Giacomo Rocchi

Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

Relazione tenutasi al convegno Coscienza senza diritti?, svoltosi il 21 ottobre 2017 nell’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati per iniziativa del Centro Studi Rosario Livatino 

 

  1. Il quadro normativo nazionale

Una rapida panoramica della normativa nazionale dimostra eloquentemente che il Parlamento ha ammesso e regolamentato l’obiezione di coscienza in un ampio arco di tempo – dal 1972 al 2004, quindi per oltre trent’anni – con una scelta costante che è stata confermata in settori differenti, ogni volta che potevano sorgere problemi di coscienza derivanti dall’obbligo normativo di porre in essere una determinata condotta.

Come sappiamo, la legge 772 del 15 dicembre 1972 (di cui ci occupiamo per completezza, pur non essendo più vigente a seguito della cancellazione del servizio militare obbligatorio) ammise gli obbligati alla leva che dichiaravano di “essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza” a soddisfare l’obbligo del servizio militare con due diverse modalità: il servizio militare non armato e il servizio sostitutivo civile. La legge precisava che “i motivi di coscienza addotti dovevano essere attinenti ad una concezione generale basata su profondi convincimenti religiosi, o filosofici o morali professati dal soggetto“.

I giovani dovevano presentare una “dichiarazione/domanda”, nella quale, appunto, manifestavano la propria contrarietà all’uso personale delle armi; su di essa il Ministero della Difesa doveva decidere, “sentito il parere di una terza commissione circa la fondatezza e la sincerità dei motivi addotti dal richiedente“.

Sei anni dopo è stata la legge 22 maggio 1978, n. 194, che regola l’interruzione volontaria di gravidanza, a prevedere che il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non sia tenuto a prendere parte alle procedure abortive quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.

L’art. 9 della legge esonera gli obiettori di coscienza dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento; inoltre, l’obiezione di coscienza non può essere invocata quando, data la particolarità delle circostanze, il personale intervento del sanitario obiettore sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.

Il lungo arco di tempo – dal 1978 al 1993 – decorso fino all’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale, di cui parleremo subito dopo, non è, in realtà, uno spazio vuoto: negli anni ’80 del secolo scorso furono approvate le Intese tra lo Stato italiano e alcune confessioni religiose, nelle quali il tema della libertà di coscienza era esplicitamente evocato.

Segnalo, in primo luogo, l’Intesa del 27/2/1987 tra la Repubblica Italiana e l’Unione delle Comunità Israelitiche italiane, trasfusa nella legge n. 101 del 1989.

Nel Preambolo, la Repubblica Italiana e l’Unione delle Comunità israelitiche Italiane convenivano sull’opportunità dell’Intesa, richiamando “la Costituzione, che riconosce i diritti fondamentali della persona umana e le libertà di pensiero, di coscienza e di religione“, nonché “la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, la Dichiarazione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e di discriminazione basate sulla religione o sulle credenze del 25 novembre 1981, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, la Dichiarazione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1959, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 7 marzo 1966 e i Patti internazionali relativi ai diritti economici, sociali e culturali e ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, che garantiscono i diritti di libertà di coscienza e di religione senza discriminazione“; principi universali che “sono aspirazione perenne dell’ebraismo nella sua plurimillenaria tradizione“.

Su questi capisaldi, la legge 101 del 1989 riconosce agli ebrei “il diritto di osservare il riposo sabbatico” e le festività religiose ebraiche. Il riconoscimento incide direttamente sugli obblighi degli interessati: “gli ebrei dipendenti dallo Stato, da enti pubblici o da privati o che esercitano attività autonoma o commerciale, i militari e coloro che siano assegnati al servizio civile, sostitutivo, hanno diritto di fruire, su loro richiesta, del riposo sabbatico come riposo settimanale“, con previsione di recupero delle ore lavorative non prestate di sabato la domenica o altri giorni lavorativi e con l’unico limite delle “imprescindibili esigenze dei servizi essenziali previsti dall’ordinamento giuridico“.

