Paola Braggion
Componente del Consiglio Superiore della Magistratura

 La tutela della vita
nell’ordinamento giuridico italiano.
Il ruolo del giudice *

 

Sommario: 1. Introduzione – 2. I nuovi diritti e il ruolo del giudice – 3. Limiti dell’attività interpretativa – 4. L’autodeterminazione come diritto – 5. Il principio di autodeterminazione e la tutela della vita.

 

  1. Introduzione

 

Nelle costituzioni moderne i diritti fondamentali assolvono una essenziale funzione di garanzia individuale del cittadino nei confronti dello Stato: si pensi ad esempio al diritto di professare la fede religiosa, al diritto di riunione e di associazione, al diritto di manifestare il proprio pensiero: diritti tutti che non possono essere compressi dallo Stato tranne casi eccezionali, e per tutelare interessi eguali o preminenti rispetto all’interesse che è alla base del diritto riconosciuto. Le codificazioni dei diritti dell’uomo e il linguaggio relativo hanno portato benefici all’umanità intera e hanno consentito alle esperienze giuridiche occidentali di porsi in molti casi come un modello di riferimento.

Negli ultimi anni però i diritti fondamentali hanno iniziato a cambiare fisionomia, inaugurando un’ultima fase che potremmo chiamare dei diritti-desiderio: si assiste alla rivendicazione come diritto di qualunque pretesa soggettiva, cioè di qualunque desiderio personale, espressione di una concezione dell’esistenza individualistica (ciò che esiste è solo il singolo con le proprie aspirazioni) e relativistica (non esiste nessun criterio oggettivo di giudizio esterno al soggetto). Il termine “diritti” (ormai generalmente usato come sinonimo di “diritti fondamentali” o “diritti umani”) oggi indica una categoria completamente nuova rispetto a quella dei “tradizionali” diritti fondamentali.

I “diritti” hanno cambiato faccia. Da categoria giuridica funzionale alla limitazione del potere statuale in nome di limitate, essenziali e irrinunciabili dimensioni della persona che in qualche modo preesistono alla legge, i “diritti” sono diventati una categoria giuridica più ampia. Non vi sono più solo quelli riconosciuti dalla Carta Costituzionale come fondamentali per la persona e il cittadino, poiché si cerca di rivestire di valore giuridico interessi e valori anche molto diversi tra loro, che talvolta coincidono più con le esigenze, o aspirazioni, individuali per la propria realizzazione. I “diritti” vengono che evocati per far valere esigenze, aspirazioni, desideri per lo più individuali, talora frutto di un apprezzamento del tutto soggettivo, rivendicazione “giuridicamente fondata” del riconoscimento di un bene che il soggetto ritiene essenziale per la propria realizzazione, cioè di ciò che ognuno reputa “buono per sé”.

 

  1. I nuovi diritti e il ruolo del giudice

 

Vi è stata infatti una costante “proliferazione” di diritti, che ha permesso per così dire di “vestire” del medesimo valore giuridico interessi e valori anche molto diversi tra loro. Si pensi al fatto che le principali problematiche giuridiche (es. il principio del ne bis in idem in materia penale) sono ormai affrontate per lo più in termini di riconoscimento o negazione di “diritti”, cioè di “diritti umani” visto che spesso viene invocata la CEDU, tanto che proprio attorno alla categoria del “diritto” ruota la stessa argomentazione giuridica.

Non può poi dimenticarsi l’imprescindibile bilanciamento con altri beni e valori che l’affermazione di un “diritto” di norma comporta. Invero, quando rivendico o riconosco un diritto, affermo solo il valore positivo che questo ha per la persona che se ne avvantaggia, ma non penso chi e quante sono le persone che ne ricevono svantaggi, né quali e quanti siano questi svantaggi.

Il primo pericolo da rifuggire è quello della tutela a tutti costi di ‘nuovi diritti’, tramite una giustizia creativa che tende a occupare e colmare gli spazi lasciati scoperti dalla normativa nazionale. Ciò passa da un vaglio, che dovrebbe fare principalmente il legislatore, e il giudice solo in via di applicazione e interpretazione delle norme, per il necessario bilanciamento dei principi costituzionali e dei diritti, ma anche per la precisazione dei doveri che l’affermazione di un “diritto” di norma comporta.

