Marianna Orlandi
Ph.D. Associate Research Scholar James Madison Program in American Ideals and Institutions Princeton University, Department of Politics

L’aborto in Occidente.
Riflessioni a margine di un recente volume*

 

Accade, talvolta, che i contributi scientifici riescano a giungere alle stampe, e al pubblico, tempestivamente. La rara circostanza, verificatasi nel caso della pubblicazione del libro curato dal Professore Mauro Ronco, Il “diritto” di essere uccisi: verso la morte del diritto?, che ha di poco preceduto la sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato, si è verificata di recente negli Stati Uniti in tema di aborto e di tutela della vita nascente.

Rompendo un silenzio relativo non già al tema, ma alla esatta qualificazione giuridica dell’accesso all’aborto, tanto nel diritto nazionale quanto a livello internazionale, nonché ponendo finalmente in dubbio l’universalità di un preteso “diritto” all’aborto, la collaborazione tra Pilar Zambrano, Professore di Diritti Umani e Pensiero Politico presso l’Università di Navarra, e William L. Saunders, Direttore del Programma in Diritti Umani presso l’Institute for Human Ecology della Catholic University of America, ha dato vita al recentissimo volume intitolato “Unborn Human Life and Fundamental Rights, Leading Constitutional Cases under Scrutiny. Concluding Reflections by John Finnis”.

Il volume è drammaticamente tempestivo: non soltanto perché, in tutto il mondo, crescente è il numero di attentati – e di nuove minacce – alla vita nascente; ma soprattutto perché la Corte Suprema degli Stati Uniti, prima autrice e propagatrice della narrativa aborto-diritto, ha da poco annunciato che considererà nuovamente il tema nel 2020[1].

In particolare, il volume raccoglie i contributi di dodici esperti – giuristi e filosofi del diritto– rappresentativi delle diverse aree geografiche, nonché delle rispettive tradizioni culturali e giuridiche, di: Stati Uniti, Europa e America Latina. Oltre che curatori dell’opera, Zambrano e Saunders sono essi stessi autori di due articoli che, come tutti quelli che li accompagnano, descrivono e commentano la giurisprudenza delle proprie corti, e in particolare di quelle costituzionali, in tema di aborto e di protezione della vita prenatale.

Di là dalla evidente e già richiamata tempestività del volume – che i giudici della Corte Suprema americana ben potrebbero consultare per argomentare i loro prossimi giudizi – il volume, come si diceva, mette in dubbio la qualità di “diritto”, e di diritto “fondamentale” dell’aborto. Il tutto, peraltro, non su basi moraleggianti o etiche, e tantomeno prettamente “procedurali”. La difesa del concepito viene giustificata su basi e con argomentazioni prettamente giuridiche e per lo più sostanziali.

Per la maggior parte, invero, gli Autori dei diversi contributi si ispirano alla storia giuridica e costituzionale dei propri Paesi d’origine, oltre che al dettato di vari documenti internazionali, per dimostrare la fondatezza di un diritto alla vita tutelato sin dal momento del concepimento. La loro tutela della vita prenatale, inoltre, è giustificata dall’ormai incontestabile certezza scientifica raggiuntasi in campo embriologico, in merito alla natura umana dell’embrione, che sin dal momento del concepimento è dotato di una radicale capacità di essere persona. Ogni successivo stadio di sviluppo – prima e dopo la nascita – nulla toglie e nulla aggiunge a tale radicale ed unica capacità.

Il testo, in lingua inglese, è di facile accesso. L’opera, oltre che come raccolta di interessanti evidenze internazionali, si presenta anche come profondo stimolo per ulteriori ricerche e per un radicale ripensamento del vocabolario giuridico attualmente utilizzato in tema di tutela della vita prenatale. Tanto in Italia quanto oltreconfine, infatti, i giovani giuristi sono stati educati all’idea che l’aborto sia un diritto soggettivo della donna. Ai più risulta che l’accesso all’aborto sia un diritto fondamentale e inalienabile, “scoperto” dalle corti e da altri “esperti” nelle penombre della “riservatezza”, nel diritto alla libertà personale, all’autodeterminazione o alla salute della donna. I contributi mettono in dubbio questo preteso dogma.

