Mauro Ronco

Professore Ordinario di Diritto penale nell’Università di Padova
Presidente del Centro Studi Rosario Livatino

Il presente articolo appare nel fascicolo speciale di L-Jus, pubblicato a ottobre 2018, dal titolo “L’agevolazione al suicidio davanti alla Corte Costituzionale. Documenti e considerazioni”.

Note a margine del giudizio di costituzionalità sull’art. 580 cod. pen.

 

  1. Premessa. – Le ragioni invocate a fondamento dell’eutanasia e del suicidio assistito[1] si possono ricondurre, alla luce di un’analisi approfondita, a due grandi correnti di pensiero, rispettivamente ispirate al primato dell’interesse sociale e al primato dell’autonomia dell’individuo[2]. Le due correnti, che presentano al loro interno numerose varianti, spesso interagiscono tra loro, ma vanno concettualmente distinte con accuratezza in quanto conducono a risultati molto diversi; la prima apre la strada alla eutanasia delle persone non consenzienti, mentre la seconda ha per obiettivo la legalizzazione dell’omicidio e del suicidio delle sole persone adulte e mentalmente competenti[3].

La prima corrente, molto più risalente nel tempo,  si fa eco della tradizione utilitaristica e delle moderne tendenze eugeniche[4], ponendosi il  quesito in ordine alle regole legali idonee ad assicurare il maggior benessere collettivo ai costi minori per la società. I suoi esponenti, attivi negli Stati Uniti a partire dagli inizi del secolo scorso e, soprattutto, nel ventennio ’20 – ’40[5], incentrarono il loro interesse sul “merciful method”, considerando l’eutanasia uno strumento per rimuovere dalla società soggetti viventi “[…] so monstrous, so deficient, so hopelessly insane that continued existence has for them no satisfactions and entails a heavy burden on society”[6].

Gli esponenti di tale corrente, presa consapevolezza delle atrocità commesse in nome dell’eutanasia nella Germania nazionalsocialista[7], in particolare nel periodo 1939-1941 durante la seconda guerra mondiale[8], abbandonarono nel dopoguerra i riferimenti alle teorie di impronta eugenistica che avevano caratterizzato l’incontro del darwinismo con lo scientismo a base razziale[9], ripiegando progressivamente sulla più sfumata teoria della “qualità della vita”[10]. Vi sarebbero, invero, vite non meritevoli di essere vissute, per essere venute meno, o per non essere mai divenute attuali, tutte o talune funzioni proprie dell’essere umano: coscienza, sensazioni, immaginazione, memoria, sensibilità e sessualità, capacità di relazionarsi e di comunicare con gli altri, capacità di deliberare, di decidere e di agire.

“Qualità della vita” è una frase straordinariamente elastica, che, in quanto rinvia a concezioni antropologiche implicite, offre la possibilità di deduzioni assai diverse, soprattutto quando si tratta di valutarla in neonati o bambini, nonché in persone prive della capacità di intendere e di pazienti in stato comatoso. Un indice dell’estrema variabilità delle opinioni sta nella diversità delle opinioni degli eticisti che ricorrono al criterio della «qualità di vita»[11]. Per Singer, ad esempio, gli esseri umani incapaci di relazioni sociali «significative» hanno un diritto alla vita minore delle scimmie antropoidi[12]. Per J. Rachels, invece, occorrerebbe appoggiarsi alla distinzione fra avere la vita (la vita biologica) ed essere vivi (avere una biografia)[13].Tali definizioni, indubbiamente suggestive sul piano emotivo, non hanno la precisione giuridica necessaria per fornire un orientamento sicuro all’interprete, tale da consentire soluzioni ragionevolmente uguali tra i diversi soggetti.

Il secondo filone di pensiero, che è divenuto via via sempre più incisivo nel mondo occidentale[14], valorizza il principio dell’autodeterminazione del soggetto e, più specificamente, il diritto di ciascun individuo di scegliere autonomamente i riferimenti valoriali e i modelli di vita a sé consentanei e, ultimamente, il diritto a porre termine alla propria vita con il suicidio.

Alla luce dello spostamento del focus della questione sul concetto di autodeterminazione, il suicidio assistito ha assunto un rilievo sempre maggiore rispetto all’eutanasia. Per quanto, infatti, le due fattispecie presentino una cifra valoriale analoga, il suicidio assistito evidenzia in modo più pregnante dell’eutanasia la centralità del soggetto cui è tolta la vita. Nel suicidio assistito, infatti, è decisiva non soltanto la volontarietà della decisione di morte, e, quindi, l’autodeterminazione mentale, che ricorre pure nell’eutanasia[15], ma anche l’autofabbricazione del proprio annientamento, con l’attivazione e il controllo  diretto del decorso causale verso l’esito mortale[16].

Per quanto, dunque, il tema in ordine alla “qualità della vita” sia sempre presente nel dibattito etico e giuridico relativo alla illiceità o liceità giuridica delle condotte che provocano, direttamente o indirettamente, la morte di una persona, è evidente l’opportunità di dirigere in modo particolare l’attenzione sul fatto del suicidio e sul concetto di autodeterminazione per chiarirne la natura e la rispettiva cifra valoriale nell’ordinamento[17].

L’approfondimento sul tema appare particolarmente opportuno oggi alla luce del dibattito apertosi a seguito della vicenda Cappato, che il prossimo 23 ottobre 2018 sarà oggetto del giudizio di costituzionalità della Corte Costituzionale italiana[18].

 

  1. Il suicidio: la definizione e …. – Prima di verificarne il significato assiologico, è indispensabile focalizzare con precisione in cosa consista il fatto del suicidio al fine di distinguerlo dalle situazioni che, pur presentando qualche connotato simile, non corrispondono affatto al suicidio, neppure in una prospettiva analogica.

Proprio i giuristi teorici, a cui spesso si sono adeguati gli orientamenti della giurisprudenza, hanno contribuito nel corso del tempo a offuscare l’idea dell’uccisione volontaria e, ancor più, del suicidio, ampliandone oltre misura i confini. Ciò vale, in primo luogo, per l’erroneo e fuorviante concetto della “eutanasia passiva”, che sarebbe integrata dall’omissione di pratiche che avrebbero (in via ipotetica) potuto protrarre nel tempo la vita della persona. Poiché v’è una certa equivalenza tra azione ed omissione, anche l’eutanasia e il suicidio possono costituire l’esito terminale di un’omissione o di una serie di omissioni. Senonché, la rilevanza penale dell’omissione dipende dalla violazione volontaria di un obbligo giuridico di prestare (da parte del medico) e di accettare (da parte del paziente) il trattamento medico idoneo a impedire l’evento mortale che si è concretamente verificato. L’obbligo del medico di curare il paziente va ricostruito in virtù di un complesso di regole che si ricavano dalle varie branche della scienza medica e che trovano applicazione concreta tramite il discernimento prudenziale del medico.

In capo al medico non sussiste affatto un obbligo giuridico di “impedire la morte” del paziente, bensì un obbligo di prestargli le cure e i sostegni vitali (igiene, alimentazione, idratazione, fin quando concretamente possibili senza che esse provochino danni ulteriori al paziente o sofferenze aggiuntive)[19] proporzionati al tipo e al progresso della patologia. Inoltre, il medico non è tenuto a prestare al paziente i trattamenti, anche utili e proporzionati, che costui rifiuta in virtù di una decisione cosciente e libera[20].

L’astensione da o la limitazione di trattamenti medici per abbreviare l’agonia o la rinuncia a farmaci o a cure sproporzionate, che lasciano alla patologia di compiere il suo corso naturale, nulla hanno a che spartire con la provocazione volontaria della morte[21]. Lo stesso vale per atti di tipo  apparentemente attivo, come il distacco del respiratore, quando sia evidente la futilità del suo uso per l’impossibilità di ripristinare le funzioni vitali del paziente[22]. Ugualmente va detto per atti effettivamente di tipo attivo, come la somministrazione di analgesici o di sedativi in dosi proporzionate all’obiettivo di alleviare il dolore e le sofferenze della persona, anche se ciò può anticipare, come effetto collaterale, il momento della morte[23]. La provocazione attiva della morte non ha alcuna cifra valoriale simile all’alleviamento delle sofferenze del malato e alla cessazione di terapie che si sono rivelate futili e sproporzionate rispetto allo scopo di migliorare le condizioni di vita del paziente[24].

Da quest’ultimo punto di vista, va da sé che la rinuncia ai trattamenti o alle cure irragionevoli o eccessive o troppo invasive o troppo dolorose, ritenute tali anche quando il giudizio sia impregnato di pregiudizi o di paure soggettive e irrazionali, non equivale affatto alla volontà del suicidio. E ciò vale anche nel caso in cui i trattamenti rifiutati avrebbero in sé la potenzialità di impedire la morte o di procrastinarla in termini significativi o di recuperare condizioni di salute ragionevolmente accettabili.

Le considerazioni sopra svolte per escludere che ricorrano, in moltissime situazioni concrete, profili di illiceità penale, sotto la specie vuoi di eutanasia vuoi di suicidio assistito, vanno ricondotte al principio giuridico che definisce l’essenza dell’atto umano volontario. Ciò che conferisce la formalità essenziale all’atto esterno, attivo od omissivo che sia, è l’oggetto terminativo specifico della volontà. L’atto esterno, tanto nell’esteriorità di azione od omissione quanto nell’esteriorità del suo risultato, è, rispetto all’oggetto terminativo della volontà, come la materia in relazione alla forma. Un determinato evento biologico (id est: la morte di un essere umano), nella sua materia indifferenziata, come evento meramente naturale, non può essere definito suicidio in virtù della mera possibilità di ricollegarlo a una condotta attiva od omissiva del soggetto che muore, come a una condizione sine qua non, quando si prescinda dall’oggetto della volontà, che conferisce la forma essenziale alla condotta esterna e all’evento.

A fondamento dell’atto volontario sta l’intenzione dell’evento prodotto dalla condotta. Una importante pronuncia risalente al 1994 del Committee on Medical Ethics (Walton Committee), dichiarando la proibizione dell’uccisione intenzionale come “the cornerstone of law and of social relationships.[25], escludeva, con riferimento alla somministrazione di dosi crescenti di medicamenti idonei ad abbreviare la vita, che la condotta del medico, spesa con l’obiettivo di alleviare la sofferenza e senza l’intenzione di uccidere, fosse da considerarsi illecita. L’intenzione ha, infatti, un significato cruciale per giudicare la natura dell’atto “If this intentions is to relief of pain or severe distress, and the treatment given is appropriate to that end, them the possible double effect should be no obstacle to such treatment being given. Some may suggest that intention is not readily ascertainable. But juries are asked every day to assess intention in all sorts of cases[26].

Il richiamo al parere del Comitato etico britannico è prezioso perché costituisce la concretizzazione in un atto giuridico di una verità scientifica fondamentale, già espressa nel 1957 da Pio XII, che l’intenzione è un concetto indispensabile per valutare il significato della deliberazione morale, giacché riconnette i mezzi e i fini all’interno del piano concreto dell’azione volta a conseguire un determinato risultato[27]. Nell’intenzione è compreso ogni segmento del piano dell’individuo, considerato sia sotto la formalità dello scopo che dei mezzi per conseguirlo. I segmenti del piano sono espressi con frasi del tipo: “tentare di”, “in ordine a”, “con obiettivo di”, “nell’ambito del piano di”[28].

Nel diritto italiano questa fraseologia descrive icasticamente, nel testo dell’art. 56 del codice penale, il tentativo di qualsiasi delitto –  stadio attraverso cui occorre necessariamente passare per realizzarlo – ove  si legge che “risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”: “chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commetterlo”[29].

Il Supremo Collegio italiano a Sezioni Unite penali nella pronuncia del 24 aprile 2014, giudicando significativamente un caso in cui gli imputati non solo erano stati in grado di prevedere, ma addirittura avevano previsto il possibile verificarsi dell’evento, in una situazione esistenziale in cui il disvalore giuridico, etico e sociale del loro comportamento era eccezionalmente intenso, ha escluso la sussistenza del ‘dolo’, dunque della volontà colpevole. Ciò perché è essenziale riscontrare la sussistenza della dimensione volitiva dell’atto ai fini della responsabilità penale per il delitto di omicidio volontario. Al punto 37 della motivazione la sentenza sottolinea il rinnovato interesse scientifico del concetto di intenzione, “contro il cognitivismo rigidamente determinista” [30]. Ciò implica di restituire “[…] succo contenutistico e dignità scientifica allo stesso concetto di intenzione: un concetto sintetizzabile come orientamento dell’individuo a un risultato nei termini non già di un puro desiderio, ma di un concreto attivarsi (o di un altrettanto finalizzato non attivarsi) per il conseguimento di uno scopo”[31].

Se la volontà dell’evento terminativo della condotta è ciò che fornisce la definizione giuridica dell’atto, il suicidio allora è l’atto di colui che, conoscendo con precisione tutti gli elementi che connotano la sua situazione esistenziale e riconducendo a se stesso la causa dell’evento, dirige la propria intenzione verso la distruzione della propria vita, scegliendo i mezzi idonei per realizzarla[32]. Essenziale, dunque, prima ancora dell’intenzione e della scelta dei mezzi, è il fatto che il soggetto riconduca la causa della morte alla sua omissione, e non al progredire naturale della malattia. L’esperienza ci dice che ciò non accade nella grandissima parte, se non nella totalità dei casi, in cui il paziente rinuncia a determinati trattamenti. Egli, infatti, in tali casi, riconduce alla malattia, e non a se stesso, la causa della sua morte.

