Grégor Puppinck

Direttore del “Centre européen pour le droit et la justice”
Membro del “Pannello di esperti dell’OSCE sulla libertà di religione o di convinzione”

 Relazione tenutasi al convegno Coscienza senza diritti?, svoltosi il 21 ottobre 2017 nell’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati per iniziativa del Centro Studi Rosario Livatino

 

L’obiezione di coscienza è una nozione complessa e dibattuta, che non può essere compresa se non la si pone in relazione al diritto positivo. Cercherò di darvi una presentazione del diritto vigente e, contemporaneamente, la logica interna dell’obiezione.

La mia presentazione si articola in quattro tempi: in primo luogo espongo due distinzioni fondamentali che permettono di comprendere quello che è l’obiezione di coscienza, poi passo a presentare il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza nel diritto positivo europeo e internazionale e infine descrivo gli obblighi degli Stati di fronte alle obiezioni di coscienza.

 

  1. L’obiezione di coscienza riguarda il rifiuto di agire positivamente

Per comprendere l’obiezione di coscienza bisogna innanzitutto saper cogliere la differenza fondamentale tra, da una parte, «essere forzati ad agire contro la propria coscienza» e, dall’altra, «essere impediti ad agire secondo la propria coscienza». Questa differenza, molto semplice, è correlata con quella, fondamentale, che differenzia il bene e il male. «Fare il bene, evitare il male», questa è la norma morale fondamentale e universale. Fare il bene, è compiere positivamente un atto che la vostra coscienza vi prescrive. Evitare il male, è astenersi dal compiere un atto che la vostra coscienza proscrive. Fare un tale bene o evitare un tale male è l’espressione di una convinzione, vale a dire di un giudizio ponderato della coscienza alla luce delle norme morali e religiose. Fare il bene è un’azione. Evitare il male è una astensione.

Come azione, fare il bene è una manifestazione positiva di una convinzione che si realizza nel foro esterno (forum externum). Come astensione, al contrario, evitare il male non è una manifestazione positiva di una convinzione, essa rimane naturalmente nel foro interno (forum internum).

Una manifestazione positiva – un’azione – perché concreta, deve sempre essere adattata alle circostanze nelle quali essa si realizza, essa può dunque così essere controllata e limitata dalle autorità legittime.

In compenso, un’astensione, per sua natura, non può essere «ristretta» senza essere subito soppressa.

Il bene e il male non sono simmetrici: fare il bene è un obbligo la cui estensione varia secondo le circostanze, mentre evitare di fare il male è un obbligo che si applica in ogni circostanza. Il bene è una questione di proporzione mentre il male è una questione di principio. Ne derivano due conseguenze importanti.

Da una parte, a differenza di una manifestazione positiva, è impossibile materialmente «restringere» un’astensione. Se non è rispettata, un’astensione non può che essere sanzionata o costretta.

Dall’altra parte: è più grave costringere una persona a commettere un male che la sua coscienza vieta o sanzionarla a motivo del suo rifiuto, che impedirle di compiere parzialmente un bene che la sua coscienza prescrive.

Questa distinzione permette di circoscrivere l’obiezione di coscienza alla sola situazione nella quale una persona è costretta a compiere un atto che essa giudica cattivo o sanzionarla in ragione del suo rifiuto di compierla. Al contrario, il caso nel quale una persona è impedita di realizzare in tutto o in parte un bene che la sua coscienza prescrive (il caso di Antigone) rientra nel regime ordinario della limitazione della manifestazione delle opinioni.

L’obiezione di coscienza, stricto sensu, concerne dunque un rifiuto di agire positivamente contro le proprie opinioni, e non un rifiuto di non agire.

Una seconda distinzione fondamentale deve essere delineata a seconda che la convenzione motivante l’obiezione sia di natura religiosa o morale.

 

 

  1. L’obiezione può essere di natura religiosa o morale

Bisogna distinguere tra le obiezioni, secondo che esse siano fondate su una opinione religiosa o morale.