A tale proposito, particolarmente significativo è il contributo del Professor Dwight Newman[2], relativo alla giurisprudenza costituzionale canadese in tema di aborto[3]. L’Autore dimostra, in particolare, come l’opinione individuale di un giudice della Corte Suprema canadese, che sola, nel 1988, qualificava l’aborto come diritto, si sia col tempo trasformata nella unica versione nota di quel giudizio. Tale singola opinione giustificherebbe tutt’oggi la totale assenza di tutele per il nascituro. Assenza che, tuttavia, né la legge canadese né la stessa Corte Suprema avevano mai inteso né preteso provocare.

Come altri contributi ricordano[4], inoltre, a prescindere dalla liberalizzazione dell’aborto, i codici penali dei diversi Paesi continuano a punire chi attenti alla vita del concepito; e ciò, senza dubbio, non a titolo di danno morale. Tali norme sono piuttosto segnali del fatto che l’attuale sistema di tutela della vita è in balia di un equilibrio instabile. Da un lato, il concepito è titolare del diritto alla vita; dall’altro, egli non gode di alcun diritto di fronte all’autodeterminazione della sua stessa madre: situazione che un coerente sistema di tutela dei diritti umani non può tollerare ancora per molto.

Quanto alla particolare realtà statunitense, è noto che la tutela della vita del concepito è ivi spesso difesa su basi soltanto procedurali: non starebbe alla corte federale ma alle legislature nazionali di decidere sulla tutela della vita di chi ancora non è nato. L’accesso all’aborto, pertanto, potrebbe essere riconosciuto democraticamente quale diritto della donna dai parlamenti dei singoli stati. Tale tesi non è del tutto esclusa nemmeno nel volume qui recensito. Se da un lato, infatti, i vari contributi sottolineano la naturale legittimità della tutela della vita del concepito, dall’altro, e in particolar modo nel finale commento del filosofo John Finnis[5], essi non contestano la effettiva sussistenza di un potere positivo del legislatore, che ben può emanare leggi “ingiuste”. Più deprecabile, tuttavia, resta, secondo lo stesso Finnis, l’intervento dei tribunali: cancellando il diritto alla vita, essi violano il primo tra i diritti fondamentali che sono stati chiamati a difendere. Ben più rara, inoltre, e assai più visibile è la mano legislativa. Come l’Autore brillantemente conclude: «The fish rots from the top, and for elites it has been a matter partly of chance circumstances whether the desired changes in fundamental law are effected by judicial action (as in the United States and Canada), police inaction (as in Australia), legislative inaction (as in England), or carefully managed referendum (as in Ireland). But most widely corrupting and regrettable is judicial activism in the service of such fundamental and unprincipled violations of equality»[6].

A parere di chi scrive, peraltro, anche negli Stati Uniti il volume in esame potrebbe aiutare a rifondare il diritto alla vita “sin dal concepimento” su basi sostanziali.

Dopo aver svelato al lettore le principali conclusioni di un’opera che entra a pieno titolo tra i “must read” del contemporaneo studioso di bioetica, sembra utile fornire qualche ulteriore informazione sui singoli contributi.

Ad introdurre il lavoro sono i curatori, che suggeriscono l’opportunità di includere l’esplicita tutela del diritto alla vita “sin dal concepimento” nelle carte dei diritti fondamentali. Tale previsione, contenuta nella Convenzione Americana dei Diritti Umani, parrebbe infatti aver rallentato, seppur non impedito, l’irrompere in America Latina della dottrina “aborto-diritto”. Sottolineano, tuttavia, che a prescindere dalle parole utilizzate, non v’è discorso giuridico che sia privo di premesse morali e che si sviluppi o possa svilupparsi indipendentemente dalle stesse. L’importanza di tali premesse è solo più evidente in tema di costituzioni e di dichiarazioni internazionali dei diritti: la natura universale ed astratta di questi ultimi, infatti, esige un’opera interpretativa che sia capace di dare preciso contenuto e sostanza a parole di per se stesse insufficienti.

Il successivo contributo[7] di William Saunders, Judicial Interference in the Protection of Human Life in the United States: Actions and Consequences, ha due pregi principali. Da un lato, fornisce una chiarissima e breve spiegazione del processo che, negli Stati Uniti, ha condotto alla affermazione dell’aborto-diritto attraverso le pronunce della Corte Suprema; dall’altro, evidenzia le inevitabili ricadute di una tale affermazione in altri ambiti del diritto. In particolare, poiché il diritto affermato in Roe v. Wade implica che qualche vita umana non merita tutela, tale principio si ripercuote negli ambiti della ricerca sulle cellule staminali e in tema di clonazione. Infine, continuare oggi a negare la natura di “persona” del concepito significa che alcuni fatti scientifici – quali quelli provati dalla moderna embriologia – non hanno valore per il diritto.