Anche per l’obbligo di frequenza scolastica, la norma stabilisce che “si considerano giustificate le assenze degli alunni ebrei dalla scuola nel giorno di sabato su richiesta dei genitori o dell’alunno se maggiorenne“. La legge prevede anche il diritto degli ebrei “di osservare le prescrizioni ebraiche in materia alimentare“.

La libertà di coscienza è evocata anche con riferimento all’insegnamento nelle scuole pubbliche che “è impartito nel rispetto della libertà di coscienza e di religione e nella pari dignità dei cittadini senza distinzione di religione” (art. 11), con esclusione di “ogni ingerenza sulla educazione e formazione religiosa degli alunni ebrei“, con un evidente richiamo al diritto delle famiglie all’educazione dei figli.

Anche l’Intesa tra lo Stato e l’Unione italiane delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno, del 29/12/1986, trasfusa nella legge 22 novembre 1988, n. 516, contiene disposizioni significative: viene ribadito il diritto all’obiezione di coscienza all’uso delle armi, la libertà di coscienza nell’insegnamento e il diritto per gli appartenenti alle Chiese cristiane avventiste di osservare il riposo sabbatico biblico con le identiche modalità riconosciute per le Comunità ebraiche.

Nel 1993 venne approvata la legge 413, contenente “Norme sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale“.

L’articolo 1 enuncia solennemente il diritto all’obiezione di coscienza: “I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà  di  pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e  politici, si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi, possono dichiarare la propria obiezione di coscienza ad ogni atto connesso con la sperimentazione animale“. Questo diritto deve essere reso noto a tutti gli interessati a tutte le strutture pubbliche e private legittimate ad effettuare sperimentazione animale.

Il diritto si esercita con una semplice dichiarazione che può essere effettuata da “medici, ricercatori e personale sanitario dei ruoli dei professionisti laureati, tecnici ed infermieristici, nonché studenti universitari interessati“; in forza della stessa, tali soggetti “non sono tenuti a prendere parte direttamente alle attività e agli interventi specificamente e necessariamente diretti alla sperimentazione animale“.

Concludiamo con la legge 40 del 2004 contenente “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita che prevede, all’art. 16, il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie, da esercitare con preventiva dichiarazione. Anche in questo caso, in conseguenza della dichiarazione, tale personale “non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’applicazione delle tecniche di fecondazione artificiale“, con la specificazione (del tutto analoga a quella prevista dalla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza) che “l’obiezione di coscienza esonera dal compimento delle procedure e delle attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’intervento di procreazione medicalmente assistita e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento“.

 

  1. Caratteristiche comuni della normativa.

Le norme appena ricordate presentano elementi comuni.

  1. a) L’obiezione di coscienza, come è evidente, viene riconosciuta a fronte di un obbligo giuridico, di natura pubblica o privata: di prestare il servizio militare, di lavorare il giorno di sabato, di partecipare alle procedure abortive, di effettuare sperimentazione animale e così via. Esiste sempre un obbligo, anche se non enunciato espressamente: ad esempio, lo studente universitario che segue corsi in cui si eseguono interventi di sperimentazione animale sarebbe obbligato a parteciparvi al fine di superare i relativi esami; anche i genitori del bambino ebreo che frequenta una scuola pubblica sarebbero obbligati a far consumare al figlio il pasto fornito dalla mensa scolastica preparato senza il rispetto delle prescrizioni ebraiche in materia alimentare e lo stesso studente sarebbe tenuto a frequentare la scuola di sabato.

La dichiarazione di obiezione di coscienza solleva l’interessato dal rispetto dell’obbligo.

  1. b) Ciò avviene in maniera incondizionata: l’obiettore di coscienza non è in alcun modo gravato dai problemi organizzativi che possono sorgere dall’esercizio del diritto da parte sua e di altri soggetti.

