Francesco Camplani
Dottore di ricerca in Diritto Penale
Università degli Studi di Napoli “Parthenope”

 

 

Sommario: 1. Che cosa è l’economia circolare – 2. L’economia circolare nel diritto positivo. La legislazione federale tedesca e le Direttive dell’Unione Europea – 3. Il modello gestionale, fra superamento e persistenza – 4. I tratti salienti del “diritto dell’economia circolare”: istanze sociali, attori… – 5. (segue) … e distinzione fra rifiuti per la valorizzazione e per lo smaltimento – 6. L’attuazione dei principi dell’economia circolare e la gerarchia delle azioni di trattamento – 7. L’influsso dell’economia circolare sul sistema del diritto penale dell’ambiente – 7.1. L’economia circolare come bene giuridico intermedio – 7.2. L’economia circolare e la sottrazione di materia alla gestione criminale dei rifiuti – 7.3. L’economia circolare e la conformazione delle singole fattispecie – 8. Lo stato dell’arte dell’economia circolare in Italia – 9. Economia circolare e Piano nazionale di ripresa e resilienza.

 

  1. Che cosa è l’economia circolare

 

Una domanda di fondo che ogni persona sensibile alla questione ambientale si pone da tempo potrebbe essere formulata nei seguenti termini: qual è il corretto bilanciamento fra esigenze dello sviluppo economico e tutela dell’ambiente? Su questa domanda insiste da tempo tutta la normazione che cerca di sviluppare un sistema economico che sacrifichi un po’ delle une ed un po’ delle altre, cromaticamente designato col colore “verde”. Si tratta di una domanda cui in generale si può rispondere abbastanza facilmente, ma che spesso prospetta conseguenze invero disagevoli per la vita della società, su una pluralità di piani.

Le forme di tutela dell’ambiente che ne derivano, infatti, assumono l’incomodo ruolo di limiti allo sviluppo delle attività economiche. Si può assumere sin d’ora, quale paradigma, la gestione dei rifiuti: le procedure che essa richiede, nell’ottica del contenimento del danno che all’ambiente può derivare dall’accumulo di oggetti scartati, gravano – come d’altronde appare corretto in un’ottica microeconomica – sugli operatori economici che producono rifiuti.

Si tratta di limiti che non tutti gli operatori accettano, commettendo illeciti di varia natura, talora anche con la complicità di consorterie criminali che offrono la possibilità di aggirare il problema. Ne deriva la necessità di ulteriori interventi pubblici per prevenire e punire gli illeciti. Un’altra domanda, la cui risposta appare invero più difficile, cerca di superare la visione in bilanciamento fra i due interessi. Può essere formulata in questi termini: è necessario che sviluppo economico e ambiente siano sempre in bilanciamento? O è possibile un’armonizzazione fra i due interessi o (in termini penalistici) beni giuridici?

Come spesso accade per domande complesse, il vantaggio consiste nel potenziale risolutivo della risposta. Ed è a essa che risponde il sistema designato cromaticamente come blue economy o geometricamente come economia circolare, espressione da ritenersi preferibile in quanto fatta propria anche dal diritto positivo. Tema fondamentale di questo innovativo sistema sono i rifiuti e la loro gestione. Si tratta di un ambientalismo “da lavoro sporco”, ricco di tecnicismi e di immagini poco poetiche, ben lontano dall’ambientalismo “delle foreste verdi e dei mari blu” su cui insiste certo attivismo.

È nel tentativo di rispondere a questo complesso interrogativo che i legislatori e governi devono seriamente affrontare una serie di problemi sui quali, quindi, l’entusiasmo della popolazione e di certi attivisti ambientali sembra concentrarsi in misura inversamente proporzionale tanto alla complessità tecnica, quanto alla concreta capacità risolutiva delle misure da mettere in campo, talora fino a spegnersi o financo capovolgersi. Cos’è, dunque, l’economia circolare? In prima approssimazione, si tratta di un sistema economico che “rilegge” i rifiuti come risorse per nuovi cicli industriali, anziché come “cadaveri” della produzione che hanno esaurito la loro utilità e la loro funzione, dovendo quindi essere raccolti e allocati in aree destinate allo scopo.

Per introdurre sin d’ora il linguaggio giuridico inerente alla questione, si supera la visione del rifiuto come mero oggetto abbandonato o scartato, res nullius che le pubbliche amministrazioni si onerano di rimuovere e di immagazzinare con il minor danno possibile. Il rifiuto viene riletto come bene materiale da recuperare o – seguendo la preferibile terminologia del diritto tedesco – valorizzare (verwerten). Ne conseguirebbe che esso possa diventare oggetto di riutilizzo e di scambio, ovviamente nel contesto di mercati particolari e “specialistici” quale quello dei materiali per le attività industriali. La filiera della produzione abbandonerebbe quindi una logica lineare, «materia prima- processo produttivo- prodotto- rifiuto», con quest’ultimo per lo più destinato allo smaltimento – in questo primo caso, per introdurre un’ulteriore distinzione basata su metafore cromatiche, c’è chi parla di red o brown economy – o con limitate ma ben evidenziate possibilità di riciclo – in questo secondo caso, si può parlare della green economy già oggetto di menzione in apertura del contributo[1].

Ne risulterebbe, invece, un sistema basato su una logica effettivamente circolare, «materia prima – processo produttivo – prodotto – rifiuto/risorsa – processo produttivo – prodotto – rifiuto/risorsa – etc.», confinando lo smaltimento alle poche e riducibili ipotesi di componenti e prodotti talmente dannosi da rendere il loro recupero o valorizzazione più dannosi del loro smaltimento.

Il riutilizzo dei rifiuti si inserisce quindi in un più ampio programma di risparmio di risorse naturali[2], prendendo doverosamente atto della loro finitezza, nonché di riduzione dell’inquinamento locale e globale.

Il ricorso ai rifiuti come “nuove materie prime”, infatti dovrebbe condurre (e in alcuni casi già conduce) ad un minore ricorso alle materie prime: basti pensare a quanto la carta riciclata consenta di risparmiare sullo sfruttamento di cellulosa. In secondo luogo, un minore smaltimento e il recupero di materiali smaltiti, laddove possibile, comporta la riduzione delle aree da destinare a tale scopo e la minore incidenza dei fenomeni inquinanti derivanti, per inerzia, dalla decomposizione di grandi quantità di oggetti ammassati o dall’incenerimento senza recupero di energia.

Uno dei motivi per cui, a parere di chi scrive, è necessario riflettere sulle possibilità di implementazione di questo nuovo modello di gestione dei rifiuti ha a che fare direttamente con il diritto penale dell’ambiente[3]: sembra infatti possibile affermare che tale sistema sottragga quantità ingenti di materiali all’economia criminale. Il presente scritto mira a presentare, in estrema sintesi, alcune ipotesi in tal senso.

 

  1. L’economia circolare nel diritto positivo. La legislazione federale tedesca e le Direttive dell’Unione Europea

 

Il concetto dell’economia circolare, da tempo, non è estraneo al diritto positivo e ai relativi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali. La presenza di alcuni modelli già affermati è ciò che ha consentito anche alla dottrina amministrativistica italiana di entrare nel merito della questione[4], offrendo le chiavi di volta per un discorso sull’economia circolare come bene intermedio da assistere con sanzione amministrativo-punitiva e penale nell’ottica di una tutela precauzionale e preventiva dell’ambiente come bene finale.

I principi dell’economia circolare, infatti, sono entrati nel panorama della legislazione soprattutto grazie ad un Paese precursore come la Repubblica Federale di Germania, che già nel 1994 ha emanato la “legge sull’economia circolare e si rifiuti” (Kreislaufwirtchaft- und Abfallgesetz, abbr. KrW-/AbfG), riformandola ulteriormente nel 2012 come “legge sull’economia circolare” (Kreislaufwirtschaftgesetz, KrWG)[5]. Tale approdo costituisce il punto d’arrivo di un percorso iniziato nei primi anni 1970, che ha visto il Governo federale tedesco attribuire una priorità sempre crescente alla tutela dell’ambiente e, in tale ambito, ad una gestione dei rifiuti che non solo non si limitasse a contenere il danno, ma che potesse anzi porsi il più possibile in armonia con le esigenze dello sviluppo economico[6].

Nel dialogo con l’ordinamento comunitario ed europeo unitario, si può peraltro affermare che tali leggi abbiano spesso anticipato l’attività normativa dell’Unione Europea, instaurando un dialogo virtuoso fra legislatore federale e sovranazionale. Il KrW-/AbfG del 1994 ha costituito un modello fondamentale per la Direttiva 2008/98/CE, atto tuttora vigente in materia di rifiuti, che ha portato al riordino generale della materia, accompagnata alla Direttiva 2008/99/CE in materia di diritto penale dell’ambiente. La Direttiva sui rifiuti, a sua volta, ha fornito al legislatore federale tedesco gli spunti necessari per il KrWG del 2012.