Ulteriore contributo di area statunitense è quello del Professor Gerard Bradley[8], secondo il quale il vero oggetto di dibattito in America non sarebbe l’essere o meno “persona” del concepito, ma se e in quali circostanze possa esserne giustificata la distruzione. La moderna scienza, infatti, non lascerebbe spazio a dubbi: il concepito è un essere umano. Al contempo, le leggi di 38 Stati americani riconoscono il concepito come persona che ha il diritto di non essere uccisa. I crimini di feticidio, inapplicabili solo nelle circostanze dell’aborto “legale”, rivelerebbero quindi la vera natura dell’aborto: uccisione giustificata e volontaria di un essere umano. Nelle sue vesti di penalista, il l’Autore sottolinea, citando giurisprudenza in tema di feticidio, che se a fare differenza tra ciò che è crimine e ciò che è diritto è solo una procedura, i margini di tale “giustificazione” necessitano d’essere ulteriormente indagati. La variabilità dei diritti del concepito al mutare delle circostanze ricorderebbe i tempi della schiavitù e non sembrerebbe coerente con la fondamentale uguaglianza garantita dalla costituzione americana.

Il terzo contributo è quello del Professore Dwight Newman, già citato per la chiarezza con cui mostra come la giurisprudenza canadese si sia piegata, o sia stata utilizzata, per fini politici sprovvisti di effettiva base legale[9]. Il diritto all’aborto in Canada non è mai stato espresso da alcuna legislatura e, diversamente da quanto accaduto negli Stati Uniti, la Corte Suprema canadese, in R. V. Morgentaler, non aveva proclamato alcun diritto della donna ad abortire, sancendo soltanto l’incostituzionalità della norma penale che, per come formulata, nel ritagliare delle eccezioni al crimine di aborto, non sembrava fornire alle donne sufficienti garanzie. Da tale giudizio si è arrivati, complice una legislatura che non ha mai voluto legiferare sul punto, al fatto che oggi l’aborto in Canada gode della massima tutela giuridica, potendosi effettuare a richiesta e per qualsiasi ragione. L’Autore evidenzia come le conseguenze di Morgentaler, quali anche la recentissima decriminalizzazione del suicidio assistito, derivino da una “atomistica” reinterpretazione della libertà garantita dalla costituzione. Una siffatta libertà, tuttavia, contraddice la natura dell’uomo, che è relazionale.

I contributi di area europea si aprono con un articolo a firma del Professor Salvatore Amato, Professore di Filosofia del Diritto all’Università di Catania[10].

Dopo aver analizzato la sentenza della Corte costituzionale del 1975, evidenziando come in essa il concepito sia stato riconosciuto essere umano ma non ancora persona, l’Autore si sofferma sulla incoerenza della tutela giuridica offerta al concepito all’interno dei confini nazionali. Sulla base dei nuovi sviluppi tecnologi, il concepito necessita d’essere tutelato non solo nei confronti delle tradizionali figure parentali – che possono moltiplicarsi come anche mancare del tutto – ma anche rispetto a nuove procedure (quali la clonazione) o nuovi rapporti (con acquirenti o anonimi fratelli biologici).

Allo stato, il diritto italiano sembra parlare del feto talvolta come soggetto e talaltra come mero oggetto. La stessa legge 194, che ha aperto all’aborto, contiene affermazioni di principio che contraddicono la legittimità della pratica. Allo stesso modo, la legge 40 del 2004 difende il non nato, ma conferma, al tempo stesso, che egli gode di “minori diritti” rispetto a chi già è persona. È comunque importante, ritiene l’Autore, che la legge continui ad affermare il valore della vita del concepito, nonostante tutte le contraddizioni. Tale affermazione ha infatti funzione simbolica, valida e significativa per tutti quei soggetti che non possono far valere i propri diritti in prima persona.