La sfida oggi è quella di una riflessione sul ruolo del giudice, sulla finalità del nostro lavoro e sugli strumenti e sui limiti dell’attività giurisdizionale.  Credo che la nostra legittimazione di magistrati, chiamati a emettere sentenze “in nome del popolo italiano”, sia una legittimazione tecnica, che passa dall’interpretazione delle norme, ma che non può piegare la norma a un fine diverso, magari anche buono o positivo, o colmare l’assenza di una norma “creando” nuovi diritti.

Se è vero che il giudice ha il dovere di dare risposte alla domanda di giustizia e non può non pronunciarsi sulle cause propostegli, è anche vero che deve porsi il problema di quali siano i limiti di questa risposta. Pur a fronte di un ordinamento sempre più complesso con fonti eterogenee, non possiamo dare una risposta di giustizia che passa dalle personali opinioni o scelte ideologiche e culturali (del tutto) soggettive.

Se vero che ogni attività, anche quella del decidere, comporta inevitabili scelte di valore sottese ad ogni interpretazione o ricostruzione sistematica, questo deve avvenire all’interno di una cornice precisa che non fissa il giudice e l’interprete. Le scelte di valore vanno esplicitate per essere sottoposte al vaglio dei successivi gradi di giudizio, soprattutto nelle materie in cui maggiore è la disomogeneità culturale all’interno della società, e in cui dunque più attento e leale deve essere il riconoscimento del limite che il giudice incontra, dovendo lasciare alle sedi in senso lato politiche (compresa la Corte costituzionale) le scelte che per loro natura esulano dal campo della mera giurisdizione.

 

  1. Limiti dell’attività interpretativa

 

Si tratta, dunque, di elaborare strumenti concettuali per il controllo dell’attività interpretativa, che favoriscano risultati e decisioni razionalmente giustificate e non arbitrarie, anche a fronte della loro imprescindibile dimensione valutativa. Non è il giudice che deve dar voce alle nuove sensibilità sociali, ma il legislatore.

Tanto più importante allora la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, che non può essere infarcita, come ancora a volte accade, di considerazioni che fuoriescono dal dato interpretativo tecnico della norma, che prestano il fianco a strumentalizzazioni di varia natura, come è accaduto per esempio per alcune sentenze sulle morti da amianto. Rosario Livatino in un suo discorso pubblico nel lontano 1984, ma di stringente attualità, diceva: «Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della autocollocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione». (Rosario Livatino, 1984)

Se l’applicazione di una norma stride con i principi costituzionali, è necessario sollevare la questione di legittimità costituzionale, senza ‘creare’, mentre a volte le interpretazioni costituzionalmente orientate o le disapplicazioni di certe norme nascondono ‘interpretazioni evolutive’ che stravolgono il significato della norma.

Credo sia necessario restare nell’alveo dei rimedi previsti dall’ordinamento, perché ritengo che il giudice sia garante dell’affermazione dei diritti tutelati dall’ordinamento, senza sostituirsi al legislatore anche se talvolta latitante. Ritengo fondamentale che non siano i giudici a dover dare risposte. Tale compito è riservato alla politica, mentre si può lavorare nell’opinione pubblica, con la necessaria discrezione, per sollecitare le prese di coscienza e individuando le lacune normative. Ciò impone responsabilità ben precise.

È necessario salvare la riflessione giuridica dalla pericolosa deriva o di un soggettivismo tutto basato sul senso di giustizia in balia dell’interprete, o di un nichilismo che vuol ridurre tutto alla ratifica procedurale dei rapporti di forza, così negando la stessa funzione storica e al tempo stesso il valore intrinsecamente etico della giuridicità.