 

  1. Segue: la fallacia dell’estensione del concetto di suicidio. – V’è una profonda differenza tra la volontà e il desiderio, con cui, molto frequentemente, anche tra i penalisti, essa è confusa. Si può desiderare di morire, per le angosce circa il futuro e i dolori attuali, per la perdita di ogni speranza e per il timore di affrontare situazioni oscure e incerte. Il desiderio è lo sfondo su cui nasce la volontà. Ma essa prende concretezza con il formarsi dell’intenzione, per poi completarsi con il giudizio, con la scelta dei mezzi e con la risoluzione finale. Il momento in cui intervengono specificamente la ragione e la libertà, come dimensione attiva del volere, inizia con il formarsi dell’intenzione: “Confondere la volontà con il desiderio significa impoverire la complessa dinamica della condotta umana, che nasce bensì dal desiderio, ma si specifica e attualizza in specifici atti di volontà, cui sono inerenti la direzione e il giudizio della ragione. Confondere la volontà con il desiderio significa conseguentemente perdere di vista il momento in cui si esercita precisamente la libertà della persona, distogliere lo sguardo dal momento in cui si radicano «merito» e «colpa», momento da cui scaturisce la libertà personale” [33].

La distinzione tra ciò che si ha l’intenzione di usare come mezzo o di perseguire come fine (la scelta dei mezzi per distruggere la vita e il fine della sua distruzione) e ciò che è accettato come effetto collaterale non dipende dal fatto che gli effetti collaterali siano desiderati o non desiderati, accettati con favore ovvero con riluttanza.  Anche se gli effetti collaterali fossero accettati come un bene, ma se non sono stati oggetto dell’intenzione, lì non c’è volontà di suicidio[34]. Taluno può accogliere la morte come una benedizione perché mette termine a una condizione di angoscia, di povertà o di solitudine, ovvero perché – in una dimensione di fede – essa apre le porte a una vita nuova e più piena. L’erronea concezione causale della condotta umana, espressa dalla formula della condicio sine qua non , ha finito per far assimilare al suicidio, o a far considerare come suicidio, tutte le situazioni di vita in cui l’evento della morte è sopravvenuto anche soltanto per l’interferenza di un’azione od omissione della vittima.

Ciò vale in generale per tutti i casi in cui il soggetto rinuncia a un determinato intervento o a un determinato farmaco che pure potrebbero allontanare il momento della morte. La rinuncia a determinate cure, quando esse sono praticabili senza infliggere  particolari sofferenze e sono proporzionate, può eventualmente implicare una colpa morale per il soggetto, alla luce di un’etica deontica, ma non integra affatto la fattispecie del suicidio. A maggior ragione ciò deve dirsi quando le cure sono incerte nel loro valore terapeutico; ovvero non offrono miglioramenti significativi nella concreta situazione del paziente; ovvero si pongono come ripetizioni sfibranti di atti medici che arrecano sofferenza; e ancora quando sono economicamente gravose per sé o per la propria famiglia; ovvero procurano ansie e angosce per parenti anziani o anch’essi malati; o infine quando impediscono il normale svolgimento della vita di persone impegnate nel lavoro necessario per il sostentamento proprio e della famiglia. Il giudizio sulla proporzionatezza delle cure e sul loro carattere futile si colora legittimamente, nel giudizio del paziente, di profili di desiderabilità soggettiva che non entrano nel fuoco del giudizio oggettivo del medico.

Nel “lasciarsi morire”, dunque, non è affatto implicita una volontà suicidaria. Peraltro, il “lasciarsi morire” definisce una categoria amplissima che ricomprende situazioni variegate, ciascuna caratterizzata da una cifra etica molto diversa.

Infine, va ricordato che la vita è un bene, protetto in sommo grado dal diritto, ma non è il bene supremo dell’essere umano. Già il poeta pagano Giovenale aveva detto: “Summum crede nefas animam praeferre pudori./ Et propter vitam vivendi perdere caussas[35]. Al di là della vita biologica v’è la vita spirituale. In particolare, colui che viene ucciso perché si è rifiutato di compiere un atto contrario alla sua coscienza, impostogli come condizione per aver salva la vita, non si suicida, anche se il suo rifiuto entra nel plesso delle condizioni senza le quali la morte non gli sarebbe accaduta. Non si suicida colui che rinuncia al soccorso offertogli da terze persone per evitare che la vita di costoro sia messa a repentaglio. Non si suicida colui che, trovandosi insieme con altri nella situazione in cui soltanto alcuni possono essere salvati, rinuncia alla salvezza per sé, lasciando che siano gli altri a sfuggire alla morte. Non si suicida colui che rifiuta di inserirsi in una lista di attesa, ovvero lascia che altri lo sopravanzino, lista istituita per il trapianto del cuore o dei reni o del fegato o di un altro organo vitale, ritenendo eticamente egoistica la pretesa di accedere a risorse scarse a preferenza di terzi. Non si suicida colui che rifiuta di ricercare farmaci che presentano costi elevatissimi al fine di non gravare sulla vita della propria famiglia o della stessa comunità civile in cui è inserito.

Gli esempi che affiorano nella vita quotidiana sono numerosissimi. Tutti mettono in luce che il bene della vita biologica non è il bene supremo della persona e che a esso si può – e talora si deve – rinunciare per un bene superiore. E’ un bene altissimo, che, tuttavia, può entrare in bilanciamento, soprattutto nella valutazione del soggetto gravemente malato, con il suo bene spirituale e con il bene della giustizia, imponendo una comparazione con le opportunità offerte alle altre persone.

Talora le motivazioni per cui il paziente rinuncia alle cure sono eticamente nobili e perfettamente razionali; in altre occasioni sono meno nobili ovvero puramente irrazionali, perché poggiano sull’impulso degli affetti e delle emozioni, soprattutto sul timore del dolore e sulla paura dell’ignoto; in altre occasioni ancora sono né nobili né ignobili, né razionali né irrazionali, ma difficilmente precisabili nel loro significato etico, perché trovano origine nella stanchezza per la vita, nello sfibramento delle energie fisiche e della volontà e, soprattutto, nella depressione psichica o nella solitudine affettiva e nello svanire di ogni speranza[36].

Coloro che sono professionalmente vicini a queste persone nei momenti in cui il desiderio  di vivere sembra scomparire dovranno trovare in se stessi l’energia morale per dare il sostegno e l’attenzione curativa comunque praticabile secondo le regole della loro arte, medica o infermieristica, e offrire, senza moralismi di sorta, ma con attitudine empatica, le ragioni della vicinanza e della solidarietà a coloro che soffrono per la malattia. Ma in queste situazioni, anche se talora affiora il desiderio del suicidio, non vi è la volontà di esso. Il divieto del suicidio assistito mira a prevenire che il medico o l’infermiere concorrano a trasformare in volontà l’eventuale desiderio, abbandonando il malato nella sua solitudine esistenziale[37].

 

  1. Le ragioni per cui il suicidio non integra alcun diritto della persona umana. – Che il suicidio non costituisca oggetto di un diritto[38], è evidente. Il suicidio non entra infatti nel fuoco della tutela giuridica perché il suo carattere è di completa avulsione dal diritto, siccome atto che si oppone alla sua intrinseca struttura, che è essenzialmente relazionale. Se fosse oggetto di un diritto, implicherebbe un obbligo di astenersi dall’impedirlo in capo agli altri e la conseguente illiceità del contegno di chi tentasse di impedirlo o di chi spendesse una condotta per salvare la vittima dell’atto autolesivo.

Ciò implicherebbe il rovesciamento dell’asse giuridico che regge l’ordinamento, imperniato sulla tutela dei valori basici della vita, della salute, della libertà e, a monte, della dignità oggettiva della persona, come risulta inderogabilmente dall’art. 3, co. 1° della Costituzione, che fonda l’uguaglianza di tutti i cittadini avanti alla legge sulla “pari dignità sociale”. L’art. 2 della Carta, peraltro, contempla a carico di tutti i soggetti un dovere inderogabile di solidarietà politica, economica e sociale, che è correlativo al riconoscimento e alla garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo.

Se, poi, per assurdo, si prevedesse il diritto a essere assistiti nel compiere il suicidio, abrogando la disposizione di cui all’art. 580 c.p., si imporrebbe un obbligo a carico di taluno – in particolare, a carico del medico che assiste il paziente – di uccidere volontariamente un’altra persona. Né l’aporia sarebbe sanata dalla possibilità che l’ordinamento consentisse al singolo chiamato a uccidere l’obiezione della propria coscienza[39]. Se, infatti, il suicidio fosse un diritto, sarebbe comunque necessario che l’ordinamento trovasse comunque un soggetto per compiere l’atto.

Come prima detto, il suicidio è un  atto che non può logicamente partecipare all’universo del diritto in quanto postula una  decisione che si colloca nella dimensione della mera soggettività, alla stregua di un gesto che esprime  l’assoluta signoria del soggetto su se stesso, senza riguardo per il diritto. Ove lo si volesse “giuridicizzare”, come suicidio assistito, collocandolo nella dimensione intersoggettiva, si perverrebbe ugualmente alla dissoluzione della relazione intersoggettiva e all’oggettivazione dei membri del rapporto. Infatti, o la vittima è signore della coscienza dell’operatore, ovvero l’operatore è signore della vita del soggetto. L’uno o l’altro dei membri del rapporto è ridotto a un oggetto[40]. Ma, di più: entrambi i membri del rapporto sono ridotti a oggetto, perché il riconoscimento dell’altro come persona è costitutivo anche della dignità del soggetto che deve riconoscere. Chi non riconosce l’altro come persona si comporta come il padrone nei confronti dello schiavo. Annullando la personalità di questi, annulla anche la personalità propria. La riflessione dell’io su di sé implica necessariamente il riconoscimento dell’altro come persona. Oltre a rivelare empiricamente l’inclinazione dell’uomo alla sociabilità, la relazionalità postula la parità ontologica degli esseri umani, per cui nessun uomo può denegare dignità e valore all’altro senza denegarli a se stesso[41]. Da qui il già richiamato fondamentale principio giuridico contemplato nel co. 1 dell’art. 3 della Costituzione.

Per questi motivi, sul piano logico della teoria del diritto, il comando giuridico è diretto anche al soggetto in cui si incentra il valore di persona: “[…] questo significa che egli è tenuto, al pari di tutti gli altri soggetti, al dovere di astenersi dal compiere azioni che possano ledere il valore giuridico della propria persona” [42]. Poiché tale valore costituisce un principio generale dell’ordinamento, è giocoforza attrarre interpretativamente anche la condotta del soggetto della tutela nel dovere di astensione che è l’espressione essenziale della garanzia giuridica[43]. Sul piano sostanziale, poi, il valore espresso dalla norma generale “[…] non è nel potere della volontà di colui che ne è il portatore”[44]. Si tratta di un valore oggettivo, che non è disponibile. Ciò non tanto perché il soggetto sia privo del potere di disposizione di un bene particolare, come accade nelle ipotesi di indisponibilità di alcuni interessi che hanno per oggetto un bene specifico, quanto perché la negazione della propria qualità di persona è incompatibile con il valore formale che la sua persona ha in base all’insieme dei valori dell’ordinamento. Sì che la negazione della sua qualità di persona “[…] implica una vera e propria qualificazione di illiceità, discendente dal dovere di astensione che si indirizza allo stesso soggetto portatore del valore giuridico, impedendogli di compiere atti di violazione del valore di cui esso stesso, nella sua persona, è portatore”[45].

Il suicidio, dunque, è espressione di un mero potere di fatto. In quanto nega il valore di un principio fondamentale dell’ordinamento è anche un fatto illecito. Per questo motivo esso può essere lecitamente impedito, come l’ordinamento giuridico di tutte le nazioni civili prevede. L’aiuto al suicidio, dunque, in quanto contributo a un fatto intrinsecamente illecito, è legittimamente oggetto di una proibizione penale.

 

  1. Le ragioni di politica criminale che rendono giuridicamente conveniente la proibizione penale dell’aiuto al suicidio. – Un tema ulteriore attiene alla convenienza giuridica e sociale della proibizione penale dell’aiuto al suicidio. Si tratta di una questione che attiene al circuito della politica, sulla cui distinzione dal circuito della costituzionalità ha di recente opportunamente richiamato l’attenzione Domenico Pulitanò[46].

L’orizzonte entro il quale il problema è frequentemente inscritto concerne il cosiddetto paternalismo penale, visto come corollario del principio di separazione del diritto dalla morale. La dottrina giuridica germanica di ispirazione rigidamente individualistica e liberale si è fatta protagonista ormai da svariati anni della polemica contro il paternalismo. Proprio con riferimento al tema oggetto del presente scritto, per esempio, all’entrata in vigore del nuovo § 217 StGB: “Geschäftsmäßige Förderung der Selbsttötung[47], Gunnar Duttge ha stigmatizzato criticamente la nuova norma con l’accusa di “Paternalismus durch Recht[48]. Altri Autori, pur ammettendo la conformità al Grundgesetz del nuovo § 217, hanno discusso l’intera questione sotto il medesimo angolo visuale, discettando approfonditamente sui confini tra paternalismo legittimo e non legittimo[49].