Ad esempio, l’art. 10 della legge 772 stabiliva che nemmeno in caso di guerra gli obiettori potessero essere obbligati a prestare servizio armato, anche se potevano essere ammessi a “servizi non armati, anche se si tratta di attività pericolose“: quindi lo Stato accettava il rischio di avere truppe armate ridotte per l’alto numero di obiettori anche in guerra.

Analogamente, la legge 194 del 1978 sull’interruzione di gravidanza prevede che debbano essere gli enti ospedalieri (ora le A.S.L.), le Case di cure autorizzate e le Regioni ad assicurare l’espletamento delle procedure abortive autorizzate, senza condizionare in alcun modo il diritto del singolo sanitario alle problematiche organizzative.

Ancora, le Università devono rendere facoltativa la frequenza alle esercitazioni di laboratorio in cui è prevista la sperimentazione animale nonché attivare, all’interno dei corsi, modalità di insegnamento che non prevedano attività o interventi di sperimentazione animale per il superamento dell’esame.

  1. c) L’obiettore è semplicemente tenuto a svolgere attività di carattere diverso in sostituzione di quella rispetto alla quale ha sollevato la dichiarazione: il servizio sostitutivo civile o il servizio militare non armato ai sensi della legge 772, l’attività lavorativa nel giorno di domenica per i dipendenti che si avvalgono del riposo sabbatico riconosciuto dalla legge o ancora, come precisa la legge 413 del 1993, “attività diverse da quelle che prevedono la sperimentazione animale“.

Lo svolgimento di attività diverse è implicitamente contemplato in altri casi, come in quello dell’interruzione volontaria di gravidanza.

  1. d) Il riconoscimento del diritto consegue direttamente alla dichiarazione, senza che qualche ente o soggetto possa valutarla e decidere di non ammettere il dichiarante al regime conseguente; collegata a tale effetto diretto è anche la mancanza di motivazione della dichiarazione: l’obiettore, cioè, non è tenuto ad argomentare sui motivi per i quali egli deve essere esentato da quello specifico obbligo, in quanto nessuno deve valutare e provvedere sulla sua dichiarazione, che, appunto, è una dichiarazione e non una domanda.

Unica eccezione era costituita dalla legge 772 sull’obiezione di coscienza al servizio militare, ma è assai significativo che, nelle leggi successive, il legislatore abbia abbandonato un regime del genere.

Ai sensi della legge 772, comunque, il Ministero della Difesa era chiamato ad un giudizio che valutasse anche la “sincerità” dei motivi addotti dal richiedente, oltre la loro fondatezza: si voleva impedire l’accesso ai servizi non armati di persone che in precedenza avevano dimostrato di non avere alcuna remora all’uso personale delle armi; del resto, la legge prevedeva che la domanda non potesse essere presentata dai titolari di licenze relative alle armi o di soggetti condannati per reati attinenti alle armi.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato sottolineò che il rigetto della domanda era illegittimo se non motivato con il richiamo alla condotta di vita dell’interessato che denotasse una concezione generale dell’esistenza contraria alla richiesta del beneficio; ritenne legittimo, ad esempio, il rigetto della domanda di chi aveva in precedenza avanzato richiesta di arruolamento nei Carabinieri o di chi nella domanda aveva lasciato intendere di esaltare o giustificare l’altrui violenza armata.

In sostanza, la valutazione cui era chiamato il Ministro non poteva scendere a giudicare le idee del richiedente, ma – affermava ancora il Consiglio di Stato – ad evitare che la prestazione del servizio militare fosse elusa da parte di chi non poteva considerarsi obiettore di coscienza.

Allo stesso modo, del resto, la legge 194 del 1978 prevede la decadenza dall’obiezione di coscienza con effetto immediato per chi prende parte a procedure abortive dimostrando, per usare il termine a suo tempo usato dalla legge 772, la “non sincerità” della sua dichiarazione.