L’obiezione morale (o razionale stricto sensu) è motivata da un precetto della ragione, da un «dictamen rationis» con esclusione di ogni precetto religioso (o di culto). Essa è la conseguenza di un giudizio della coscienza sulla natura stessa dell’atto al quale si riferisce, alla luce della norma morale fondamentale (fare il bene, evitare il male) all’origine del senso innato della giustizia.

L’obiezione religiosa, da parte sua, risulta da un precetto religioso o cultuale, la cui accettazione da parte della coscienza individuale necessita previamente di un atto di fede e non si impone dunque da essa stessa alla ragione. Si tratta di una obiezione da cui si può dedurre la religione dell’obiettore e che intrattiene con questa un legame diretto, necessario e sufficiente. Alcune religioni impongono numerose prescrizioni regolanti, negli aspetti di più concreti, la vita quotidiana dei loro fedeli.

Questa distinzione ha una conseguenza importante: certo, un’obiezione, che sia morale o religiosa, costituisce sempre un’obiezione di coscienza perché noi non abbiamo che una sola coscienza, la differenza tra l’obiezione morale e religiosa consiste in ciò che un’obiezione morale può pretendere di essere obiettivamente giusta: la sua rivendicazione poggia sulla giustizia: per esempio, è ingiusto uccidere un essere innocente. Al contrario, una obiezione religiosa non può pretendere di essere giusta in sé (per esempio, lavorare il giorno di sabato non è ingiusto in sé, è empio). La rivendicazione di un’obiezione religiosa si basa allora non sulla giustizia, ma sulla libertà della persona di conformarsi alle sue convinzioni religiose.

Certo, le autorità pubbliche devono, in quanto possibile, tollerare questa libertà religiosa. Tuttavia, se il rifiuto opposto a una obiezione religiosa può essere una violenza, non è per questo necessariamente un’ingiustizia. Diversamente, di fronte a una vera obiezione morale – che si basa sulla giustizia –, le autorità non possono disconoscerla senza commettere non solo una violenza, ma anche una ingiustizia.

La difficoltà consiste sicuramente nel riconoscere una vera obiezione morale. Il criterio principale si basa sulla finalità dell’obiezione: la convinzione deve tendere al rispetto del giusto e del bene e opporsi a un male.

Concretamente, il giurista può riconoscere una tale obiezione nella misura in cui essa miri al rispetto di una libertà o di un diritto fondamentale e si opponga a un comando che deroghi a questo diritto o a questa libertà. È il caso dell’aborto, dell’eutanasia o della guerra, la cui pratica non è possibile che mediante la deroga al principio fondamentale consolidato del rispetto della vita.[1]

 

  1. L’obiezione di coscienza nel diritto positivo internazionale ed europeo

Come ogni libertà, la libertà di coscienza e di religione comporta due aspetti, – uno positivo e l’altro negativo – che garantiscono la libertà di agire e di non agire. Nel diritto europeo e internazionale, il diritto all’obiezione di coscienza è garantito implicitamente come una componente della libertà di coscienza e di religione nella sua dimensione negativa.[2]

La protezione accordata dall’atto finale della Conferenza di Helsinki (1975) è esplicita nella parte che garantisce il diritto di agire «secondo l’imperativo della propria coscienza»[3].

La coscienza diviene oggetto di diritti nella misura in cui impone alla persona dei doveri. Storicamente, il regime dell’obiezione di coscienza è stato innanzitutto conosciuto come un «dovere» prima di essere conosciuto come un «diritto».

  1. Nel campo morale, l’obiezione può essere un dovere

Fu nel corso del processo di Norimberga[4] e, ancora dopo, la caduta del comunismo che l’obiezione di coscienza è stata riconosciuta come un dovere[5], certamente eroico, ma che si impone alle persone che ricevono un ordine gravemente ingiusto. La Commissione di diritto internazionale[6] ha formulato questo principio in questi termini: «Il fatto di aver agito dietro ordine del suo governo o quello di un superiore gerarchico non elimina la responsabilità del suo autore nel campo del diritto internazionale se gli ha avuto moralmente la facoltà di scegliere»[7]. La «facoltà morale di scegliere» è precisamente la facoltà esercitata dalla coscienza morale.