La dottrina italiana, con maggiore acribia, si è soffermata spesso sul concetto di paternalismo, prendendo le distanze dalla formulazione estrema di Joel Feinberg, incentrata sull’harm principle[50]. Il filosofo americano giunge a negare, in sintonia con il liberalismo più radicale, che ricorra un qualsivoglia profilo di ingiustizia nel caso in cui la vittima abbia prestato consenso all’offesa, quale sia il bene cui essa sia diretta. Questa, in definitiva, è l’idea guida dell’eccezione di illegittimità costituzionale dell’ordinanza milanese pronunciata il 14 febbraio 2018[51].

Prima di scendere in concreto all’esame delle ragioni fondamentali per cui gli ordinamenti penali proibiscono conformemente alla Costituzione l’assistenza al suicidio, vanno svolti due rilievi, rispettivamente di principio e di fatto.

Sul piano dei princìpi, che sia possibile discutere del fondamento delle incriminazioni senza un previo discorso morale tra le persone, mettendo in disparte l’etica, è cosa priva di ragionevolezza, poiché l’unità dell’uomo, insieme ente empirico e spirituale, postula una certa coerenza tra le valutazioni di tipo giuridico e quelle di tipo morale[52]. Al riguardo merita ricordare che lo stesso Immanuel Kant, rigido sostenitore dell’autonomia del diritto dalla morale, ha riconosciuto proprio nell’antigiuridicità del suicidio il punto fondamentale di incontro tra valutazione morale e valutazione giuridica[53]. Che sussista un dovere giuridico, oltre che morale, verso se stesso è essenziale per il filosofo di Königsberg: l’unità dell’essere umano nelle componenti soggettiva ed oggettiva implica di definire sul piano logico-giuridico la relazione dell’azione esterna non soltanto come interpersonale, ma anche come intrapersonale nel rapporto dell’uomo con se stesso[54].

In punto di fatto va rilevato che la dottrina italiana, affrontando approfonditamente il tema del paternalismo e distinguendolo tra forme “dispotiche” e “tutorie”,  ha riscontrato tracce consistenti, esplicite o dirette, di “paternalismo tutorio” soprattutto nella Costituzione e nel codice penale[55]. Vanno ricordati numerosi articoli della Costituzione diretti alla tutela dei figli minori, dentro e fuori della famiglia (es. artt. 30, 34), nonché a tutela dei lavoratori (soprattutto l’art. 36, che statuisce, con ricadute su tutto il diritto del lavoro, il principio fondamentale che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 37 sulla tutela del lavoro femminile e minorile). Nella legislazione penale, poi, il paternalismo tutorio costituisce l’indirizzo, caratterizzante l’intento politico-criminale oggi prevalente, di tutelare il soggetto debole con  maggiore incisività che in passato[56].

Ciò premesso in via generale, sembra veramente incongruo ravvisare nel suicidio assistito una forma di tutela paternalistica dispotica della persona umana. E’, infatti, fallace ritenere che la scelta di uccidersi sia una decisione che riguarda soltanto se stesso (self-regarding), senza che ciò abbia un impatto sulla collettività. Non si tratta certo di riesumare il discorso, astratto e formalistico, che il suicidio sottrae il soggetto all’adempimento dei doveri di solidarietà verso gli altri, e neppure la narrazione, non falsa ma incompleta, che la morte tragica di una persona ha riflessi sul bene che riguarda coloro (anzitutto i familiari) verso cui il soggetto ha doveri secondo giustizia.

Si tratta piuttosto di questo: la scelta di uccidersi e, soprattutto, la richiesta ad altri di essere aiutati o assistiti nell’uccidersi, postula come fondamento filosofico, morale e giuridico almeno uno dei due seguenti giudizi: i) che, in certe condizioni o circostanze, la vita umana non conserva un intrinseco valore e una irrinunciabile dignità; ii) che la vita della persona non ha alcuna rilevanza per la società, anzi, che la vita sociale sarebbe migliore se quella persona non ci fosse. Il primo giudizio frustra il principio fondamentale che la vita umana è un valore che non può essere discriminato in base alle condizioni fisiche o mentali della singola persona, rendendo intrinsecamente inintelligibile anche il divieto dell’eutanasia o del suicidio assistito non volontariamente richiesto o addirittura eseguito contro la volontà della persona. Il secondo giudizio, poi, che la vita umana è indifferente per la società, presenta una logica interna e un significato valoriale che inducono ad ammettere anche l’aiuto al suicidio non volontario[57].

La ratio dell’omicidio del consenziente o dell’assistenza al suicidio, in altri termini, contiene logicamente in sé l’idea che l’uccisione non è un danno sociale e giuridico, ma o è moralmente e socialmente irrilevante, o, addirittura, costituisce un beneficio per la società. La portata di questa idea, che la norma permissiva accredita, ha un effetto pregiudizievole per l’intero corpo sociale, soprattutto per coloro la cui vita è fragile, in quanto dipendente integralmente dagli altri sia per l’assistenza sanitaria che per il sostegno morale o economico. Il riconoscimento giuridico del suicidio assistito possiede l’intrinseca ingiustizia di negare in maniera indeterminatamente espansiva presso tutta la collettività e, soprattutto, presso i soggetti poveri e vulnerabili, la tranquilla certezza del loro diritto alla vita senza alcuna restrizione.

Questo rilievo prescinde dal discorso relativo al cosiddetto ‘piano inclinato’ – che rappresenta, peraltro, un’evidenza riscontrabile in quelle società in cui sono state introdotte legislazioni permissive[58]. L’incertezza indotta dalla cancellazione del divieto rappresenta un pregiudizio immediato e diretto per l’intero corpo sociale e, in particolare, per coloro che, privi di disponibilità economiche e di opportunità lavorative, afflitti da gravi traversie di salute o abbandonati in solitudine o versanti in condizione di depressione, non possono non temere che la loro bassa qualità di vita induca la collettività e, in definitiva, loro stessi, a convincersi di essere un peso indesiderabile per gli altri.

Non è per ragioni paternalistiche che la comunità politica vieta il suicidio assistito, né per ragioni religiose o morali, sul rilievo che la vita sarebbe da considerarsi sacra: queste considerazioni possono aggiuntivamente valere per coloro che sono sostenuti dalla fede religiosa in ordine all’esistenza e alla provvidenza di Dio[59]. La proibizione del suicidio assistito ha la sua ratio nello scopo di proteggere tutte le persone dal rischio di considerare la loro vita come priva di valore, ovvero come indegna di essere vissuta allorché ricorrano determinate circostanze soggettive od oggettive impedienti un pieno sviluppo di sé nel mondo circostante.

Da un punto di vista analogico il divieto del suicidio assistito sembra corrispondere sul piano giuridico al significato che ha sul piano morale la Regola d’oro, comune a molte tradizioni sapienziali, nelle sue due espressioni, ma soprattutto in quella negativa, nel suo valore più largo e profondo. Per un verso, come principio universale, è sinonimo della reciprocità del riconoscimento e, dall’altro, nella sua forza pedagogica, opera come istanza “alla costruzione dell’intersoggettività mediante la prescrizione del coltivare, come essenza propria dell’io, l’essere per altri”[60]

 

  1. Il bene comune protetto dalla proibizione del suicidio assistito. La Corte Suprema americana nella decisione 26 giugno 1997 si è espressa all’unanimità nel senso della conformità alla Costituzione della proibizione del suicidio assistito[61].

La motivazione del Presidente della Corte William Rehnquist focalizza le ragioni, tutt’altro che paternalistiche, che stanno a fondamento razionale della proibizione.

Il primo motivo, in qualche misura assorbente tutti gli altri, è l’interesse universale dello Stato alla preservazione della vita umana. “The State’s prohibition on assisted suicide, like all homicide laws, both reflects and advances its commitment to this interest[62]. L’interesse, di carattere simbolico, costituisce un principio dell’ordinamento. Proietta, tuttavia, come suole accadere per le norme simboliche, spesso incomprese dai giuristi teorici, rilevanti riflessi pratici sull’intero sistema giuridico, perché, stigmatizzando negativamente l’uccisione di sé come degli altri,  conferisce forza alla nozione del limite nelle relazioni umane. Con il divieto del suicidio assistito la legge pone sotto la protezione della legge la vita di ciascuna persona, dall’inizio al suo termine naturale, senza riguardo alla condizione fisica e mentale di ciascuno.

In secondo luogo il divieto mette in luce l’interesse dello Stato alla prevenzione del suicidio. La legge sottolinea l’esigenza che il suicidio sia considerato un serio problema sociale che concerne la salute del corpo sociale; che se ne identifichino e se ne trattino le cause in vista della sua prevenzione, sul rilievo che le persone che tentano il suicidio, siano essi malati terminali o meno, soffrono spesso di depressione o di altri disturbi mentali. L’esperienza insegna che, dopo la richiesta del suicidio o il tentativo, molti soggetti dichiarano che si sarebbero astenuti dalla richiesta o dal tentativo se la loro depressione e la loro sofferenza fossero state trattate sul piano psichiatrico o psicologico, esprimendo gratitudine verso coloro che li hanno salvati o sostenuti moralmente. Dunque: “[…] legal physician assisted suicide could make it more difficult for the State to protect depressed or mentally ill persons, or those who are suffering from untreated pain, from suicidal impulses[63].

In terzo luogo lo Stato ha il preciso interesse di tutelare l’etica e l’integrità della professione medica, che sarebbero minate nel valore essenziale della fiducia che deve caratterizzare l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente: in direzione opposta, la legalizzazione del suicidio assistito offuscherebbe la linea di distinzione “[…] between healing and harming[64].

In quarto luogo lo Stato ha interesse a proteggere i gruppi di persone vulnerabili, inclusi i poveri, gli anziani e i disabili, dall’abuso, dalla negligenza e dagli errori dei medici e degli altri soggetti professionali addetti alla loro assistenza. Il rischio di essere vittima di condotte dannose, nel caso di legalizzazione del suicidio medico assistito, sarebbe particolarmente accentuato per le persone la cui autonomia e il cui benessere sono già compromessi dalla povertà, dalla mancanza di accesso a buone cure mediche, dell’età avanzata o dell’appartenenza a gruppi sociali discriminati in base alla razza o alla marginalità sociale. L’atteggiamento di diffidenza verso i portatori di handicap, unito alla tendenza a risparmiare i costi della sanità pubblica o a sgravare le compagnie assicurative,  rendono indispensabile la protezione compensativa di costoro da parte della legge. Inoltre la permissione del suicidio assistito potrebbe sospingere le persone deboli a esentare le loro famiglie dal notevole peso finanziario legato ai costi per le cure nel periodo finale della vita.

Il testo della decisione sottolinea che l’interesse dello Stato va oltre alla semplice protezione dalla coercizione dei soggetti vulnerabili, ma si estende “[…] to protecting disabled and terminally ill people from prejudice, negative and inaccurate stereotypes, and “societal indifference[65]. La proibizione del suicidio assistito riflette e rafforza la politica dello Stato volta a che  “[…] lives of terminally ill, disabled, and elderly people must be no less valued than the lives of the young and healthy, and that a serious disabled persons; suicidal impulses should be interpreted and treated the same way as anyone else’s[66].

Infine, la Corte Suprema non trascura la considerazione, che si potrebbe ricondurre all’argomento del “piano inclinato”, in virtù della quale  la permissione del suicidio assistito aprirebbe la via all’eutanasia volontaria e, persino, a quella involontaria o a quella decisamente non voluta. Infatti, nel suicidio legale è inerente l’intrinseca tendenza verso l’estensione delle pratiche verso  una platea sempre più ampia di interessati. Anzitutto, nei casi di decisione surrogata tramite l’esercizio dei poteri di rappresentanza e dell’istituto delle direttive anticipate; poi, nei casi di pazienti inabili a somministrarsi il veleno ovvero non dotati dell’energia psichica e del coraggio di somministrarselo. Onde un diritto, che si pretenderebbe limitato, verrebbe a configurarsi come una “broader license, which could prove extremely difficult to police and contain[67]. La svalutazione dello “slippery slope”, peraltro, non tiene conto del fatto che, seppure il risultato finale (id est: l’irrompere dell’eutanasia non volontaria) non sia preso seriamente in considerazione all’inizio del processo, esso, tuttavia, emerge come necessità logica gradino dopo gradino, all’esito di un percorso che riscontra di volta in volta le somiglianza tra le varie situazioni.

Il divieto del suicidio assistito, pertanto, secondo la Corte Suprema, non vìola il 14° Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, neanche se applicata ad adulti malati terminali che desiderano affrettare la morte con farmaci proibiti dai medici, fermo restando il loro diritto di ottenere la somministrazione di cure palliative, “The difficulty in defining terminal illness and the risk that a dying patient’s request for assistance in ending his or her life might not be truly voluntary justifies the prohibitions on assisted suicide we uphold here”[68].