Il Professor Angel Montoro[11], occupandosi della regolamentazione spagnola, evidenzia che ivi la decriminalizzazione dell’aborto, avvenuta nel 1985, si era fondata sull’idea che il concepito non avesse un vero e proprio diritto alla vita: vi sarebbe soltanto un valore costituzionale della medesima, un “interesse” che lo stato avrebbe il dovere di tutelare[12]. L’Autore illustra il passaggio alla liberalizzazione del 2010. La nuova legge, assai permissiva, striderebbe con le affermazioni di principio contenute nella pronuncia del 1985, riconoscendosi oggi implicitamente un diritto pressocché assoluto all’aborto entro le prime 14 settimane. Negli anni ‘90, inoltre, le leggi in tema di fecondazione in vitro ed utilizzo di organi e tessuti embrionali avrebbero offerto debolissime tutele all’embrione. Tale legislazione è addirittura sprovvista di garanzie di tipo penale e contiene una distinzione tra pre-embrioni, embrioni non viabili ed embrioni in soprannumero assai difficile da conciliare con l’idea di una innata dignità dell’uomo. La “graduale” protezione del concepito contrasterebbe, infine, con il fatto che la vita umana è un “continuum”.

È poi la legislazione polacca ad essere oggetto di nota[13]. Jerzy M. Ferenz e Aleksander Stępkowski, in particolare, mostrano al lettore – e forse soprattutto a quello statunitense – che non sempre i nascituri debbono temere i giudici e le corti costituzionali[14]. Nel caso della Polonia, infatti, è stato il Tribunale costituzionale che, nel 1996, ha: a) introdotto il diritto alla vita nel catalogo dei diritti tutelati dalla costituzione e b) stabilito che esso spettava anche al concepito nella fase prenatale; c) esteso la protezione costituzionale della salute al concepito; d) proibito l’aborto a richiesta, che lo stesso legislatore aveva “democraticamente” introdotto nello stesso anno. Il caso polacco, in particolare, dimostra che la lettera della legge non sarebbe il presupposto necessario ed indefettibile per giungersi a una piena tutela della vita. Oltre che per ragioni scientifiche, la tutela della vita sin dal concepimento sarebbe anche coerente, secondo i giudici polacchi, con la tutela della maternità e della famiglia, nonché conforme al diritto internazionale. Al contrario, la legalizzazione dell’aborto “per ragioni sociali” (o “a richiesta”) è caratterizzata da una arbitrarietà inaccettabile che potrebbe solo condurre, a rigor di logica, al diritto di abortire per tutto il tempo della gravidanza. Secondo gli Autori, in conclusione, non è l’attivismo giudiziale il problema, ma la cultura che ne è lo sfondo.

La legislazione irlandese sul tema, nota alle cronache a seguito del recente referendum del maggio 2018, è oggetto di analisi a firma del professore William Binchy (Adjunct Professor of Law, Trinity College, Dublino)[15]. L’Autore spiega le ragioni che condussero, nel 1983, ad emendare la Costituzione, sicché essa proteggesse non solo il diritto di ogni cittadino alla vita, ma anche, esplicitamente, quello del nascituro. L’esplicita previsione dell’VIII emendamento, peraltro, non escludeva in maniera assoluta l’aborto. La vita del nascituro doveva infatti proteggersi con il “dovuto riguardo” all’uguale diritto della madre e “nella misura del possibile”.  Già nel 1992 la Corte Suprema irlandese aveva messo in discussione la protezione del concepito che poteva cedere innanzi al rischio di suicidio della madre. La prassi giuridica internazionale avrebbe poi dato il contributo maggiore all’erosione delle garanzie del nascituro. Nel 2010, la Corte Europea dei Diritti Umani passava dal riconoscimento di un “margine di apprezzamento” al dichiarare che la legge irlandese violava l’articolo 8 della Convenzione; nel 2016, la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Uniti stabiliva, incomprensibilmente, il dovere dell’Irlanda di garantire l’accesso all’aborto. Un referendum ha posto fine alla questione, rendendo invisibile il nascituro.

La terza ed ultima area di studio, quella latino-americana, si apre con il caso giurisprudenziale più famoso, ovvero quello deciso dalla Corte Interamericana per i Diritti Umani nel 2012: Artavia Murillo et al. V. Costa Rica[16]. In tale occasione, nonostante l’esplicita tutela della vita del nascituro contenuta nella Convenzione Americana sui Diritti Umani, i giudici internazionali hanno condannato la proibizione della fecondazione assistita obbligando altresì il Costa Rica a finanziare programmi sanitari per l’infertilità. Secondo l’Autore, Juan Cianciardo (Professore di Filosofia del Diritto, Università di Navarra), la corte internazionale avrebbe ingiustamente ignorato il contrario giudizio del tribunale costituzionale nazionale, che aveva invece ritenuto doverosa la protezione di ogni vita ed a partire dal concepimento; e avrebbe del tutto arbitrariamente stabilito che il diritto alla vita spetti solo dal momento dell’annidamento. Essa avrebbe visibilmente ecceduto la propria giurisdizione e ciò soprattutto nel 2016, quando, con la pretesa di monitorare l’esecuzione del proprio giudizio, avrebbe dato vita a nuovi obblighi per lo stato. Confondendo diritti e desideri, avrebbe creato, ex novo, il “diritto” alla fecondazione assistita.

