Memoria del Centro Studi Livatino sul ddl “affido condiviso” in replica alle osservazioni critiche formulate il 15 gennaio 2019 sul proprio documento del 30 ottobre 2018* 

 

Premessa. Il 30 ottobre 2018 il Centro Studi Livatino ha pubblicato un documento di analisi del d.d.l. AS 735 sul c.d. “affido condiviso”: in esso, pur apprezzando l’attenzione dei proponenti verso talune ipotesi di soluzione delle crisi famigliari, con riferimento agli ostacoli verso l’applicazione piena del principio di bigenitorialità, ne ha posto in evidenza alcuni passaggi critici che, se non superati, precluderebbero il raggiungimento dell’obiettivo di «mettere al centro la famiglia», come è scritto nella relazione illustrativa del d.d.l..

Alle osservazioni del Centro Studi Livatino hanno replicato il Prof. Pierluigi Mazzamuto, l’avv. Carlo Piazza, l’avv. Marcello Adriano Mazzola, il dott. Vittorio Vezzetti e il prof. Arturo Maniaci attraverso la pubblicazione, il 15 gennaio 2019, di un documento avente quale scopo dichiarato quello di «far emergere ed illustrare le ragioni di infondatezza delle criticità e contrarietà evidenziate nella memoria» del Centro Studi Livatino.

La lettura doverosamente attenta di tale documento di risposta fa sorgere seri dubbi sul raggiungimento del fine da esso enunciato: non si rinvengono delle precise confutazioni, bensì generiche contestazioni, che in alcuni casi addirittura confermano, per lo meno in implicito, le critiche mosse al d.d.l. pur così strenuamente difeso. Passiamo in rassegna le voci più significative.

 

  1. Sulla mediazione familiare e sulla sua obbligatorietà

 

La mediazione familiare costituisce un utile strumento nell’ambito di una separazione, sia per quanto riguarda gli aspetti economici, sia per quanto riguarda gli aspetti relativi alla regolamentazione del rapporto genitori/figli.

Vi è però nel d.d.l. AS 735 un grave errore di fondo: la mediazione familiare è pericolosamente confusa con la mediazione civile, che risponde a logiche diverse e ha obiettivi differenti. La ratio della mediazione familiare non è quella di disincentivare il ricorso al giudice, così come il suo obiettivo non è quello di far trovare un accordo alle parti che hanno deciso di separarsi. La mediazione familiare è uno strumento finalizzato a favorire il dialogo nell’ambito di una separazione – soprattutto quando la coppia ha figli minori – e in quanto tale riguarda l’aspetto relazionale della coppia, presupponendo da entrambe le parti l’interesse e la disponibilità a seguire l’intero percorso di mediazione, e prima ancora la disponibilità a mettersi in discussione.

Il documento redatto dai sostenitori del d.d.l. 735, nello sforzo di contraddire le nostre osservazioni, muove dagli stessi non condivisibili presupposti dei presentatori del d.d.l., poiché sovrappone la mediazione civile a quella familiare, e cita in maniera generica e non pertinente presunte «direttive e raccomandazioni dell’Unione europea» in base alle quali – a loro dire – l’Italia sarebbe tenuta a «prevedere l’obbligatorietà del primo incontro informativo di mediazione in materia di diritto di famiglia» (cfr. p. 3 memoria di replica).

Giova qui ricordare agli illustri Autori che semmai l’obbligatorietà della mediazione familiare, come prevista dal d.d.l. 735, si pone in contrasto con quanto stabilito dalla Raccomandazione n. R (98) 1 del Consiglio d’Europa[1], la quale indica una strada diversa. Se da una parte, infatti, il Consiglio d’Europa ha messo in evidenza l’importanza della mediazione familiare – tanto che gli Stati sono espressamente sollecitati a promuoverla – dall’altra, tuttavia, ha anche sottolineato che tale mediazione non va prevista come obbligatoria, escludendo altresì che il mediatore possa imporre accordi.