Gli agenti nazisti e sovietici sono stati condannati per aver obbedito agli ordini piuttosto che alla loro coscienza. Si tratta in questo caso di autentiche situazioni nelle quali l’obiezione di coscienza costituisce un dovere morale e giuridico, al di là e malgrado l’assenza, nell’ordine giuridico interno, di un diritto positivo all’obiezione.

  1. L’obiezione di coscienza può essere anche un diritto

Bisogna distinguere tra gli ordinamenti giuridici interni e internazionali[8].

Nell’ordinamento giuridico interno.

Il riconoscimento di un diritto all’obiezione di coscienza nell’ordinamento interno è eccezionale e pone un problema perché implica una contraddizione: uno stesso ordinamento giuridico fissa un obbligo e prevede la facoltà di esonerarsene dando per ragione che se ne rifiuti la legittimità stessa.

Questo fenomeno è recente, esso è apparso con la società liberale poiché questa ammette la coesistenza di due livelli di moralità, ossia un livello sociale e uno privato.

Le società liberali si caratterizzano per l’affermazione della tolleranza, vale a dire per l’illegittimità di ogni giudizio morale ad extra: la moralità di un atto individuale non potendo essere giudicata che dallo stesso interessato, e non dalla società, né dagli altri individui. Ne risulta una differenziazione tra una moralità pubblica e una privata[9] che conduce da una parte la società a depenalizzare le pratiche «immorali» private, e dall’altra parte, gli individui a tollerare socialmente delle pratiche che essi riprovano a «titolo privato».

Ora, se questa tolleranza è indolore per la maggioranza dei cittadini, essa non lo è per la minoranza riguardata direttamente dalla realizzazione della pratica in causa; perché, per fare un esempio concreto, una cosa è tollerare l’eutanasia, un’altra è di doverla praticare. Se è possibile far coesistere due moralità nel seno di una società liberale e pluralista, ciò non lo è nel seno di una stessa persona. Così, la “libertà” che la società liberale accorda agli individui al riguardo delle pratiche moralmente controverse può essere equa soltanto se essa garantisce a coloro che le riprovano il diritto di non essere costretti a concorrervi. La «clausola di coscienza» garantisce questo diritto, essa è un meccanismo attraverso il quale la società liberale organizza la coesistenza di due livelli di moralità; ella è così garante della stessa amoralità della società.

Nell’ordinamento giuridico sovranazionale, l’obiezione di coscienza è riconosciuta come una modalità di esercizio della libertà di coscienza nei confronti degli ordinamenti giuridici interni.

Sono stati così garantiti a titolo di libertà di coscienza e di religione il diritto di rifiutare di partecipare in modo particolare al servizio militare, all’aborto, all’eutanasia, alla caccia, alla celebrazione delle unioni omosessuali, a insegnamenti e pratiche religiose, o ancora il diritto di rifiutare di prestare giuramento sulla Bibbia, di farsi vaccinare, o ancora di rivelare le proprie convinzioni religiose.

È di fronte all’obbligo di uccidere che il diritto all’obiezione è più fortemente riconosciuto, al punto di costituire un «diritto di non uccidere» applicabile in modo particolare al servizio militare e all’aborto. Come sottolinea Sir Nigel Rodley, presidente del Comitato dei diritti dell’uomo, è in ragione del «carattere sacro della vita umana» che «il diritto di rifiutare di uccidere deve essere accettato completamente»[10].

Questo diritto è riconosciuto, e non è stato mai messo in discussione dalle istanze europee e internazionali[11]. Nel 2010 questo diritto è stato riaffermato fortemente dall’Assemblea del Consiglio d’Europa, grazie in modo particolare all’azione del deputato italiano Luca Volonté. In Europa, non ho conoscenza di alcuna sentenza contemporanea che abbia condannato un medico per essersi rifiutato di praticare un aborto.