Un ulteriore passo in avanti, a sua volta ispirato dal KrWG, si è mosso con le due direttive “sull’economia circolare” del 2018: nella specie, la Direttiva 2018/851/UE sui rifiuti – che ha novellato la Direttiva del 2008 – e la Direttiva 2018/852/UE sugli imballaggi. Esse si sono a propria volta inserite nel solco del KrWG, intervenendo sulle debolezze rilevate dalla dottrina più accorta. Come si avrà modo di vedere in seguito, poco di questo virtuoso dibattito fra legislatori è confluito, allo stato, nell’ordinamento italiano e nei suoi principali atti vigenti in materia.

 

  1. Il modello gestionale, fra superamento e persistenza

 

La trattazione dell’economia circolare come elemento di innovazione del sistema giuridico rende utile premettere quale sia lo status quo (ante) che, a seconda dello stadio di sviluppo raggiunto dai singoli legislatori in materia, si è superato o si mira (auspicabilmente) a superare. Infatti, il diritto dell’economia circolare si sostituisce ad un modello giuridico più risalente e consolidato, improntato sulla funzione amministrativa della gestione legale del rifiuto come obiettivo della disciplina. Esso, a sua volta, è strettamente connesso con un concetto di economia totalmente o prevalentemente lineare, in particolare legame con un concetto di contenimento del danno e di recupero parziale dei materiali tipico della green economy.

L’ottica che si assume ha un carattere essenzialmente prevenzionistico, volto al bilanciamento fra inquinamento da rifiuti e produzione degli stessi. Tale obiettivo si persegue, in sostanza, circoscrivendo l’inquinamento ai luoghi individuati dalla pubblica amministrazione e mantenendolo entro determinate soglie, limitandosi a reimmettere nel ciclo economico-produttivo solo alcuni materiali agevolmente recuperabili.

In primis, bisogna segnalare un concetto centrale per l’intera transizione fra i due modelli: vale a dire, la definizione stessa del termine rifiuto. In una concezione lineare dell’economia, la definizione univoca, ma talmente ampia da risultare talora “camaleontica” è, in un primo momento, quella di cosa abbandonata o destinata all’abbandono: tale è la definizione fatta propria da uno dei primi atti del diritto italiano dedicati alla materia (d.P.R. 10 settembre 1982 n. 915, art. 2 co. 1). In un secondo momento, si passa ad un concetto più “intenzionale” di cosa scartata (così nelle versioni anglofone delle direttive europee, che usano il verbo to discard) o di cui ci si disfa, si intende disfarsi o si è obbligati a disfarsi (così nel diritto italiano a partire dal d. lgs. 22/1997 e nel diritto tedesco fin da prima delle leggi sull’economia circolare, verbo entledigen), in quanto priva soggettivamente od oggettivamente di ulteriore utilità[7]. In questo contesto, l’oggetto antitetico al rifiuto è appunto il bene economicamente valutabile (Wirtschaftsgut) e l’eccezione di un residuo di valore economico si presta quale argine al disfacimento financo di oggetti ambientalmente dannosi[8].

Per quanto riguarda la gestione dei rifiuti raccolti, il sistema prevenzionistico pone, a carico tanto dei privati quanto delle imprese che producono i rifiuti, notevoli costi diretti (obblighi) o indiretti (tributi, iscrizioni a consorzi) sia di recupero che di smaltimento. Si tratta di una distribuzione degli oneri che, in linea teorica, potrebbe considerarsi pienamente rispondente ad equità, alla luce di considerazioni di microeconomia: il concetto è infatti quello di onerare dei costi di un’esternalità negativa – le spese per la gestione dei rifiuti e l’inquinamento generato – chi la produce. L’osservazione dei comportamenti di alcune grandi imprese ed il loro coinvolgimento più o meno consapevole e diretto in fatti di reato aventi ad oggetto materiale i rifiuti da loro prodotti, tuttavia, inducono a riflettere sulla funzionalità dello schema descritto e sulla sua superabilità in favore di un sistema altrettanto equo ma più funzionale.

In tale sistema, si ricorre alla punizione mediante sanzione amministrativa pecuniaria e, nei casi più gravi, mediante pena in risposta alle omesse comunicazioni, al mancato rispetto delle procedure ed al superamento di limiti-soglia di sostanze inquinanti, optando per fattispecie di pericolo astratto improntate ad una tutela di funzioni, realizzando un sottosistema penale-ambientale “accessorio” al diritto amministrativo[9]. Il bene giuridico ambiente viene quindi perseguito individuando, oltre la funzione, un bene giuridico intermedio che può essere individuato nella prevenzione dell’inquinamento da rifiuti.

Il modello gestionale corrisponde tuttora al nostro sistema di diritto sia amministrativo che penale dei rifiuti. Come si vedrà a breve, il d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152, nella sua Parte IV (art. 177-266), nonostante l’intervento di numerose modifiche legislative – da ultimo quelle connesse all’insufficiente atto di ricezione della Direttiva 2018/851/CE, il d. lgs. 116/2020 – continua a prevedere una funzione amministrativa volta a circoscrivere il danno, protetta dalle norme di reato di cui agli art. 255 ss. nonché, a seguito della (nobilmente motivata, ma scoordinata) riforma contenuta nel d. lgs. 1° aprile 2018 n. 21 sulla riserva di codice, dall’art. 452-quaterdecies cod. pen.

 

  1. I tratti salienti del “diritto dell’economia circolare”: istanze sociali, attori e…

 

Lo sviluppo del diritto dell’economia circolare, nel contesto dell’ordinamento federale tedesco, ha conosciuto una serie di condizioni peculiari e di sviluppi significativi che hanno consentito al sistema di andare a regime con notevole anticipo rispetto al resto d’Europa, la cui analisi può suggerire alcune idee fondamentali affinché il sistema sia recepito e implementato anche in ordinamenti sul punto decisamente più tardivi, quali – allo stato – quello italiano.

Un primo, fondamentale fattore, che si sceglie di privilegiare nella trattazione rispetto agli stessi aspetti economico-giuridici della tematica, è quello dello sviluppo di una sensibilità sociale in relazione alla tutela all’ambiente e, in particolare, in relazione alla gestione dei rifiuti. Sulla centralità dell’aspetto sociale si avrà modo di ritornare anche in seguito, purtroppo per dar conto anche del moto equivalente e contrario di freno alla circolarizzazione del sistema economico e produttivo. Lo sviluppo piuttosto precoce della sensibilità ambientale nel contesto di una società industrializzata come quella tedesca, resa edotta dei possibili sviluppi negativi di uno sviluppo economico senza contraltari, ha condotto abbastanza presto alla discussione sulla necessità di ridiscutere la “società del gettar via” (Wegwerfgesellschaft) e alla presa d’atto della necessità di evitare catastrofi inerenti alla produzione di rifiuti, nel contesto di una potenza industriale che storicamente non può certo ritenersi esente dal problema[10].

Il processo, chiaramente, non è rimasto esclusivamente nelle mani della cittadinanza, potendo contare sull’attenzione e sull’appoggio del Governo Federale tedesco. Nel c.d. Programma ambientale (Uwmeltprogramm)[11] del 1971, l’esecutivo della Bundesrepublik prendeva atto di una situazione diffusa di eccesso di spese e di aree dedicate allo stoccaggio dei rifiuti stessi, dichiarando sin da allora di mirare ad una loro riduzione e alla reimmissione del rifiuto nel «circolo delle materie prime» (Rohstoffkreislauf). Il realizzarsi di tecniche di differenziazione, riciclo e del recupero o valorizzazione dei rifiuti avrebbe quindi ulteriormente diffuso la consapevolezza di poter ravvisare nei rifiuti, o almeno in parte di essi, una merce (Ware) o una materia prima (Rohstoff) in luogo di un mero oggetto materiale[12].

Lo sviluppo di un diritto dell’economia circolare è pertanto apparso significativo quanto al cambiamento di prospettiva del legislatore federale, che ha abbandonato una prospettiva di mero contenimento del danno e del pericolo per la salute esseri umani per tentare di perseguire scopi ecologici e, ancor meglio, di buon utilizzo delle risorse[13], sostituendo «il pensiero problematico con quello teleologico»[14].

