipo di beni, quelli riflessivi, sono invece: l’armonia interiore, la socievolezza, la religione. I beni sostantivi esistono di per se stessi indipendentemente dall’azione dell’uomo. Quelli riflessivi vengono invece ad esistenza solo nella misura in cui l’agente li realizza concretamente e sono definiti tali sia perché l’azione volta verso tali beni si riflette, nella sua efficacia, sulla persona dell’agente, sia perché essi stessi assurgono a buone ragioni per scegliere e contengono in sé altri motivi di scelta.

Il passaggio dalla considerazione di tali princìpi pratici ai valori fondamentali dell’esistenza umana avviene mediante un ulteriore livello di analisi. Si leggano le seguenti parole di Finnis: «Ora, oltre a vita, conoscenza, gioco, esperienza estetica, amicizia, ragionevolezza pratica e religione, esistono innumerevoli obiettivi e forme di bene. Ma io suggerisco che, all’analisi, si troverà che questi altri obiettivi e forme di bene sono modi, o combinazioni di modi, di perseguire (non sempre giudiziosamente) e realizzare (non sempre con successo) una delle sette forme fondamentali di bene, o una combinazione di esse»[40]. Dunque, il metodo adottato per l’individuazione dei beni fondamentali è di tipo analitico, dunque del tutto scevro da qualsiasi “contaminazione” di carattere metafisico. Il punto di partenza di tale individuazione non si situa non nella natura umana, ma nel dato empirico, sensibile, che la ragione pratica apprende ed elabora direttamente: «Le forme fondamentali del bene, colte dall’intelletto pratico, sono ciò che è bene per gli esseri umani con la natura che essi hanno. L’Aquinate osserva che il ragionamento pratico non inizia conoscendo questa natura dall’esterno, come se procedesse definendola con osservazioni e giudizi di carattere psicologico, antropologico o metafisico, ma sperimentando la propria natura, per così dire, dall’interno, nella forma delle proprie inclinazioni»[41].

La dinamica che porta ad isolare detti beni fondamentali è biunivoca. Si può partire, ai fini del loro rinvenimento, sia da una prospettiva esteriore al soggetto, ovvero, dagli “oggetti” del vivere che, incontrando il favore delle inclinationes naturali, è possibile qualificare come “beni”. Oppure, muovendo dalla prospettiva opposta, quella interiore, si potrà, assecondando le inclinationes naturali, approdare ai fini rispettivi in ordine ai quali poter esprimere un giudizio di valore. Ma sia che il tragitto inizi dall’esterno sia che prenda l’avvio dall’interno dell’uomo, l’aspetto ineludibile per arrivare alla qualificazione dei beni come tali è dato dalla sperimentazione pratica degli stessi, per cui la concreta e pratica esperienza di tali valori diventa la prima forma di conoscenza di essi. Dunque, tale modalità di apprendimento dei beni fondamentali, non ha carattere speculativo, teoretico, bensì appunto pratico, concreto, esperienziale: attraverso l’esperienza diretta, l’agente può isolare i beni fondamentali che si trova a perseguire e contestualmente assegnare loro una qualificazione valoriale. Su questo punto si tornerà ampiamente in seguito.

 

  1. 5 Fondamentalità, premoralità, incommensurabilità e mancanza di gerarchia dei beni fondamentali

 

Quali sono le caratteristiche di tali beni fondamentali? La prima, in ordine logico, è la fondamentalità. Essa sta indicare la proprietà che tali beni hanno di essere forme generali a cui la ricerca di qualunque altro valore può essere ricondotta, in quanto fini ultimi delle azioni umane. La fondamentalità di tali valori implica altresì la loro indimostrabilità, essendo essi le premesse prime del ragionamento pratico e, di conseguenza, tali da non poter essere propriamente dimostrati ma solo compresi. Ciò presuppone a sua volta tanto l’irriducibilità di quei valori a valori ulteriori, quanto la loro apertura. Essi, infatti, «non vanno intesi come limiti ma come il fondamento di un insieme potenzialmente infinito di azioni e di progetti di vita, tutti egualmente buoni e nessuno in grado di esaurirne la realizzazione. La migliore conoscenza dei valori non chiude prospettive ma ne apre di nuove»[42].

Oltre al requisito della fondamentalità, con il corollario di proprietà ulteriori appena elencate, altra caratteristica essenziale di tali beni è la loro premoralità, a dire che essi sono alla base di ogni libera azione umana, a monte di ogni giudizio morale[43]. Detto altrimenti, aver accertato l’esistenza di un sistema di valori fondamentali, di una struttura valutativa universale e necessaria per il funzionamento della ragion pratica, prova il fatto che «l’aggettivo premorale si può sostituire adeguatamente con la locuzione “che precede la scelta libera”. Questo punto è importantissimo. Per renderlo più esplicito bisogna dire che per Finnis e Grisez non è possibile un’azione libera e razionale che non abbia come fine almeno uno dei valori fondamentali. L’alternativa ai valori fondamentali è l’irrazionalità e la mancanza di libertà del pazzo o dell’ubriaco»[44]. Ciò significa che tutte le azioni, anche quelle moralmente riprovevoli, in quanto umane, cioè compiute da esseri razionali, sono volte a perseguire uno o più dei valori fondamentali: «I princìpi fondamentali del ragionamento pratico sottostanno e rendono possibile in egual misura il ragionamento sia delle persone buone sia di quelle cattive. Il prezzo per negare questo è dire che l’immorale è puramente irrazionale, e quindi libero da responsabilità morale»[45].

In quanto premorali, dunque, i valori fondamentali non appartengono al regno della libertà umana ma a quello della necessità. Essi infatti descrivono la traiettoria razionale di azione di ogni uomo verso i fini possibili che si propone di realizzare. In tal senso, i princìpi che impongono di perseguire tali fini, «costituiscono la struttura che è necessario sia già presente e attiva affinché la ragion pratica possa operare: in questo senso sono premorali. Il loro ruolo di “guida delle azioni” si esaurisce, propriamente, “prima” del giudizio, cioè prima dell’esercizio della libertà; più che come guide andrebbero pensati come canali obbligati. Essi non sono propriamente l’oggetto ma la condizione di possibilità della scelta. Io non sono libero di scegliere di perseguirli; semplicemente, poiché non posso perseguirli tutti contemporaneamente in ogni azione (altro presupposto che completa il quadro sulla pre-moralità), sono “libero” di scegliere di perseguirne qui ed ora uno invece di un altro o altri, ecc.; ma la ragione di questa scelta non è nei valori»[46], ma in me.

