ORDINANZA DEL 15 MARZO 2018 DEL TRIBUNALE DI PISA SUL RICORSO PROPOSTO DA R. G. R. G., G. G. E R. D. E.
CONTRO IL SINDACO DEL COMUNE DI PISA

 

Stato civile – Atto di nascita – Filiazione – Riconoscimento – Preclusione della possibilità di formare un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge nazionale del figlio, individuata in applicazione dell’art. 33 della legge n. 218 del 1995.

 

Codice civile, artt. 250 e 449; decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), art. 29, comma 2 [, e art. 44, comma 1]; legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), artt. 5 e 8.

 

 

IL TRIBUNALE DI PISA

 

in composizione collegiale, in persona dei magistrati:

dott. Nicola Antonio Dinisi, Presidente;

dott. Marco Viani, giudice relatore/estensore;

dott. Enrico D’Alfonso, giudice,

a scioglimento della riserva che precede, ha pronunciato la seguente ordinanza, osservato quanto segue.

 

Le ricorrenti, l’una cittadina statunitense e l’altra cittadina italiana, in proprio e nella dichiarata qualità di genitori del figlio minore, hanno presentato ricorso ex art. 95 decreto del Presidente della Repubblica 396/2000 esponendo che il minore era nato a Pontedera e che l’ufficiale dello stato civile del Comune di Pisa si era rifiutato di ricevere la dichiarazione di nascita espressa congiuntamente dalla ricorrente cittadina statunitense quale madre gestazionale, e dalla ricorrente cittadina italiana quale madre intenzionale, in forza del consenso alla fecondazione eterologa (avvenuta in Danimarca).

Secondo l’Ufficiale di Stato civile, il riconoscimento non era consentito dall’art. 250 c.c., che fa riferimento a un genitore di sesso maschile e a uno di sesso femminile.

Le ricorrenti hanno argomentato che dovevano applicarsi gli artt. 8 e 9 della legge 40/2004 secondo cui il consenso alla donazione di gamete rende genitore (ritenendo la discriminazione di genere vietata dalla Costituzione e dalla CEDU), e comunque la norma di diritto internazionale privato italiano che rinvia in materia di riconoscimento alla legge personale del minore e, in caso di più cittadinanze, comunque quella più favorevole (osservando che in forza della legge dello Stato del Wisconsin i soggetti che hanno prestato il consenso alla procreazione medicalmente assistita eterologa sono genitori senza discriminazione di genere), dolendosi inoltre che fosse stata negata al minore la cittadinanza dell’Unione europea in violazione del principio di non discriminazione per orientamento sessuale in relazione all’art. 20 TFUE.

In punto di fatto, premesso di coltivare da anni una relazione affettiva stabile e di aver contratto matrimonio negli Stati Uniti il 1° agosto 2014, hanno esposto di aver avviato una procedura di procreazione medicalmente assistita eterologa con seme di donatore anonimo, esprimendo entrambe consenso.

Hanno poi argomentato che l’omogenitorialità non è contraria all’ordine pubblico e che nessuna norma stabilisce nell’ordinamento italiano che i genitori debbano essere necessariamente di due generi anagrafici diversi, mentre diversi provvedimenti dell’autorità giudiziaria italiana che hanno ammesso una simile filiazione.

Hanno invocato gli artt. 3 e 31 Cost., che proscrivono interpretazioni discriminatorie, lesive del diritto fondamentale alla formazione della famiglia, riconosciuto e tutelato dagli artt. 2 e 31 Cost.

Hanno richiamato precedenti che hanno consentito l’adozione in casi particolari ex art. 44 lettera d) legge 184/1983 da parte della compagna della madre biologica (Trib. Min. Roma, 30 luglio 2014; App. Roma, 23 dicembre 2015), che hanno ordinato la trascrizione di un certificato di nascita straniero che indicava due madri quale genitrici (App. Torino, 4 dicembre 2014) o riconosciuto l’efficacia di un decreto straniero di adozione coparentale (App. Milano, 1° dicembre 2015).

Hanno citato poi Cass., 11 gennaio 2013 n. 601 (secondo cui l’inserimento di un minore in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale non è di per sé dannoso), e la pronuncia della Corte EDU X c. Austria (19 febbraio 2013, che ha ritenuto contraria all’art. 14 della Convenzione EDU la differenza di trattamento che la legge austriaca riservava al partner omosessuale, che non poteva adottare il figlio del compagno, mentre ciò sarebbe stato consentito al partner eterosessuale).

Hanno argomentato che ai sensi dell’art. 8 legge 40/2004 i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime e che ciò valeva anche per coppie, del medesimo o di diverso sesso, che avessero fatto ricorso all’estero alla procreazione medicalmente assistita, e che, ai sensi del successivo art. 9, in caso di ricorso a procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo il coniuge o il convivente che vi hanno consentito non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità.

Hanno anche osservato che secondo la giurisprudenza della Corte EDU, pur se l’accesso alla PMA eterologa non è un diritto imposto agli Stati dalla Convenzione, pur tuttavia laddove un diritto è liberamente riconosciuto e ammesso dallo Stato, questo non può discriminare in ragione dell’orientamento sessuale. Hanno invocato comunque la garanzia dell’interesse del minore alla bigenitorialità.