Si può porre agevolmente in correlazione alle istanze di una società civicamente sensibile la virtuosa conseguenza del coinvolgimento degli operatori privati, e quindi di quell’economia di mercato che in un sistema gestionale viene tendenzialmente identificata quale contrappeso alla tutela ambientale. Il diritto positivo dell’economia circolare ha realizzato la transizione da una gestione principalmente pubblica per mezzo degli enti locali – soprattutto i Comuni[15] – alla sistematica compartecipazione dei privati al settore, cercando di favorire una loro partecipazione alla corretta gestione con la prospettiva di profitti legali e, in un certo senso, benefici verso l’ambiente stesso[16]. In effetti, è possibile osservare come la prospettiva si sia sostanzialmente rovesciata con il passaggio da leggi previgenti, basate sull’economia lineare, alle leggi sull’economia circolare. Le prime imponevano ai detentori o rectius possessori (Besitzer) dei rifiuti la consegna a soggetti obbligatisi alla gestione (Entsorgungspflichtigen), individuati soprattutto negli enti di diritto pubblico (Körperschaften des öffentlichen Rechts).

Già il § 5 Abs. 2 del KrW-/AbfG del 1994, nel definire i soggetti obbligati alla valorizzazione del rifiuto, attribuiva questo compito in prima battuta all’impegno di produttori e possessori. Il § 7 Abs. 2 KrWG conferma questa previsione. Il diritto vigente, infatti, attribuisce ampie competenze dirette su azioni di trattamento del rifiuto quali la valorizzazione (§ 7 KrWG), lo smaltimento (§ 15 KrWG) e la sorveglianza di tali operazioni in ambito aziendale (§ 47 co. 3 KrWG), essendo incaricati quindi di una responsabilità in vigilando e, in caso di appalto a soggetti terzi, in eligendo. I loro obblighi verso il settore pubblico sono quindi limitati ai casi di raccolta di rifiuti urbani che essi non sarebbero in grado di valorizzare adeguatamente (§ 17 KrWG)[17]. Inoltre, sono stati agevolmente riconosciuti i medesimi compiti di gestione o di intervento sulla gestione anche in capo ai titolari di diritti reali o ai possessori dei terreni nei quali i rifiuti vengano depositati incontrollatamente.

In termini penalistici ne può derivare anche una posizione di garanzia: in condizioni di adeguata dominabilità delle circostanze di fatto, nonché di coscienza e volontà riguardo alla commissione di fatti di illecita gestione dei rifiuti, al titolare o possessore del terreno possono essere ascritte responsabilità derivanti da condotte omissive, tanto in posizione principale quanto – più frequentemente – in posizione concorsuale[18].

Si realizza, in questo modo, un assetto equo e razionale che responsabilizza i singoli produttori in relazione all’esito dei propri rifiuti, offrendo peraltro loro la possibilità di ricorrere ad un recupero o valorizzazione interni all’azienda. I costi loro addossati, in tale misura, potrebbero essere ridotti o comunque ripagati dalla prospettiva di futuri risparmi sullo sfruttamento di materia prima. Tanto non potrà che avere riflessi positivi sul comportamento di una serie di operatori inclini a perseguire il risparmio anche a costo di accettare il rischio di sanzioni: il primo potrebbe non rappresentare più un contrappeso adeguato al secondo. Su tale ipotesi si tornerà in seguito.

 

  1. (segue) … e distinzione fra rifiuti per la valorizzazione e per lo smaltimento

 

Si è tuttavia correttamente osservato quanto l’ampiezza della definizione del rifiuto comporti proporzionalmente, per i gestori privati, maggiori possibilità di gestione arbitraria dei materiali raccolti. Di qui la necessità di definizioni e discipline il più stringenti possibile e la distinzione fra rifiuti che presentino un’adeguata attitudine al recupero o alla valorizzazione e quelli che non possano avere altro esito di uno smaltimento ordinato[19].

 

L’ordinamento tedesco, sin dal KrW-/AbfG del 1994 (§ 3), è stato molto chiaro nel riconoscere queste due differenti categorie di rifiuto, individuando i due macro-insiemi dei “rifiuti per la valorizzazione” (Abfälle zur Verwertung) e dei “rifiuti per lo smaltimento” (Abfälle zur Beseitigung). Si tratta di una distinzione che, nel contesto del d. lgs. n. 152/2006, tutt’oggi manca, pur in presenza di numerose categorizzazioni volte a individuare oggetti più o meno dannosi, pericolosi o distinzioni vertenti sulla loro origine.

La distinzione fra le due categorie si è dimostrata idonea a ridurre lo spazio della contrapposizione fra beni economicamente valutabili e rifiuti, dal momento che il rifiuto per la valorizzazione risulta ancora utilizzabile. Il contrario del rifiuto è diventato, in un simile contesto, il ben meglio determinato oggetto materiale del prodotto, indicato quale risultato intenzionale di un’attività di lavorazione della materia prima (o dei materiali valorizzati).

Rimaneva ampia incertezza, tuttavia, sull’individuazione dei criteri di dettaglio che distinguono i due tipi di rifiuto. Essi avrebbero fatto ingresso grazie alla categoria di derivazione comunitaria del end of waste, positivizzata dalla Direttiva 2008/98/CE all’art. 6 e confluita nel KrWG del 2012 (Ende der Abfalleigenschaft, § 5), così come anche nel d. lgs. n. 152/2006 (cessazione della qualifica di rifiuto, art. 184-ter).

Il concetto di end of waste consente di individuare quattro requisiti di massima che consentono, ad un rifiuto oggetto di precedente disfacimento, di rientrare nel circolo economico-produttivo: (i) la comune destinazione dei rifiuti e dei loro componenti, in astratto, a scopi produttivi specifici; (ii) la presenza di una domanda di mercato per la materia che compone gli oggetti scartati; (iii) la sussistenza in concreto di requisiti tecnici e qualitativi che consentano il recupero degli oggetti nella loro interezza, o della materia che li compone; (iv) il contenimento dell’inquinamento derivante dal recupero o valorizzazione, richiedendo che tale operazione non causi «impatti complessivi negativi» sull’ambiente[20].

 

Il giudizio negativo su tali criteri, in particolare sul quarto e più complesso criterio – che suggerisce di valutare non solo l’impatto inquinante del recupero o valorizzazione in sé, ma anche quello dello sfruttamento di nuove materie prime in luogo dei rifiuti e dell’impatto dello smaltimento – comporta che il rifiuto debba essere smaltito in quanto ogni altra alternativa avrebbe effetti deteriori in termini di inquinamento. Si tratta di un vaglio che in combinato con la distinzione fra rifiuti per la valorizzazione e per lo smaltimento, come emerge da alcuni dati che presenteremo a breve, garantisce risultati molto positivi.

 

  1. L’attuazione dei principi dell’economia circolare e la gerarchia delle azioni di trattamento

 

La traduzione in concreto dei principi dell’economia circolare, in linea teorica, si attua soprattutto attraverso la cd. gerarchia delle azioni di gestione del rifiuto messa a punto dalla prima legge tedesca sull’economia circolare e trasposta nella Direttiva 2008/98/CE, dopodiché anche nel D. lgs. 152/2006 – prevenzione, preparazione al riutilizzo, riciclo, recupero o valorizzazione, smaltimento – già predispone un piano d’azione da tradurre in concreto.

Osservando soprattutto il modello del KrWG e della direttiva, emergono una serie di possibilità che il legislatore italiano sembra aver recepito solamente in parte. Senza la pretesa di svolgere un’analisi tecnica completa, da riservarsi ad altra sede, è possibile ricorrere ad alcune tassonomie particolarmente efficaci nell’evidenziare le differenze tra i due modelli.

 

6.1. La prevenzione del rifiuto rimane il primo cardine tanto di un’efficace realizzazione della funzione amministrativa della corretta gestione dei rifiuti, laddove la loro minore quantità comporterebbe minori oneri di raccolta e smaltimento, quanto di un sistema di economia circolare. Essa si ricollega, peraltro, sia nominalmente che contenutisticamente ad uno dei principi fondamentali del diritto ambientale[21].

 

Tuttavia, in un’ottica gestionale la sua utilità si riduce ad un fatto di lungimiranza e di “promessa” di minori oneri futuri, il che sicuramente induce a trascurare tale azione poteri pubblici ed operatori privati che abbraccino ottiche di più breve periodo.

In un’ottica di economia circolare, essa assume un ruolo centrale nella valorizzazione del rifiuto-bene materiale: infatti, se il rifiuto diventa un bene economicamente valutabile, ridurne il più possibile la quantità circolante ne aumenta il valore e, sul mercato dei rifiuti valorizzabili, il prezzo. I risultati cui guardare, facendo riferimento al sistema giuridico, economico e produttivo tedesco, sono lusinghieri: le rilevazioni statistiche Eurostat del 2012 indicavano una produzione annuale pro capite di rifiuti inferiore di oltre 50 chilogrammi (per un totale di 450 kg) rispetto alla media europea (502 kg)[22].

