Paolo Maria Floris

Dirigente della Pubblica amministrazione

Testimonianza resa al convegno Coscienza senza diritti?, svoltosi il 21 ottobre 2017 nell’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati per iniziativa del Centro Studi Rosario Livatino

 

La legge 20 maggio 2016 n.76 sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” ha introdotto obblighi che investono non solo il Sindaco, quale ufficiale di stato civile, ma anche coloro che vengono da lui delegati nell’ambito dell’amministrazione comunale per le stesse funzioni (assessori, consiglieri, dirigenti, funzionari etc.); ma l’impianto complessivo della legge, non prevedendo la possibilità dell’obiezione di coscienza, crea un “vulnus” profondo nel quadro normativo nazionale che, fino ad oggi, aveva sempre ritenuto obbligatorio per il legislatore (come è stato precedentemente ricordato) riconoscere e regolamentare l’obiezione di coscienza.

La riprova di questa errata impostazione del problema ce la offre il parere reso dal Consiglio di Stato sul DPCM 22-7-2016 n.144, concernente le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile ai sensi dell’art.1,c.34, della citata Legge 76 . Infatti trattando espressamente dei “doveri di adempimento” generati dalla L 76 nei confronti dei Comuni, il massimo organo di consulenza giuridico-amministrativa dapprima afferma che “Il primato della coscienza individuale rispetto al dovere di osservanza di prescrizioni normative è stato affermato – pur in assenza di riconoscimento con legge –  nei casi estremi di rifiuto di ottemperare a leggi manifestamente lesive di principi assoluti e non negoziabili” (si pensi alla tragica esperienza delle leggi razziali) e, successivamente, che “…quanto al riferimento alla coscienza individuale adombrato per invocare la possibilità di obiezione….la legge…pone gli adempimenti a carico dell’ufficiale di stato civile, e cioè di un pubblico ufficiale, che può ben essere diverso dalla persona del sindaco. In tal modo il Legislatore ha affermato che detti adempimenti, trattandosi di disciplina dello stato civile, costituiscono un dovere civico e, al tempo stesso, ha posto tale dovere a carico di un’ampia categoria di soggetti –quella degli ufficiali di stato civile – proprio per tener conto che, tra questi, vi possa essere chi affermi un impedimento di coscienza, in modo che un altro ufficiale di stato civile possa compiere gli atti stabiliti nell’interesse della coppia richiedente”.

La soluzione proposta appare quanto meno “incerta”, se non “pilatesca”: il problema (soprattutto guardando la pregressa giurisprudenza costituzionale)  non viene risolto, viene eluso; vi è certamente un obbligo nell’adempimento (assenza di previsione dell’obiezione nella norma ), ma si può evitare in via organizzativa, senza alcuna garanzia giuridica (in fondo forse l’unione tra uomo e donna, giunta fino alla nostra generazione attraverso l’istituto del matrimonio potrebbe essere un principio assoluto e non negoziabile).

Ma quale è attualmente lo stato di applicazione della legge sulle “unioni civili”?

Stiamo assistendo al tentativo di equiparare l’unione civile al matrimonio di rito civile, nonostante la disciplina e la forma delle due procedure sia completamente diversa: nel Codice civile il Libro I, nel Titolo VI, parla “Del matrimonio celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile” e, specificatamente, la sez. IV regola la “Celebrazione del matrimonio”, mentre l’unione civile, secondo l’art.1,c.2, della L 76 viene costituita “mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile”: evidentemente il legislatore non poteva disconoscere il “favor” accordato dall’art. 29 della Costituzione al matrimonio come fondamento della famiglia, mentre le unioni civili fondate sugli artt. 2 e 3 della Costituzione riguardano tutt’altra fattispecie e non potevano essere originate che da una semplice dichiarazione, e non da una celebrazione.

Pertanto lo spazio di libertà che resta ai Comuni è quello di rimarcare, anche sul piano formale, la profonda differenza che esiste fra i due istituti mediante l’approvazione di regolamenti che introducano disposizioni per l’applicazione della L 76 profondamente differenti da quelle previste per la celebrazione del matrimonio di rito civile. Tutto ciò ci induce a meditare profondamente sulle conseguenze, anche pratiche, a cui si giunge negando il diritto all’obiezione di coscienza per il semplice motivo del non riconoscimento del medesimo nella norma positiva. Dove rinvenire allora la certezza del diritto? Questa è la sfida che attende tutti coloro che cercano una nuova relazione fra il diritto naturale ed il diritto positivo fondata sulla dignità della persona umana.

Come ci ha ricordato Papa Francesco lo scorso anno a Firenze nell’incontro con i rappresentanti del V Convegno della Chiesa italiana “Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere”.

In questo “cambiamento d’epoca” senza dubbio si pongono tutte le grandi questioni che il giurista deve affrontare, senza pregiudizi ideologici, riguardo alla bioetica, alla famiglia, all’educazione etc. e certamente non è sufficiente trincerarsi dietro l’interpretazione letterale di una legge per liquidare un principio così importante come quello dell’obiezione di coscienza.

L’attuale Presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi (“Ritorno al diritto”, Laterza, 2015), prendendo spunto anche da  un celebre testo di Flavio Lopez de Onate sulla certezza del diritto, evidenzia come si continui a perseguire la certezza della legge invece della certezza del diritto nella convinzione che esse coincidano: “Con la moderna certezza del diritto siamo immersi dunque ben all’interno di una ampia serie di arnesi mitologici di cui la modernità giuridica è straordinariamente doviziosa.  Il primo è lo Stato quale unico produttore di diritto al quale consegue, dapprima, il mito della legge quale unica fonte capace di esprimere la volontà generale e, quindi, quello della sua intrinseca giustizia e della indiscutibile infallibilità del legislatore. Il secondo è che la produzione del diritto ha termine con la promulgazione del testo concernente la volontà del legislatore quale unico produttore…”.

Porre quindi il problema dell’applicazione dell’obiezione di coscienza nella L 76 significa suonare un campanello d’allarme per il futuro dell’intero ordinamento giuridico; significa giocare una partita fondamentale della nostra libertà perché come ci ammoniva Hanna Arendt (“Le origini del totalitarismo”, Einaudi, 2004) le soluzioni totalitarie possono sempre sopravvivere alla caduta dei loro regimi.

Allora l’obiezione di coscienza ci ricorda con forza che per legiferare, in primis, occorre riconoscere la dignità dell’uomo e prendere atto che la libertà si tutela non solo in senso formale, ma anche e soprattutto in senso sostanziale. Parlare in questi termini di una produzione giuridica non chiara, come quella della L 76, non significa essere “apocalittici” nel senso comune dell’aggettivo, ma essere consapevoli del “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo e della necessità di essere pronti a ricercare veramente, con impegno e determinazione, il bene comune, tenendo sempre presente il detto di Erich Kaufmann “Lo Stato non crea diritto, lo Stato crea leggi e Stato e leggi stanno sotto al diritto” (in “Die Gleichheit vor dem Gesetz”, Munster,1926).