Dobbiamo porre attenzione all’occultamento delle scelte di valore sottese alla decisione e del bilanciamento che viene fatto rispetto ad altri interessi. Un ambito scivoloso sotto questo profilo è quello dell’utilizzo dei precedenti delle Corti sovranazionali, che deve essere basato su un’esaustiva e leale verifica del reale contenuto della fonte giurisprudenziale evocata, senza cadere nella tentazione di richiamare di volta in volta solo la decisione “utile” per il fine pratico perseguito, non misurandosi con altre decisioni che tali non sono. Poiché il precedente deve essere ben consolidato, atteso che la Corte Edu giudica sul singolo caso, come ha insegnato la sentenza n. 49/15 della Corte costituzionale (che ha ridisegnato il rapporto tra Corte costituzionale Corte EDU e giudice ordinario): il giudice  deve oggi confrontarsi con almeno tre sistemi giuridici tra loro interagenti, quello costituzionale dello Stato, quello della C.E.D.U. e quello dell’Unione europea, ciascuno caratterizzato dal riferimento ad un proprio organo giurisdizionale superiore: la Corte costituzionale, la Corte E.D.U. di Strasburgo e la Corte di Giustizia U.E. di Lussemburgo.

Il coordinamento tra i diversi sistemi presenta forme di reciproca influenza e di graduale forza cogente. Esso introduce tecniche di interpretazione nuove o ripropone tecniche già note, ma destinate ad assumere sviluppi ben più ampi che in passato (si pensi all’interpretazione conforme).

È essenziale un rinnovato rigore metodologico che non può non passare attraverso un utilizzo dei precedenti delle Corti sovranazionali che sia basato su un’esaustiva e leale verifica del reale contenuto della fonte giurisprudenziale evocata, senza cadere nella tentazione, ben nota, di richiamare di volta in volta solo la decisione “utile” per il fine pratico perseguito, non misurandosi con altre decisioni che tali non sono.

Sotto questo profilo la recente, complessa, sentenza n. 49 della Corte costituzionale (che ha ridisegnato il rapporto tra Corte costituzionale Corte EDU e giudice ordinario) sembra fornire un utile spunto di riflessione sui rischi di un approccio parziale alle sentenze della Corte EDU. L’autorevole richiamo della Corte costituzionale alla necessità di fare riferimento alla “giurisprudenza consolidata” della Corte EDU appare finalizzato a garantire una condizione essenziale per il corretto utilizzo della giurisprudenza convenzionale, pur nella consapevolezza della difficoltà di individuare la c.d. giurisprudenza consolidata.

Nel mutare di alcune forme dell’attività interpretativa del giudice, dunque, la permanente validità e preziosità del suo ruolo di garanzia del rispetto dell’ordinamento giuridico, è anche garanzia di tutela di quei “diritti” che l’ordinamento riconosce, nella sua ormai ampia articolazione anche sovranazionale. Esiste una stretta connessione tra libertà di giudizio del magistrato da ogni influenza interna o esterna, potestà di organizzarsi al di fuori di condizionamenti, adeguatezza professionale, per dare risposta a nuovi diritti e a nuove domande di giustizia.

 

  1. L’autodeterminazione come diritto

 

Il punto di partenza è l’affermazione di un diritto, nella specie quello all’autodeterminazione della persona in rapporto al diritto alla salute, come diritto unanimemente riconosciuto nell’ambito dell’attività medica, fondato non solo sulla Costituzione, ma anche su varie fonti sovranazionali: tale diritto trova innanzitutto espressione nella necessità di un consenso informato del paziente perché il medico possa procedere legittimamente al trattamento sanitario.

Il diritto all’autodeterminazione è stato poi posto a base del diritto del paziente di rifiutare le cure anche se ciò comporta un rischio per la propria vita. Infine, sempre il paradigma del diritto all’autodeterminazione è stato utilizzato per la valutazione giuridica dei casi di rifiuto del trattamento medico in atto o del rifiuto dell’alimentazione o idratazione forzata e del correlato trattamento sedativo della coscienza per il caso della loro interruzione: anche tale trattamento è divenuto oggetto di un “diritto”. Il diritto all’autodeterminazione – che assume il contenuto pratico di un una sorta di “diritto alla morte” – è stato così utilizzato ai fini dell’esclusione della responsabilità del sanitario che abbia provveduto ad interrompere il trattamento di salva-vita, con il consenso del paziente.