In altre parole, la libertà di scegliere comportamenti moralmente cattivi, ma comunque diretti da una certa forma, ancorché parziale, di razionalità pratica, richiede una distinzione tra i primi principi della ragione pratica in generale e la loro corretta o ragionevole applicazione nella scelta del bene morale. Il bene morale è il bene proprio dell’azione libera quando essa risulta conforme a tutti i requisiti di ragionevolezza pratica. Il male morale si ha invece quando la medesima azione non è ordinata secondo le esigenze di ragionevolezza pratica, quantunque anche una cattiva azione possa tendere verso un quid considerato come un bene umano (solo il bene può essere, infatti, oggetto dell’atto di volontà), basilare o semplicemente sensibile o sub-razionale: «Per alcuni il problema fondamentale della teoria etica è l’egoismo. Essi si chiederanno perché noi diciamo così poco su tale argomento. Ecco la ragione. Il dibattito tra l’egoismo e le sue alternative appartiene – come un discorso tra i tanti – all’etica normativa non alla fondazione dell’etica. Si può scegliere liberamente se essere un egoista. Ma non si ha alcuna scelta sul se l’armonia tra le persone sia un bene, o se l’armonia sia favorita o impedita dall’egoismo. E, in generale, i princìpi pratici che rendono le scelte possibili – e che non sono essi stessi scelti, egoisticamente o altrimenti – debbono essere presupposti in ogni indagine sulla valutazione dell’egoismo»[47].

 

Vi sono ancora due caratteristiche basilari dei beni fondamentali da segnalare. La prima è la loro incommensurabilità. Data infatti l’irriducibilità di tali beni gli uni agli altri, aspetto a cui abbiamo accennato in precedenza, mancherebbe di fatto un’unità di misura comune con cui poterli con-misurare, favorendo così una scelta tra essi alla luce di un criterio di pura razionalità: «Nella misura in cui i beni fondamentali sono ragioni senza ulteriori ragioni, essi sono princìpi primari. E poiché sono princìpi primari, i beni delle diverse categorie sono incommensurabili l’uno con l’altro. Infatti, se fossero commensurabili dovrebbero essere omogenei l’uno con l’altro, o riducibili a qualcosa di precedente con cui potrebbero essere misurati»[48].

Dall’incommensurabilità dei beni fondamentali, infine, discende, come conseguenza logica ulteriore, l‘altra caratteristica loro propria, ovvero, quella relativa alla mancanza di una gerarchia oggettiva tra essi. Non essendovi infatti un metro di misura unitario per i diversi beni, che sono, come detto, tra loro irriducibili e disomogenei, neppure sarebbe pensabile un fondamento razionale che consenta di considerare un valore come più importante di altri: «Se si focalizza l’attenzione sul valore della verità speculativa, esso può ragionevolmente esser considerato più importante di qualunque altra cosa; la conoscenza può essere considerata come la cosa più importante da acquisire; la vita può essere considerata una mera pre-condizione, di scarso o nessun valore intrinseco; il gioco può essere considerato frivolo; l’interesse per le questioni “religiose” può sembrare solo un aspetto della lotta contro l’errore, la superstizione e l’ignoranza; l’amicizia può sembrare degna d’esser tralasciata, o la si può ritrovare esclusivamente nel condividere ed accrescere la conoscenza; e così via. Ma si può spostare la propria attenzione. Se si sta per annegare o, ancora, se si sta pensando al figlio morto subito dopo la nascita, si è inclini a spostare l’attenzione sul valore della vita semplicemente in quanto tale. La vita non sarà ritenuta una mera pre-condizione di nient’altro; piuttosto, saranno il gioco, la conoscenza e la religione a sembrare secondari, e perfino superflui. Ma si può spostare la propria attenzione, in questo modo, su ognuno dei valori fondamentali che costituiscono l’orizzonte delle nostre opportunità»[49].

 

Ovviamente, in Finnis, l’esclusione di una gerarchia oggettiva tra i beni fondamentali, non esclude, ma anzi pare implicare, una gerarchia in una prospettiva puramente soggettiva, limitata cioè al singolo agente, che se ne fa promotore con le scelte concrete della sua vita. Detto altrimenti, la negazione di una gerarchia oggettiva tra i beni, porta con sé la necessità di una gerarchia soggettiva: «Naturalmente, ognuno di noi, nella sua vita, può ragionevolmente scegliere di attribuire maggiore importanza ad uno o ad alcuni valori», ma «il mutamento non è nella relazione tra i valori fondamentali»[50], bensì nel singolo che se ne fa promotore.

 

  1. 6 Le “esigenze fondamentali della ragion pratica” e la dinamica dell’agire morale

 

Gli assi che definiscono il piano cartesiano all’interno del quale tracciare il profilo della natural law, sono rappresentati, oltre che dai basic goods, anche dai cosiddetti basic requirements of practical reasonableness. Orbene, dette “esigenze fondamentali della ragionevolezza pratica” sono i criteri pratici che indicano come si possa partecipare, in un contesto d’azione specifico, ai beni fondamentali in una maniera eticamente lecita. L’individuazione concreta di tali criteri, poi, è opera esclusiva della ragion pratica. Ma, allora, qual è il meccanismo esatto di funzionamento della quest’ultima quanto alla deliberazione morale?

La ragion pratica mette a punto una lista di “principi intermedi” che mediano il passaggio dai beni fondamentali alle concrete e libere decisioni della vita degli uomini nelle situazioni concrete: «Gli ordinari ‘principi morali’ sull’omicidio, il furto, il mantenere le promesse, la calunnia e così via, si possono raggiungere mediante argomenti che partono da uno o più principi intermedi, e che hanno come termine medio uno o l’altro dei beni fondamentali. È per questo che ho chiamato questi principi intermedi ‘esigenze fondamentali della ragionevolezza pratica’»[51]. Detto altrimenti, la partecipazione ad uno o più beni di base in una particolare circostanza nella vita del singolo agente, domanda necessariamente l’uso di uno o più di tali principi intermedi: «I principi che esprimono i fini generali della vita umana non acquistano ciò che verrebbe chiamata ‘forza morale’ finché non sono applicati ad ambiti definiti di progetti, disposizioni o azioni, o a progetti, disposizioni o azioni particolari»[52]. I beni fondamentali, dunque, per essere partecipati in modo moralmente lecito hanno bisogno di alcuni principi generali d’azione che, declinati nelle situazioni specifiche, produrranno altrettante norme morali puntuali.