 

  1. L’autodeterminazione a favore del suicidio assistito: i limiti ontologici dell’autodeterminazione. – L’argomento speso attualmente con maggiore forza a sostegno del suicidio assistito concerne il principio dell’autodeterminazione del soggetto. Ronald Dworkin, in vari scritti, ma soprattutto in Life’s Dominion[69], si è massimamente impegnato a orientare la scienza giuridica e la giurisprudenza internazionale verso il riconoscimento del suicidio assistito sul rilievo che l’autonomia del soggetto, caratterizzante l’intera esistenza dell’individuo, non deve essere limitata, nel periodo finale della vita, dalla struttura medica che sembra deputata a estendere implacabilmente e impersonalmente la sua durata[70]. L’autonomia individuale non dovrebbe essere mai compressa. Il suicidio assistito sarebbe indispensabile per restaurare il senso del pieno controllo su di sé dell’individuo in prossimità del fine vita: si tratterebbe di una estensione logica dello statuto relativo alla libertà individuale affinché alla vita venga messo termine secondo il desiderio di ciascuno.

Dworkin ha partecipato altresì alla stesura e all’invio della lettera dei filosofi (The Philosopher’s Brief) alla Corte Suprema Americana nel 1997, come Amici Curiae a sostegno della causa del suicidio assistito[71]. La lettera in questione, sottoscritta, oltre che da Dworkin, da Thomas Nagel, Robert Nozick, John Rawls, Thomas Scanlon e Judith Jarvis Thomson, ribadisce l’argomento dell’autonomia, evocando altresì il timore che il diniego del diritto al suicidio favorisca l’accanimento terapeutico[72].  Ma il vero obiettivo è il riconoscimento del diritto al suicidio assistito, che dovrebbe essere inserito nella lista delle decisioni personali protette dalla clausola del due process (due process clause), prevista dal 14° Emendamento della Costituzione americana.

Poiché l’argomento si presenta come decisivo, tanto che l’ordinanza della Corte di Assise di Milano se ne appropria, giungendo ad affermare che il suicidio integrerebbe un “diritto della persona a decidere della propria vita”[73], occorre approfondire il tema dell’autodeterminazione per collocarlo all’interno del quadro valoriale della Costituzione repubblicana.

Va detto in primo luogo che la narrazione in ordine a un concetto di autodeterminazione quasi assoluto sfugge allo statuto dell’agentività umana, che è relativo a un soggetto sempre in-situazione, non dell’uomo astratto, autoreferenziale, estraneo alle relazioni con gli altri. L’uomo agisce non soltanto in forza di desideri, bensì anche di credenze, di aspettative, di valori, di responsabilità, di riconoscimento da parte degli altri. La sua vita è vita- in-relazione, non vita di una monade isolata dal resto del mondo. L’autodeterminazione autoreferenziale non è data nel mondo reale, poiché la decisione umana è sempre il frutto di una serie di condizioni, ciascuna delle quali possiede una peculiare efficacia a seconda dei momenti e dei luoghi in cui è assunta. Se ciò è vero per ogni azione umana in ogni tempo della vita, ancor più è vero per le azioni spese in situazioni estreme, quando si è dipendenti dagli altri per la stessa esistenza in vita e quando la decisione concerne la scelta tra la vita e la morte[74][75].

Come dice Patricia S. Mann, la potenzialità agentiva della persona, a causa della fragilità fisica e psichica, quasi svanisce nelle situazioni in cui: “we confront mystery, uncertainty, aporia[76]. L’idealizzazione astratta dell’autonomia individuale, nata nel recinto esclusivista dell’individualismo, oscura l’inadeguatezza basilare di una nozione auto-referenziale delle azioni e delle scelte delle persone.

Per comprendere in modo concreto la complessità delle scelte e dell’azione umana occorre tener conto tanto dei desideri auto-referenziali, quanto dei sentimenti di responsabilità verso gli altri quanto delle attese del riconoscimento del sé da parte degli altri. Il significato dell’azione è impoverito se non si tiene conto della complessità e dell’interferenza dei vari fattori che concorrono nelle scelte personali. Essi sono variamente distribuiti a seconda delle situazioni in cui il soggetto si trova a decidere. Più egli versa in condizioni di fragilità e di dipendenza, più la scelta è influenzata dall’atteggiamento degli altri nei suoi confronti, in particolare dall’atteggiamento che il soggetto percepisce in ordine al valore che gli altri attribuiscono alla sua esistenza. Più egli percepisce che tale apprezzamento scema in coloro che lo circondano, più si rafforzano le tendenze suicidarie e si consolidano i presupposti psicologici per la richiesta di essere ucciso. Invece di esprimere l’autodeterminazione libera della persona, spesso la richiesta di suicidio esprime piuttosto l’esito di una sconfitta esistenziale. La permissione legale del suicidio assistito modifica radicalmente la cifra valoriale delle varie relazioni che il malato intrattiene con il nucleo dei familiari, dei conviventi e degli amici, nonché con il personale medico e infermieristico.

Affiora così un processo di degradazione antropologica[77], che trasforma progressivamente il significato delle relazioni più significative della persona. La persistenza di una malattia incurabile costituisce fonte di sofferenza non soltanto per il paziente, ma anche per i suoi parenti e amici. L’afflizione per la sofferenza fa sorgere il desiderio, frammisto alla pietà, della sua rapida cessazione e della liberazione, tanto per il malato quanto per sé. Questi desideri, che sorgono inevitabilmente nel cuore di ognuno, anche senza alcuna malevolenza, venati purtuttavia spesso dalla coscienza del loro carattere egoistico, sono destinati a cambiare di senso una volta che il suicidio assistito sia divenuto legale. Nel fuoco della decisione in ordine alla richiesta di morte non potrà non entrare la considerazione ‘altruistica’ di liberare gli altri dai costi e dalla spendita del tempo necessario per attendere all’assistenza di un soggetto condannato a una morte prossima. Le relazioni con l’umanità circostante non potranno non subire una torsione impregnata dal desiderio di morte[78].

Un mutamento per certi versi analogo concerne la relazione medico-paziente. Dworkin e i sottoscrittori della Lettera dei filosofi denunciano l’ostinazione curativa dei medici che si porrebbe in contrasto con la libertà del paziente. Dato e non concesso che prevalga tra i medici un atteggiamento di aggressività curativa e non, piuttosto, di abbandono terapeutico, è evidente che la legalizzazione del suicidio assistito trasforma la relazione medico-paziente in modo radicale. Nella tradizione della medicina ippocratica lo scopo del medico è la cura per la guarigione ovvero per il lenimento della sofferenza nella prospettiva della vita. L’introduzione del suicidio assistito rende i medici parti attive nel processo decisionale verso la morte, di cui essi dovrebbero essere il fattore causale terminale. L’assuefarsi alla prospettiva di morte renderà una porzione crescente di medici in sintonia con l’assistenza al suicidio:“[…] growing proportion of doctors will find themselves sympathetic to this practice, and will find themselves comfortable with recommending it to their patients[79]. Ancora più evidente sarà la trasformazione dell’atteggiamento nel mondo delle strutture ospedaliere e delle compagnie di assicurazione[80]. In quanto ispirate ai princìpi dell’efficienza e del profitto le une e le altre favoriranno scelte organizzative e finanziarie favorevoli al suicidio assistito: “In legalising assisted suicide, we will be legalising a  method of death which will be very much more convenient as well as more cost-effective than current methods of dying. In our society, where almost everyone is pressed for time, and many are pressed for money, individual notions of agency and the fabric of social agency relations may evolve very quickly to reflect  its conveniences and cost efficiency[81].

In realtà la permissione del suicidio assistito renderà la decisione sempre meno frutto dell’autodeterminazione e sempre più effetto dell’eterodeterminazione di fattori esterni scaturenti dai valori, dalle aspettative e dai desideri di coloro che circondano il malato. Le scelte individuali si calano – e sono condizionate – dai modelli di riconoscimento e di accettazione culturale consolidati nel contesto sociale.

La vita contemporanea mostra che tali modelli sono ispirati all’efficienza, alla preoccupazione per i costi economici e per lo spreco del tempo: l’imperativo sociale contemporaneo è nel senso che il tempo deve essere dedicato non tanto all’assistenza, quanto al lavoro e allo svago. Tali modelli premono sulla mentalità comune per favorire una conclusione rapida del processo di malattia. A questi (dis)valori non potrà non sfuggire la scelta del soggetto fragile. Lungi dal rappresentare l’autodeterminazione della volontà libera, il suicidio assistito risulterà la conseguenza di un complesso di fattori causali che offusca l’inclinazione naturale del soggetto a permanere nell’esistenza secondo la cifra valoriale di una relazione costruttiva con l’intera compagine sociale.

A questo quadro vanno aggiunte alcune considerazioni in ordine al pregiudizio che il suicidio assistito reca all’integrità e all’efficacia del rapporto curativo all’interno delle strutture ospedaliere e di assistenza ai malati. Uno psichiatra americano, Michael Teitelman, ha esposto in uno scritto, significativamente intitolato Not in the House[82], quattro argomenti per invocare, ove il suicidio assistito sia reso legale, che, comunque, esso non sia praticato in ospedale.

I quattro argomenti sono: i) il nesso tra malattia, depressione e propensione al suicidio in un quadro giuridico in cui il suicidio assistito sia legale; ii) il logico passaggio dal suicidio assistito all’eutanasia attiva ove sia compiuto il primo step del suicidio assistito; iii) la destabilizzazione dell’ethos della medicina con l’irruzione del suicidio assistito: iv) la degradazione del significato dell’ospedale nella considerazione sociale.

Con il primo rilievo Teitelman osserva che la legalizzazione del suicidio assistito indurrebbe i medici a uccidere pressoché sempre i soggetti malati di depressione[83], anche se gli interventi psicoterapeutici o psicofarmacologici potrebbero guarire il paziente dalla depressione ed estinguere il suo interesse al suicidio[84]. L’ospedalizzazione, infatti, di malati con patologie prolungate, progressive e normalmente fatali come il cancro, i disordini neurovegetativi (sclerosi multipla e sclerosi amiotrofica laterale), i deficit cardiaci gravi, l’AIDS, avviene quando la sintomatologia diventa severa ovvero quando sopravvengono complicazioni nel trattamento. L’ingresso in ospedale di questi pazienti segna al contempo un grave deterioramento fisico e una forte demoralizzazione psicologica, che favoriscono la richiesta del suicidio.

Il secondo argomento concerne gli aspetti tecnici del suicidio assistito, confrontati con l’uccisione diretta da parte del medico. L’assunzione orale autosomministrata pone non di rado difficoltà pratiche e implica incertezza su un esito immediato e senza sofferenze. L’infusione letale  endovenosa da parte del medico, che abbatte il sistema nervoso centrale rappresenta una via più diretta e immediata: evita con sicurezza sofferenze per il paziente; non postula la coscienza e la volontà attuale del malato né richiede la sua cooperazione. E’ inevitabile che, sia per ragioni pratiche che per un sentimento di compassione, lo staff medico tenderà a sostituire le infusioni letali endovenose all’assunzione orale autosomministrata. Ciò, peraltro, renderebbe meno controllabile il comportamento dello staff medico, aprendo la strada all’eutanasia volontaria[85].

Il terzo argomento riguarda tanto le dinamiche psicologiche e interpersonali all’interno dello staff medico quanto la qualità delle cure praticate al malato nelle fasi finali di vita. Il suicidio assistito potrebbe demotivare, anche sotto l’influenza delle strutture sanitarie e delle società assicurative, i medici in ordine alla qualità e quantità della cura, nuocendo all’integrità etica della professione medica e alla sua identità come professione che ha per vocazione la guarigione o, in ogni caso, la cura del paziente. Inoltre, l’ospedale è uno spazio pubblico che coinvolge l’attività di soggetti estranei al mondo del paziente. Nel suicidio assistito sarebbero necessariamente coinvolti medici, dirigenti sanitari, comitato etico, consulenti psichiatrici e infermieri, suddivisi in almeno tre strati professionali. Se il suicidio deve rispondere a un atto che scaturisce dalla libertà intima del soggetto, le modalità del suo compimento descriverebbero un quadro opposto a quello della privacy che deve rispettare la dignità del morente. Né va dimenticata la condizione degli altri pazienti in condizioni gravi, nei cui confronti la pratica della sedazione profonda, utilizzata come modalità palliativa, potrebbe essere anticipata per affrettarne ingiustamente la morte. Vista la cosa dal punto di vista dello staff ospedaliero, l’introduzione del suicidio assistito rischia di trasformare il suicidio assistito da scelta esistenziale del paziente in una procedura che il sistema sanitario fornisce, in maniera equivalente alla cura a partire dal momento in cui tramonta la possibilità di prestare terapie efficaci[86].