Si veda ad esempio la soluzione data dal gip di Roma al noto, drammatico, caso del sanitario accusato del delitto di omicidio del consenziente ai danni di Piergiorgio Welby (sentenza del 23.07.2007, depositata il 17.10.2007): nell’occasione il giudice, muovendo dal riconoscimento del diritto a rifiutare o interrompere terapie mediche anche se “salvavita”, quale espressione del diritto alla salute ed all’autodeterminazione del paziente, ha affermato il principio secondo il quale il delitto di omicidio del consenziente non è punibile (tecnicamente: è scriminato) per l’adempimento di un dovere da parte del medico, che in presenza del consenso del paziente interrompa il trattamento al quale questi è soggetto.

Argomentando “per diritti” in questo ambito, si rischia di non trattare in modo esaustivo un altro aspetto del problema: l’affermazione del diritto all’autodeterminazione non tiene conto dell’affermazione del conseguente dovere del sanitario di cooperare alla realizzazione di tale diritto, posto che il suo “esercizio” non può essere opera del solo titolare (e proprio un dovere del sanitario è stato affermato nella citata decisione riguardante il caso Welby). Non dunque una mera facoltà di collaborare all’interruzione dei trattamenti salvavita, ma un dovere, in quanto non avrebbe senso riconoscere la preminenza di un “diritto” se non si riconoscessero le posizioni giuridiche che servono per attuarlo, cioè per dare allo stesso effettività.

Così l’apparente carattere del tutto individuale dell’affermazione del diritto all’autodeterminazione svela il suo vero contenuto tutt’altro che esclusivamente personale, perché impone un preciso dovere da parte del sanitario di collaborare alla morte del paziente che lo richieda e l’onere per il sanitario di valutare se ricorrono i presupposti di quel diritto all’autodeterminazione, fissati non da una norma ma dalla giurisprudenza, pena la responsabilità per il delitto di omicidio del consenziente.

Siamo certi di voler affidare tutto questo all’attività interpretativa-creativa di giudice? Siamo nell’ambito di inevitabili bilanciamenti di interessi che non possono essere demandati al giudice ordinario, anche in considerazione ai problemi ad esso connessi, quali eventuale riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza. La sfida non è quindi quella di introdurre guerre tra valori opposti, di cui ciascun giudice si fa portatore, ma di adottare e diffondere nella giurisdizione l’analisi, senza soluzioni preconcette, di tutti i valori fondanti della realtà, tra i quali vi è il principio fondamentale del rispetto della vita.

 

  1. Il principio di autodeterminazione e la tutela della vita

 

È emblematica anche la vicenda riguardante il piccolo Alfie Evans, in cui si osservano snodi di fondamentale importanza nel dibattito tra principio di autodeterminazione e cura della vita. L’equipe medica dell’Ospedale Alder Hey di Liverpool nel dicembre 2017 stabilisce che la ventilazione artificiale che mantiene in vita Alfie Evans deve essere sospesa, perchè il bambino, nato nel Maggio 2016, non ha più alcuna possibilità di guarire. Non sono favorevole all’accanimento terapeutico, ma nemmeno all’abbandono terapeutico. Soprattutto quando qualcuno, sollecitato dai genitori che lo chiedono, si offre di prestare cure a un bambino che non può parlare.  Desideravano venire in Italia per far curare il loro bambino, proprio nel Paese da cui alcuni vogliono andare via per “morire con dignità” (v. caso DJ Fabo).

L’ Ospedale ove Alfie era in cura in seguito all’ aggravarsi delle sue condizioni – che ha portato alla diagnosi di una sconosciuta patologia degenerativa al cervello – aveva dichiarato di aver esaurito tutte le opzioni di cura possibili e si era opposto al desiderio dei genitori di trasferire il bambino all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, dove un medico si è offerto di occuparsi di Alfie per tentare alcune nuove cure sperimentali.

Il 20 Febbraio 2018 il caso approdava all’Alta Corte Inglese, che si pronunciò in favore dei medici dell’Alder Hey, valutando che la sospensione della ventilazione fosse il migliore interesse del piccolo, non sussistendo alcuna possibilità di guarigione con le odierne terapie proposte dalla Scienza Medica. Seguì una battaglia a colpi di ricorsi da parte della famiglia Evans.