  1. e) L’esenzione dalle attività per le quali è stata presentata la dichiarazione di obiezione di coscienza è assoluta: l’obiettore è esentato dall’intera attività e le deroghe sono previste in casi decisamente eccezionali.

Come abbiamo già visto, ad esempio, la legge 101 del 1989 in attuazione dell’intesa con le Comunità Israelitiche fa “salve le imprescindibili esigenze dei servizi essenziali previsti dall’ordinamento giuridico”, senza ulteriori specificazioni.

Anche l’articolo 9 della legge 194 non smentisce questa impostazione: non solo quando impedisce di invocare l’obiezione di coscienza in caso di intervento indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo, trattandosi di obbligo di intervenire coerente con i motivi per cui l’obiezione di coscienza è sollevata (non collaborare alla soppressione di una vita umana), ma anche quando, nel selezionare le attività da cui l’obiettore è sollevato, si riferisce alle “procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza“, precisando che si tratta di procedure ed attività “specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza“, senza comprendere in esse l’assistenza antecedente e conseguente all’intervento: tale regolamentazione contempla tra quelle coperte dall’obiezione tutte le attività che determinano l’aborto e, quindi, corrisponde pienamente all’esigenza cui l’istituto è finalizzato[1].

  1. f) L’esercizio dell’obiezione di coscienza non può determinare nessuna conseguenza negativa per l’obiettore: si tratta di previsione che dovrebbe apparire ovvia, tenuto conto che l’obiettore esercita un diritto riconosciuto dalla legge, ma che è ugualmente menzionata in alcune norme.

Il preambolo all’Intesa tra Stato e Unione delle Comunità Israelitiche, nel menzionare i testi nazionali ed internazionali, affermava che “essi garantiscono i diritti di libertà di coscienza e di religione senza discriminazione“; la legge 413 sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale è esplicita: “Nessuno può subire conseguenze sfavorevoli, per essersi rifiutato di praticare o di cooperare all’esecuzione della sperimentazione animale“. (…) Gli obiettori di coscienza vengono destinati ad attività diverse, “conservando medesima qualifica e medesimo trattamento economico“.

La vicenda dell’obiezione di coscienza al servizio militare è significativa: la legge 772, infatti, discriminava gli obiettori di coscienza, stabilendo che essi dovessero prestare servizio “per un tempo superiore di otto mesi alla durata del servizio di leva cui sarebbero stati tenuti“; questa previsione venne dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 470 del 1989, con la motivazione che “la differente durata del servizio sostitutivo rivestirebbe chiaramente quel significato di sanzione nei confronti degli obiettori che già si è stigmatizzato, ledendo, altresì, i fondamentali diritti tutelati dal primo comma dell’art. 3 e dal primo comma dell’art. 21 della Costituzione, in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero“.

 

  1. Le norme sull’obiezione di coscienza come obbligatorie per il legislatore.
  2. a) La rassegna fatta e le caratteristiche comuni evidenziate permettono di rispondere ad un quesito: perché il legislatore, nel corso di oltre trent’anni, ha previsto e regolamentato l’obiezione di coscienza o comunque, il diritto ad astenersi da attività obbligatorie per motivi di coscienza?

La domanda non è banale; il Parlamento è sovrano e libero nella approvazione delle leggi, ma ha anche degli obblighi costituzionali da rispettare: cosicché non è fuori luogo chiedersi se le leggi di volta in volta approvate abbiano previsto il diritto all’obiezione per una insindacabile decisione adottata dalle Camere ovvero per la consapevolezza di un obbligo costituzionale ineludibile.

In effetti, la regolamentazione adottata nelle varie norme suggerisce la consapevolezza di un obbligo.