Teitelman svolge in conclusione del suo scritto una riflessione di etica pubblica assai pregnante. L’ospedale è, nella considerazione contemporanea, un luogo che suscita reazioni ambivalenti. Per un verso è visto, come nella tradizione della cristianità occidentale, alla stregua di un luogo di cura e di assistenza, ove le energie dei medici e del personale infermieristico sono spese per il bene del malato; per un altro verso, però, in conseguenza della trasformazione aziendalistica del sistema sanitario, si sono scatenate tensioni sempre più vive dei familiari del malato per la scarsa qualità e quantità delle terapie e dell’assistenza, spesso motivate da accuse al personale sanitario di ricercare il profitto economico e il successo personale, piuttosto che di prestare l’attenzione dovuta ai malati. L’introduzione del suicidio assistito rischierebbe di trasformare l’ospedale lungo la linea di degrado sopra evocata. L’ospedale rischierebbe di passare, nell’immaginario collettivo, soprattutto di coloro che nutrono sfiducia, per la loro marginalizzazione sociale, nelle istituzioni, come il luogo nel quale alcuni sono uccisi dagli altri per il loro tornaconto sotto l’auspicio dello Stato[87].

 

  1. L’autodeterminazione nel quadro dei valori costituzionali. – Poiché nella realtà l’autodeterminazione autoreferenziale non esiste, in quanto costituisce il frutto di un individualismo ideologico che nega i limiti della condizione umana – nega, soprattutto, l’essenziale finitudine umana –, è evidente che la Costituzione repubblicana, nata in un’epoca storica che ha conosciuto l’incontro tra il solidarismo cristiano e le aspirazioni all’uguaglianza dei movimenti di matrice socialista, non accoglie in modo acritico e indiscriminato il principio dell’autodeterminazione personale. Né si è formato con il tempo alcun ‘diritto vivente costituzionale’ che abbia modificato i princìpi fondamentali della Carta. Piuttosto, essa inserisce l’autodeterminazione all’interno di un quadro complessivo di valori guidati dal principio della dignità oggettiva, senza discriminazioni di sorta, dell’uomo, considerato “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2 Cost.)[88].

Con realismo ontologicamente fondato, la Costituzione contempla, pertanto, in stretta relazione tra loro, i diritti fondamentali con i doveri di solidarietà a livello politico, economico e sociale. La stretta correlazione tra i diritti e i doveri postula un principio superiore, quello sorgivo della dignità, che rinvia al fondamento comune dei diritti e dei doveri, proclamato al 1° comma dell’art. 3 Cost..

La dignità non è forgiata dalla libertà. E’ vero il contrario. Come dice Antonio Ruggeri: “Una libertà senza limiti è infatti…una “non libertà”, costituzionalmente non riconoscibile e storicamente non riconosciuta, altrimenti scadendo e snaturandosi in licenza o arbitrio. Diversamente, una dignità soggetta a limiti sarebbe una contradictio in adiecto”[89]. La volontà della persona svolge certamente un ruolo di primaria importanza nelle vicende della vita; essa però va incontro a limiti “secondo quanto è proprio di ogni diritto (o più in genere, valore) fondamentale (eccezion fatta, appunto, della dignità)”[90]. Se l’autodeterminazione venisse prima della dignità, la misura di quest’ultima varierebbe da uomo a uomo e condurrebbe allo smarrimento della stessa dignità[91]. La dignità invece è indisponibile[92].

Sul piano costituzionale la dignità umana è valore fondamentale, richiamato oltre che nel già visto art. 3, 1° co., che fonda l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge sulla “pari dignità sociale”, anche nell’art. 41, 2° co., che configura la dignità umana come limite all’iniziativa economica privata.  Né vanno dimenticati l’art. 27, 3° co. alla cui stregua le pene non possono consistere in “trattamenti contrari al senso di umanità” e il 4° co., che vieta in modo assoluto la pena di morte. L’art. 22 stabilisce che nessuno può essere privato, per motivi politici “della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”; l’art. 698, 1° co. del codice di rito penale vieta la consegna della persona “quando vi è ragione di ritenere che l’imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a trattamenti crudeli, disumani o  degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona”.

Nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, che oggi ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati, per effetto dell’art. 6, n. 1 del Trattato sull’Unione Europea[93], la “dignità della persona umana non è soltanto un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali”[94]. Le spiegazioni predisposte dal Presidium della Convenzione Europea che aveva redatto la Carta e che ne costituiscono uno strumento di interpretazione focalizzano nella dignità il valore fondante dei diritti fondamentali. Come conseguenza: “che nessuno dei diritti sanciti nella presente Carta può essere usato per recare pregiudizio alla dignità altrui e che la dignità umana fa parte della sostanza stessa dei diritti sanciti nella Carta”[95].

La dignità della persona, come qualcosa di originario che connota l’umanità dell’uomo, che non è data da una norma e che non consegue a un antecedente empirico, spetta all’uomo per la semplice “novità” di essere venuto al mondo[96]. L’uomo, insignito di questa dignità originaria, che lo rende autonomo e artefice del proprio destino, deve al contempo meritarla come oggetto del compito inderogabile che sostiene l’intera sua vita contro il Gestell economico-tecnologico e contro gli innumerevoli idola che si ergono continuamente nell’esistenza sopra, accanto e contro di lui. Assai pregnante è il rilievo di Giampaolo Azzoni, secondo cui la dignità umana va vista “non solo come limite all’autodeterminazione, ma, insieme, come modo dell’autonomia, cioè di una volontà libera (non eteronoma e non contraddittoria) che consideri la persona nella sua integrità e non la riduca ad una sua parte”[97].

Se la dignità si esaurisse nell’autodeterminazione, secondo l’assunto di Dworkin per cui la dignità esprimerebbe la coerenza delle scelte di vita[98] scaturenti dall’autodeterminazione individuale, affiorerebbero immediatamente tre aporie insolubili: i) la prima, concernente la contraddizione dell’uomo tra sé e sé, perché soltanto ipoteticamente e dall’esterno si potrebbe individuare quale sia l’atto di autodeterminazione che conferirebbe integrità alla molteplicità innumerevole delle autodeterminazioni dell’uomo nella sua esistenza; ii) la seconda, concernente l’introduzione di una radicale disuguaglianza delle persone tra loro, perché sarebbero portatrici di dignità soltanto le persone capaci di una pura e trasparente autodeterminazione, e non quelle che di ciò non sono capaci, o assolutamente, per l’incapacità di intendere, o parzialmente, per le ferite inferte all’intelletto e alla volontà dalle occorrenze della vita; iii) la terza, concernente l’irrimediabile separazione che verrebbe eretta tra ciascun uomo e tutti gli altri uomini e tra ciascuno e ogni singolo altro uomo, con la rottura del vincolo ontologico che avvince gli esseri umani tra loro in una solidarietà intragenerazionale e transgenerazionale.

La dignità umana implica dei limiti all’autodeterminazione individuale. Questi limiti sono suscettibili di un giudizio, in una certa misura discrezionale, che spetta pronunciare alla prudenza politica delle istituzioni responsabili del governo della società alla luce del principio statuito dall’art. 1 della Costituzione repubblicana. Sussiste però un nucleo essenziale di atti contro gli altri e anche contro di sé contrari alla dignità umana che possono – e talora debbono – essere stigmatizzati come contrari al diritto e alla giustizia. Tra questi, la dazione di se stessi in schiavitù, l’automutilazione[99], l’esposizione ad atti di sadismo sessuale, la vendita di organi del corpo che rendono la persona priva dell’indispensabile funzionalità personale e sociale e, infine, la vita stessa. La dignità umana è un limite all’autodeterminazione: essa non è disponibile perché la “dignità umana è ciò che deve essere prima di tutto attribuito all’uomo perché all’uomo originariamente appartiene”[100] [101]

 

[1] Per una visione filosofica unitaria ragionata dei due temi v. R. Spaemann, Death-suicide-euthanasia, in The Dignity of the Dying Person. Proceedings of the fifth Assembly of the Pontifical Academy for Life (Vatican City, 24-27 February 1999), edited by J.D.V. Correa, E. Sgreccia, Roma, 2000, 123 ss.; per la posizione filosofica opposta v. C.A. Viano, Ragioni e modi dell’eutanasia, in Bioetica, 2/2003, 206-215. Per una presentazione del tema dell’aiuto al suicidio versus omicidio del consenziente F. Mantovani, Aspetti giuridici dell’eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988. 448 ss.; Id. Suicidio assistito: aiuto al suicidio od omicidio del consenziente?, in Giust. pen., 2017, 31-41; L. Cornacchia, Algunas Reflexiones en torno al suicidio y la eutanasia, in Cuadernos de politica criminal, 83, Madrid, 2004, 91-116; Id., Vittima ed eutanasia, in Aa.Vv., Ruolo e tutela della vittima in diritto penale, a cura di E. Venafro e C. Piemontese, Torino, 2004; G. Duttge, Sterbehilfe aus rechtsphilosophischer Sicht, in Goltdammer’s Archiv für Strafrecht, 2001, 158 ss.;K. Engisch, Suizid und Euthanasie nach deutschen Recht, in A. Eser (Hrsg.), Suizid und Euthanasie als human und sozialwissenschaftliches Problem, Stuttgart, 1976, 312 ss.; G. Jakobs, Zum Unrecht der Selbsttötung und der Tötung auf Verlangen – Zugleich zum Verhältnis von Rechtlichkeit und Sittlichkeit, in Festschrift für Arth. Kaufmann zum 70, Geburstag, 1993, Heidelberg, 459 ss.; A. Kaufmann, Euthanasie Selbsttötung Tötung auf Verlangen, in Medizinrecht, 1983, 121 ss.

[2] Cfr. N.M. Gorsuch, The future of Assisted Suicide and Euthanasia, Princeton, 2006: specificamente per il tema dell’autonomia: 86-101; per il tema dell’utilitarismo: 102-142. Per contributi recenti in lingua anglosassone v. C. Paterson, Assisted Suicide and Euthaanasia, Burlington, 2008; K. Yuill, Assisted Suicide. The Liberal, Humanist Case Against Legalization, New York, 2015.

[3] Ibidem, 102.

[4] Il termine eugenics compare per la prima volta nel volume di F. Galton, Inquiries Into Human Faculty and Its Development, Londra, 1883. Galton, cugino di Darwin, è considerato l’iniziatore dell’eugenismo moderno, su cui cfr. D.J. Kevles, In the Name of Eugenics. Genetics and the Uses of Human Eredity, Berkeley, 1986, con amplissima bibliografia, cui si rinvia.

[5] Nel 1938 fu fondata l’ESA: Euthanasic Society of America. Sulla storia del movimento in America v. I. Dowbiggin, A Merciful End. The Euthanasia Movement in Modern America, New York, 2003. Il movimento ebbe negli Stati Uniti e, più in generale, nel mondo di lingua anglosassone, una portata vastissima, coinvolgendo personalità con spiccate qualifiche scientifiche e con una disponibilità immensa di risorse economiche. Per quanto non sia semplice ricondurre a unità le varie tendenze che confluirono nell’ESA e ne resero notevole l’influenza nel mondo anglosassone, merita segnalare la centralità di una sorta di ‘religione naturalistica’, imperniata sull’idea dell’autoliberazione dell’umanità grazie alla scienza. Tra i suoi maggiori esponenti vanno ricordati Charles Francis Potter (The Preacher and I: An Autobiography, New York, 1951, e Creative Personality: The next step in Evolution, New York, 1950) e Inez Celia Philbrick, che ebbe un ruolo decisivo nel fare avanzare la causa dell’eutanasia nel XX secolo (Inez C. Philbrick, 70, Fights for the First Mercy-Killing Law; Further Reflections on Euthanasia, citati in Dowbiggin, n. 41 e 46: 45-50 di A Merciful, cit.).

[6] Così I. C. Philbrick, “Further Reflections on Euthanasia”, citata da I. Dowbiggin, A Merciful End, cit., 47.

[7] Per una narrazione dell’eutanasia all’interno del progetto genocidario nazionalsocialista v. per tutti H. Friedlander, The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia to the Final Solution, Chapel Hill and London, 1995.

[8] Come è noto, a differenza della legge sulla sterilizzazione («Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses» promulgata il 25 luglio 1933) il decreto relativo all’eutanasia non rientrò strettamente nello schema della legalità formale. Emanato nell’ottobre del 1939 e retrodatato al 1 settembre per connetterlo direttamente al giorno dello scoppio della seconda guerra mondiale, fu giustificato in base al potere del Führer di vita e morte nel Terzo Reich. Il decreto affidava al dr. Karl Brandt, medico personale di Hitler, “la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, i quali devono essere designati per nome, perché ai pazienti incurabili secondo il miglior giudizio umano disponibile (menschlichem Ermessen) del loro stato di salute possa essere concessa una morte pietosa (Gnadentod)” (cfr. Doc. 630-PS, Nuremberg Medical Case, I, 893, citato in R.J. Lifton, The Nazi Doctors, tr. it. I medici nazisti, Milano, 1988, 91; G. Aly, Die Belasteten. »Euthanasie« 1935-1945. Eine Gesellschaftsgeschichte, Frankfurt am Main, 2013, tr. it. Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista 1939-1945, Torino, 2017). La narrazione eutanasica utilitaristica in Germania ha avuto peraltro una lunga storia al cui centro sta il famoso scritto da K. Binding e A. Hoche, Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens. Ihr Maß und ihre Form, Leipzig, 1920. Su di essa cfr. M. Ronco, voce Eutanasia , in Digesto discipline pen., Torino, 2010, 226-246.