La ragione della non obbligatorietà della mediazione familiare sta nel fatto che senza la consapevole e matura volontà delle parti di iniziare un percorso volto alla riorganizzazione delle relazioni familiari, la mediazione stessa fallisce. L’obbligatorietà anche solo del primo incontro è comunque incoerente con lo strumento di una mediazione familiare correttamente intesa, che richiede un lavoro di mesi, e che invece – lo si ripete – rischia di naufragare proprio a causa dell’imposizione: una persona obbligata a partecipare a un incontro, in assenza di una adeguata preparazione emotiva, è difficile che poi prosegua il percorso. L’obbligatorietà, anche solo del primo incontro, rischia di far percepire con diffidenza lo strumento, col risultato di depotenziarlo.

È poi inopportuno prevedere l’inizio del percorso di mediazione quale condizione di procedibilità (cfr. art. 7 d.d.l. 735), proprio per le ragioni sopra puntualmente esplicitate, peraltro confermate dalla pratica nell’ambito delle separazioni coniugali. Desta perplessità quanto invece sostenuto dagli Autori della memoria in difesa del d.d.l. 735 laddove, nel tentativo di convincere i lettori dell’infondatezza delle originarie osservazioni del Centro Studi Livatino, sono giunti ad affermare che la condizione di procedibilità potrebbe essere “aggirata” facilmente «visto che, in mancanza di una sanzione processuale, sarebbe molto semplice per le parti omettere l’adempimento e vanificare il senso della riforma» (p. 4). Volendo sintetizzare questo pensiero, viene in mente il proverbio “fatta la legge, trovato l’inganno”, che suggerito dai difensori del d.d.l. fa riflettere. Riesce singolare dapprima esaltare un istituto, quello della mediazione, porlo come condizione di procedibilità, e subito dopo sminuirne la portata ricordando che è un “obbligo privo di sanzione”: quale cogenza ha un adempimento previsto come obbligatorio, la cui inosservanza è tamquam non esset?

 

  1. Sulla coordinazione genitoriale

 

Nella memoria in difesa del d.d.l. 735 viene criticata in maniera generica quanto affermato dal Centro Studi Livatino sulla figura del coordinatore genitoriale. Si legge nella memoria: «per le ragioni esposte appaiono, pertanto, prive di pregio le critiche contenute nel documento del Centro Studi Livatino». In realtà, quelle ragioni esposte, contenute in poche righe, altro non sono che la mera riproposizione del contenuto sul punto del testo del disegno di legge. Non vi è alcuna effettiva confutazione di quanto da noi osservato.

Alla figura del coordinatore genitoriale il d.d.l. attribuisce compiti delicati e ampi poteri decisionali, senza però definirne chiaramente il profilo professionale, e senza prevedere nulla in merito alla verifica delle effettive competenze e dell’imparzialità, oltre a non aver imposto alcun obbligo formativo (a esso il d.d.l. fa soltanto un fugace e generico cenno). Anche sotto il profilo della responsabilità vi sono delle lacune, poiché l’art. 5 comma 4 stabilisce che «lo svolgimento dell’attività di coordinazione genitoriale non dà luogo a responsabilità personali, salvi i casi di dolo o colpa grave», senza alcun cenno alla responsabilità professionale.

Gli Autori della memoria di replica non hanno risposto alle nostre obiezioni, limitandosi a riportare il testo dell’articolo in esame: sarà che qualche dubbio sia sorto anche a loro, quanto meno sull’individuazione concreta della figura, della quale si sono soltanto limitati a dire che è «diversa dal mediatore»?

 

  1. Sull’equilibrio tra le figure genitoriali

 

I minori per poter crescere in maniera sana ed equilibrata hanno bisogno dell’apporto di entrambe le figure genitoriali durante tutto l’arco del loro sviluppo: è questa la considerazione alla base del principio di bigenitorialità che i firmatari del d.d.l. 735 hanno messo in evidenza, e che noi condividiamo senza riserve.