Orbene, gli autori della Scuola Neoclassica, elaborano, così come per i beni fondamentali, liste di “principi intermedi” o “esigenze fondamentali della ragionevolezza pratica” non propriamente congruenti, sia per quanto riguarda l’elencazione dei singoli principi, sia per ciò che concerne i requisiti che gli stessi principi dovrebbero avere. Tuttavia, quanto a quest’ultimo aspetto, i principi d’azione che la ragion pratica dispone in vista del concerto conseguimento dei beni fondamentali della vita, presentano caratteri non dissimili da quelli già osservati in ordine ai beni fondamentali. Al pari di questi, infatti, anche quelli risultano auto-evidenti, irriducibili gli agli altri, di pari importanza, non ordinabili gerarchicamente, se non in una prospettiva puramente individuale. Quanto alla concreta, possibile individuazione di un elenco di tali “esigenze pratiche”, esso dovrebbe contemplare i seguenti principi, identificati da Finnis stesso in Legge naturale e diritti naturali[53]: un coerente piano di vita; nessuna arbitrarietà nella scelta dei valori; nessun arbitrario nella preferenza accordata alle persone; fedeltà; efficienza; attenzione preferenziale al bene comune; primato della coscienza; ripudio dei beni apparenti.

Dunque, come la conoscenza a cui può pervenire la ragione speculativa ha bisogno della messa a fuoco previa dei principi primi dell’intelletto, allo stesso modo ogni giudizio della ragione pratica deriva da alcuni principi, evidenti ed inderivabili, noti anch’essi per natura, a cui abbiamo dato il nome di “esigenze della ragionevolezza pratica”. Ma oltre a questi “principi intermedi”, seguendo l’Aquinate, Finnis e Grisez ipotizzano l’esistenza di un primo principio della ragione pratica, autoevidente, comunemente reso per mezzo della formula: “Fai il bene ed evita il male”. I teorici della Scuola Neoclassica, tuttavia, contestano la comprensione neoscolastica del primo principio della ragione pratica. In un suo articolo del 1965, Grisez sosteneva che non dovremmo comprendere questo principio come un imperativo morale, ma come un principio che regola concretamente e dall’interno la ragione pratica, ovvero, ogni atto pratico, morale o immorale che sia. La funzione del primo principio della ragione pratica, infatti, secondo l’interpretazione offerta da Grisez, è proibire atti volitivi che sono inutili in quanto non diretti a fini considerati buoni o utili. Per questo motivo, esso non comanda all’agente di agire moralmente, ma più semplicemente gli ordina di agire per un fine di valore, così che anche gli atti immorali possono soddisfare questa condizione nella misura in cui sono diretti a raggiungere qualche fine considerato utile dall’agente. Se si desidera sapere come agire moralmente, allora, bisogna consultare ulteriori principi, in forza dei quali distinguere tra azioni che mirino ad un bene meramente utile, e azioni che, invece, sono dirette al conseguimento di un bene ritenuto sia utile che morale.

In breve, Finnis e i nuovi teorici del diritto naturale dividono la ragione pratica in due parti: la puramente pratica e la propriamente morale. Secondo questa impostazione, i primi principi della ragione pratica ‒ per esempio, “La salute deve essere perseguita” o “L’amicizia deve essere perseguita” ‒ sono “pre-morali”, poiché non fanno altro che identificare certe cose come degne di essere perseguite. Tali principi sono pratici nella misura in cui specificano fini degni di essere perseguiti, mentre il primo principio è pratico nella misura in cui esclude qualsiasi azione inutile perché irragionevole. I principi premorali, poi, sono tali perché non escludono del tutto mezzi immorali per perseguire i beni di base. Quindi, se avessimo solo questi principi, non ci sarebbe modo di distinguere tra azioni immorali e azioni morali. Per prendere un esempio – dato da uno dei più importanti esponenti della New Natural Theory – un agente potrebbe avere una ragione comprensibile per giocare alla roulette russa (cioè, il bene del gioco), e una ragione intelligibile per non giocarci (cioè il bene della vita). Ma non potremmo mai determinare la moralità della scelta di giocare alla roulette russa facendo appello soltanto ai principi primi della ragione pratica[54]. Da qui la necessità di principi morali che consentano di qualificare la moralità delle scelte intenzionali, e dunque l’immoralità, per rimanere all’esempio, di giocare alla roulette russa, ancorché giocare sia di per sé un bene di base.

Quali sarebbero, dunque, questi principi di moralità – non di premoralità – secondo Finnis e Grisez? Come abbiamo già detto, essi sono il cosiddetto primo principio di moralità e i suoi corollari, o “esigenze della ragionevolezza pratica”. Il primo principio di moralità è un imperativo che vieta tutte le scelte incompatibili con l’obiettivo della piena fioritura umana, uno standard ultimo di moralità che richiede il rispetto di tutti i beni di base. Le “esigenze della ragionevolezza pratica, che Grisez chiama “modalità di responsabilità”, sono invece imperativi morali particolari che vietano scelte incompatibili con il rispetto di un bene di base specifico. Quindi, per tornare all’esempio precedente, giocare alla roulette russa rappresenta un agire intenzionale ma immorale, poiché implica una mancanza di rispetto per il bene fondamentale della vita. Uno che insegue il bene del gioco persegue un fine utile e, pertanto, agisce in conformità con il primo principio della ragione pratica. Un tale agente è perciò, ma non potrebbe essere chiamato completamente razionale se ignorasse una rivendicazione più forte della modalità di responsabilità che vieta di perseguire il bene di giocare a scapito del bene della vita.

È in questo modo, dunque, che Finnis e Grisez derivano norme morali specifiche dal primo principio di moralità, contestando alla radice l’affermazione neoscolastica in base alla quale il criterio morale dell’azione è dato in generale dalla sua conformità alla natura umana. Secondo Finnis, l’Aquinate non ha mai affermato che la bontà morale di un atto si misura in base alla sua conformità alla natura umana, ma al contrario ha sempre sostenuto che la bontà morale di un atto sia da misurare dalla sua conformità a uno standard di ragionevolezza. Mentire non è immorale perché non si addice a un agente razionale le cui facoltà intellettuali sono dirette, essenzialmente, alla ricerca della verità. Mentire è moralmente illecito perché mostra un rispetto insufficiente per un bene fondamentale, cioè la conoscenza. La persona perciò non è essere passivo che segue supinamente i dettami normativi della ragione agente speculativamente, ma agente attivo che produce, grazie alla practical reason, indicazioni pratiche in vista di un agire concreto[55]. E anche su questo punto, si tornerà alla fine per una serie di considerazioni critiche.