[9] Cfr. R. Weikart, Darwinism and Death: Devaluing Human Life in Germany, 1859-1918, Berkeley, maggio 2000. L’incontro ebbe peraltro origine nel mondo anglosassone, come sopra visto sub n. 3.

[10] Spiega con chiarezza il cambiamento di prospettiva Dowbiggin, A Merciful, cit., 63-96. Sulla qualità della vita v. M. Faggioni, La qualità di vita e la salute alla luce dell’antropologia cristiana, in Pontificia Academia Pro Vita, Qualità della vita ed etica della salute. Atti dell’undicesima assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita (Città del Vaticano, 21-23 febbraio 2005), a cura di E. Sgreccia e I. Carrasco De Paula,  Città del Vaticano 2006; nonchè gli scritti degli autori seguenti tutti raccolti nello stesso volume: A. Serani-Merlo, P.P. Marin, B. Zegers Prado, La qualità della vita in geriatria, ivi, 171-177; P. Ventura-Juncá, La qualità di vita in medicina neonatale, ivi, 178-193; W. Póltawska, Menomazione mentale e valore della vita, ivi, 194-200; J. Lelkens, Qualità di vita in pazienti con tumore con prognosi infausta, ivi, 201-214; N. Simard, Qualità di vita e pazienti con AIDS, ivi, 215-226; L. Postiglione, Qualità di vita ed ambiente, ivi, 227-236; G.L. Gigli, M. Valente, Qualità di vita e stato vegetativo, ivi, 237-253.

[11] Molto rilevante è stato il dibattito che, a partire dal 1982, ha interessato la giurisprudenza e gli organi governativi e legislativi olandesi, e fino all’entrata in vigore della legge 10.04.2001, n. 137, che, a certe condizioni, non punisce più l’eutanasia consensuale e l’istigazione al suicidio. Questo dibattito è improntato da elementi tanto afferenti all’autodeterminazione quanto alla qualità della vita. Infatti, l’eutanasia e il suicidio assistito non sono punibili secondo la legge olandese allorché, ricorrendo il consenso del paziente, l’uccisione si avvalga del “parere del medico sulla qualità della vita”. Cfr. J. Keown, Further Reflections on Euthanasia in the Netherlands in the light of the Remmelink Report and the van der Maas Survey’ in Luke Gormally (ed) Euthanasia, Clinical Practice and the Law (The Linacre Centre, 1994) 229. Sull’eutanasia il dibattito olandese ha rivestito grande importanza. Se ne dà conto integralmente nei volumi J. Griffiths, A. Bood, H. Weyers, Euthanasia & Law in the Netherlands, Amsterdam, 1999 e J. Griffiths, H. Weyers, M. Adams, Euthanasia and law in Europe, London, 2008.Questi libri sono stati scritti da scienziati, medici e giuristi, che sostengono in modo argomentativamente approfondito l’eutanasia e il suicidio assistito. In qualche modo può dirsi che l’Olanda ha costituito nell’ultima parte del secolo scorso il laboratorio ove è stata sperimentata la via per legalizzare l’eutanasia e il suicidio assistito nel modo. V. la spiegazione nel prologo del volume di Griffiths et. al., Euthanasia & Law in the Netherlands, cit..

[12] P. Singer, Rethinking Life and Death, New York, 1996; tr. it., Ripensare la vita, Milano, 2000,, passim, sopratutto 166-223.

[13] J. Rachels, The end of Life. Eutanasia and Morality, New York, 1986.; Id. Uccidere, lasciar morire, e il valore della vita, in Bioetica, 1993, passim e, in specie, 277.

[14] L’interesse nel suicidio assistito può essere visto, dal punto di vista dei cambiamenti culturali e religiosi, intervenuti a partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, come frutto della tendenza di vedere la morte non più come “something that happens to you”, bensì come “something you do” (così M.P. Battin, Physician-Assisted Suicide. Safe, Legal, Rare?, in Physician Assisted Suicide. Expanding the Debate, ed. by M.P. Battin, R. Rhodes, A. Silvers, New York, London, 1998, 63..

[15] Anche se correttamente C. Roxin osserva che “se un essere umano vuole veramente morire si può inferire, con certezza assoluta, non dalla sua parola, cioè dal desiderio di essere ucciso rivolto a un altro, ma solo dalla sua attuazione, cioè dall’omicidio proprio” (C. Roxin, Der Schutz des Lebens aus der Sicht des Juristen, in H. Blaha, P. Gutjahr-Löser, E. Niebler, Schutz des Lebens Rechts auf Tod, München, 1978, 93.

[16] In concreto, ricorre il delitto di aiuto al suicidio tutte le volte in cui il dominio finalistico della condotta che cagiona la morte non sfugge al soggetto che si toglie la vita; ricorre, invece il delitto di omicidio del consenziente allorché tale soggetto perde il controllo del decorso esecutivo e la morte consegue all’intervento determinante del soggetto terzo. Cfr. in proposito la perspicua sentenza Cass., Sez. I, 6 febbraio 1998, n. 3147, Munaò, in Riv. it. med. leg., 2000, 569.

[17] Sulla normativa italiana relativa all’eutanasia e al suicidio assistito cfr. S. Canestrari, Bioetica e diritto penale. Materiali per una discussione, Torino, 2012; S. Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna, 2008; S. Canestrari, G. Cimbalo, G. Pappalardo (a cura di), Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, Torino, 2003; M.B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001; S. Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 670-727.

[18] Cfr. Proc. Rep. Milano, richiesta di archiviazione 23 maggio 2017; G.I.P. Milano, ordinanza 10 luglio 2017; Corte Ass. Milano, ordinanza 14 febbraio 2018. Fra i commenti: D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, in Dir. pen. cont., 2018, 7-8, 57-76; M. D’Amico, Sulla (il)legittimità costituzionale della norma penale che incrimina l’istigazione al suicidio: alcune considerazioni critiche a margine del caso Cappato, in Giur. pen. web, 2017, 11; A. Massaro, Il caso Cappato di fronte al giudice delle leggi: illegittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio?, in Dir. pen. cont., 14 giugno 2018; P. Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita. In attesa della Corte costituzionale nel caso Cappato, in Dir. pen. cont., 22 maggio 2018.

[19] La legge sulle DAT sembra porre nella assoluta disponibilità del paziente il rifiuto della alimentazione e idratazione. Sul punto criticamente, M. Ronco, Testamento biologico: è un diritto disporre sulla propria sorte?, in www.centrostudilivatino.it. Per un’interpretazione equilibrata L. Eusebi, Decisioni sui trattamenti sanitari o «diritto di morire»? I problemi interpretativi che investono la legge n. 219/2017 e la lettura del suo testo nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale dell’art. 580 c.p., in Riv. it. med. leg., 2018, 415-438.

[20] Il rifiuto dei trattamenti, sia chirurgici che farmacologici, non costituisce un implicito riconoscimento del diritto all’eutanasia. Infatti, il rifiuto dei trattamenti “…serve per limitare l’intervento di altri sul corpo della persona: vale cioè per impedire che un atto di forza come può essere un intervento chirurgico, possa trasformarsi in un atto di violenza. Dal punto di vista morale, il dovere di non intervenire sul corpo altrui senza il suo consenso si fonda sull’idea che il corpo altrui non è violabile perché esiste un nesso inscindibile tra l’essere persona umana e l’essere persona corporea. Ogni violenza fatta sul corpo è una violenza fatta sulla persona umana”, così A. Pessina, Eutanasia. Della morte e di altre cose, Siena, 2007, 41. Dal punto di vista giuridico il divieto di intervenire sul corpo altrui senza il consenso della persona è previsto all’art. 32, co. 2 Cost. Sul riconoscimento che è inammissibile sottoporre a un trattamento sanitario coattivo il paziente consapevole che rifiuti i trattamenti o le cure, la sensibilità delle posizioni dottrinali espresse stanno in un ventaglio che va dall’accentuazione del rifiuto di cure come espressione di un diritto soggettivo, perfetto e tendenzialmente assoluto (cfr. P. Veronesi, Il corpo e la Costituzione, Milano, 2007; M. Mori, Dal vitalismo medico alla moralità dell’eutanasia, in Bioetica, 1999, I; S. Rodotà, Il paradosso dell’uguaglianza davanti alla morte, in S. Semplici, Il diritto di morire bene, Bologna, 2002) a posizioni più prudenti e realistiche “attente a sottolineare la realtà effettiva del malato e dei suoi familiari, altamente fragili e condizionabili, anche soprattutto al momento della formazione della volontà e del consenso che è libero, se è informato, e se la comunicazione è effettivamente adeguata”, così G. Razzano, Dignità nel morire, eutanasia e cure palliative nella prospettiva costituzionale, Torino, 2014, 85-108; sul punto, in particolare, 91-92. V. in questa seconda prospettiva, A. Ruggeri, Le dichiarazioni di fine vita tra rigore e pietas costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, aprile 2009; L. Eusebi, Autodeterminazione e affidamento in ambito medico, in L’arco di Giano, 2013, 1, 57-65; A. Nicolussi, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, in Quad. cost., 2010, 269; M. Cartabia, Alcuni interrogativi su libertà e autodeterminazione, in Il diritto e la vita: un dialogo italo-spagnolo su aborto ed eutanasia, a cura di A. D’Aloia, Napoli, 2011. L’art. 32 del Codice di Deontologia medica sui Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili prevede che «1. Il medico tutela il minore, la vittima di qualsiasi abuso o violenza e la persona in condizioni di vulnerabilità o fragilità psico-fisica, sociale o civile in particolare quando ritiene che l’ambiente in cui vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, la dignità e la qualità di vita. […] 3. Il medico, in caso di opposizione del rappresentante legale a interventi ritenuti appropriati e proporzionati, ricorre all’Autorità competente […]»; l’art. 33 sulla Informazione e comunicazione con la persona assistita stabilisce che il medico «[…] 2. Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza […]». Cfr. pure il documento del Comitato Nazionale di Bioetica del 2008 per il quale «l’atto di rinuncia/rifiuto delle cure […] non deve appiattirsi sul solo livello formale, ma investire l’intero percorso relazionale fra paziente e medico». Sulla stessa linea la Guida del Consiglio d’Europa sul processo decisionale relativo ai trattamenti medici di fine vita, Consiglio d’Europa, dicembre 2014, in www.coe.int. Sul tema del rifiuto di cure cfr. l’importante dibattito sulla Riv.it. med. leg.del 2014 (483-591) con contributi di L. Eusebi, Introduzione al focus (I). Menomazioni gravi della salute: “Diritto di vivere” o “diritto di morire”? Questioni aperte circa le dichiarazioni di rifiuto delle terapie, ivi, 483-493, A. Vallini, Introduzione al focus (II). Il diritto di rifiutare le cure e i suoi risvolti: spunti per una discussione multidisciplinare, ivi, 495-503; A. Gargani, Jus imperfectum? L’esercizio del diritto di rifiutare le cure tra esigenze di garanzia e prospettive di riforma, ivi, 505-527; L. Cornacchia, Profili giuridico-penali del rifiuto delle cure, ivi, 529-546; S. Cacace, Il rifiuto del trattamento sanitario, a scanso d’ogni equivoco, ivi, 547- 561;  D. Rodriguez, Il rifiuto delle cure nella prospettiva del codice di deontologia medica: una guida per la pratica clinica?, ivi, 563-591.

[21] Sul punto v. Pessina, Eutanasia, cit., 25-40.

[22] Sul tema v. Scelte di confine in medicina. Sugli orientamenti dei medici rianimatori, a cura di A. Pessina, Milano, 2004, con contributi di A. Pessina, A. Giannini, E.M. Tacchi, A. Colombetti e con le raccomandazioni della SIAARTI (Raccomandazioni per l’ammissione e la dimissione dalla terapia intensiva e per la limitazione dei trattamenti in terapia intensiva).

[23] Il tema fu oggetto più di sessanta anni addietro del memorabile Discorso del Santo Padre Pio XII ai partecipanti al IX congresso della Società Italiana di Anestesiologia intorno a tre quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia, Roma, 24 febbraio 1957.

[24] Sul tema della futilità delle cure cfr. E. Pellegrino, Decision at the end of life: the use and abuse of the concept of futility, in The Dignity of the Dying Person, cit., 219-241. L’Autore sottolinea in particolare che la futilità non è un principio morale, bensì la specificazione empirica del principio di beneficienza, consistendo nella valutazione empirica secondo criteri probabilistici del risultato delle cure, del loro beneficio per il paziente e del peso che esse comportano per lui (ibidem, 225), Il concetto di futilità, che integra e completa i tradizionali criteri di ordinarietà/straordinarietà delle cure e proporzionatezza/sproporzionatezza, bilancia tra loro i tre criteri dell’efficacia del beneficio e del peso non in un modo di tipo matematico, bensì morale, tenendo conto che il giudizio circa l’efficacia ha carattere oggettivo, dipendendo dai dati scientifici e dal dominio di esperienza del medico; il giudizio circa il beneficio è di carattere soggettivo e si incentra sulla convinzione del paziente in ordine al suo proprio bene; il giudizio circa il peso riguarda i costi fisici, emotivi o sociali imposti al paziente dal trattamento. Questo giudizio è di carattere sia oggettivo che soggettivo, prevalentemente oggettivo per il medico, in ordine soprattutto agli aspetti fattuali; soggettivo e personale per il paziente (ibidem, 225-230). Sullo stesso tema cfr. pure E. Pellegrino, D.C. Thomasma. For the Patient’s Good, New York, 1987. Più in generale, S. Younger, Who Defines Futility?, in Journal of the American medical Association, 1988, 260, 2094-2095; The American Medical Association Council on Ethical and Judicial Affairs, Medical Futility in End-of-Life Care, Report of the Council on Ethical ancd Judicial Affairs, in Journal of the American medical Association, 1999, 281, 937-941.