Se la scelta di riconoscere l’obiezione di coscienza fosse stata libera e discrezionale per il Parlamento, avremmo registrato regolamentazioni differenti: il diritto sarebbe stato riconosciuto solo parzialmente, dando una generalizzata prevalenza ad altri interessi – ad esempio di carattere organizzativo – su quello dell’obiettore; sarebbe stata contemplata la possibilità per le Autorità di respingere la domanda di obiezione e prevista la necessità di una motivazione a sostegno della domanda stessa; sarebbe stato possibile un trattamento deteriore per l’obiettore come quello previsto dalla legge 772.

  1. b) Come vedremo subito, l’obbligo esiste ed è stato enunciato.

Tuttavia è opportuno premettere un richiamo alla natura dell’obiezione di coscienza: attualmente, sembra diventato difficile comprendere di cosa si tratta, confondendola con altri concetti.

L’obiezione di coscienza non ha niente a che vedere con le idee e le opinioni, tanto meno con quelle politiche; esercitare o sostenere l’obiezione di coscienza non equivale affatto ad intraprendere o proseguire una battaglia politica.

La coscienza, insieme alla ragione, è ciò che distingue gli esseri umani, come recita il preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza“).

È una legge che risuona all’interno dell’uomo e giudica il suo operato: la coscienza morale ingiunge all’individuo, al momento opportuno, di compiere il bene e di evitare il male; giudica anche le scelte concrete, approvando quelle che sono buone, denunciando quelle cattive. La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto.

In tutto quello che dice o fa, l’uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giusto o retto. La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale.

Quindi si tratta di qualcosa che riguarda ogni singola persona, non una collettività; è una cosa intima, strettamente personale; ha a che fare con l’uso della ragione e la libertà: il richiamo della coscienza mette in moto la ragione e determina una scelta libera dell’uomo; la coscienza richiama ad una legge non scritta dalla persona – e da nessun altro uomo – ma “scritta nel suo cuore” (le religioni affermano che la legge è scritta da Dio, ma la legge 772 sull’obiezione di coscienza al servizio militare faceva riferimento a “profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali” del soggetto); infine – e soprattutto – questa legge scritta nel cuore dell’uomo è vincolante.

Comprendiamo, allora, cosa significa obiezione di coscienza: l’uomo che ascolta la sua coscienza percepisce il dovere di astenersi da determinate azioni che gli proviene da una legge che egli, con l’uso della ragione, riconosce esistente; quando una legge dello Stato lo obbliga a compiere quella azione, egli si trova di fronte a due leggi che contengono due imperativi contrapposti.

Lo Stato gli intima: “devi fare questa azione” e lo minaccia di una sanzione se non obbedisce; la coscienza e la ragione gli intimano: “non devi fare questa azione” ed egli comprende che la “sanzione” è la perdita della sua dignità.

Quando l’uomo è davvero libero, egli obietta al dovere imposto dalla legge statale, affermando: “Non posso, non devo farlo, la mia coscienza me lo vieta!”.

Di fronte all’obiezione di coscienza si pone un’alternativa per lo Stato: permetterla, se del caso regolandola, oppure non riconoscerla, considerando una violazione della norma il rifiuto opposto dall’obiettore di eseguire l’azione prevista come obbligatoria dalla legge e, quindi, sanzionarlo.

Anche per il singolo, di fronte ad uno Stato che non riconosce la sua obiezione di coscienza, esiste un’alternativa: cedere e porre in essere la condotta obbligatoria per legge, non ottemperando al divieto della sua coscienza, ovvero confermare il suo rifiuto, affrontando le sanzioni che lo Stato gli irroga.

  1. c) Abbiamo visto che, in questi decenni, la scelta del legislatore è stata di riconoscere e regolamentare l’obiezione di coscienza, con le caratteristiche ampie che si sono viste. La sentenza della Corte Costituzionale n. 467 del 1991 – pronunciata con riferimento alla legge 772, ma avente esplicitamente una portata generale – chiarì senza ombra di perplessità che quella scelta era costituzionalmente obbligatoria.