Non condividiamo invece l’impostazione rigida del d.d.l., soprattutto la riduzione della bigenitorialità a una mera divisione paritetica di giorni che i figli dovrebbero trascorrere con ciascun genitore: tale concezione riduttiva della bigenitorialità muove dal presupposto errato della perfetta interscambiabilità fra i genitori, quando invece andrebbe messa in risalto la complementarietà delle due figure, diverse quanto ai ruoli, uguali quanto a diritti e a dignità. La pariteticità non deve tanto riguardare il conto dei giorni che ciascun genitore trascorre con i figli, bensì la responsabilità e l’impegno che ogni genitore deve loro garantire.

Ciò trova riscontro nelle esperienze di quegli stessi Stati cui hanno asserito di essersi ispirati i proponenti del d.d.l. 735 (cfr. p. 3 relazione illustrativa): in Belgio non vi è alcuna rigida ripartizione dei tempi di permanenza dei figli presso i genitori e i giudici sono chiamati a valutare caso per caso. In Quebec non esiste alcun modello privilegiato e, anche in questo caso, i giudici sono chiamati a valutare il superiore interesse dei minori coinvolti. In Svezia i giudici, nello stabilire se per un minore sia preferibile l’affidamento condiviso o quello esclusivo, sono chiamati a valutare la capacità di cooperazione dei genitori. Nessuna rigida predeterminazione dei tempi, dunque, si rinviene nei Paesi citati nella relazione illustrativa al d.d.l. 735 a sostegno delle scelte operate, che vanno, invece, nella direzione opposta.

Malgrado ciò, gli Autori della memoria hanno contestato le osservazioni del Centro Studi Livatino – ritenendole frutto di una «lettura superficiale del testo» – senza però rispondere nel merito dei rilievi critici sollevati. Nessuna posizione è stata assunta dagli stessi Autori sulle nostre considerazioni riguardanti l’importanza di considerare le diverse età del minore: un neonato, secondo quanto previsto dal d.d.l. 735, perderebbe la possibilità dell’allattamento materno, l’infante vedrebbe pericolosamente interrotta la relazione simbiotica con la madre, indispensabile nei primi tempi di vita.

Se in Italia è ancora alta la percentuale di bambini che dopo la separazione continuano a vivere in maniera prevalente con le madri non è per l’adesione da parte dei giudici alla maternal preference, come si vorrebbe far credere. In Italia, già dopo la nascita del primo figlio, sono numerose le donne che, di fatto, anche a causa della carenza di servizi a sostegno della famiglia e della genitorialità, sono costrette a ridurre l’impegno lavorativo extra familiare optando per un part time, fino a restare a casa quando per esempio aumenta il numero dei figli. In Italia, diversamente da quanto avviene in Svezia (tanto per citare un Paese preso a modello dal d.d.l. 735), è piuttosto raro che sia il padre a ridurre la propria attività di lavoro per dedicarsi alla famiglia dopo la nascita di un figlio.

Tutto questo ha delle evidenti conseguenze al momento della separazione: la donna che aveva optato per il part time difficilmente potrà passare al full time, con la conseguenza che, tendenzialmente, le donne hanno più tempo degli uomini da dedicare all’accudimento dei figli. Ecco il motivo concreto per cui le statistiche indicano l’Italia quale Paese in cui nella maggior parte dei casi i figli vivono prevalentemente con la madre.

Se si tiene conto della reale condizione delle famiglie italiane (non svedesi, danesi, belghe, canadesi o australiane, come suggeriscono gli Autori della memoria), laddove si applicasse in concreto il modello previsto dal d.d.l. 735, non si raggiungerebbe comunque la  “pariteticità numerica” tanto agognata: posto che statisticamente lavorano a tempo pieno più gli uomini che le donne, è infatti ragionevole che un padre, nel tempo previsto a sua disposizione, materialmente passerà meno tempo con i figli rispetto ad una madre che invece, lavorando solo mezza giornata, potrà dedicare maggiore cura e attenzione ai figli. È evidente che, volendo escludere improbabili casi di padri aventi il dono dell’ubiquità, un padre impegnato al lavoro lascerà i figli con una baby sitter o con i nonni. Ecco allora che la rigida pariteticità dei tempi di permanenza manifesta la concreta inidoneità al raggiungimento dell’obiettivo, poiché non tiene adeguato conto della realtà. Inoltre, non considera che per un bambino è sicuramente meglio essere accudito, laddove possibile, dal proprio genitore, piuttosto che essere affidato alle cure – seppur amorevoli – di un estraneo.