La Corte Suprema della Gran Bretagna, alla quale spettava l’ultima parola nel merito, il 20 Aprile 2018 rifiutò di riaprire la vicenda, dopo che i due genitori del piccolo si erano appellati ad essa, al termine di un iter giudiziario dovuto al mancato accordo tra i medici e la famiglia sull’ opportunità di mantenere i supporti vitali ad Alfie. Nel caso in cui sorgano dei contrasti fra i medici e le famiglie dei pazienti la legge inglese, infatti, prevede che il caso sia risolto con l’intervento di un magistrato.

La Corte Suprema confermava così le precedenti decisioni dell’Alta Corte di Giustizia, della Corte d’Appello e della stessa Corte Suprema in favore della scelta dell’ospedale di staccare i supporti vitali al piccolo, che pochi giorni dopo, il 28 Aprile 2018, morì.

La Corte Suprema della Gran Bretagna ha dunque affermato nella sua decisione finale   che l’unico criterio determinante per la sorte di Alfie Evans, era quello che i giudici hanno ritenuto essere il suo “best interest”, ossia l’essere accompagnato sino alla morte attraverso la sospensione dei trattamenti (idratazione e ventilazione artificiali) che lo mantenevano ancora in vita.

Lo Stato si fa, così, arbitro delle sorti di un minore, al posto dei genitori naturali e dei medici inglesi, fra i quali era intervenuto disaccordo. La decisione dell’Alta Corte non è ulteriormente modificabile, neppure dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Certamente la prospettiva di vita poteva apparire difficile, ma il diritto all’autodeterminazione dei genitori di Alfie Evans, che avrebbero voluto trasportare il piccolo a curarsi in Italia, presso l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, avrebbe dovuto essere rispettato. Viene negato il diritto/dovere dei genitori di decidere la sorte del proprio figlio, attraverso una decisione della Corte che diverrà un precedente vincolante per le successive decisioni, trattandosi di ordinamento di common law, nel quale le decisioni dei giudici costituiscono precedenti vincolanti per casi simili o analoghi.

Respingendo il ricorso proposto dai genitori naturali, dunque, i giudici inglesi hanno negato il principio stesso di autodeterminazione, seguito ed applicato in numerose occasioni nei sistemi giuridici europei di civil law. La vicenda Evans presenta caratteristiche innovative, giacché si è ritenuto che la vita umana non solo è un bene disponibile (come avviene da circa un decennio in Italia, a partire dalla fondamentale pronuncia Cass. Civ. n. 21748/2007 sul caso Englaro), ma persino sopprimibile per effetto di un atto di imperio del potere pubblico, anche qualora vi sia l’opposizione del titolare del diritto (o dei genitori-tutori, come nel caso Alfie). In Italia l’orientamento fondamentale in tal senso ha preso piede a partire dalla fondamentale sentenza Cass. Civ. sul caso Englaro, risalente al 2007.

Ebbene, il principio di autodeterminazione nella Decisione dell’Alta Corte Inglese sul caso Alfie è, per la prima volta, disatteso, anche in presenza di una volontà espressa – del titolare del diritto – di continuare a vivere. Le conseguenze che discendono da tale decisione dei giudici Inglesi sono evidenti: significa che la conservazione della vita umana è ormai demandata alla selezione da parte della pubblica autorità di standard minimi, qualitativi e quantitativi.

Si tratta di una conseguenza estrema ma possibile, quando la vita non viene più considerata come bene assoluto ed intangibile, che sta alla base di ogni altro diritto inviolabile dell’uomo riconosciuto dall’art. 2 Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Nonostante ciò, continuiamo a credere che la vita costituisca un bene indisponibile e assoluto, degna di essere vissuta sempre, e non solo quando risponde a determinati standard qualitativi, magari definiti da un giudice, poiché la vita è un valore in sé, degno di tutela, sempre.

Testo della relazione svolta dalla Dott.ssa Paola Braggion, Magistrato – Componente del Consiglio Superiore della Magistratura, al Convegno La tutela della vita nell’ordinamento giuridico italiano. Sfide, problemi e prospettive poste dai ‘nuovi diritti’, organizzato dal Centro Studi Livatino e tenutosi a Roma il 16 novembre 2018 presso l’Aula Magna della Corte Suprema di Cassazione.