Senza pretesa di esaurire il discorso, il diritto positivo offre due linee d’azione emblematiche per l’attuazione della prevenzione del rifiuto.

(a) Strumento essenziale introdotto dal diritto comunitario ed europeo unitario è la categoria del sottoprodotto, affinata grazie al contributo “pretorile” della Corte di Giustizia[23] e confluita nella direttiva 2008/98/CE (art. 5), in recepimento della quale è stata introdotta negli ordinamenti nazionali (art. 184-bis d. lgs. 152/2006, § 4 KrWG): ivi rientrano quegli oggetti che, pur non essendo l’esito fondamentale di un processo produttivo, ne rappresentano un risultato immanente, certamente, legalmente ed immediatamente riutilizzabile senza operazioni di modificazione fisica e merceologica – tutt’al più, a seguito di trattamenti “secondo la normale pratica industriale” – da parte dello stesso produttore o di terzi[24].

In sostanza, si è di fronte al caso di oggetti che non possono essere considerati alla stregua prodotti, ma il cui scarto e il successivo recupero o valorizzazione possono essere evitati alla radice, con un impatto ambientale pressoché nullo[25]. La loro definizione è affidata in parte alle indicazioni esplicite della legge, ma l’indicazione di criteri generali si offre quale norma di principio per allargare il novero dei sottoprodotti sia in via interpretativa, sia per mezzo di nuove previsioni normative, come è già avvenuto con le direttive dell’Unione sui sottoprodotti di origine animale. Un caso esemplare di discussione interpretativa sulla qualità di sottoprodotto, oggetto di dibattute trattazioni da parte della giustizia sia ordinaria che amministrativa di molti Stati membri dell’Unione, è quello del fresato di asfalto[26].

(b) Si può conseguire un risultato di prevenzione del rifiuto con una filosofia di “bastone e carota”, a partire da contenitori e imballaggi di prodotto (ma non solo), mediante azioni talora complesse, ma talaltra financo elementari: attribuzione del valore di pegno, reso eccellentemente dalla prassi tedesca della Pfandrückgabe e, pur con risultati meno incisivi, da quella del vuoto a rendere; imposizione di un criterio tendenziale volto alla riduzione delle parti di prodotto (e di imballaggio) da scartare e il divieto di utilizzo di materiali caratterizzati da non riutilizzabilità e da impatto ambientale elevato, quali l’amianto; imposizione di criteri volti ad allungare la vita del prodotto[27].

 

6.2. Scendendo lungo la scala della gerarchia, si incontrano tre azioni volte a trarre utilità dal rifiuto non prevenuto, via via più inquinanti e quindi da prendersi in considerazione “a cascata”, in via sussidiaria, mantenendo come criterio essenziale la prevenzione dell’inquinamento. Obiettivo definitivo dovrebbe essere evitare lo smaltimento tramite il recupero o la valorizzazione del rifiuto.

La preparazione al riutilizzo è la prima di tali azioni, posta al secondo posto della gerarchia delle azioni di gestione del rifiuto. Quest’ultimo, dopo il disfacimento e la raccolta (a differenza di quanto avviene per il sottoprodotto), viene avviato al riutilizzo senza trattamenti che ne alterino la struttura merceologica o la destinazione all’uso.

 

6.3. Il riciclo è l’azione mediaticamente più nota di gestione del rifiuto. Esso consiste nel recuperare, rinnovare o ripristinare e rimettere in circolo i materiali derivanti dai rifiuti, specie dopo averli raccolti separatamente e averli sottoposti a modificazioni morfologiche, talora anche merceologiche ma cercando di mantenerne la destinazione d’uso, come avviene nel caso del riciclo della carta menzionato nell’introduzione. Una sua realizzazione più efficace e “circolarizzante” richiederebbe un impegno di dettaglio, riassumibile in questi termini: (i) maggiore specializzazione della differenziazione, ad esempio distinguendo rigorosamente i materiali plastici da quelli metallici e quelli vitrei in base alla colorazione; (ii) raccolta domestica o condominiale, limitando l’uso dei contenitori urbani; (iii) stigmatizzazione di pratiche dovute essenzialmente a banale trascuratezza, come la rimescolazione dei rifiuti conferiti distintamente da parte dei soggetti e dei mezzi preposti alla raccolta.

 

6.4. Il recupero o, assecondando la scelta terminologica e semantica indicata in precedenza, la valorizzazione in forma particolare è la più inquinante delle azioni di trattamento del rifiuto, nonché quella che comporta necessariamente una “smaterializzazione” della materia prima, che viene alterata tanto nelle sue caratteristiche morfologiche e merceologiche quanto nella destinazione d’uso.

Tuttavia, tale azione si pone anche quale ultimo argine allo smaltimento e può avere l’indubbio merito di consentire il recupero industriale sicuro ed a basso impatto anche di oggetti difficili o, in seconda analisi, eccessivamente costosi da preparare al riutilizzo o da riciclare. Il ricorso esplicativo a due tassonomie che hanno avuto un certo corso in alcuni ordinamenti prossimi al nostro potrà chiarire la portata della valorizzazione in forma particolare ai fini dello sviluppo dell’economia circolare.

(a) L’applicazione più frequente e nota del recupero o valorizzazione in forme particolari, posta peraltro in prima posizione dagli allegati agli atti normativi sui rifiuti, è la valorizzazione energetica mediante combustione: i rifiuti, convogliati in appositi impianti di combustione, generano energia termica accumulata all’interno dell’impianto stesso per essere poi spesa per usi sia civili, quali il riscaldamento degli immobili, che industriali.

I dati sulle immissioni degli impianti di termovalorizzazione risultano decisamente lusinghieri e razionalmente invitanti, in considerazione dell’utilità economica e sociale che se ne può trarre e della loro distanza rispetto a quelli delle discariche o degli inceneritori. Si tratta di una prassi sperimentata con successo in molte città europee nonché, qui in Italia, limitatamente a due centri medio-piccoli come Bolzano e Brescia[28].

Si tratta di una forma di valorizzazione in forma particolare non sempre agevole da introdurre nel contesto sociale in quanto, di primo acchito, risulta piuttosto avversa ad ampi strati della cittadinanza. L’idea “inestetica” del riscaldamento domestico generato da rifiuti e della costruzione di impianti a ciò dedicati si scontra con quel fenomeno sociale noto con l’acronimo NIMBY, not in my backyard, che affligge anche molti sedicenti ambientalisti[29]. Si tratta di timori ampiamente ingiustificati e basati per lo più su cattiva informazione, bias cognitivi e concezioni estetizzanti dell’ambiente, superabili con una divulgazione scientifico-tecnica ed una comunicazione istituzionale adeguate alla comprensione dei profondi vantaggi della pratica.

(b) Altro utilizzo efficacemente sperimentato in alcuni paesi europei è quello della fabbricazione di materiali di colmatazione a seguito di trattamento meccanico-biologico. Il ricorso a tali materiali consente efficacemente di riempire avvallamenti nelle strade o financo nei terreni, se non addirittura per la richiusura di gallerie dismesse. Si tratta di misure in grado di venire incontro tanto a problemi quotidianamente constatabili della collettività, come il tasso di sicurezza della circolazione stradale per veicoli e passeggeri, quanto a problemi di integrità territoriale e paesaggistica. Anche in relazione ad essi, tuttavia, si renderebbe necessaria un’evoluzione culturale ed industriale che comporti l’accettazione di ricorrere a rifiuti trattati per la soluzione del problema.

 

6.5. Lo smaltimento costituisce, tanto nel modello gestionale quanto nel sistema dell’economia circolare, una vera e propria perdita secca. In un’ottica di mera prevenzione è accettabile purché sia contenuto e realizzato con strumenti legali, controllati direttamente dal settore pubblico o da esso autorizzati, seguendo comunque normative tecniche di raccolta e stoccaggio per evitare una concentrazione elevata di materiali particolarmente dannosi o pericolosi in un medesimo sito.

In un’ottica di economia circolare, esso dev’essere ridotto ai soli casi in cui tutte le altre operazioni risultino più dannose o inquinanti per l’ambiente stesso – trascurando, almeno in quest’ultimo caso, financo il criterio dell’economicità, come suggerisce esplicitamente la norma del § 7 co. 2 KrWG tedesco – rispetto allo smaltimento stesso. La differenza di risultato può essere talora evidente. In Germania, solo il 22% dei rifiuti raccolti viene smaltito. In alcune regioni italiane, le percentuali presentano rapporti pressoché inversi[30].