[25] House of Lords Paper, 21-I of 1993-94, para 237.

[26] Ibidem, para 242-243.

[27] L’intenzione svolge un ruolo causale fondamentale nel passaggio  dal soggetto all’azione, costituendo, insieme alla presupposizione della libertà e alla persistenza di un fine, una parte rilevante del fenomeno della razionalità umana, così M. Ronco, Riflessioni sulla struttura del dolo, in Scritti Patavini, II, Torino, 2017, 1379-1380. Sul tema cfr. M.E. Bratman, Intention, Plans, and Pratical Reason, Cambridge, 1999, 128-138, nonché, più in generale, sulla razionalità umana al cui centro sta l’intenzione J.R. Searle, Rationality in Action, 2001, tr. it. La razionalità dell’azione, Milano, 2003. Sottolinea l’importanza di una rivalutazione dell’«Intent» e del «Double Effect Principle», N.M. Gorsuch, The future of Assisted Suicide and Euthanasia, cit., 53-57.

[28] Cfr. J. Finnis, A Philosophical Case Against Euthanasia, in J. Keown (ed.), Euthanasia Examined: Ethical, Clinical and Legal Perspectives, Cambridge, 1995, 26.

[29] Significativo è che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno evidenziato la centralità dell’intenzione anche con riferimento al dolo del tentativo e alla configurabilità nel tentativo del dolo eventuale: Cass., Sez. Un., 18 giugno 1983, in Giust. pen., 1983, II, 673.

[30] Cass., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 1925 ss., con commenti di G. Fiandaca, Le Sezioni Unite tentano di diradare il “mistero” del dolo eventuale e di M. Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo, nonché G. De Vero, Dolo eventuale e colpa cosciente: un confine tuttora incerto. Considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 77-94; M. Romano, Dolo eventuale e Corte di cassazione a sezioni unite: per una rivisitazione della c.d. accettazione del rischio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 559-588.

[31] Ibidem.

[32] Ronco, Riflessioni sulla struttura del dolo, cit., 1384.

[33] Ibidem, 1376-1377.

[34] Tra i filosofi contemporanei v. J. Finnis, A philosophical case, cit., 27.

[35] Giovenale, Satire, VIII, 83-84.

[36] Sulla esperienza della morte v. M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte nella cultura contemporanea, Milano, 2000; B. N. Schumacher, Confrontations avec la mort. La philosophie contemporaine et la question de la mort, Paris, 2005; E. Kübler-Ross, On Death and Dying, New York, 1969, tr. it. La morte e il morire, Assisi, 1996; G. Marchioro, Dentro il dolore. Psicologia oncologica e relazione d’aiuto, Milano, 2007; F. Ostaseski, Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte, Milano, 2006; F. Urso, A. Sapori, L’accompagnamento pastorale del morente e le cure di  fine vita, Roma, 2007.

[37] v. W.T. Reich, Abbattere le mura che isolano i morenti: per un’etica del prendersi cura, in Alle frontiere della vita. Eutanasia ed etica del morire/2°, Atti del convegno internazionale di studi  (Messina, 13-14 novembre 2001),  a cura di M. Gensabella Furnari, Soveria Mannelli, 2003, 35-52.

[38] Nel dibattito filosofico contemporaneo il tema è stato posto soprattutto da H. Jonas, tr. it. Il diritto di morire, a cura di P.P. Portinaro, Genova 1991; Id., Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung. Frankfurt/M., Insel, 1985, tr. it. Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, a cura di P. Becchi, Torino, 1997. Il tema è connesso alle potenzialità dell’uomo tecnologico capace, secondo Jonas, di abbattere i confini della natura e ancor più della fede: Id., Philosophical Essays: From the Ancient Creed to Technological Man, Chicago, 1974, tr. it. Dalla fede antica all’uomo tecnologico, a cura di A. Dal Lago, Bologna, 2001. Sui rischi dell’asserito “diritto” di morire, L. Eusebi, Dignità umana e indisponibilità della vita. Sui rischi dell’asserito “diritto” di morire, in Bioetica e dignità umana. Interpretazioni a confronto a partire dalla Convenzione di Oviedo, a cura di E. Furlan, Milano, 2009, 203-220; M. Portigliatti Barbos, Diritto a morire, in Digesto pen., IV, Torino, 1990, 1; in senso contrario: S. Seminara, Sul diritto di morire e sul divieto di uccidere, in Dir. pen. proc., 2004, 533; Todini Cagli, Riflessioni in tema di diritto di morire con dignità e di aiuto a morire, in Giust. pen., 2000, II, 193; problematicamente v., con riferimento al caso Welby, F. Viganò, Esiste un “diritto a essere lasciati morire in pace”? Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 2007, 5. Per la considerazione dell’antigiuridicità del suicidio, V. Vitale, L’antigiuridicità strutturale del suicidio, in Riv. int. fil. dir., 1983, ; A. R. Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, Milano, 2017.

[39] Per tutti G. Rocchi, Coscienza senza diritti? Obiezione di coscienza: quadro nazionale e prospettive, Intervento al Convegno del Centro Studi Livatino, Roma  21 ottobre 2016, in www.centrostudilivatino.it.

[40] Così S. Cotta, Aborto ed eutanasia: un confronto, in Diritto Persona Mondo Umano, Torino, 1989, 234-235.

[41] Così pure Cotta, Persona, ivi, 80-81.

[42] D. Messinetti, voce «Personalità (diritti della)», in Enc. del dir., XXXIII, Milano, 1982, 362.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] Ibidem.

[46] D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, in Diritto penale contemporaneo, 7/2018, 75.

[47] Gesetz zur Strafbarkeit der geschäftsmäßigen Förderung der Selbsttötung vom 03.12.2015, in Bundesgesetzblatt Jahrgang, 2015, Teil I, Nr. 49, ausgegeben am 09.12.2015, Seite 2177(BGBl. I S. 2177).

[48] G. Duttge, Die „geschäftsmäßige Suizidassistenz“ (§ 217 StGB): Paradebeispiel für illegitimen Paternalismus!,

[49] M. Kubiciel, Zur Verfassungskonformität des § 217 StGB, in ZIS 6/2016.

[50] Sulla tematica del paternalismo, sviluppata da J. Feinberg in scritti ripetitivi, cui hanno attinto abbondantemente le teoriche liberali contemporanee del diritto penale, cfr, Id, Legal Paternalism, in Canadian Journal of Philosophy, 1, 1971, 106-124; Id., Harm to Self, Oxford University Press, 1986. Naturalmente, a monte di Feinberg, conviene soffermarsi su J. S. Mill,  On Liberty, London, 4° ed., 1869 e, a valle su R. Dworkin, Paternalism, in The Monist, 56, 1972, 64-84.

[51] Corte Ass. Milano, ordinanza 14 febbraio 2018.

[52] Così, sia pure implicitamente, Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, cit., 61: “La possibilità di un discorso morale tra persone, relativo a rapporti tra persone, poggia sul riconoscimento degli altri come persone umane, di pari dignità e di pari diritti”.

[53] I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Akademieausgabe Bd. IV, 421 s.; Id., Metaphysik der Sitten, Rechtslehre, Einleitung, VI, 240 s. Anche Tommaso d’Aquino riconosce sussistente un dovere giuridico dell’uomo verso se stesso, anche se, con precisazione acutissima, chiarisce che, laddove si contrappongano nell’uomo, come nel suicidio, l’agente e il paziente, si può parlare di una giustizia verso se stessi soltanto per analogia, poiché il diritto è essenzialmente relatio ad alterum: “Cum vero aliquis agit quod in bonum proprium vel malum vergit […] licet non debeatur ei retributio inquantum est bonum vel malum singularis personae, quae est eadem agenti, nisi forte a seipso secundum quandam similitudinem, prout est iustitia hominis ad seipsum”(T. d’Aquino, Summa Theologiae, Prima Secundae, Q. 21, A.3, R). Sulla condanna del suicidio da parte di Kant dalla Fondazione della metafisica di costumi (1785) in avanti cfr. il volume Sull’etica del suicidio. Dalle Riflessioni e Lezioni di Immanuel Kant con i Preparativi di un infelice alla morte volontaria di un Anonimo del Settecento, a cura di A. Aportone, Firenze, 2003.

[54] Sul tema cfr. il commento del penalista germanico di ispirazione kantiana di M. Köhler, Die Rechtspflicht gegen sich selbst, in Jahrbuch für Recht und Ethik / Annual Review of Law and Ethics Vol. 14, 2006, 425-446, spec. 438-439: “Rechtslogisch ist das äußere Handlungsverhältnis also nicht erst interpersonal zu definieren, sondern intern äußerlich (oder: intrapersonal) im Verhältnis der Person zu sich […] verletzt es aber einheitlich, sowohl die ethische Pflicht der Selbsterhaltung, als auch und vorrangig die Rechtspflicht im Selbstverhältins. Selbstbestimmung (Autonomie) als handelnd-gesetzgebend ist nicht anders denkbar als unter Voraussetzung ihres leiblich-geistigen Potenzials in menschlicher Individualität; sich dagegen zu wenden, ist deshalb als Akt erlaubter Selbstbestimmung ausgeschlossen“.

[55] A. Spena, Esiste il paternalismo penale? Un contributo al dibattito sui principi di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 1209-1248. Sul tema v. anche M. Romano, Danno a se stessi, paternalismo legale e limiti del diritto penale, in A. Cadoppi (cur.), Laicità, valori e diritto penale, Milano, 2010; D. Pulitanò, Paternalismo penale, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011.

[56] Cfr. in particolare Spena, Esiste il paternalismo, cit., 1219-1222.

[57] Così Finnis, A philosophical case, cit., 33-34.

[58] I dati statistici relativi all’Olanda e al Belgio sono indiscutibilmente indicativi di un aumento crescente delle pratiche di morte ‘legale’ nel corso degli anni. Focalizzando l’attenzione sull’Olanda, i dati statistici denunciano chiaramente l’incremento quantitativo e, soprattutto, il trend in salita. Dal 2001 al 2010, nei primi 9 anni di vigenza della legge, l’aumento è stato relativamente moderato. Si passa infatti dai 1882 casi del 2002 ai 3136 casi del 2010. Dal 2010 al 2016 la crescita è, invece,  impressionante. Il numero dei soggetti uccisi su richiesta o suicidatisi con l’aiuto di un terzo è raddoppiato. In 6 anni si è passati dai 3136 casi del 2010 ai 6091 casi del 2016, fino a toccare la percentuale del 4% sul numero totale di morti. Le pratiche di morte concernono anche i minori. Come noto, essi sono abilitati, a partire dall’età di 12 anni, a richiedere l’eutanasia o il suicidio assistito. Fino all’età di 16 anni è richiesta anche l’approvazione  dei genitori o del tutore. Dall’età di 18 anni i giovani hanno il ‘diritto’ di richiedere l’eutanasia senza il loro coinvolgimento. Le statistiche pubblicate confermano  il verificarsi di un impressionante ‘pendio scivoloso’  che conduce alla generalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Conferme importanti si ricavano dall’estensione qualitativa dei casi di eutanasia e di suicidio assistito. Il tema cruciale riguarda la soppressione delle persone incapaci di intendere e di volere e dei malati psichici. I casi ad essi relativi compaiono nelle statistiche soltanto a partire dal 2012 e dal 2013. Poi divengono sempre più frequenti. Nel 2012 in Olanda ricorrono 42 casi di demenza e 14 casi di disordini psichiatrici; nel 2013, 97 di demenza e 42 di disordini psichiatrici; nel 2014, 81 di demenza e 41 di disordini psichiatrici; nel 2015, 109 di demenza e 56 di disordini psichiatrici; nel 2016, 141 casi di demenza e 60 di disordini psichiatrici. In Belgio non compaiono casi di disturbi mentali o del comportamento fino al 2013. Nel 2014 ricorrono 61 casi, e nel 2015, 63 casi. L’eutanasia dei malati psichici è il punto di passaggio decisivo dalle soppressioni fondate sul principio dell’assoluta ‘autodeterminazione’ a quelle fondate sul principio della ‘qualità della vita’. Invero, i soggetti non più assistiti dalla piena coscienza fruirebbero di un’esistenza non più meritevole di essere vissuta. Dunque, potrebbero e dovrebbero essere uccisi, anche se non risulta la loro volontà attuale di morire. A questo scopo soccorrono le Disposizioni Anticipate di Trattamento. Il percorso verso la generalizzazione, quantitativa e qualitativa, dell’eutanasia e del suicidio assistito è destinato ad avanzare fino all’equiparazione del diritto alla vita con il ‘diritto alla morte’. L’obiettivo è di cancellare il requisito legislativo relativo all’esistenza di una malattia, fisica o anche psichica, che provoca sofferenze insopportabili al malato.  I ministri della sanità e del benessere, nonché della sicurezza e della giustizia hanno inviato al Parlamento il 12 ottobre 2016 una lettera che espone l’intento del governo olandese di includere nella legge un supplemento vòlto a garantire il suicidio assistito “for people who regard their life as completed” (Letter of 12 October 2016 from the Minister of Health, Welfare and Sport and the Minister of Security and Justice to the House of Representatives on the government position on ‘completed life’, in https://www.government.nl/documents/letters/2016/10/12/the-government-position-on-completed-life). La prospettiva è di estendere il ‘diritto alla morte’ a coloro la cui sofferenza non ha alcuna dimensione medica. Infatti il sistema attuale non offre alcuna possibilità per coloro che considerano la loro vita come compiuta e che desiderano la morte. Il governo olandese intende rispondere alla domanda crescente di coloro che “want to be able to end their lives with dignity and at a time of their own choosing if life has become unbearable for them” (ibidem). La durata della vita, infatti, è cosa buona per molti, “but not for everyone” (ibidem). Se la persona non ha più prospettive di vita e nutre il desiderio di morire, “the rationale underlying the protection of human life comes under pressure, because life no longer has any value for them” (ibidem). L’autonomia individuale correrebbe il rischio di diventare un concetto vuoto “if an individual who regards their life as completed cannot end their life without the help of other people while at the same time those other people are prohibited from offering help” (ibidem). La conclusione della proposta è la cancellazione completa del divieto dell’assistenza al suicidio. L’attenzione dovrebbe essere spostata dall’atto di colui che uccide alla volontà di colui che vuole essere ucciso. Questo è il diritto fondamentale, che lo Stato ha l’obbligo di garantire. Infatti: “The government aspires not only to acknowledge that right to autonomy, but also to give it practical form so that we can do justice to a legitimate and growing wish that deserves our attention” (ibidem). Il ‘diritto alla morte’ postula un correlativo dovere di uccidere. Per maggiori approfondimenti cfr. M. Ronco, ‘Pendio scivoloso’, in www.centrostudilivatino.it.  Già nel 1995 era anticipato il tema del piano inclinato: cfr. J. Keown, Euthanasia in the Netherlands: sliding down the slippery slope?, in Euthanasia examined, cit., 261-296; sul piano logico v. Y. Kamisar, Physician-Assisted Suicide: the last bridge to active voluntary euthanasia, ivi, 225-260.