Questo diritto è in linea di principio garantito in tutti i paesi europei, ad eccezione della Svezia.

La situazione dei farmacisti varia secondo i Paesi, ma non c’è alcuna ragione, al riguardo della libertà di coscienza, che il loro trattamento sia differente da quello dei medici e degli infermieri, sarebbe una discriminazione ingiustificata. Un interessante dibattito riguarda la natura dell’obiezione di coscienza e i suoi criteri.[12]

 

I criteri di valutazione

Come distinguere tra i rifiuti di obbedienza, quelli che costituiscono una obiezione di coscienza e meritano di beneficiare della protezione della libertà di coscienza e di religione? Dal concetto di obiezione di coscienza e dalla giurisprudenza discendono quattro criteri. Essi sono logici e classici:

  1. Bisogna avere una coscienza
  2. Bisogna avere una convinzione
  3. Bisogna avere una obiezione
  4. Deve esistere un legame stretto e diretto tra la convinzione e l’obiezione

Bisogna avere una coscienza. L’obiezione di coscienza è necessariamente una pratica personale, emanante da una persona fisica che dispone dell’uso della ragione. Una persona che non avrebbe ancora (il bambino) o che non avrebbe più (il demente o una persona mentalmente suggestionata) tale uso non saprebbe essere capace di esercitare una vera obiezione di coscienza.

Allo stesso modo, l’obiezione di coscienza non può, quindi, essere caratteristica di un’associazione di persone, non essendo questa dotata in sé stessa di ragione. La facoltà per le associazioni di conformarsi alle loro convinzioni è protetta dalla combinazione della libertà di coscienza e di religione[13] e della libertà di associazione[14]. Un ospedale può rifiutare di accettare al suo interno pratiche contrarie alle convinzioni sulle quali esso è stato fondato.

Bisogna avere una convinzione. L’obiezione trova la sua origine in una prescrizione della coscienza e non in semplici convenienze personali.

Le convinzioni in causa devono essere delle «convinzioni sincere e profonde, di natura religiosa o di altra natura»[15], secondo la Corte di Strasburgo e il Comitato dei diritti dell’uomo[16]. Può trattarsi di una convinzione «etica»[17], cioè morale, o «religiosa»[18].

La Corte precisa al riguardo che «la parola ‘convinzioni’, presa isolatamente, non è sinonimo dei termini ‘opinione’ e ‘idee’. Essa si applica a dei punti di vista che raggiungono un certo grado di forza, di serietà, di coerenza e di importanza»[19]. Convinzioni e opinioni sono entrambe il frutto della coscienza, ma l’opinione non è un giudizio definitivo, la persona non ne è convinta.

La Corte europea dei diritti dell’uomo precisa ancora che l’espressione ‘convinzioni filosofiche’ riguarda «delle convinzioni che meritano rispetto in una “società democratica”, [che] non sono incompatibili con la dignità della persona»[20]. Essa vuol dire, attraverso questo, che delle convinzioni «spregevoli» non meritano la protezione della Convenzione EDH.

Bisogna avere una obiezione. Non è sufficiente che l’obiezione sia fondata su delle opinioni, bisogna ancora che l’obiezione stessa rivesta anche il carattere di una convinzione.

Una persona che rifiutasse una procedura per incoerenza o per opportunismo non meriterebbe la protezione a titolo di obiezione di coscienza.

Così, la CEDH ha stabilito che l’obiezione deve essa stessa rivestire i caratteri di una «convinzione che raggiunga un sufficiente grado di forza, di serietà, di coerenza e di importanza per comportare l’applicazione delle garanzie dell’articolo 9»[21].

L’obiezione deve risultare da un «conflitto grave e insormontabile»[22] tra «un obbligo (…) e la coscienza di una persona o le sue convinzioni»[23]. L’obiettore deve essere spinto al rifiuto, su una questione grave e priva di scappatoie.