È poi il professor Zambrano a prendere nuovamente la parola, con un contributo sulla giurisprudenza argentina denso di riflessioni assai profonde ed affatto banali sul processo interpretativo delle norme, composto di comprensione ed interpretazione vera e propria, e sugli orizzonti valoriali che danno vita alle diverse interpretazioni[17]. Egli illustra lo sviluppo “bifasico” della tutela della vita prenatale in Argentina: dapprima, nelle sentenze Tanus e Portal de Belen, la corte costituzionale si mostrava pro-vita, giungendo, nel secondo caso, anche a vietare la distribuzione di un contraccettivo che poteva avere effetto abortivo. In seguito, nel 2012, la medesima corte, pur non smentendosi, apriva le porte al diritto della madre di decidere. Quel che l’Autore sottolinea è che per giungere alle diverse conclusioni i giudici si sono serviti delle medesime norme e dei medesimi documenti internazionali. Egli nota, infine, che se davvero i diritti fondamentali si ritengono il prodotto di un contesto sociale, e se il loro significato non va oltre la loro proclamazione, non pare possibile predicarne il carattere realmente fondamentale né la natura universale.

La normativa cilena è analizzata alla luce del giudizio di incostituzionalità relativo alla commercializzazione della “pillola del giorno dopo”[18]. Alejandro Miranda e Sebastián Contreras, entrambi professori di filosofia del diritto presso l’Università delle Ande, ritengono, in particolare, che la corte costituzionale cilena abbia correttamente affrontato il tema del momento di inizio della vita sancendo la proibizione della pillola a fronte del “ragionevole dubbio” circa il rischio di un suo effetto abortivo. I giudici, tuttavia, secondo gli Autori, avrebbero dovuto considerare diversamente l’ipotesi di una donna che, vittima di violenza sessuale, assuma la pillola con la sola intenzione di prevenire il concepimento, esercitando una legittima difesa. La corte avrebbe più in generale sottovalutato che all’assoluto diritto alla vita non sempre corrisponde il dovere del terzo di preservarla, ma soltanto di astenersi dal turbarne il godimento.

I professori Ramírez García e Soberanes Díez si occupano della disciplina messicana dove, a livello federale, il riconoscimento costituzionale del diritto alla vita è avvenuto solamente nel 2011[19]. Prima di allora, nel 2002, nonostante i giudici costituzionali avessero ritenuto che la vita ha inizio col concepimento, gli stessi ritenevano legittima la decriminalizzazione dell’aborto in caso di “anormalità genetiche”. Ciò sulla base di una dubbia distinzione tra eugenetica “statale”, illegittima, ed eugenetica “liberale”, consentita. Nel 2007 la stessa corte riteneva legittima la decriminalizzazione dell’aborto entro le prime 12 settimane, ma tale decisione non avrebbe il valore di precedente. In 18 costituzioni nazionali, inoltre, la vita è tutelata dal concepimento. Tali previsioni sono giunte due volte alla Corte Suprema. Secondo gli Autori, questa avrebbe abbracciato una pericolosa e positivistica idea di dignità umana nonché una arbitraria concezione dei “diritti riproduttivi”, che priva il padre di ogni facoltà di decidere la sorte del nascituro.

L’ultimo contributo, relativo al Perù, riguarda ancora una volta la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, contraccettivo d’emergenza che ha però effetti diversi a seconda della fase del ciclo in cui viene assunta e che potrebbe impedire non solo ovulazione e concepimento, ma anche l’annidamento dell’ovulo fecondato[20]. Il professor Luis Castillo Cordova, Professore di Diritto Costituzionale presso l’Università di Piura, si distingue tuttavia dai precedenti autori per una peculiare attenzione al metodo interpretativo e creativo di diritto adottato dalla corte costituzionale. Quest’ultima è capace di generare le cosiddette norme “derivate”, che possono anche essere incostituzionali, ma che restano valide ed efficaci. La corte peruviana, in particolare, avrebbe creato due norme derivate, secondo le quali: a) la vita ha inizio al concepimento; b) ove un diritto fondamentale sia o possa essere in pericolo, deve vigere il principio di cautela. Tali norme, legittime, giustificherebbero il giudizio che ha proibito, nel 2009, la libera distribuzione della pillola del giorno dopo.