 

La dinamica dell’agire morale domanda il succedersi, in un ordine logico rigoroso, dei seguenti passaggi: il primo principio si mostra con evidenza all’uomo che agisce nel concreto ed assurge a criterio generale di orientamento pratico in vista dell’azione. Sempre nel contesto dell’agire effettivo, l’agente scopre le inclinazioni naturali sue proprie, intese però come possibilità orientate al conseguimento dei beni[56]. Nessuna di dette inclinazioni, tuttavia, è da considerarsi come condizione necessaria per l’agire umano, indicando piuttosto delle mere opportunità di scelta. Una considerazione identica deve farsi per i beni fondamentali, i quali appaiono funzionali alla realizzazione umana integrale, ma che di per se stessi sono elementi incapaci di indicare le azioni moralmente lecite. Una volta sperimentate le inclinazioni e conosciuti per mezzo di esse i beni di base, nasce il desiderio di partecipare a questi ultimi[57], partecipazione che potrà lecitamente realizzarsi solo nel rispetto dei principi intermedi, colti come esigenze evidenti della ragione pratica, ma parimenti privi di qualificazione normativa. Allorquando questi ultimi, calati nella contingenza di un’azione concreta, genereranno le norme morali specifiche, la volontà dell’uomo vedrà finalmente tracciato il percorso, moralmente valido, in vista del conseguimento dei beni di base.

L’orizzonte teleologico ultimo dell’agire morale individuale, infine, è rappresentato, sia per Finnis che per Grisez, dalla “realizzazione umana integrale”, ovvero, dalla realizzazione, per quanto possibile contestuale, di tutti i beni di base in tutte le persone che vivono in uno stato di armonia[58]. Poiché, tuttavia, nessuna linea di condotta può consentire la realizzazione di tutti i beni di base e tutte le possibili istanze sottese a quei beni, la realizzazione umana integrale è soltanto un ideale il cui scopo è quello di ordinare la volontà verso la migliore esemplificazione possibile dei beni di base.

 

  1. Uno sguardo critico sulla teoria neoclassica

 

Nei capitoli precedenti, abbiamo tracciato le linee essenziali della nuova teoria del diritto naturale proposta da Finnis e Grisez. In particolare, seguendo la traiettoria di sviluppo della loro riflessione, abbiamo visto intanto come sia possibile scoprire una serie di beni di base muovendo dalle ragioni concrete che fondano l’agire dell’uomo e poi come le modalità di conoscenza di tali beni siano risultate incompatibili con l’impostazione teorica classica, cha le fa derivare dai fatti riguardanti la natura umana. Abbiamo anche mostrato come Finnis e Grisez argomentino a favore tanto dell’assenza di una gerarchia oggettiva dei beni di base – a partire dalla riscontrata incommensurabilità degli stessi – quanto dell’esistenza di un criterio di liceità morale fondato sulla conformità dell’atto ai principi della ragion pratica, piuttosto che alle norme dedotte dalla legge naturale. Infine, si è visto che come la messa a punto del primo principio della ragione pratica li abbia costretti a postulare l’esistenza di ulteriori principi morali, utili a distinguere tra atti morali e atti immorali. Ma ciò che pare aver creato maggiori difficoltà, nella complessa opera di reinterpretazione dell’etica classica proposta dai neoclassici, è la loro decisa negazione del concetto di fine ultimo.

Tommaso dal canto suo riconosce espressamente come «sia necessario che sia unico l’oggetto verso cui tende la volontà come al suo ultimo fine»[59], ovvero, come non ci possano essere più fini ultimi dell’agire umano, aventi tutti pari dignità e come tali incommensurabili e irriducibili gli agli altri. In tale ultimo caso, infatti, sarebbe impossibile operare una scelta tra fini che fra loro non possono essere paragonati. Sappiamo invece che le scelte dell’uomo poggiano tutte su un unico motivo (il bene) e quindi tendono tutte a questo unico fine: «È necessario che l’uomo desideri in vista dell’ultimo fine tutto ciò che desidera»[60]. Quindi non si può non postulare l’esistenza di un unico fine ultimo e questo è dall’Aquinate identificato con il bene: «L’espressione “il bene è ciò verso cui tutte le cose tendono” non va intesa nel senso che tutte le cose tendono verso ciascun bene, ma nel senso che ha natura di bene qualsiasi cosa verso cui si tenda»[61]. Al pari di ogni altro essere vivente, l’uomo agisce per il bene e lo fa secondo la forma sua propria. E siccome la forma dell’uomo è la razionalità, i suoi atti sono umani in quanto conformi alla ragione. Ciò comporta che, mentre il fine verso cui tende l’appetitus irrationalis degli animali e delle piante è determinato dalla natura, nell’uomo il fine è determinato dal lui stesso, nel senso che egli ha la facoltà non solo di conoscere il fine, cosa che fa per mezzo della ragione, ma anche di industriarsi per conseguirlo, cosa che fa per mezzo della volontà.

Ma, per proporsi il bene come fine, egli deve conoscerlo. Come ottiene tale conoscenza? Ebbene, osservando l’agire dell’uomo nella vita reale, ci avvediamo del fatto che egli si propone dei fini che in realtà sono mezzi per conseguire altri fini. Da tale analisi risulta esistere dunque un fine ultimo, che non è mai mezzo di un fine ulteriore, identificato con il bene supremo, consistente nella felicità, conseguendo il quale l’uomo non è portato a desiderare altro. Perché l’uomo si formi il concetto di bene supremo il suo intelletto non deve far altro che unificare in un concetto unico tutti quei beni considerati come mezzi e che trovano in una tendenza unitaria il loro elemento unificante. E così il bene supremo, la felicità, deve essere uno stato perfetto, stando nel quale l’uomo non desidera più nulla, come accade quando le sue tendenze sono in quiete per aver tutte conseguito l’oggetto loro proprio. Ebbene, questo stato, non può essere dato che da Dio solo, che è il fine verso il quale tutta la natura umana spontaneamente tende: «Dio è precisamente l’ultimo fine dell’uomo»[62], in quanto «l’uomo per natura è ordinato a Dio come a suo fine»[63] ultimo. La partecipazione a questo fine ultimo che è Dio genera la felicita somma. Dunque, mentre per Tommaso esiste un fine ultimo identificabile con Dio, per gli esponenti della Scuola Neoclassica non esiste, come visto, un solo fine, ma più fini, tra loro ugualmente importanti, e pertanto incommensurabili ed irriducibili. Dio, cioè, può per essi rappresentare un fine unico nel campo della fede, ma non in quello morale.

La perfetta commensurabilità dei beni e l’esistenza di un ordine gerarchico tra essi si danno anche all’interno della teoria neoclassica, sebbene su un piano puramente soggettivo. Ciò vuol dire che, per Finnis e Grisez, nella gerarchia di beni stabilita da un agente morale, i beni fondamentali non sono i fini veramente ultimi delle sue scelte, esistendo comunque un fine ulteriore ed ultimo, soggettivamente individuato (per esempio, l’importanza assegnata al bene della conoscenza), che assurge a causa prima nell’azione pratica e a fonte primigenia delle norme morali.