Per quanto riguarda l’obiezione nel campo lavorativo, dopo l’affare Ladele c. RU [24], la Corte europea giudica che la facoltà di cui dispone un dipendente di dimettersi non fa venire meno alla sua obiezione il suo carattere insormontabile[25].

[Come sottolinea il rapporto delle Nazioni Unite sulla libertà di religione e di credo, Heiner Bielefeldt, «I dipendenti non rinunciano alla loro libertà di pensiero, coscienza, religione o credo firmando un contratto di lavoro»[26].  Allo stesso modo, l’Assemblea parlamentare del consiglio d’Europa ha richiamato gli Stati «a difendere la libertà di coscienza sui luoghi di lavoro»[27]].

Deve esistere un legame stretto e diretto tra la convinzione e l’obiezione[28]. La Corte europea precisa che «deve essere dimostrata l’esistenza di un legame sufficientemente stretto e diretto tra l’atto e la convinzione che ne è all’origine nelle circostanze di ogni caso di specie»[29]. Affinché l’obiezione sia seria, deve così esistere un legame sufficientemente «stretto e diretto» tra il motivo dell’obiezione e il suo oggetto[30] in modo che la persona sia moralmente impegnata dall’azione[31]. Contribuire attraverso le tasse al finanziamento dell’aborto è più distante e indiretto che praticarlo direttamente.

 

 

 

  1. Gli obblighi dello Stato

Gli obblighi dello Stato variano a seconda che l’obiezione di coscienza obbedisca a delle prescrizioni di natura morale o religiosa.

Quando l’obiezione è morale, perché essa riguarda un bene e si oppone a una deroga a un diritto o a una libertà, la società la deve rispettare in maniera assoluta. Diversamente, sarebbe commettere un’ingiustizia e una violenza.

Effettivamente, quando la società liberale tollera o depenalizza una pratica, i poteri pubblici non devono costringere gli individui a concorrervi, per le ragioni esposte in precedenza.

Così, nel caso di rifiuto di praticare l’aborto, né la CEDH, né il Comitato della Carta sociale europea, né il Comitato dei diritti dell’uomo[32], condannano i medici obiettori. Al contrario, queste istanze riconoscono il loro buon diritto, almeno implicitamente. Le condanne recenti della Polonia e dell’Italia hanno riguardato i governi, non perché essi garantiscono il diritto all’obiezione, ma perché non avrebbero correttamente organizzato l’accesso all’aborto che essi hanno liberamente scelto di legalizzare.

Quando l’obiezione è religiosa o ideologica, l’obbligo dello Stato consiste nel rispettare la libertà religiosa. Secondo la CEDH, «il verbo rispettare significa ben più che riconoscere o prendere in considerazione. Più che un impegno negativo, esso implica nei confronti dello Stato un certo obbligo positivo»[33].

Bisogna ricordare che l’obiezione di coscienza, in ragione della sua specificità, merita un livello di protezione più elevato della manifestazione positiva delle convinzioni religiose: una astensione non può essere “ristretta”, e forzare a commettere il male è più grave che impedire di fare il bene.

Quando il rifiuto di agire porta pregiudizio a un terzo, le autorità pubbliche devono cercare di conciliare i diritti concorrenti in modo che essi possano coesistere ed essere, entrambi, interamente rispettati. L’ufficio del giudice dovrebbe allora essere non quello di verificare se lo Stato avesse dei motivi legittimi per costringere o sanzionare l’obiettore, ma di verificare se lo Stato abbia preso positivamente delle misure proporzionate che permettano di conciliare il rispetto della libertà di coscienza dell’obiettore con gli altri diritti e interessi concorrenti.