A concludere il volume, come già si è detto, sono le brillanti riflessioni del Professor John Finnis, il quale non teme di affermare, con la forza e la certezza proprie del tomista, che i diritti fondamentali non possano che essere “riconosciuti”, e non invece “attribuiti” all’individuo, come oggi spesso accade. Nel solco della tradizione tomista, inoltre, egli ribadisce che il discrimine tra lecito e illecito continua a doversi cercare nella libera intenzione dell’agente razionale. Particolarmente interessante, inoltre, l’osservazione circa il ruolo delle corti costituzionali, che dovrebbero operare sulla base di una presunzione di costituzionalità delle leggi esistenti al momento della loro creazione.

In conclusione, posto che dell’utilità e della tempestività del volume già si è parlato, resta da notare solamente un inevitabile difetto dell’opera: la sua non esaustività. Non ci si riferisce, ben si intenda, al fatto che Asia e Africa non rientrino nel progetto. Quel che il lettore deve sapere è che le diverse analisi valgono sì a fornire il quadro di interpretazione giudiziale della materia nei diversi Paesi, ma non bastano a conoscere i dettagli delle singole discipline nazionali, spesso incoerenti e ancor più spesso oggetto di modifiche ed aggiornamenti.

Come un vocabolario di greco per uno studente del ginnasio, il manuale curato dai Professori Zambrano e Saunders offre comunque allo studioso un criterio con il quale interpretare e valutare, d’ora innanzi, le nuove norme e i nuovi giudizi nazionali ed internazionali in tema di tutela del concepito.

* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] Cfr. Supreme Court to Hear Abortion Case from Louisiana, “The New York Times”, 4.10.2019.

[2] Professor of Law and Canada Research Chair in Indigenous Rights in Constitutional and International Law, presso l’Università di Saskatchewan.

[3] Cfr. D. Newman, pp. 53-70.

[4] In particolare, l’articolo del Professor G.V. Bradley, Whither United States Abortion Law, pp. 29-51.

[5] J. Finnis, Unborn Human Life and Fundamental Rights: Concluding Reflections, pp. 255-264.

[6] Ibidem, p. 264.

[7] Cfr. W. Saunders, Judicial Interference in the Protection of Human Life in the United States: Actions and Consequences, pp. 15-27.

[8] Professor of Law, University of Notre Dame, cfr. pp. 29-51.

[9] Cfr. D. Newman, pp.53-70.

[10] Cfr. S. Amato, To be or not to be. The Uncertain Identity of Unborn Children in Italian Case Law, pp. 71-81.

[11] Professore di Diritto Costituzionale, Università di Navarra.

[12] A. Montoro, Leading Cases from the Spanish Constitutional Court Concerning the Legal Status of Unborn Human Life, pp. 84-114. Il riferimento è in particolare alla Sentenza del Tribunale Costituzionale 53/1985.

[13] M. Ferenz-A. Stępkowski, The Emergence of the Right to Life in Polish Constitutional Law, pp. 115-132.

[14] J. Ferenz è Avvocato in Varsavia e Dottore di Ricerca in diritto penale. A. Stepkowski è Dottore di Ricerca e Professore di Diritto presso l’Università di Varsavia.

[15] W. Binchy, The Unborn Children and the Irish Constitution, Including Analysis of the Role of the European Court of Human Rights, pp. 133-161.

[16] Cfr. J. Cianciardo, The Specification of the Right to Life of the Unborn in the Inter-American Human Rights System. A study of the Artavía Murillo Case, pp. 163-184.

[17] Cfr. P. Zambrano, A Moral Reading of Argentine Constitutional Case Law on the Right to Life before Birth, pp. 185-204.

[18] Cfr. A.Miranda-S.Contreras, Commentary on the Constitutional Court of Chile’s Decision Concerning the So-Called “Morning after Pill”, pp. 205-222.

[19] R. García-S.Díez, The Right to Life in the Context of Mexican Legal Experience: From the Constitution to the Jurisprudence, pp. 223-232. Ramírez García è Professore di Filosofia del Diritto e Soberanes Díez Professore di Diritto Costituzionale presso l’Università Panamericana in Messico.

[20] Cfr. L. Castillo Cordova, Legal Status of Unborn Human Life: A Case from Peru, pp. 233-253.