A questo preliminare punto di critica della teoria neoclassica, se ne aggiungono ancora due. Se i beni morali sono buone ragioni per agire, è possibile individuare in Dio, bene supremo e fonte della felicità piena, la migliore ragione pratica all’azione in assoluto, con ciò superando definitivamente l’assunto della piena uguaglianza valoriale dei beni fondamentali postulata da Grisez e Finnis e dunque l’asserita irriducibilità ed incommensurabilità degli stessi. Infine, la rilevanza di Dio come fine supremo ed ultimo dell’agire pratico può essere affermata anche sul piano speculativo, allorché si individua in esso la “causa in-causata”, il principio primo generatore del tutto, principio che si avvicina assai al concetto di “motore immobile” di ascendenza aristotelica.

Perplessità ha generato anche la posizione teorica dei Neoclassici in ordine al fondamento della legge naturale. Sappiamo che la legge naturale era così definita da S. Tommaso: «Lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura – La legge naturale non è altro che la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale»[64]. Poco prima, sulla scorta del Salmo n. 4, aveva dato una definizione ulteriore: «[Lex naturalis] nihil aliud [est] quam impressio divini luminis in nobis – La legge naturale altro non è che l’impronta del lume divino in noi»[65]. Tale impronta, dal punto di vista morale, altro non è se non la capacità che ha l’uomo di distinguere il bene dal male. Dire che una cosa è buona o cattiva è misurarla dal punto di vista della sua qualità morale. Ebbene, la legge è esattamente la misura dell’atto che è essa chiamata a regolare. Ma quando la ragione (pratica, in quanto ha per oggetto l’agire) misura un determinato atto, lo fa in base a un principio, che è anche il prescelto fine di ogni atto umano.

L’ultimo fine degli atti umani o è, nell’ordine spirituale, Dio, o è, nell’ordine temporale, il bene comune, consistente nell’insieme delle condizioni occasionanti la pacifica convivenza dei consociati. Solo Dio e il bene comune, dunque, possono avere, ciascuno nel proprio ordine, natura di ultimo fine, sebbene il vero e proprio ultimo bene sia Dio, giacché non si possono dare due fini ultimi. Comunque, entrambi hanno natura di bene e quindi, come tali, originano la trasformazione del giudizio della ragione teoretica in comando della ragione pratica: «La ragione, cioè, dopo aver giudicato buono un atto, in quanto per mezzo di esso si giunge al bene, verso cui tende per natura l’appetito intellettuale, qual è la volontà, lo prescrive, passando così dalla forma indicativa alla forma prescrittiva, come se dicesse: “Quest’atto è buono; dunque, quest’atto è da farsi”»[66]. Detto diversamente, chiamando Dio all’esistenza le creature tutte, ne ha “codificato” l’essere per mezzo della legge eterna, così, come esse partecipano all’essere divino a motivo del loro essere creature, così parimenti partecipano alla legge eterna a motivo del fatto che la regola teleologica del loro agire è impressa nella loro natura. L’aspetto finalistico è cioè insito nell’ente creato, a significare che la natura di un essere è l’ordo voluto da Dio per quella creatura.

La creatura umana, in particolare, partecipa della legge eterna per mezzo della ragione e per mezzo di essa la conosce, ovvero, «poiché l’uomo non è capace di conoscere perfettamente la natura divina, non è capace nemmeno di conoscere perfettamente la legge eterna, che coincide con tale natura a causa della semplicità di Dio. Egli non può che conoscerla nei soli princìpi, così come nei soli princìpi conosce la scienza divina. E come dai princìpi speculativi deriva tutte le conclusioni delle scienze, così dai princìpi della legge eterna deriva tutte le sue infinite applicazioni, che da essa trae via via nei vari tempi e nei vari luoghi, per definire ciò che è il bene particolare in un particolare tempo, in un particolare luogo e in una particolare circostanza»[67]. E siffatto bene particolare è tale perché razionale, ovvero, confacente alla natura propriamente razionale dell’uomo.

Orbene, se la natura dell’uomo è razionale, e dato che la natura è principio di ogni inclinatio, ognuna di esse sarà necessariamente razionale, in uno con i fini a cui essa è rivolta. Ma il giudizio di moralità in ordine a tali inclinazioni è sempre offerto per relationem dalla ragione. La pietra di paragone ultima, per verificare se una inclinazione è o no conforme agli scopi indicati dalla natura, sarà sempre data dalla ragione. Se e solo se l’inclinazione è confacente alla ragione, il giudizio in ordine ad essa sarà positivo, perché in accordo alla natura appunto razionale dell’uomo. Ecco spiegato anche il significato che il Dottore Angelico attribuisce allo stesso termine “legge”, la quale è, appunto, rationis ordinatio, un ordinamento razionale ad un fine.

Il principale elemento di critica, nei confronti della teoria neoclassica, è allora rappresentato dalla marginalizzazione in essa operata del ruolo di Dio, che trova una sua collocazione solo nell’ambito dei beni fondamentali, in quanto elemento imprescindibile per conseguire il fine della piena fioritura umana, ma che in nessun modo è pensato dai neoclassici come Bene Sommo, avendo piuttosto un’importanza del tutto pari a quella riservata agli altri basic goods. Del resto, Finnis lo ammette candidamente quando afferma che: «Questo libro [Legge naturale e diritti naturali, n.d.a.] offre un disegno piuttosto elaborato di una teoria della legge naturale senza bisogno di riferirsi alla questione dell’esistenza o natura o volontà di Dio»[68]. Dunque, l’esito a cui giungono i teorici della Scuola Neoclassica sono gli stessi cui è approdato nei secoli il giusnaturalismo moderno, anche se le strade percorse dai primi sono quelle dell’empirismo e della meta-etica di ispirazione analitica.

A parte la contraddizione in termini di voler assurgere ad interpreti autentici del pensiero tomista elaborando una teoria della legge naturale che fa completamente a meno dell’orizzonte metafisico, il problema maggiore di una simile impostazione teorica sta nel carattere ultimamente auto-nomo della practical reason. Eppure, quest’ultimo è un assunto irrinunciabile per i Neoclassici. Diversamente, ammettendo cioè il carattere eteronomo della morale, in quanto ancorata nella legge eterna identificata con Dio stesso, nel quale atto e potenza necessariamente coincidono, si avrebbe una normazione morale teocentrica, nella quale la persona appare “in balia” della volontà divina e non giunge mai a quel processo di maturazione esistenziale che lo porterà ad essere soggetto-autore dei propri atti e del giudizio assiologico su questi. Inoltre, i beni fondamentali, risulterebbero tali in forza dell’importanza loro data dall’essere in relazione con Dio, piuttosto che in forza del valore ontologico loro proprio. Conclusioni, queste ultime, assolutamente non accettabili dai teorici della Scuola Neoclassica.