In primo luogo, la Corte inquadrò la tutela della coscienza individuale all’interno di quella dei diritti fondamentali dell’uomo, fornendo una bella definizione della coscienza: “la relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso“: “A livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico.

In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima.

Nel passaggio successivo, la Corte enunciò l’obbligo per il legislatore di riconoscere l’obiezione di coscienza con l’utilizzo di una forma verbale – “esige” – che non permette elusioni: “Di qui deriva che – quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) – la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire “una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana”.

La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di professare la propria fede religiosa, garantite dagli artt. 21 e 19 della Costituzione, non sopportano limitazioni; allo stesso modo – disse la Corte – la tutela della coscienza individuale deve essere disegnata con priorità assoluta e tenendo conto del carattere fondante di quei diritti; perché negare la libertà di coscienza significa comprimere quei diritti fondamentali.

Nel passaggio finale che ci apprestiamo a citare, la Corte precisava anche il ruolo del legislatore: “Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)“.

L’opera del legislatore, quindi, è diretta in primo luogo ad evitare disfunzioni di carattere organizzativo derivanti dall’esercizio dell’obiezione di coscienza; non è escluso che il diritto dell’obiettore possa essere bilanciato con doveri di carattere costituzionale, ma ricordando che la tutela della coscienza individuale giustifica, per la sua elevatezza, l’esenzione dall’assolvimento di doveri pubblici inderogabili.

Quest’ultima precisazione è importante: la Corte doveva valutare l’istituto di fronte ad un dovere – quello della difesa della Patria – che i Costituenti definirono “sacro”, termine utilizzato solo in quella norma: ma confermò l’esenzione in nome della tutela della coscienza individuale.

  1. d) Il primato della coscienza individuale non venne smentito nemmeno quando la stessa Corte, con la sentenza n. 196 del 1987, respinse la questione di legittimità costituzionale della legge 194 del 1978 nella parte in cui non permette ai giudici tutelari, chiamati ad autorizzare le minorenni a procedere all’interruzione di gravidanza senza il consenso dei genitori, di sollevare obiezione di coscienza.

La Corte ribadì che si tratta “di comporre un potenziale conflitto tra beni parimenti protetti in assoluto: quelli presenti alla realtà interna dell’individuo, chiamato poi, per avventura, a giudicare, e quelli relativi alle esigenze essenziali dello jurisdicere (ancorché intra volentes)“, confermando, appunto, la protezione assoluta della coscienza individuale; respinse la questione di legittimità basandosi sulla differente posizione dei magistrati rispetto agli altri dipendenti pubblici (richiamando le norme sul divieto di iscriversi ai partiti politici e sull’inamovibilità), ma soprattutto sulla constatazione che la professione di magistrato garantisce appieno la coscienza di chi la esercita: “Il magistrato è tenuto ad adempiere con coscienza appunto (art. 4 legge 23 dicembre 1946, n. 478) i doveri inerenti al suo ministero: si ricompongono in tal modo, nella realtà oggettiva della pronuncia, e i suoi convincimenti e la norma obiettiva da applicare. È propria del giudice, invero, la valutazione, secondo il suo prudente apprezzamento: principio questo proceduralmente indicato, che lo induce a dover discernere – secondo una significazione già semantica della prudenza – intra virtutes et vitia. Ciò beninteso in quei moduli d’ampiezza e di limite che nelle singole fattispecie gli restano obiettivamente consentiti realizzandosi, in tal guisa, l’equilibrio nel giudicare“.

Tuttavia – per segnalare la necessità di una tutela piena della coscienza dei magistrati e l’equilibrio nell’esercizio della giurisdizione – la Corte aggiungeva un accenno (con il sapore di un invito) alla possibilità di adottare “adeguate misure organizzative nei casi di particolare difficoltà“, così da non destinare i magistrati la cui coscienza si oppone alle procedure abortive al ruolo di Giudice tutelare.