Ci è ben noto che la rigida previsione dei tempi di permanenza prevista dal d.d.l. 735 corrisponde all’esigenza di dare seguito alle istanze dei padri separati, che lamentano – in molti casi giustamente (fermo restando l’esame di ciascun singolo caso concreto) – di non trascorrere una quantità di tempo adeguata con i propri figli. Tuttavia il d.d.l. 735 ha optato per uno strumento destinato a non funzionare proprio in concreto. Sarebbe più utile, semmai, esigere un’adeguata formazione da parte di coloro che si occupano di diritto di famiglia, in primis gli avvocati, che non sempre risultano sufficientemente qualificati per occuparsi delle delicate questioni familiari e che non di rado, per mancanza delle qualità necessarie, anziché aiutare le parti a dialogare aggravano il conflitto.

Sul fondamento adultocentrico del d.d.l. 735, va poi considerato che la fissazione dei tempi di frequentazione genitori/figli, così come formulata nel d.d.l., esclude la possibilità di analisi caso per caso, in favore di soluzioni standardizzate che, come tali, non tengono conto delle reali esigenze del singolo minore coinvolto. Gli Autori della memoria di difesa del d.d.l. 735 sul punto non paiono aver offerto argomenti: si sono limitati ad affermare che simili osservazioni sono il mero frutto di una lettura superficiale del testo (cfr. p. 12 della memoria)[2].

In realtà, per verificare il fondamento di quanto da noi sostenuto, basta leggere la relazione illustrativa (cfr. p. 2) o gli articoli 7, 10, 14 e 17 per rendersi conto che nel d.d.l. 735 il superiore interesse del minore – benché qua e là citato – è posto in secondo piano rispetto all’interesse degli adulti (nonni compresi)[3], tanto che non è neppure lontanamente contemplata la partecipazione del minore agli accordi che riguardano la sua permanenza da ciascun genitore. Nella relazione illustrativa si indica chiaramente come obiettivo quello di garantire ai genitori «il diritto di decidere sul futuro dei loro figli», dimenticando forse che il minore è da tempo considerato soggetto di diritti e come tale, laddove il suo sviluppo lo consenta, con le dovute cautele, deve poter partecipare alla definizione delle questioni che lo riguardano[4].

 

  1. Sul mantenimento dei figli in forma diretta

 

Il mantenimento in forma diretta, secondo quanto previsto dal d.d.l. 735, è strettamente collegato al sistema di divisione paritetica dei tempi di permanenza dei figli da ciascun genitore. Considerata l’inefficacia – almeno in Italia – di questo sistema di collocamento dei figli, vengono altresì meno le ragioni a sostegno di tale forma di mantenimento.

Abbiamo già esposto nel documento del 30 ottobre 2018 le perplessità sulla rigida previsione di cui all’art. 11 del d.d.l. 735, sottolineando come in essa manchi l’idea di solidarietà fra i genitori, nell’interesse dei figli. Il d.d.l. non tiene in debito conto le disuguaglianze ancora presenti nella società italiana fra uomini e donne (soprattutto in ambito lavorativo) e in tal modo finisce col contraddire l’obiettivo dichiarato di porre al centro la famiglia, e di garantire l’uguaglianza fra i coniugi.

Gli Autori della memoria a sostegno del d.d.l. 735 riconoscono che le osservazioni del Centro Studi Livatino sul deficit di solidarietà «sono certamente da approfondire», ma poi si limitano ad aggiungere «che il testo del d.d.l. non abdica, affatto, ad una prospettiva solidaristica, che anzi viene valorizzata» (cfr. p. 16 della memoria), non chiarendo in che modo, concretamente, verrebbe valorizzata. Da un’attenta lettura del d.d.l. questa pretesa valorizzazione non si evince, né i sostenitori lo spiegano: il che fa concludere che essa non vi sia.