 

Un ulteriore fonte di perplessità è poi dato dal differente ruolo attribuito alla ragione in Tommaso e nei Neoclassici. Nel primo, la nozione stessa di legge è costitutivamente ed essenzialmente legata a quella di legge, che secondo Tommaso, è «aliquid pertinens ad rationem – qualcosa che appartiene alla ragione»[69]. Che la legge sia qualcosa di appartenente essenzialmente alla ragione è dovuto al fatto che il suo significato precipuo ha a che fare con l’idea di ordinare e, sappiamo, non si può ordinare se non per mezzo di imperativi, come fa il comandante dell’esercito, e come fa anche la ragione divina nell’universo: «Se, infatti, l’ordine ha la sua causa nella ragione, è evidente che tale ordine non può non essere dovuto materialmente (ossia quanto all’esistenza) che alla volontà divina e formalmente (ossia quanto alla sua essenza) che all’intelligenza divina, dato che, nei confronti della ragione umana, tale ordine è dato ad essa e non fatto da essa»[70]. Orbene per i Neoclassici, la ragione pratica si limita semplicemente a riconosce l’esistenza di alcuni beni fondamentali e di alcuni criteri d’azione chiamati principi intermedi, ma svolge una funzione meramente dichiarativa, giammai costitutiva, tesa a pronunciare non un giudizio di evidenza, ma un mero asserto di evidenza.

Vi è un ulteriore, decisivo, nodo teorico nell’impostazione neoclassica che deve essere portato all’attenzione e che riguarda proprio il principio-criterio di evidenza. Abbiamo più volte appurato come l’osservazione empirica dell’agire esperienziale dell’uomo consenta l’emersione di una serie di inclinazioni naturali che assurgono a beni fondamentali nella costruzione etica neoclassica. L’evidenza della prassi rivela il contenuto normativo delle inclinazioni alla ragione pratica. La conoscenza pratica di un’inclinazione, che indica i beni di base, disvela il valore di essa, ma così si assiste al passaggio inopinato dall’essere di tali inclinazioni, al dover essere del valore moralmente orientante riconosciuto ad esse, violando patentemente la Legge di Hume. Alla domanda, cioè, sul perché la ragione pratica, nello sperimentare le inclinazioni naturali, giudichi moralmente buoni i beni di base, la risposta dei Neoclassici si limita a richiamare l’autoevidenza di tale pretesa verità, incorrendo dunque, in una petizione di principio. Il piano gnoseologico dell’evidenza riscontrata in ordine a tali inclinazioni, si confonde con quello assiologico implicante il giudizio sulla loro moralità.

 

Non è chi non veda come l’origine di tali problemi sia da rinvenirsi nelle scelte metodologiche, e dunque ultimamente epistemologiche, di fondo dei Neoclassici, che hanno inopinatamente creduto di poter fondare l’etica sul dato fattuale-empirico, rifiutando qualsiasi concessione tanto alla metafisica quanto all’ontologia e anzi facendo una professione di fede inconcussa sul solo criterio della verificabilità psico-sociologica di quei dati fattuali emergenti dall’analisi dell’esperienza, dati che, ancorché colti nella forma di beni orientanti le inclinazioni umane, sono assurti a fondamenti di tutto l’edificio teorico moral-filosofico neoclassico, edificio, però, le cui basi paiono tutt’altro che al riparo da criticità.

Una metodologia dell’etica realmente ispirata all’impostazione del realismo classico aristotelico-tomista, infatti, domanderebbe in primis una rivalutazione radicale dell’intelletto – leggasi ragione – teoretico, la cui posizione, nell’ambito della teorizzazione neoclassica appare invece decisamente marginale, per non dire irrilevante del tutto. È invece l’intelletto che coglie ciò che è bene fare in dato momento, «ma non potendo costringere con il suo comando la volontà, traduce il proprio comando nella formula: Tu devi e il comando diventa così norma, nella quale l’intelletto dictat (dice, non costringe) alla volontà quale, tra le due alternative contrapposte, è quella moralmente buona»[71]. Il secondo step è quello che segna il passaggio dal dover essere del comando dell’intelletto teoretico, all’essere dell’agire dell’intelletto pratico. Tuttavia, può accadere che tale passaggio non si effettui, allorquando l’uomo si ferma al solo dato fenomenico dell’essere, colto dai sensi, da cui non è possibile ricavare nessun dover essere e, per conseguenza, nessuna norma per la volontà.

Dunque, in ogni atto umano, vi deve essere sempre qualcosa che promana dall’intelletto e altro che promana dalla volontà. È l’intelletto, ad esempio, che «riesce a cogliere la differenza esistente tra camminare e parlare. E, nel coglierla, giudica se, in un dato momento, è bene fare una cosa o l’altra. Non è la volontà a decidere ciò che è bene in un dato momento. Essa, dopo che l’intelletto ha giudicato buono un atto, ha solo il potere di porlo o di non porlo. […] La volontà, invece, ha per oggetto il bene, che per altro non costituisce; ma si limita solo a comandare alle altre facoltà di fare proprio quel bene che l’intelletto ha giudicato essere tale»[72].

Ma laddove la volontà si ribellasse all’intelletto, potrebbe comandare di fare non ciò che è bene secondo quest’ultimo, ma ciò che contravviene alle indicazioni da esso fornite. Per questa ragione, l’agire perfettamente razionale e l’agire perfettamente morale dell’uomo coincidono nell’epistemologia aristotelico-tomista. In questo senso, secondo Aristotele, la misura della verità etica è l’uomo virtuoso[73], giacché solo in questi la volontà lascia che l’intelletto e la ragione si muovano secondo le regole loro proprie, giudicando vero ciò che è realmente vero e bene ciò che è realmente bene. L’uomo virtuoso di Aristotele è l’uomo che è riuscito a purificare la ragione dall’invadente potere delle passioni e ad allineare del tutto le deliberazioni della volontà ai giudizi dell’intelletto. Nessuna costruzione teorica in etica, né alcuna deliberazione morale nell’agire dell’uomo sarebbero dunque pensabili in assenza di un ruolo determinate che va riconosciuto, oltre che alla volontà, all’intelletto teoretico e speculativo, la cui attività precede necessariamente quella della o ragione pratica, la quale dunque, a differenza di quanto sostenuto dai Neoclassici, non può rivendicare alcun grado di autonomia e meno che mai di autoreferenzialità.