 

  1. Le conseguenze dell’obbligo per il legislatore di riconoscere e regolamentare l’obiezione di coscienza.
  2. a) Il quadro appena completato deve essere rapportato a due affermazioni ricorrenti in questo periodo: quella per cui, con riferimento alla nuova legge 20 maggio 2016, n. 76 che prevede la “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze“, si afferma seccamente che l’obiezione di coscienza da parte dei pubblici funzionari (ma anche di altri soggetti coinvolti) non è possibile perché non è prevista dalla legge e quella – invece riferita all’attuazione della legge 194 del 1978 sull’aborto – secondo cui l’obiezione di coscienza è permessa solo per i soggetti e nei limiti in cui la legge la prevede: in particolare il diritto all’obiezione di coscienza non sarebbe “assoluto“, ma “va coniugato con il diritto alla salute della donna” (di cui la legge 194 sarebbe espressione).
  3. b) In primo luogo, si può osservare che il fatto che il legislatore non abbia previsto e regolato l’obiezione di coscienza in un settore come quello delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nel quale le questioni di coscienza dei pubblici funzionari erano del tutto prevedibili (ed erano state previste ed enunciate) appare sorprendente: forse che per i sindaci e gli altri funzionari non vale il diritto – riconosciuto rispetto alla sperimentazione animale dalla legge 413 del 1993 – di dare “obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici“?

Come dimenticare che la Convenzione EDU, all’art. 9, prevede che “ogni persona” (quindi, si può dedurre, anche i sindaci) ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, senza alcuna eccezione[2]?

E come tralasciare il richiamo all’art. 2 della Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo (di ogni uomo)?

E, soprattutto, come eludere l’obbligo di legiferare enunciato a chiare lettere dalla Corte Costituzionale con la sentenza che abbiamo commentato?

Quindi, la mancata previsione della possibilità di sollevare obiezione di coscienza rispetto alla nuova legge sulle unioni civili – mancanza voluta: il Centro Studi Livatino aveva elaborato emendamenti diretti a introdurre e regolamentare l’istituto, proposti da parlamentari e ignorati o decaduti in conseguenza delle procedure seguite – è un problema per il legislatore inadempiente; non può esserlo per coloro ai quali la coscienza vieta di collaborare al riconoscimento pubblico di forme di unione diverse dal matrimonio.

  1. c) Non è, quindi, affatto impossibile ed è perfettamente coerente con la natura di diritto fondamentale dell’uomo riconoscere come esistente il diritto all’obiezione di coscienza pur nell’assenza di una legge regolatrice.

Il diritto discende direttamente dall’art. 2 della Costituzione e dalle norme da esso richiamate, che abbiamo menzionato all’inizio. La Costituzione già “riconosce e garantisce” questo diritto e pretende una tutela assoluta e prioritaria ad essa; si deve quindi affermare che, benché sommamente opportuna, una legge che regolamenti l’obiezione di coscienza in questo nuovo ambito non è necessaria per rendere effettivo l’esercizio del diritto.

Se tale legge verrà approvata, potrà dettare norme “in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale” o, se sarà ritenuto necessario, “a bilanciare il diritto con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale” (stiamo parafrasando il testo della sentenza 467 del 1991); in mancanza di essa, il diritto non può avere limitazioni e la struttura organizzativa pubblica provvederà nei modi consueti a sostituire l’obiettore di coscienza.

Non si può non chiedersi cosa spinge coloro che hanno approvato la legge 76 – che, quindi, hanno vinto una battaglia politica – a reprimere soggetti che a tale battaglia non hanno partecipato (ma che sono, almeno i Sindaci, eletti dal popolo) e che sono dilacerati dal conflitto tra una legge dello Stato e la loro coscienza.

  1. d) Quanto sopra vale anche per l’applicazione della legge sull’aborto.