Come già osservato nel documento del 30 ottobre 2018, l’eliminazione dell’assegno di mantenimento per i figli e la sua sostituzione con il mantenimento diretto determinerebbe, in considerazione dell’attuale realtà sociale italiana, gravi disuguaglianze fra i genitori e non favorirebbe il dialogo fra le parti. Del resto, gli Stati a cui il d.d.l. 735 afferma di ispirarsi prevedono diversi meccanismi perequativi, nella consapevolezza che, nell’interesse dei figli, è opportuno evitare disuguaglianze fra i genitori. In California, ad esempio, i giudici prendono provvedimenti in modo che i figli, dopo la separazione dei genitori, continuino ad avere le medesime condizioni di vita e a tal fine sono previsti meccanismi volti a ridurre le disparità economiche fra i genitori in modo che i figli non percepiscano differenze[5]. L’assegno perequativo, volendo soffermarsi solo sugli Stati citati nella relazione illustrativa al d.d.l. 735 (cfr. p. 3), è previsto in Belgio, in Svezia e nello Stato di Washington e in quest’ultimo caso persino nell’ipotesi di tempi paritetici[6].

 

  1. Sull’alienazione genitoriale

 

Nel commentare quanto previsto dal d.d.l. 735 all’art. 17, abbiamo invitato a una maggiore prudenza nella valutazione delle situazioni di rifiuto di un genitore da parte di un figlio, in quanto non sempre questo è dovuto all’azione alienante del genitore convivente con il minore. Nel d.d.l. 735, invece, sulla pretesa tutela del minore, è previsto che il giudice possa prendere provvedimenti «anche quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraneazione con riguardo a uno di essi» (art. 17).

Nella memoria a sostegno del d.d.l. 735, a pag. 18, viene precisato che l’alienazione genitoriale «non può e non deve essere confusa con la c.d. PAS (acronimo, che sciolto diventa “Sindrome da Alienazione Parentale”, ovverosia un disturbo e quindi una patologia), ancorché la c.d. PAS (tuttora oggetto di discussione nella comunità medico- scientifica) possa essere una conseguenza di condotte alienanti»: ciò sembra suggerire che il d.d.l. 735 non si basa sulle teorie legate alla PAS. Tuttavia, gli stessi Autori subito dopo aggiungono che «l’alienazione genitoriale rimane ancora oggi un serio e grave problema di salute pubblica che compromette l’equilibrio psico-fisico della persona del minore, con gravi disagi interpersonali e verso l’intera collettività». Alla base di questa posizione vi è il convincimento che dietro ogni rifiuto manifestato da un figlio nei confronti di uno dei genitori vi sia sempre e solo una spiegazione: il comportamento alienante dell’altro genitore. Tanto che i difensori del d.d.l. 735 allargano a dismisura le dimensioni del fenomeno, fino a qualificarlo serio e grave problema di salute pubblica.

Nella pratica sappiamo che non è così. È vero che ci sono genitori che pongono in essere comportamenti più o meno ostili nei confronti dell’ex partner, deprecabili e da sanzionare una volta accertati, ma questo non significa che tutti i minori che rifiutano un genitore abbiano subito pressioni dall’altro.

In una materia così delicata il d.d.l. avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione al minore e non limitarsi a porre l’inciso “nell’esclusivo interesse del minore”, quando, di fatto, al minore non viene neppure data la possibilità di essere ascoltato, aiutato, compreso senza il minimo approfondimento sulle ragioni del suo rifiuto.

È grave che nel d.d.l. 735 si preveda la possibilità di un intervento sanzionatorio in tutte le situazioni in cui «il figlio minore manifesti comunque rifiuto», senza prevedere alcuna accurata indagine e addirittura anche «in assenza di evidenti condotte».