Vi è un ultimo appunto critico da muovere agli esponenti della Scuola Neoclassica. Sappiamo che per Aristotele, la natura indica ciò che le cose presentano nel maggior numero dei casi e per il maggior tempo. Muovendo dunque da un elemento quantitativo, colto dai sensi, attraverso la presenza costante di certe qualità che accompagnano le cose, si giunge ad una valutazione qualitativa grazie ad un’operazione astrattiva dell’intelletto, capace appunto di capire che quei dati quantitativi che accompagnano la cosa costantemente, non possono non essere interpretati se non come delle qualità inerenti alla natura essenziale della cosa stessa e ad essa, quindi, necessariamente congiunti: «Dopo che l’intelletto ripete più volte queste stesse operazioni relativamente a varie cose e conclude sempre con la definizione della loro natura, riflettendo su tutte queste operazioni, astrae successivamente da esse il concetto (e la definizione) di essenza»[74], o, diremmo di natura.  Dunque, l’intelletto teoretico non si limita a conoscere come una certa cosa è in quel momento preciso del suo sviluppo, ma confrontandola con le altre della stessa natura, che si trovano ad uno stadio di perfezione più avanzato, riesce a cogliere anche ciò che quella determinata cosa sarà.

Orbene, ammettere un’ontologia della natura, come sostrato teleologico orientante normativamente l’agire umano, non è negare la libertà, come sostengono i Neoclassici, dacché la morale naturale non contraddice la libertà, essendo piuttosto la pre-condizione necessaria – ecco il dovere etico – al suo pieno dispiegamento. Infatti obbedendo all’orientamento naturale verso il bene l’uomo non sottomette la sua volontà all’arbitrio di un terzo, ma alla legge promulgata dalla sua stessa ragione e dunque, in ultima analisi, a ciò che più intimamente ed autenticamente lo qualifica come uomo. Procedendo lungo questa linea argomentativa, si può altresì aggiungere che tutte le conoscenze dell’intelletto teoretico, pervenendo all’intelletto pratico, entrano in una prospettiva che non è più quella del conoscere, ma dell’agire: «E così tutte quelle conoscenze, che prima erano considerate lungo la catena dei legami della causalità efficiente, che è il punto di vista dell’intelletto teoretico, ora sono considerate lungo la catena dei legami della causalità finale, che è il punto di vista dell’intelletto pratico. La differenza esistente tra le due prospettive è la seguente: i legami della causalità efficiente sono già costituiti, quelli della causalità finale sono ancora da istituire mediante le libere scelte della volontà»[75].

Il passaggio dal piano descrittivo della natura a quello prescritto dell’etica induce a guardare alle cose non più in funzione di ciò che sono state, sono o saranno, bensì, teleologicamente in funzione cioè di ciò che saranno a causa delle libere scelte della volontà: «Da una premessa descrittiva di tipo teleologico, la quale esprime un essere che è insieme un dover essere, è perfettamente legittimo, anche da un punto di vista logico, dedurre una conclusione prescrittiva o normativa, fondando in tal modo l’etica e la politica su una conoscenza o su un’indagine razionale»[76].

 

Il fondamento dell’etica è nella conoscenza intellettiva, teoretica, speculativa, dacché ciò verso cui le cose tendono è la pienezza della loro essenza o forma, conoscibile solo per mezzo di tale intelletto. L’intelletto pratico, infatti, non istituisce la nozione di bene a priori, indipendentemente da ogni esperienza, come sosterrà Kant, e neppure a posteriori come sostenevano i Neoclassici, a partire, cioè, proprio dalle inclinazioni registrate nell’esperienza dell’agire umano, dal momento che, come detto, è l’intelletto teoretico ad istituirla preliminarmente a posteriori, ossia attraverso un metodo di tipo analitico-induttivo. Questa la ragione per la quale, il giudizio morale, che riguarda la conoscenza del bene e del male, prerogativa dell’intelletto pratico, non può che fondarsi sulla conoscenza teoretica, che riguarda la conoscenza del vero e del falso, prerogativa dell’intelletto speculativo. Il bene e il male, infatti, si riferiscono alla causa finale, di competenza della ragione pratica, e non alla causa efficiente, oggetto dell’intelletto speculativo. Ma è quest’ultimo a suggerire al primo cosa è bene e cosa no, mettendo il secondo nella possibilità di operare nel concreto, attraverso le scelte libere della volontà.

[1] F. Di Blasi, I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale, in Rivista Internazionale di Filosofia Del Diritto, 76, 1999, pp. 209-252, p. 211.

[2] Cfr. E. Grimi, G.E.M. Anscombe. The Dragon Lady, Siena, 2014, p. 398.

[3] A. Campodonico, Tommaso e l’etica analitica, Tommaso d’Aquino e i filosofi analitici, Nocera Inferiore, 2014, pp. 27-51, 27.

[4] Ibidem.

[5] M. Damonte, Criteri storiografici dell’ontologia aristotelico-tomista, Doctor Virtualis, 13, 2015, pp. 201-242, p. 202.

[6] Ibidem, p. 203.

[7] Cfr. G.T. Colvert, The Spirit of Medieval Philosophy in a Postmodern World, in A. Ramos, M.I. Gearge (ed.), Faith, Scolarship and Culture in the 21st Century, CUA Press, Washington, 2002, pp. 32-56.

[8] F. Fiorentino, Attualità di San Tommaso d’Aquino, Napoli, 2018, p. 4.

[9] Cfr. F. D’Agostini, N. Vassallo, Storia della filosofia analitica, Torino, 2002, p. 37.

[10] Cfr. N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari, op. cit., p. 763.

[11] Anscombe affermava che il suo interesse era rivolto più alle questioni di etica speciale piuttosto che alla metaetica in un’epoca in cui l’etica anglosassone si riduceva in gran parte alla metaetica. Cfr. G.E.M. Anscombe, Ethics, Religion and Politics. The Collected Philosophical Papers of G.E.M. Anscombe, vol. III, Blackwell, Oxford, 1981, p. VIII. Sul pensiero della Anscombe in etica, cfr., in particolare, R. Teichmann, The Philosophy of Elizabeth Anscombe, Oxford University Press, Oxford, 2008, pp. 83-127. Per una introduzione complessiva al pensiero della Anscombe in lingua italiana cfr. E. Grimi, The Dragon Lady. Elizabeth Anscombe, Siena, 2013.

[12] Cfr. P. Foot, Moral Arguments, Mind, LXVII (1958); Id., Moral Beliefs, in Proceedings of Aristotelian Society, LIX, 1958.

[13] Cfr. G.E.M. Anscombe, Modern Moral Philosophy, pp. 11-19; P. Foot, Moral Beliefs, in IDEM, Virtuesand Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Basil Blackwell, Oxford, 1978, pp. 157-173.