 

  1. L’influsso dell’economia circolare sul sistema del diritto penale dell’ambiente

 

La sintetica ricognizione dell’impatto dell’economia circolare sulle azioni di trattamento del rifiuto consente, ora, di introdurre il discorso dell’impatto sulle fattispecie di diritto penale preposte a prevenire il danno ambientale sanzionando la gestione illegale dei rifiuti, ispirandosi per lo più a schemi di pericolo astratto-presunto o astratto-potenziale. Chi scrive ritiene che si debbano distinguere tre piani: in primis, quello dell’influenza, in termini valoriali, sul bene giuridico protetto; in secondo luogo, quello degli effetti indiretti sullo stesso agire criminale; infine, quello dell’influsso sulle singole fattispecie di reato.

 

7.1 L’economia circolare come bene giuridico intermedio

 

L’economia circolare può assurgere a bene giuridico intermedio, strumentale alla tutela di ben due beni giuridici di livello finale: ambiente e sviluppo economico[31]. Essi verrebbero ad essere tutelati congiuntamente, laddove un’ottica gestionale-prevenzionistica tende a porli in bilanciamento.

Appare infatti evidente che la tendenza di un sistema di economia lineare – una volta che si sia preso atto del valore fondamentale dell’ambiente quale presupposto fisico-spaziale e climatico[32] dell’esistenza e dell’armonioso sviluppo della specie umana e delle altre specie viventi, suddivisibile in comparti (elementi della biosfera: acqua, terra, aria) e fattori (paesaggio, salubrità, integrità del territorio)[33] – sia quello di giustificare il suo danno in favore dell’esigenza di produrre rifiuti ovvero, oltre determinati limiti, a sottoporre quest’ultima a limiti, restrizioni e oneri nell’ottica della tutela dell’ambiente.

Il bene giuridico intermedio ricavabile dalla funzione amministrativa della corretta gestione dei rifiuti viene ad essere, in questo caso, la prevenzione dell’inquinamento derivante dagli stessi, perfettamente strumentale ad esigenze di tutela ambientale ma al contempo antagonista di quelle della produzione.

Un sistema di economia circolare individua, invece, un bene giuridico intermedio che sottolinea quanto un ambiente sano possa giovarsi di un’economia “pulita”, e viceversa. Anzi, a ben vedere, lo stesso sviluppo economico, cui le costituzioni moderne richiedono di svolgersi in armonia con le finalità della società, potrebbe risultarne protetto dalle versioni “malefiche” di sé stesso, vale a dire incentrate sulla massimizzazione del profitto a qualsiasi costo, nel contesto di un’ottica razionale ma miope che accetti eventi di danno generalizzato erga omnes – il che significa, peraltro, che l’inquinatore stesso sarà anche vittima del degrado ambientale da lui causato – e di consumazione di risorse e spazi cui non si potrà ricorrere ulteriormente in futuro.

L’accompagnamento del sistema produttivo verso un più ampio ricorso ai rifiuti in luogo di risorse naturali e materie prime può dunque condurre verso una situazione virtuosa in cui la rimozione e il riutilizzo dei rifiuti consentano la preservazione di spazi e di materie prime, i quali rimarranno ancora utilizzabili in futuro. Una minor consunzione di risorse nell’immediato, peraltro, agevola una loro rigenerazione, dal momento che l’ambiente rimane un’entità in equilibrio dinamico.

In questo quadro valoriale si inseriscono le letture politico-criminali e di conformazione normativa che, a sommesso avviso di chi scrive, dovrebbero orientare una possibile riforma di sistema.

 

7.2 L’economia circolare e la sottrazione di materia alla gestione criminale dei
rifiuti

 

Per quanto concerne il piano dell’agire criminale, la congiunzione delle ipotesi di base della teoria microeconomica e di considerazioni sulla razionalità di taluni soggetti criminali ci induce ad ipotizzare che l’economia circolare sottragga materiale e motivazioni alla gestione ambientalmente dannosa dei rifiuti. Si consideri, innanzitutto, lo status quo di modelli gestionali come quello italiano. Come si è già ricordato, su produttori e possessori pendono spese considerevoli per una gestione a loro ampiamente sottratta. A tali spese, tuttavia, molti produttori si sottrarrebbero volentieri, con intenzioni pienamente conformi ad una pur miope razionalità economica di breve periodo; quelli meno ligi al rispetto di una normativa ampiamente formalistica, a ben vedere, sono anzi pronti a cogliere l’occasione rappresentata da offerte convenienti in tal senso, accettando di correre il rischio di una sanzione amministrativa o penale comunque dilazionato nel tempo.

Le consorterie criminali rispondono agevolmente ad una simile domanda di mercato nero offrendo costi ridottissimi, come tali consentiti dall’illegalità delle procedure. La letteratura giornalistica non ha mancato di porre in risalto le risultanze delle attività di alcune Procure della Repubblica, che parlano di un risparmio nella misura dell’ottanta o novanta percento rispetto ai costi delle procedure legali[34]. Il quadro cambierebbe immancabilmente laddove una più efficace spinta alla prevenzione del rifiuto e maggiori possibilità di valorizzazione e commercializzazione degli oggetti scartati consentano, alle imprese, di riutilizzare una serie di oggetti o di recuperare al processo produttivo rifiuti il cui costo potrebbe essere ben inferiore a quello di determinate materie prime. In sostanza, si trasformerebbe una mera spesa, una perdita secca o dead weight loss, in un investimento, in quanto tale idoneo ad abbassare lecitamente e in modo favorevole all’ambiente sia le spese di produzione che quelle di “fine ciclo” ed aumentando con ciò i profitti.

In una simile cornice, le operazioni di smaltimento illegale dei rifiuti perderebbero ampiamente di fascino. L’assistenza della sanzione penale rimarrebbe un presidio fondamentale per quelle più ridotte ipotesi in cui l’offerta criminale riesca a risultare ancora economicamente attrattiva, quantunque in proporzioni ben inferiori, altro elemento che ridurrebbe il novero degli interessati a imprenditori particolarmente inclini a correre il rischio di procedimenti e sanzioni penali.

Non si può nascondere che, in questa situazione, si potrebbe comunque assistere alla gemmazione di un nuovo problema. Le stesse consorterie criminali, infatti, potrebbero sviluppare interessi nei confronti di attività di valorizzazione dei rifiuti, riducendo lo spazio affaristico dedicato allo smaltimento illegale. Si tratterebbe di un business illegale e dannoso per l’economia, in quanto tale da continuare a combattere. Nondimeno, comporterebbe minori danni per l’ambiente stesso: il terreno si sposterebbe sulla prevenzione e punizione di una criminalità economico-produttiva, di reati contro l’economia, con un guadagno netto per almeno uno dei due corni del problema – quello ambientale – e maggiori risorse, di conseguenza, da focalizzare sull’aspetto affaristico della questione.

 

7.3 L’economia circolare e la conformazione delle singole fattispecie

 

Per quanto riguarda le singole fattispecie di reato o di illecito amministrativo-punitivo, lo schema teorico del contrasto penalistico alla gestione illecita dei rifiuti, basato su previsioni di pericolo astratto-presunto o astratto-potenziale e sulla tutela di funzioni, sarebbe destinato a cambiare in misura abbastanza contenuta.

L’importanza e la diffusione di entrambi i beni finali “mediati” dal bene giuridico intermedio dell’economia circolare, infatti, continua a giustificare una tutela preventiva dal carattere fortemente anticipatorio ed accessoria al diritto amministrativo, limitandosi alla riconversione del pericolo astratto-presunto in una forma di pericolo almeno potenziale per rendere il precetto più riconoscibile nei suoi obiettivi di tutela ed espungendo le forme più “forti” di accessorietà, vale a dire quelle basate sulla violazione di obblighi di comunicazione, privilegiando invece quelle “medie” dell’autorizzazione alle attività e quelle “deboli” di individuazione di soglie di rischio da non superare[35]. Molte considerazioni, de jure condito, si potrebbero invece esprimere sul disordine concettuale e normativo delle disposizioni di cui agli art. 255 ss. del d. lgs. n. 152/2006, alla cui analisi si preferisce, in questa sede, soprassedere. Una riconduzione ad unità della materia, in una o due fattispecie, sarebbe un primo passo da compiere per ottenere un sistema più coerente e meglio inteso alla protezione dei beni giuridici intermedi e finali.