Il contenuto dell’art. 17 del d.d.l. 735 suscita talmente tante perplessità che persino i suoi difensori hanno preso una posizione diversa, seppur formalmente aderente, come si evince dalla seguente affermazione (p. 19 della memoria): «non è quindi sufficiente lamentare un’asserita condotta di alienazione genitoriale per ottenere un intervento da parte del Giudice, ma è necessario allegare e documentare una situazione rappresentata da condotte che siano fonte di alienazione genitoriale». Affermazione condivisibile, che tuttavia è in contraddizione con quanto previsto dal d.d.l. 735 e con l’inciso in esso presente «pur in assenza di evidenti condotte». A tal proposito, gli Autori della memoria pro d.d.l. 735 hanno voluto precisare che per la fattispecie che contempla l’assenza di evidenti condotte «si richiede comunque una forma manifesta di alienazione passiva»: precisazione che però è una interpretazione degli Autori, poiché nel d.d.l. questa precisazione manca.

 

  1. Sull’eliminazione dell’ammonimento

 

La memoria a sostegno del d.d.l. 735, con riferimento alla previsione di cui all’art. 9, senza prendere posizione riguardo alle nostre osservazioni, si limita a richiamare la Relazione illustrativa al disegno di legge, ribadendo l’inutilità dell’ammonimento «per essersi rivelata nella prassi totalmente inefficace e inidonea a scongiurare condotte pregiudizievoli per il minore».

Come già osservato nel documento del 30 ottobre 2018, la sanzione dell’ammonimento è l’unica che – non prevedendo richieste risarcitorie o di natura economica – non può dar adito a facili accuse di possibili strumentalizzazioni a fine di lucro, e quindi va mantenuta.

 

  1. Sull’abrogazione dell’addebito

 

Il d.d.l. 735 prevede il venire meno della possibilità per giudice, in sede di separazione, su richiesta dell’interessato e ove vi siano i presupposti, di addebitare la separazione al coniuge che abbia avuto durante il matrimonio un comportamento contrario ai doveri coniugali. Gli Autori della memoria a favore del d.d.l. 735 sul punto argomentano affermando che la ratio di detta eliminazione starebbe nello scopo di «sottrarre al giudizio di separazione la trattazione e istruzione della questione dell’addebito, in chiave non solo di celerità del giudizio, ma di diminuzione della conflittualità nell’interesse della prole».

Anche in questo caso, non si risponde ai nostri rilievi: rimuovere le sanzioni previste per i comportamenti che violano i doveri nascenti dal matrimonio, privilegiando l’obiettivo di imprimere una maggiore celerità alla procedura, più che una soluzione individuata «nell’interesse della prole» sembra essere una resa dello Stato, che non si sente in grado di dare giustizia.

 

Roma, 2 aprile 2019

 

* Testo redatto dalle avv. Daniela Bianchini, Margherita Prandi ed Eva Sala, col coordinamento del dr. Alfredo Mantovano e la supervisione del prof. Emanuele Bilotti. Il precedente documento sul d.d.l. in questione è stato pubblicato sul n. 2/2018 di questa Rivista.

[1] Cfr. Raccomandazione n. R (98) 1 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla mediazione familiare, adottata dal Comitato dei Ministri il 21 gennaio 1998 al 616º incontro dei Delegati dei Ministri: «1. Il Comitato dei Ministri, ai sensi dell’Articolo 15 b dello Statuto del Consiglio d’Europa, 2. Visto il numero crescente di dispute familiari, specialmente quelle derivanti da separazioni o divorzi e rimarcando le conseguenze pregiudizievoli del conflitto per le famiglie e l’elevato costo per gli Stati in termini sociali ed economici; […] 7. Tenendo conto dei risultati dello studio sull’uso della mediazione e delle altre misure atte a risolvere le dispute in questo ambito in diversi paesi, i quali mostrano che l’utilizzazione della mediazione familiare ha delle potenzialità al fine di: migliorare la comunicazione tra i membri della famiglia, ridurre il conflitto tra le parti in disputa […] 11. Raccomanda ai governi degli Stati membri: di introdurre o promuovere la mediazione familiare o, dove necessario, potenziare l’opera di mediazione familiare esistente […] Principi della mediazione familiare: […] II Organizzazione del servizio di mediazione: a. La mediazione non dovrebbe essere in linea di principio obbligatoria […] c. Prescindendo dalle modalità di erogazione e organizzazione della mediazione, gli Stati dovrebbero provvedere a che vi siano meccanismi appropriati al fine di assicurare l’esistenza di: procedure di selezione, formazione e qualificazione dei mediatori; standard che devono essere raggiunti e mantenuti dai mediatori. […] III. Metodi di mediazione: […] Il mediatore non ha il potere di imporre una soluzione alle parti».