Questo approccio si basa sul principio di uguaglianza che vuole che una persona, per il solo fatto che le sue convinzioni sono minoritarie, non sia oggetto di un trattamento differente nel godimento effettivo dei diritti dell’uomo. Questo approccio ha come corollario il principio di non discriminazione. È al fine di garantire che le minoranze non siano indirettamente discriminate dalle scelte della maggioranza che lo Stato deve prendere delle misure per preservare la minoranza. È un modo, per la società, di autolimitare la sua presa collettiva sugli individui e di restare liberale.

Un’ultima osservazione conclusiva. L’obiezione di coscienza non è soltanto una modalità di esercizio della libertà di coscienza, essa è anche un segnale di allerta per tutta la società. Se numerosi medici e farmacisti rifiutano di praticare un atto, le autorità pubbliche non dovrebbero cercare di forzarli, ma dovrebbero interrogarsi sulle cause di questo rifiuto, poiché non è la legge, ma la coscienza personale che è l’ultimo giudice e testimone della giustizia.

 

[1]Relativamente al matrimonio omosessuale nel momento in cui è legalizzato nell’ordinamento giuridico interno, si può sostenere che è anche una forma di deroga al matrimonio garantito nel diritto internazionale unicamente a una coppia formata da un uomo e da una donna.

[2] Essa è garantita in particolare dall’articolo 18 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e 9 della Convenzione europea del rispetto dei diritti dell’uomo. Questi strumenti garantiscono «La libertà di coscienza e di religione, ciò che implica la libertà di avere o di adottare una religione o una convinzione di propria scelta, di cambiarla, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione».

[3] L’atto finale dispone che «Gli Stati partecipanti rispettano i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, ivi comprese la libertà di pensiero, di coscienza, di religione o di convinzione per tutti (…) In questo quadro, gli Stati partecipanti riconoscono e rispettano la libertà dell’individuo di professare e praticare, solo o in associazioni, una religione o una convinzione agendo secondo gli imperativi della propria coscienza».

[4] Stati Uniti c. Ohlendorf e al. (“Einsatzgruppen Trial”), (1948) 4 LRTWC. 470.

[5] CEDH, Polednova c. Repubblica Ceca, n. 2615/10, 21 giugno 2011. La questione concerneva la condanna di una donna per aver partecipato quale procuratore a un simulacro di processo che si concluse con la condanna a morte di quattro oppositori del regime comunista.

[6] Lo Statuto del Tribunale militare internazionale, comunemente chiamato Statuto di Norimberga, disponeva: «Il fatto che l’accusato ha agito conformemente alle istruzioni del suo governo o di un suo superiore gerarchico non lo sottrarrà alla sua responsabilità, ma potrà essere considerato come un motivo di diminuzione della pena, se il Tribunale decide che la giustizia lo esige». Accordo concernente il perseguimento e il castigo dei grandi criminali di guerra delle Potenze europee dell’Asse, RTNU, vol. 82, p. 279, art. 8.

[7] Annuario della Commissione di diritto internazionale, 1950, vol. II, pp. 374-378.

[8] Il riconoscimento di un diritto all’obiezione di coscienza pone un problema nel seno di uno stesso e unico ordinamento giuridico, poiché esso implica una contraddizione al suo interno. Questo avviene nell’ordinamento giuridico interno, ma non nell’ordinamento internazionale, che può garantire questo diritto nei confronti degli ordinamenti interni.

[9] Si può descrivere, per analogia, questo doppio livello di moralità interna alla società liberale come simile al doppio livello degli ordinamenti giuridici interni e internazionali.

[10] Opinione individuale concordante di Sir Nigel Rodley, M. Krister Thelin e M. Cornelis Flinterman nell’affare CDH, Cenk Atasoy et Arda Sarkut c. Turchia.

[11] Che si tratti della Corte europea dei diritti dell’uomo, del Comitato della carta sociale europea o del Comitato dei diritti dell’uomo.

[12] Un interessante dibattito riguarda la natura dell’obiezione di coscienza e i suoi criteri.