In termini di conformazione delle fattispecie penali, un primo necessario influsso potrebbe essere l’incriminazione specifica del recupero o valorizzazione illegale di rifiuti, enfatizzando così l’accento sull’importanza delle relative azioni e sottoponendole a protezione mediante una fattispecie di pericolo astratto. Tanto avviene nel § 326 dello Strafgesetzbuch tedesco a partire dal 1998, che sanziona per traffico illecito di rifiuti chiunque li valorizzi (verbo “verwertet”) illecitamente. La disposizione in questione, tuttavia, scade in un’aporia simile a quella delle plurime fattispecie nostrane: incrimina, infatti, un insieme di condotte ampio e piuttosto disordinato.

Paradossalmente, ulteriori suggerimenti significativi derivano da un ulteriore ordinamento, che pure ancora non menziona l’economia circolare come sistema di gestione dei rifiuti: quello austriaco. I §§ 181b e 181c dello Strafgesetzbuch austriaco – recanti, rispettivamente, una fattispecie dolosa e una colposa – enumerano condotte incriminate strettamente aderenti alla procedura empirica di raccolta, trasporto, recupero o valorizzazione e smaltimento, individuando esplicitamente i rischi di evento che devono essere prevenuti tramite l’incriminazione del pericolo[36].

Limitando l’analisi al comma I del § 181b, è possibile osservare quanto segue:

[§ 181b StGB austriaco]. (1) Wer entgegen einer Rechtsvorschrift oder einem behördlichen Auftrag Abfälle so sammelt, befördert, verwertet, beseitigt, diese Tätigkeiten betrieblich überwacht oder so kontrolliert, dass dadurch

  1. eine Gefahr für das Leben oder einer schweren Körperverletzung (§ 84 Abs. 1) eines anderen oder sonst für die Gesundheit oder körperliche Sicherheit einer größeren Zahl von Menschen,
  2. eine Gefahr für den Tier- oder Pflanzenbestand in erheblichem Ausmaß,
  3. eine lange Zeit andauernde Verschlechterung des Zustands eines Gewässers, des Bodens oder der Luft oder
  4. ein Beseitigungsaufwand, der 50 000 Euro übersteigt,

entstehen kann, ist mit Freiheitsstrafe bis zu zwei Jahren zu bestrafen.

[Traduzione, a cura dello scrivente] (1) Chiunque, in violazione delle disposizioni di diritto e di incarichi dell’amministrazione raccolga, trasporti, valorizzi, smaltisca rifiuti o sorvegli o controlli tali attività in ambito aziendale, in modo che possa derivarne

  1. un pericolo per la vita o una lesione grave all’integrità fisica (§ 84 Abs. 1) di un altro, o comunque per la salute e la sicurezza fisica di un più ampio numero di persone,
  2. un pericolo rilevante per specie animali e vegetali,
  3. un peggioramento duraturo dello stato di un bacino idrico, del suolo o dell’aria, o infine
  4. una spesa per lo smaltimento che superi i 50 000 euro,

è punito con la pena della reclusione fino a due anni.

Il merito di una disposizione così conformata sta nella chiara indicazione di una prospettiva di tutela: al primo posto si pongono le comunità umane; si aggiungono successivamente anche altri beni ambientali di livello para-finale: comunità biotica, biosfera, comparti ambientali. Inoltre, è interessante notare l’inclusione di un danno economico quantitativo, consistente in un ammontare minimo di spesa da impiegare nello smaltimento dei rifiuti trattati illecitamente, quale soglia di punibilità. De jure condendo, sembra quindi auspicabile concepire una fattispecie incriminatrice, unica o “sdoppiata” in base all’elemento soggettivo, che riunisca la materia e indichi con chiarezza l’intento di prevenzione del danno sia ambientale che economico.

 

  1. Lo stato dell’arte dell’economia circolare in Italia

 

Quanto premesso nei paragrafi precedenti sicuramente suggerisce un giudizio non positivo di chi scrive sullo stato dell’attuazione dei principi dell’economia circolare nel diritto italiano. Il relativo sistema di principi e di innovazioni normative, infatti, non è stato fin qui applicato in modo soddisfacente.

Il d. lgs. n. 152 del 2006, nel suo ruolo di testo unico e atto di sistema dedicato al diritto dell’ambiente, ha conosciuto, mediante il tardivo recepimento delle Direttive del 2018 da parte del d. lgs. 3 settembre 2020 n. 116, modificazioni del tutto superficiali, che si concretizzano nell’inserzione di alcuni lemmi in disposizioni sparse della Parte IV dedicata ai rifiuti.

In questo quadro complessivo già di per sé poco lusinghiero, è d’uopo formulare un’osservazione molto netta sull’aspetto penalistico della questione. Le fattispecie di reato dedicate alla gestione dei rifiuti, infatti, non sono state emendate neppur in minima misura. Tanto non è avvenuto né in relazione alle figure contravvenzionali tutt’oggi contenute nel Codice dell’ambiente, né tantomeno ha riguardato le figure di reato confluite nel Codice penale, Titolo VI-bis.

L’unico, marginale caso di modificazione dell’impianto sanzionatorio riguarda l’estesa e formalistica disposizione dell’art. 258 d. lgs. n. 152/2006, recante un illecito amministrativo punitivo posto a tutela degli obblighi informativi: il legislatore ha provveduto a una migliore puntualizzazione della condotta rimproverabile, prima esposta in termini di mancata iscrizione al Sistema di tracciamento dei rifiuti e dopo la riforma ripresentata sotto la ben più offensiva forma della mancata comunicazione.

 

In un simile quadro, non è quindi ancora possibile dare atto della conversione della disciplina sui rifiuti, né dell’adeguata introduzione nell’ordinamento del nuovo bene giuridico intermedio posto a protezione, congiuntamente, di beni finali come ambiente e sviluppo economico.

 

  1. Economia circolare e Piano nazionale di ripresa e resilienza

 

Volendo concludere con l’individuazione di prospettive de jure condendo almeno sul breve periodo, sembra doveroso fare riferimento al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e alle sue prime relazioni applicative. Si può dare conto dell’individuazione di almeno due livelli su cui il Piano interviene: in primis, le dichiarazioni d’intenti; in secondo luogo, le indicazioni operative.

Quanto al primo livello, correttamente si prende atto della necessità di prevenire il rifiuto, oltre che di riciclarlo. Inoltre, si dà atto di una situazione molto variabile a livello regionale. Si incorre nell’errore, tuttavia, di sovrastimare la collocazione dell’Italia nel panorama europeo: si parla di una situazione “sopra la media UE” che risulta dal 17,7% di “circolarizzazione” del rifiuto e al 49,2% di riciclo, per un totale del 66,9%. Tanto appare insufficiente in relazione a quella che è la terza economia europea, che dovrebbe guardare piuttosto al 78% complessivo della Germania – nel cui sistema economico-produttivo, si ribadisce, vi è una produzione di rifiuti consistentemente inferiore alla media europea.

Quanto alle indicazioni operative, esse sono contenute al paragrafo M2C1, dedicato espressamente al tema “Economia circolare ed agricoltura sostenibile”. Ora, l’agricoltura è senz’altro uno dei settori strategici nel quale già da tempo si è ampliata l’estensione del sottoprodotto, tramite il riuso dei sottoprodotti agricoli e pratiche come la fertirrigazione[37]. Se sicuramente un ulteriore incremento della circolarizzazione dei rifiuti nel settore agricolo è apprezzabile, ancor di più lo sarebbe un’espansione delle medesime pratiche in ambito industriale.

Alla luce delle considerazioni fin qui formulate, anche con riguardo al PNRR, sembra possibile formulare, per il futuro, una serie di auspici. In termini più ampi e generali, vi è la speranza di un costante, ulteriore sviluppo del sistema dell’economia circolare, che richiede sicuramente che la società si faccia carico di alcuni costi di breve periodo nell’ottica di un miglioramento della situazione sul medio-lungo periodo, con relativi investimenti culturali ed informativi sulla cittadinanza.

Quanto all’ordinamento italiano, l’augurio che si formula è quello di una decisa e non ulteriormente procrastinata introduzione dell’economia circolare nell’ordito della legislazione ambientale, sia amministrativa che penale, secondo le linee di sviluppo sinteticamente individuate nel presente lavoro e in quelle che, auspicabilmente, verranno enucleate nel corso di un dibattito ancora ben lungi dall’esaurirsi.

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] Cfr. R. Ferrara, Brown economy, green economy, blue economy: l’economia circolare e il diritto dell’ambiente, in Il Piemonte delle Autonomie, 2018, n. 4, p. 1 ss.

[2] Cfr. C. Feliziani, I rifiuti come risorse. L’”anello mancante” per un’economia circolare, in F. De Leonardis (a cura di), Studi in tema di economia circolare, Macerata, 2019, p. 91 ss., in part. p. 97.