[2] A dimostrazione che persino gli Autori della memoria in difesa del d.d.l. 735, lungi dal dimostrare l’infondatezza delle critiche di adultocentrismo, finiscono per confermarle, giova considerare anche quanto scritto a pagina 14 della memoria: «Il d.d.l. non si astiene, ovviamente, dal considerare e contemplare ipotesi di spostamento fisico del minore che sarebbero fonte di pregiudizio psico-fisico a carico del minore ovvero accentuerebbero il trauma della separazione […] infatti richiede il consenso di entrambi i genitori o, in mancanza, l’autorizzazione del giudice tutelare». Il minore resta sullo sfondo, in secondo piano, come se le questioni relative al suo spostamento non lo riguardassero: decidono soltanto i genitori e, in caso di loro disaccordo, il giudice, a prescindere dall’età del minore.

[3] In merito alle perplessità da noi manifestate circa la previsione dell’intervento dei nonni nella causa (cfr. art. 11), non si rilevano osservazioni critiche nella memoria, limitandosi gli Autori ad osservare che si tratta di una mera facoltà processuale. Tuttavia, nel ribadire quanto già scritto nel documento del 30 ottobre, la previsione andrebbe eliminata, se non altro per diminuire la litigiosità nei procedimenti di famiglia.

[4] Cfr. Convezione di New York del 1989, art. 3: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente»; Convenzione Europea sull’esercizio del diritto dei minori, art. 1: «…Oggetto della presente Convenzione è promuovere, nell’interesse superiore dei minori, i loro diritti, concedere loro diritti azionabili e facilitarne l’esercizio facendo in modo che possano, essi stessi o tramite altre persone od organi, essere informati ed autorizzati a partecipare ai procedimenti che li riguardano dinanzi ad un’autorità giudiziaria», art. 6: «Nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare se dispone di informazioni sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali…»; Corte cost., sentenza n. 272 del 22 novembre 2017, che ha confermato la «necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano»; Corte cost., sentenza n. 31 del 23 febbraio 2012, laddove si legge: «nell’ordinamento internazionale è principio acquisito che in ogni atto comunque riguardante un minore deve tenersi presente il suo interesse, considerato preminente. E non diverso è l’indirizzo dell’ordinamento interno, nel quale l’interesse morale e materiale del minore ha assunto carattere di piena centralità, specialmente dopo la riforma attuata con legge 19 maggio 1971 n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e dopo la riforma dell’adozione realizzata con la legge 4 maggio 1983 n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), come modificata dalla legge 28 marzo 2001n. 149, cui hanno fatto seguito una serie di leggi speciali che hanno introdotto forme di tutela sempre più incisive dei diritti del minore».

[5] Cfr. California Family Code, Division 9-Support [4053]: «Nell’attuazione delle linee guida uniformi in tutto lo Stato, i tribunali devono aderire ai seguenti principi: a) L’obbligo principale di un genitore è quello di sostenere i propri figli minori in base alle circostanze e alla condizione di vita del genitore; […] c) le linee guida tengono conto del reddito effettivo di ciascun genitore e del livello di responsabilità per i figli; […] f) i bambini dovrebbero condividere il tenore di vita di entrambi i genitori. Il mantenimento dei figli può quindi migliorare in modo appropriato il tenore di vita della famiglia affidataria per migliorare la vita dei bambini; g) il mantenimento dei figli quando entrambi i genitori sono responsabili dovrebbe rispecchiare l’aumento dei costi di far crescere i bambini in due case e ridurre al minimo le disparità significative negli standard di vita dei bambini nelle due case».

[6] Cfr. Revised Code of Washington – Domestic Relations, 26.19.