Il diritto a non cooperare all’uccisione di esseri umani non è affatto condizionato dal testo della legge (se non, nel caso già visto, dal pericolo per la vita della madre), né può essere “coniugato con il diritto alla salute” della donna, come improvvidamente afferma una recente sentenza di un giudice amministrativo (Sent. T.A.R. Lazio del 2/8/2016, Movimento per la Vita ed altri contro Regione Lazio).

L’imperativo “non uccidere!” non ammette condizioni e subordinate e risuona con la medesima forza non solo nei medici e sanitari, ma anche nei farmacisti chiamati a collaborare a pratiche abortive o criptoabortive.

 

  1. I rischi per lo Stato democratico

Vorrei sottolineare, per concludere, in che modo il “primato della coscienza” incida sull’interpretazione delle norme vigenti, prendendo lo spunto proprio da un altro passaggio di quella sentenza – concernente l’obbligo per il medico del Consultorio, anche se obiettore di coscienza, di rilasciare l’attestato in base al quale la donna avrà il diritto di sottoporsi all’ intervento abortivo sette giorni dopo – in cui si afferma: “Sostanzialmente è da escludere che l’attività di mero accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico del Consultorio si presenti come atta a turbare la coscienza dell’obiettore, trattandosi di attività meramente preliminari non legate in maniera indissolubile al processo di interruzione di gravidanza”.

La gravità di questa affermazione dovrebbe risultare evidente: il giudice, in forza della legge, pretende di decidere quali attività siano atte a turbare la coscienza dell’obiettore!

Lo Stato entra nella coscienza dell’individuo e gli intima non più, soltanto, di compiere una determinata attività, sotto minaccia di sanzione penale (immediatamente prima ricordata dalla sentenza), ma piuttosto di “impostare” la propria coscienza in modo da approvare quanto lo Stato ordina!

Lo Stato pretende di educare la coscienza del medico sulla base del rigido positivismo giuridico.

Al contrario, il primato della coscienza individuale impone di interpretare le norme alla luce della coscienza: se, quindi, il sanitario riterrà, in scienza e coscienza, che il certificato non è altro che l’unico documento strettamente necessario e sufficiente per eseguire l’aborto una settimana dopo (lettura, fra l’altro, perfettamente conforme al testo normativo) o ancora, che le “pillole dei giorni dopo” – così come veniva affermato fino a pochi anni fa dalle stesse ditte produttrici – hanno ancora la capacità di impedire l’annidamento in utero dell’embrione creato e quindi di provocarne la morte o, infine, che l’embrione (come la scienza dimostra eloquentemente) è un essere umano fin dal momento del concepimento, il giudice di uno Stato che riconosce la libertà di coscienza come diritto inviolabile dovrà interpretare la norma regolatrice ricomprendendo anche in questi casi il diritto ad astenersi dai comportamenti obbligatori.

[1] Nel prosieguo accenneremo alle questioni di interpretazione di questa norma.

 

[2] Sentenza CEDU, Caso Ercep contro Turchia, 22/11/2011: «ciò che è protetto dall’Articolo 9 della Convenzione, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, è uno dei fondamenti di una “società democratica” ai sensi della Convenzione. Si tratta, nella sua dimensione religiosa, di uno degli elementi più essenziali per l’identità dei credenti e per la loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici e gli indifferenti. Si tratta del pluralismo, conquistato a caro prezzo nel corso dei secoli e da cui dipende il tipo di società. (…) il giudice deve tener conto della necessità di garantire un vero pluralismo religioso, di vitale importanza per la sopravvivenza di una società democratica (…) il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura sono le caratteristiche di una “società democratica”. Benché sia necessario talvolta subordinare gli interessi individuali a quelli di un gruppo, la democrazia non significa semplicemente la supremazia costante dell’opinione di una maggioranza: deve essere raggiunto un equilibrio che garantisca l’uguaglianza di trattamento delle persone appartenenti alle minoranze e eviti qualsiasi abuso della posizione dominante».