[3] Fra le fonti della dottrina penalistica del presente lavoro, si citano sin d’ora G. De Santis, Diritto penale dell’ambiente. Un’ipotesi sistematica, Milano, 2012, in part. pp. 231-308 e 445 ss.; Id., Il nuovo volto del diritto penale dell’ambiente, Roma, 2017; P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Milano, 2015, p. 257 ss.; C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, in part. p. 107 ss.; L. Cornacchia – N. Pisani (a cura di), Il nuovo diritto penale dell’ambiente, Bologna, 2018; C. Ruga Riva, La disciplina dei rifiuti, in M. Pelissero (a cura di), Reati contro l’ambiente e il territorio, Torino, II ed. 2019, p. 167 ss.; E. Napoletano, Manuale di diritto penale ambientale, Bologna, 2021, in part. p. 226 ss.; F. Pinelli – A. Berardi, Lineamenti di diritto penale dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro, Padova, 2021, in part. p. 122 ss.

[4] Una delle prime opere collettanee sull’economia circolare è rappresentata dal prezioso volume F. De Leonardis (a cura di), Studi in tema di economia circolare, Macerata, 2019, oggetto di menzione più specifica nel prosieguo. Il curatore dell’opera, nella specie, è Autore molto attivo in materia da anni: cfr. in particolare F. De Leonardis, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno stato circolare?, in Dir. amm., 2017, n. 1, p. 163 ss., che riprende nel titolo l’autorevole saggio di Massimo Severo Giannini, caposaldo della teoria pluralistica sull’ambiente come oggetto di tutela giuridica. Una preziosa analisi in punto di diritto comparato è stata svolta da G. Cerrina Feroni – R. Carnevale, Profili giuridici della gestione dei rifiuti in Germania, in G. Cerrina Feroni (a cura di), Produzione, gestione, smaltimento dei rifiuti in Italia, Francia e Germania tra diritto, tecnologia, politica, Torino, 2014, p. 249 ss.

[5] Nella dottrina giuspubblicistica tedesca, cfr. L.-A. Versteyl, Einleitung, in L.-A. Versteyl – T. Mann – T. Schomerus (a cura di), Kreislaufwirtschaftsgesetz. Kommentar, München, 2012, pp. 1-6; M. Kloepfer (a cura di), Das neue Recht der Kreislaufwirtschaft, Berlin, 2013, passim; F. Petersen, Einführung I. Das Abfallrecht und das KrWG, in H. D. Jarass – F. Petersen, KrWG Kreislaufwirtschaftsgesetz. Kommentar, München, 2014, pp. 1-19. Si richiamano, inoltre, le opere a carattere generale menzionate in apertura del Capitolo III: M. Kloepfer, Umweltrecht, München, IV ed. 2016, p. 1804 ss.; S. Schlacke, Umweltrecht, Baden-Baden, VII ed. 2019, p. 330 ss. Nella dottrina penalistica, particolarmente accurata è la ricostruzione di M. Möhrenschlӓger, sub § 326 StGB Unerlaubter Umgang mit Abfällen, in H. W. Laufhütte – R. Rissing-van Saan – K. Tiedemann, Leipziger Kommentar. Großkommentar, Berlin-Boston, 2020, pp. 521-531.

[6] Un saggio risalente, ma al quale in questa sede riconosco un’importanza cruciale per lo sviluppo delle teorie che qui propongo e cito sin d’ora, è U. M. Gassner, Von der Abfallwirtschaft zur Kreislaufwirtschaft, in Archiv des öffentlichen Rechts, 1998 (vol. 123), n. 2, p. 201 ss.

[7] Cfr. R. P. Eckert, Die Entwicklung des Abfallrechts, in Neue Zeitschrift für Verwaltungsrecht, 1985, n. 6, p. 388 ss.; R. Federici, La nozione di rifiuti: una teoria, in Riv. it. dir. proc. civ., 2006, n. 6, p. 1051 ss.; N. De Sadeleer, Rifiuti, prodotti, e sottoprodotti: la Corte di giustizia delle Comunità europee e le decisioni dei giudici nazionali in Gran Bretagna, Francia e Belgio, Milano, 2006, p. 38; S. Benvenuti, Raccolta, gestione e smaltimento dei rifiuti in Italia, in G. Cerrina Ferroni (a cura di), Produzione, gestione, smaltimento dei rifiuti in Italia, Francia e Germania tra diritto, tecnologia, politica, Torino, 2014, p. 59 ss.

[8] Cfr. Eckert, Die Entwicklung des Abfallrechts, cit., p. 388. Si pensi al caso dei vicini sottoposti a immissioni promananti da cataste di oggetti ammassati nel fondo di titolarità del possessore: l’eccezione di un’utilità residua avrebbe ostato, in diversi contesti, ad ordini di rimozione.

[9] Per una ricostruzione del problema autorevole e potenzialmente trasversale agli ordinamenti italiano e tedesco, nonché ai sistemi a confronto, cfr. F. Saliger, Umweltstrafrecht, München, II ed. 2020, in part. p. 22 ss.

[10] Cfr. R. Keller, Müll – Die gesellschaftliche Konstruktion des Wertvollen. Die öffentliche Diskussion über Abfall in Deutschland und Frankreich, Wiesbaden, II ed. 2009, pp. 127, 140, 143 ss.

[11] Il Programma del Governo federale tedesco, cui si farà nuovamente riferimento a breve, è contenuto fra gli atti del Deutscher Bundestag, alla BT- Drucksache VI/2710, consultabile all’indirizzo http://dipbt.bundestag.de/. La gestione dei rifiuti, ivi presentata ancora in termini di smaltimento (Abfallbeseitigung), è trattata in dettaglio a p. 29 e nelle pagine seguenti.

[12] Cfr. K. Meßerschmidt, Europäisches Umweltrecht, München, 2011, p. 844; inoltre M. Kloepfer, Einführung, cit., p. 11. Si richiama, inoltre, la notazione di H. Wendenburg, Zur Abfallpolitik der Bundesregierung, in M. Kloepfer (a cura di), Das neue Recht der Kreislaufwirtschaft, cit., p. 25, che menziona la campagna svolta dal Governo federale con il francobollo celebrativo recante lo slogan “il rifiuto è materia prima” (Abfall ist Rohstoff).

[13] Cfr. R. Breuer, Strukturen und Tendenzen des Umweltschutzrechts, in Der Staat, 1981 (Vol. 20), n. 3, pp. 393-422.

[14] Così M. Kloepfer, Einführung, cit., p. 12.

[15] Cfr. Breuer, Strukturen und Tendenzen, cit., p. 414, laddove sottolineava quanto il AbfG (§ 3 Abs. 2) attribuisse agli enti pubblici territoriali, soprattutto i comuni il compito di smaltire i rifiuti presenti sul loro territorio; B. Haaß, Handlungsspielräume gemeindlicher Umweltpolitik am Beispiel des Abfallrechts, Berlin, 1992, pp. 17-19, p. 51 ss., il quale, sulla base della legge sui rifiuti del 1986 (v. nota seguente), individuava gli stessi comuni come portatori degli interessi necessari per la gestione dei rifiuti, nonostante il diritto allora vigente fosse improntato a tendenze centralistiche, con attribuzione agli enti locali di limitati compiti ed obiettivi da perseguire.

[16] Cfr. K. Meßerschmidt, Ressourcenschutz durch Kreislaufwirtschaft – aus der Sicht der Rechtswissenschaft, in M. Kloepfer, Das neue Recht, cit., p. 99 ss.

[17] Cfr. S. Schlacke, Umweltrecht, cit., pp. 340-341.

[18] Cfr. B. Hecker, Wilde Müllablagerungen Dritter als Problem der abfallstrafrechtlichen Unterlassungshaftung, in Neue Juristische Wochenschrift, 1992, p. 873 ss.

[19] Così M. Kloepfer, Einführung, cit., pp. 12-14. In tempi più risalenti, la medesima esigenza era stata evidenziata da P. J. Tettinger, Rechtliche Bausteine eines modernen Abfallwirtschaftsrechts, in DVBl, 1995, pp. 213 ss.; F. Petersen, Die Vorgaben der Industrieemissions-Richtlinie für die Abfallgrundpflicht des § 5 Abs. 1 Nr. 3 BImSchG, in P. Kirchhof – S. Paetow – M. Uechtritz (a cura di), Umwelt und Planung: Anwalt im Dienst von Rechtsstaat und Demokratie. Festschrift für Klaus-Peter Dolde zum 70. Geburtstag, München, 2014, p. 333 ss.