[59] Sull’incongruità di una distinzione aprioristica tra una bioetica religiosa e una bioetica laica, che darebbe un’impronta diversa alle scelte giuridiche sul fine vita, si è pronunciato recentemente Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, cit., 64. La contrapposizione è in G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, 2009. Sul piano giuridico impernia impropriamente il tema dell’eutanasia sul contrasto tra “etica della sacralità della vita” ed “etica della qualità della vita”, C. Tripodina, Il diritto nell’età della tecnica. Il caso dell’eutanasia, Napoli, 2004.

[60] Così C. Vigna e S. Zanardo, Prefazione a AA.VV., La Regola d’oro come etica universale, a cura di C. Vigna e S. Zanardo, Milano, 2005, XI, nel volume vanno segnalati, per le implicazioni sui temi oggetto del presente scritto, B. De Mori, La reciprocità ‘per il bene’ come luogo di incontro tra i diritti e la Regola d’oro, ivi, 579-609 e G. Zanini, La Regola d’oro e il rapporto medico-paziente, ivi, 611-621.

[61] V. la decisione in Physician Assisted Suicide. Expanding the Debate edited by M.P. Battin, R. Rhodes and A. Silvers, New York and London, 1998, Appendix A, 377-427.

[62] Ibidem, 385.

[63] Ibidem, 386.

[64] Ibidem, 387.

[65] Ibidem, 387.

[66] Ibidem.

[67] Ibidem, 388.

[68] Ibidem, 389.

[69] R. Dworkin, Life’s Dominion, New York, 1994.

[70] Ibidem, 179-180

[71] Physician Assisted Suicide, cit., Appendix C, The Philosopher’s Brief, 431-441.

[72] I predetti filosofi morali e politici, pur proclamando di professare opinioni diverse su svariati aspetti concernenti la moralità pubblica e la politica, esprimono la loro unità, tuttavia, “in their conviction that respect for foundamental principles of liberty and justice, as well as for the American Constitutional tradition, requires that the decisions of The Court of Appels [che aveva ritenuto la legge dello Stato di Washington contraria al 14° Emendamento] be affirmed”. Così nell’introduzione alla lettera spedita nell’Interest of the Amici Curiae, in Physician Assisted Suicide, cit., Appendix C, 431.

[73] Corte Ass. Milano, ordinanza 14 febbraio 2018.

[74] Così P.S. Mann, Meanings of Death, in Physician Assisted Suicide, cit., 20.

[75] La legalizzazione presenta rischi particolari per gli anziani (v. L. Pickering Francis, Assisted Suicide. Are The Elderly a Special Case?, in Physician Assisted Suicide, cit., 75-90) e per i disabili (v. J. Bickenbach, Disability and Life-Ending Decisions, ivi, 123-132, nonché A. Silvers, Protecting the Innocents from Physician-Assisted Suicide, ivi, 133-148 e F. Ackerman, Assisted Suicide, Terminal Illness, Severe Disability, and the Double standard, ivi, 149-161).

[76] P.S. Mann, Meanings of Death, cit., 19.

[77] La fenomenologia della degradazione antropologica riferita nel testo è ampiamente ispirata dallo scritto di Patricia Mann, citato alla n. 73, 19-25.

[78] Così ibidem.

[79] Ibidem, 21.

[80] V. M. Matthews Jr., Would Physician-Assisted Suicide. Save the Healthcare System Money?, in Physician Assisted Suicide, cit., 312-322.

[81] Ibidem, 22.

[82] M. Teitelman, Not in the House. Arguments for a Policy of Excluding Physician-Assisted Suicide from the Pratice of Hospital Medicine, in Physician Assisted Suicide, cit., 203-222.

[83] Il nesso tra malattia, depressione e  propensione al suicidio è stata descritta ampiamente nella letteratura medica. La depressione, sotto diagnosticata già nella popolazione comune, è di difficile diagnosi soprattutto tra i pazienti affetti da patologie gravi per la sovrapponibilità dei criteri diagnostici che la concernono con i sintomi della malattia di base del paziente: scarsa energia, perdita di appetito e di peso, disturbi del sonno, fragilità nella concentrazione e disturbi della malattia a breve termine. Cfr. H.M. Chochinov, K.G. Wilson, M. Enns, e S. Lander, Prevalence of Depression in the Terminally Ill: Effects of Diagnostic Criteria and Symptom Threshold Judgments“, in American Journal of Psychiatry, 151 (4), 1994, 537-540.

[84] M. Teitelman, Not in the House, cit., 208-210.

[85] Ibidem, 211-213.

[86] Ibidem, 213-217.

[87] Ibidem, 217-218, in particolare il punto in cui Teitelman osserva che l’introduzione del suicidio assistito nella pratica ospedaliera rischierebbe di dare la percezione sociale dell’ospedale “as a locus in which some people are killed by others for someone else’s benefit” (217).

[88] Sulla dignità umana nella nuova disciplina della bioetica v. E. Furlan, Dignità umana e bioetica: risorse e problemi di una nozione fondamentale, in Bioetica e dignità umana, cit., 7-54; A. Bompiani, La genesi della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina: una ricostruzione storica, ivi, 57-75; R. Andorno, La tutela della dignità umana: fondamento e scopo della Convenzione di Oviedo, ivi, 77-109; P. Becchi, Il dibattito sulla dignità umana: tra etica e diritto, ivi, 113-142; M. Reichlin, Dignità umana: ragioni di un paradigma morale, ivi, 143-161, il quale, riaffermando la rilevanza del teorema della dignità umana, mette in guardia dal collegarlo a prospettive che pecchino di un ingenuo naturalismo ovvero a una immagine esclusivamente biologica e non dinamica della natura umana. A beneficio dei giuristi Reichlin insegna che tale teorema non deve essere invocato in funzione immediatamente normativa, bensì in un complesso esplicativo che pone in correlazione la dignità con i princìpi giuridici pure rilevanti nei singoli casi (161).

[89] A. Ruggeri, Appunti per uno studio sulla dignità dell’uomo, secondo diritto costituzionale, in Rivista telematica giuridica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 1/2011, 3. Contra G. Gemma, Dignità umana: un disvalore costituzionale?, in Quad. cost., 2/2008, 379 ss; sulla stessa linea L. Risicato, Dal “diritto di vivere” al “diritto di morire”. Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Torino, 2008 e G. Fiandaca, Il diritto di morire tra paternalismo e liberalismo penale, in Foro it., 6/2009, V, 227 ss..

[90] Ruggeri, Appunti, cit., 5.

[91] Ibidem. V. anche M.A. Glendon, Il fondamento dei diritti umani: il lavoro incompiuto, ora in Id., Tradizioni in subbuglio, a cura di P.G. Carozza e M. Cartabia, Soveria Mannelli, 2007, 98, secondo cui “i diritti umani sono fondati sul dovere di ciascuno di portare a compimento la propria dignità, che a sua volta obbliga a rispettare la ‘donata’ scintilla di dignità presente negli altri, qualunque cosa costoro ne abbiano fatto”. V. anche R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, Torino, 2011; in particolare sulla connessione della dignità con la questione dei diritti Id., Über den Begriff der Menschenwürde, in Id., Grenzen. Zur ethischen Dimension des Handelns, Stuttgart, 2001, 107-122. Nello stesso senso v. anche V. Mathieu, Privacy e dignità dell’uomo. Una teoria della persona, Torino, 2004, secondo il quale la dignità è il rapporto non oggettivabile della persona con la sua origine e con il suo fine spirituale (95). La tutela della dignità prevista dalla legge non è da… bensì per … . La dignità è il diritto della persona al pieno sviluppo del suo io intimo e profondo.

[92] In questo senso l’individuo privato della dignità soffre una “negazione della sua stessa umanità”: così G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; v. pure L. Eusebi, Dinnanzi all’ “altro” che ci è problema: l’ “incostituzionalità” di ogni configurazione dell’ “altro” come nemico, in Arch. giur., 4/2009, 433 ss., spec. 448 ss.

[93] Trattato sull’Unione Europea come modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, entrato in vigore dal 1 dicembre 2009.

[94] Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (2007/C303/02). Cfr. anche B. Malvestiti, Criteri di non bilanciabilità della dignità umana, relazione al Convegno Diritti fondamentali e diritti sociali, organizzato dall’Istituto di Storia, Filosofia e Diritto ecclesiastico e dall’Istituto di Studi storici dell’Università degli Studi di Macerata (22-23 novembre 2011).

[95] Sulla dignità nella Carta dei diritti fondamentali si vedano ex multis G. Monaco, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative, in La Politica del Diritto, 2011, 45 ss.; F. Sacco, Note sulla dignità umana nel «diritto costituzionale europeo», a cura di  S. Panunzio, I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, 2005, 596 ss.. Evidente è il riflesso nella Carta di Nizza del Grundgesetz tedesco del 1949, che all’art. 1 sancisce l’intangibilità della dignità dell’uomo e il dovere di ogni potere statale di rispettarla e proteggerla, riconoscendo altresì i diritti umani fondamentali e inviolabili come conseguenza della stessa dignità (cfr. T. Maunz–G. Dürig, Grundgesetz, Kommentar, Beck-online).

[96] Così Mathieu, Privacy e dignità, cit., 138.

[97] G. Azzoni, Dignità umana e diritto privato, in Ragion Pratica, 38/ giugno 2012,  93 ora in Id., Nomofanie. Esercizi di filosofia del diritto, 2° ed., Torino, 2018, 233-254.

[98] V. la critica alla tesi di Dworkin in A. Nicolussi, Rifiuto e rinuncia ai trattamenti e obblighi del medico,  in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 2897.

[99] Significativa è l’introduzione nell’ordinamento dell’art. 583 bis c.p. (art. 6, co. 1, L. 9 gennaio 2006 n. 7) del delitto denominato “Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili”.

[100] Azzoni, Dignità umana, cit., 96.

[101] L’esame di dottrina e giurisprudenza consente di riconoscere la prevalenza di un orientamento volto a riconoscere il principio secondo cui la dignità dell’uomo costituisce un limite invalicabile all’autodeterminazione soggettiva. Ex multis v. M. Levinet, Dignité contre dignité. L’épilogue de l’affaire du «lancer de nains»  devant le Comité des droits de l’homme des Nations Unies, in Revue trim. des droits de l’homme, 2003, 1024 ss.; M. Ailincai, Propos introductifs, in La Revue des droits de l’homme,  Édition électronique, 8/2015; G. Bernard, L’évolution de la notion de dignité en droit,  intervento al Convegno organizzato dall’Institut international de recherche en éthique biomédicale, Parigi, 5-6 dicembre 2007;  A.C. Aune, Le phénomène de multiplication des droits subjectifs en droit des personnes et de la famille, Aix-en Provence, 2007.