[14] M. Micheletti, Tomismo analitico, Brescia, 2007, p. 59.

[15] J. Haldane, Dopo Ludwig, Il Sole 24 ore, 2 agosto 1998.

[16] J. Haldane, Thomism, analytical, in T. Honderich (ed.), The Oxford Companion to Philosophy, Oxford University Press, Oxford, 1995, p. 875.

[17] M. Damonte, Criteri storiografici dell’ontologia analitico-tomista, op. cit., p. 208.

[18] Cfr. M. Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Roma, 1994.

[19]  Cfr. L. Melina, Morale: tra crisi e rinnovamento, Milano, 1993; E. Molina, La moral entre la convicción y la utilidad. La evolución de la moral desde la manualística al proporcionalismo y al pensamiento de Grisez-Finnis, EUNSA, Pamplona, 1996.

[20] M. Micheletti, Tomismo analitico, op. cit., p. 60.

[21] F. Di Blasi, I valori fondamentali nella teoria neoclassica, op. cit., p. 213.

[22] Cfr. R.A. Dworkin, Natural Law Revisited, in J.M. Finnis (ed.), Natural Law, Dartmouth, Oxford, 1991, Vol. II, p. 187.

[23] J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, Torino, 1996, p. 18.

[24] Cfr. G.G. Grisez, J.M.  Boyle, J. M. Finnis, Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends, in Natural Law, Dartmouth, Aldershot, 1991, vol. I, p. 237; cfr. anche J.M. Finnis, J. M. Boyle, G.G. Grisez, Nuclear Deterrence, Morality and Realism, Prefazione, Oxford University Press, Oxford, 1987.

[25] Cfr. G.G. Grisez, The way of the Lord Jesus, vol. I, Franciscan Herald Press, Chicago, 1983; cfr. anche T. Scandroglio, La teoria neoclassica sulla legge naturale dì Germain Grisez e fohn Finnis, Torino, 2012, p. 135 ss.

[26] N. MacCormick, Natural Law Reconsidered, in Natural Law, vol I, op. cit., p. 227.

[27] J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., p. XXVIII.

[28] Cfr. G.G. Grisez, A Tentative Problematic for a Philosophy of the Social Sciences, in The Thomist, 25, 1962.

[29] F. Viola, John Finnis: tomismo e filosofia analitica, in P. Bettineschi, R. Fanciullacci (ed.), Tomismo e filosofia analitica, Napoli, 2014, p. 231.

[30] «L’interpretazione flessibile della legge di Finnis naturale è per molti aspetti complementare alla teoria giuridica positivista, di più di un suo rivale. […]. Il merito principale, e grandissimo, di questo approccio di diritto naturale, è che mostra la necessità di studiare legge in il contesto di altre discipline e favorisce la percezione del modo in cui le ipotesi non dette, il buon senso e gli scopi morali influenzano la legge e truccare la magistratura», in H.L.A. Hart, Essays in Jurisprudence and Philosophy, Oxford University Press, Oxford, 1983, pp. 10-11.

[31] J.M. Finnis, Revolutions and Continuity of Law, in A.W.B. Simpson, Oxford Essays in Jurisprudence: Second Series, Oxford University Press, Oxford, 1971, p. 73.

[32] J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., p. 17.

[33]  J.M. Finnis, Scepticism, Self-Refutation, and the Good of Truth, in P.M.S. Hacker, J. Raz, (ed.), Law, morality and society, Essays in honour of H. L. A. Hart, Clarendon Press, Oxford, 1977, p. 312. Nostra la traduzione.

[34] J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., p. 39.

[35] J.M. Finnis, What is the Philosophy of Law?, in  Rivista di filosofia del diritto, l, 2012, p. 71.

[36] J. M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., pp. 91-92.

[37] F. Di Blasi, I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale, in Rivista Internazionale di Filosofia Del Diritto, 76, 1999, pp. 209-252, p. 221.

[38]  J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., p. 65.

[39] Cfr. G.G. Grisez, J.M. Boyle, J.M. Finnis, Practical Principles, Moral Truth, e Ultimate Ends, American Journal of Jurisprudence, 32, 1987, pp. 106-108.

[40]  Ibidem, pp. 98-99. Nostri i corsivi.

[41] J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., p. 37.

[42] F. Di Blasi, I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale, op. cit., p. 41.

[43] J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., pp. 59, 62.

[44] F. Di Blasi, I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale, op. cit., p. 42.

[45] J.M. Finnis, G.G. Grisez, The Basic Principles of Natural Law: a Reply to Ralph McInerny, in J.M. Finnis, Natural Law, Dartmouth, Oxford, Vol. I, 1991, p. 27.

[46] F. Di Blasi, I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale, op. cit., p. 45.

[47] J.M. Finnis, G.G. Grisez, J.M. Boyle, Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate EndsAm. J. Juris, 99, 1987, p. 101.

[48] Ibidem, p. 110.

[49] J.M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., pp. 100-101.

[50] Ibidem, pp. 101 – 102.

[51] Ibidem, p. 92.

[52] Ibidem, p. 110.

[53] Cfr. Ibidem, cap. V.

[54] R.P. George, In Defense of Natural Law, Oxford University Press, Oxford, 1999, p. 49.

[55] Cfr. G.G. Grisez, The First Principle of Practical Reason: A Commentary on the Summa Theologiae, I-2, Question 94, Article 2, op. cit., p. 214.

[56] Cfr. G. G. GRISEZ, J.M. Boyle, J. M., Finnis, Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends, op. cit., pp. 108-109.

[57] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, PP 824 3c.

[58] Cfr. G.G. Grisez, J.M. Boyle, J. M. Finnis, Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends, op. cit., p. 131.

[59] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, PS 15.

[60] Ibidem, PS 16.

[61] Ibidem.

[62] Ibidem, PS, 28.

[63] Tommaso d’Aquino, La Somma contro i Gentili, , Bologna, 2001, III, c. 129.

[64] Ibidem, PS, 912.

[65] Ibidem.

[66] F. Fiorentino, Attualità di S. Tommaso, op. cit., p. 271.

[67] Ibidem, p. 273.

[68] J. M. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, op. cit., p. 52.

[69] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, PS 901.

[70] F. Fiorentino, Attualità di S. Tommaso, op. cit., p. 264.

[71] Ibidem, p. 50.

[72] Ibidem, p. 51.

[73] Aristotele, Ethica Nicomachea, 1114a, p. 32 ss.

[74] F. Fiorentino, Attualità di S. Tommaso, op. cit., p. 40.

[75] Ibidem, p. 43.

[76] E. Berti, Le vie della ragione, Bologna, 1987, p. 63 ss.