[20] Cfr. D. Röttgen, La Direttiva 2008/98/CE sui rifiuti – End of waste: arrivano le prime indicazioni, in Gazzetta Ambiente, 2008, n. 6, p. 127 ss.; V. Ardito, sub Art. 184-ter, in L. Costato – F. Pelizzer (a cura di), Commentario breve al codice dell’ambiente, cit., p. 649 ss.; M. Benozzo, Commento ai Titoli I-IV, cit., p. 550 ss.

[21] Per una ricostruzione giuridica del principio di prevenzione, derivato delle scienze sperimentali, un riferimento risalente eppur ancora attuale è P. Dell’Anno, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Milano, 2004, p. 79 ss. Cfr. ancora, peraltro con riferimento specifico alla materia dei rifiuti, F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in Riv. quad. dir. amb., 2012, n. 2, pp. 14 ss., in part. p. 18 ss. Per una trattazione più recente, L. Salvemini, I principi del diritto dell’ambiente, Torino, 2019, p. 102.

[22] Cfr. G. Cerrina Feroni – E. Carnevale, Profili giuridici, cit., pp. 250-251.

[23] Riferimento obbligato sono le sentenze CGCE, Sez. VI (Pres. F. Macken, Est. J.-P. Puissochet), 18 aprile 2002 (causa C-9/00), Palin Granit, in part. i parr. 26-27, 42-43, 46; Sez. II (Pres. C.W.A. Timmermanns, rel.- est. J.-P. Puissochet), 7 settembre 2004 (causa C-l/03), Van de Walle, in part. i parr. 42 ss.

[24] Cfr., nella dottrina amministrativistica italiana, M. Magri, sub Art. 184-bis. Sottoprodotto, in L. Costato – F. Pellizer (a cura di), Commentario breve al codice dell’ambiente, Padova, 2012, p. 646; S. Benvenuti, Raccolta, gestione e smaltimento dei rifiuti in Italia, cit., p. 82 ss.; M. Benozzo, Commento ai Titoli I-IV, cit., p. 542 ss.; nella dottrina penalistica, P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, cit., p. 287 ss.; C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, cit., p. 122 ss.

[25] Cfr. G. De Santis, Diritto penale dell’ambiente, cit., che a p. 246 parla di «non rifiuto a monte».

[26] Cfr., nella giurisprudenza amministrativa italiana, Cons. Stato, Sez. IV (Pres. M. Branca, Rel. – est. F. Quadri), sentenza 6 agosto 2013, n. 4151, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV (Pres. P. Numerico, Est. – Rel. A. Migliozzi), sentenza 6 ottobre 2014, n. 4978, in www.giustizia-amministrativa.it. Il cd. fresato d’asfalto, di per sé, è contemplato dal Codice Europeo dei Rifiuti: si tratta tuttavia di una presunzione iuris tantum, il che consente che tale materiale sia inteso quale sottoprodotto alle condizioni indicate dall’art. 184-bis d. lgs. n. 152/2006. La successiva giurisprudenza ordinaria, pertanto, ha dovuto costantemente vagliare l’assenza dei requisiti di cui all’art. 184-bis d. lgs. n. 152/2006 per confermare in via definitiva sentenze di condanna per i reati di gestione illecita di rifiuti. Inter alia cfr. Cass., sez. III pen. (Pres. A. Cavallo, Rel. – Est. V. Di Nicola), sentenza 22 novembre 2017, n.53136, in dejure.it, caso nel quale si è confermata la condanna per attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (all’epoca dei fatti art. 260 d. lgs. 152/2006, oggi confluito nell’art. 452-quaterdecies cod. pen.) nei confronti dei titolari di un’impresa che riutilizzava il fresato a seguito di una lavorazione a caldo, con miscelazione con altre componenti, modificando radicalmente le caratteristiche dello stesso.

[27] Cfr. C. Feliziani, I rifiuti come risorse, cit., p. 104.

[28] Per i dati di entrambi gli impianti, cfr. https://bit.ly/3JEpgqx e https://bit.ly/32Jo2tI. Il tasso di emissioni nocive particolarmente contenuto favorisce i fenomeni di resistenza e resilienza degli ecosistemi circostanti, a fronte di una potenza di riscaldamento che consente di riscaldare per intero entrambe le città, prestandosi alla valorizzazione di una quantità di tonnellate di rifiuti non riciclabili nell’ordine delle centinaia di migliaia.

[29] Cfr. L. Salvemini, I principi del diritto dell’ambiente, cit., p. 221.

[30] Cfr. G. Cerrina Feroni – E. Carnevale, loc. ult. cit.

[31] Sia qui consentito il rinvio al mio scritto F. Camplani, Tutela anticipata dell’ambiente e teoria del bene giuridico. Il ruolo fondamentale dei beni giuridici intermedi, in LexAmbiente, 2021, n. 3 pp. 16-45, da cui il paragrafo in questione riprende parte del percorso argomentativo.

[32] In termini non distanti, C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, cit., p. 12.

[33] Si fa qui riferimento alle elaborazioni della cd. teoria pluralistica sul bene giuridico ambiente: M. Cecchetti, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Milano, 2000; nella dottrina penalistica, cfr. E. Lo Monte, Diritto penale e tutela dell’ambiente, Milano, 2004, pp. 235-238; V. Italia, voce Ambiente (definizione e concetti generali), in AA. VV. (a cura di V. Italia), Ambiente Inquinamento Responsabilità, Milano, 2009, pp. 107-110, che in particolare fa riferimento alla lunga enumerazione di oggetti di tutela di cui all’abrogato art. 5 comma 1 lett. c) d. lgs. 152/2006, laddove si richiedeva che le valutazioni di impatto ambientale vertessero su «l’alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell’attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti». R. Salomone, Principi generali del diritto penale ambientale, P. D’Agostino – R. Salomone (a cura di), La tutela penale dell’ambiente. Profili penali e sanzionatori, in A. Di Amato (a cura di), Trattato di diritto penale dell’impresa, Vol. XI, Padova, 2011, p. 169 ipotizza una tripartizione: «tutela del paesaggio, tutela del suolo, dell’aria e dell’acqua, tutela urbanistica». Va specificato che l’Autore ritiene che il diritto penale ambientale, essenzialmente, non tuteli realmente tali beni, limitandosi le fattispecie alla sola tutela di funzioni (p. 185). Più di recente, G. De Santis, Il nuovo volto del diritto penale dell’ambiente, Roma, 2017, p. 5 ss.: «Un approccio non ideologico (della “immodificabilità” ambientale potremmo dire, che fonderebbe una sorta di “visione cimiteriale” del mondo) impone in altri termini di non pensare al bene Ambiente come un unico interesse, ma ad un fascio di interessi tutti con-costitutivi la stessa definizione dell’oggetto sostanziale di tutela»; M. Catenacci, I reati in materia di ambiente, in Aa. Vv., Questioni fondamentali dalla parte speciale del diritto penale, Torino, 2016, p. 432 ss., p. 434, laddove afferma «sono proprio lo status della legislazione e la sua storia che depongono a favore della tesi “pluralistica”. A parte infatti la frammentarietà del quadro normativo (…) e la conseguente scarsa predisposizione delle norme ad una così rigida reductio ad unum (…)». Nella dottrina tedesca, cfr. R. Rengier, Zur Bestimmung und Bedeutung der Rechtsgüter im Umweltstrafrecht, in NJW, 1990, p. 2506 ss.; J. Steindorf, Umwelt-Strafrecht, Berlin-New York, 1997, p. 41 ss.; H. G. Dederer, Grenzübergreifender Umweltschutz, in J. Isensee – P. Kirchhof, Handbuch des Staatsrechts, Vol. XI – Internationale Bezüge, Heidelberg, III ed. 2013, § 248, p. 858 ss., Rn. 1-2.

[34] Esemplare, pur nei limiti di una trattazione narrativo-giornalistica, è R. Saviano, Vieni via con me, Milano, 2010, pp. 102-104.

[35] Cfr. F. Giunta, Il diritto penale dell’ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, n. 4, p. 1117 ss.; L. Siracusa, La tutela penale dell’ambiente, Milano, 2007, in part. p. 141 ss.; A. Alberico, Obblighi di incriminazione e “controlimiti” nell’adempimento della direttiva 2008/99/CE in materia di tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2014, n. 2, pp. 233-273.

[36] S. Reindl-Krauskopf – F. Salimi, Umweltstrafrecht. Eine systematische Darstellung des gerichtlichen Umweltstrafrechts, Wien, 2013, p. 64 ss.

[37] Cfr. L. Ramacci, Reati ambientali e tutela agroalimentare, in A. Gargani (a cura di), Illeciti punitivi in materia agro-alimentare, Torino, 2021, p. 425 ss., in part. 431.