All’interno del Comitato dei diritti dell’uomo, la maggioranza dei membri stima che l’obiezione dipende direttamente dal foro interno della libertà di coscienza, che non è dunque una «manifestazione» di convinzione suscettibile di limitazione. Applicata in materia di servizio militare, questa considerazione fa del diritto all’obiezione di coscienza un diritto soggettivo assoluto, poiché il diritto troverebbe la sua origine nell’individuo. I membri del Comitato riconoscono il bisogno, e la loro incapacità, di determinare dei criteri che permettono di distinguere tra i diversi tipi di obiezione. Nel seno della Corte europea, la maggioranza dei membri stima che l’obiezione è una manifestazione della libertà di coscienza e che essa può dunque essere oggetto di restrizioni. Coesistono due approcci: un approccio soggettivo che vede nel rispetto per la coscienza individuale il motivo di rispettare l’obiezione quale che sia la convinzione; un approccio oggettivo che vede nell’oggetto della convinzione il motivo di rispettare l’obiezione, quale che sia la persona. In realtà, i due approcci non sono esclusivi e coesistenti, anche se l’approccio soggettivo tende ad assorbire l’approccio oggettivo. L’approccio soggettivo è adattato alle obiezioni che non sono fondate sulla morale, sulla giustizia, in particolare per le obiezioni fondate su una convinzione religiosa. Rispettando l’obiezione religiosa, la società non rispetta la religione ma l’attitudine religiosa della persona, la sua libertà religiosa. L’approccio oggettivo, d’altro canto, è adattato alle obiezioni fondate sulla morale e sulla giustizia, perché è l’atto stesso che è riprovato come ingiusto o immorale, qualunque siano le convinzioni religiose o altre dell’obiettore.

[13] Nella sua dimensione collettiva.

[14] Ciò che si designa come diritto all’autonomia delle istituzioni fondate sulle convinzioni morali o religiose. APCE, Risoluzione 1763 (2010).

[15] CEDH, Bayatyan c. Armenia, § 110.

[16] Il CDH parla di «convinzioni sincere». Cfr. in particolare CDH, Yeo-Bum Yoon e Mr. Myung-Jin Choi c. Repubblica di Corea, § 8.3.

[17] CEDH, Chassagnou c. Francia, § 114, e Schneider c. Lussemburgo, § 80, citt.

[18] CEDH, Eweida e altri c. RU, § 108.

[19] CEDH, Folgero e altri c. Norvegia, GC, n. 15472/02, 29 giugno 2007, § 84, v. anche CEDH, Valsamis c. Grecia n. 21787/93, 18 dicembre 1996, §§ 25 e 27, e CEDH, Campbell e Cosans c. UK, n. 7511/76,7743/76, 25 febbraio 1982, §§ 36-37.

[20] CEDH, Campbell e Cosans c. UK, § 36.

[21] Batyan c. Armenia, § 110. Essa si riferisce alle sentenze Campbell e Cosans c. UK, § 36, e, a contrario, alla sentenza Pretty c. UK, § 82.

[22] Bayatan c. Armenia, § 110.

[23] Idem

[24] CEDH, Eweida e altri c. UK.

[25] CEDH, Eweida e altri c. UK., § 83

[26] H. Bielefeldt e altri, op. cit., p. 304.

[27] APCE, Risoluzione 2036 (2015 ), Combattere l’intolleranza e la discriminazione in Europa, soprattutto quando esse riguardano dei cristiani, § 6.2.2.

[28] Cfr. Bielefeld, Weiner e Ghanea, Freedom of religion

[29] CEDH, Eweida e altri c. RU, § 82.

[30] Com. eur. DH, Borre Arnold Knudsen c. Norvegia, dec. n. 11045/84, 8 marzo 1985.

[31] Si tratta quindi di criteri usati in filosofia morale per misurare la «cooperazione al male». Questi criteri distinguono a seconda di cooperazione diretta o indiretta, formale o materiale, prossima o lontana.

[32] CDH, V.D.A. c. Argentina, Comunicazione n. 1608/2007, 29 marzo 2011.

[33] CEDH, Folgero e altri c. Norvegia.