Dal punto di vista del diritto internazionale privato, hanno osservato che la legge personale della madre gestazionale è quella dello Stato del Wisconsin, quale stato di ultima residenza (domicile), e che il figlio ha quindi la cittadinanza statunitense per nascita, e hanno richiamato l’art. 33 comma 1 legge d.i.p. («Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita»).

Hanno quindi esposto che la legge dello Stato del Wisconsin considera genitore il coniuge che ha dato il consenso davanti ad un medico alla procreazione medicalmente assistita, anche eterologa [2013-14 Wisconsin Statutes, Art. 891.40 (1) If, under the supervision of a licensed physician and with the consent of her husband, a wife is inseminated artificially with semen donated by a man not her husband, the husband of the mother at the time of the conception of the child shall be the natural father of a child conceived. The husband’s consent must be in writing and signed by him and his wife. The physician shall certify their signatures and the date of the insemination, and shall file the husband’s consent with the department of health services, where it shall be kept confidential and in a sealed file except as provided in s. 46.03 (7) (bm). However, the physician’s failure to file the consent form does not affect the legal status of father and child … (Se, sotto la supervisione di un medico autorizzato e con il consenso del marito, una moglie è sottoposta a inseminazione artificiale con sperma donato da un uomo che non è il marito, il marito della madre al momento del concepimento del figlio sarà il padre biologico [si traduce in questo modo l’espressione natural father per evitare equivoci con quella italiana di padre naturale] del figlio concepito. Il consenso del marito deve essere rilasciato per atto scritto firmato da lui e dalla moglie. Il medico certificherà le firme e la data dell’inseminazione, e invierà il consenso del marito al department of health, dove sarà mantenuto riservato in un archivio segreto, salvo che per quanto previsto all’art. 46.03. Comunque, il mancato invio del consenso del marito da parte del medico non inficia lo status legale del padre e del figlio…)], precisando che, a livello federale a seguito della sentenza della Corte federale degli Stati uniti Obergefell, ma per lo Stato del Wisconsin già con la sentenza definitiva del 2014 Baskin v. Bogan, tutte le norme devono essere lette in senso neutro per quanto riguarda il genere (gender-neutral).

Hanno infine argomentato che, come la perdita, anche l’acquisizione della cittadinanza europea ricade nella sfera del diritto dell’Unione e che quindi le norme che attuino nell’acquisizione della cittadinanza una discriminazione, anche per associazione, motivata dall’orientamento sessuale devono essere disapplicate.

Hanno quindi chiesto che, accertata l’illegittimità del rifiuto, il Tribunale ordinasse la rettificazione dell’anno di nascita, perché vi fosse indicato che il minore era nato a seguito di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo con consenso prestato da entrambe le ricorrenti.

L’Avvocatura dello Stato, per conto del Sindaco quale Ufficiale del Governo, del Ministro dell’interno e dell’Ufficio territoriale del Governo, premesso che l’atto di matrimonio delle ricorrenti non era trascrivibile in Italia, e che nel nostro ordinamento le ricorrenti non avevano lo status di coniugi, ha osservato che il bambino era nato in Italia, sicché il Sindaco era chiamato a formare un atto di nascita e non a trascriverne uno formato all’estero, che non vi era alcun legame biologico tra la madre intenzionale e il bambino, e che la stessa chiedeva di esserne riconosciuta genitrice e non di adottarlo.

Ha pertanto richiamato numerose disposizioni dell’ordinamento italiano che presuppongono la diversità di sesso tra i genitori (e segnatamente gli artt. 231, 243 -bis, 250, 269 comma 3 c.c., 5, 6, 8, 9,11 legge 40/04), concludendo pertanto per l’inapplicabilità diretta degli artt. 8 e 9 della legge 40/04 (osservando che, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale 162/2014, l’accesso alla procreazione medicalmente assistita eterologa era consentito solamente in caso di accertata patologia da cui dipendeva la sterilità o infertilità assoluta, fermi i requisiti soggettivi già previsti e quindi anche la diversità di sesso).

Ha ritenuto inconferente il richiamo dell’art. 8 CEDU, che non fonda né un diritto alla prole, né un diritto ad avere due genitori, osservando che non vi è alcuna discriminazione di genere, perché neppure una coppia eterosessuale, che avesse fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa all’estero in violazione delle disposizioni di legge italiana, potrebbe ottenere la formazione in Italia di un atto di nascita in cui il genitore intenzionale venga indicato come genitore, e che comunque la giurisprudenza della Corte EDU si era sempre riferita all’adozione mentre l’unica volta che si era occupata di divieto di procreazione medicalmente assistita eterologa (S.H. et al. c. Austria) aveva concluso che si trattava di materia controversa, eticamente sensibile, nella quale gli Stati hanno ampio margine di apprezzamento, e il bilanciamento non è lesivo dell’art. 8 della Convenzione: in ogni caso, la contrarietà con la CEDU non consente la disapplicazione. Ha poi argomentato che la tutela del minore non poteva condurre al superamento di un divieto di legge.

Quanto ai profili di diritto internazionale privato, ha argomentato che non si doveva applicare l’art. 33 legge d.i.p. ma l’art. 35, trattandosi di riconoscimento, e che pertanto la capacità del genitore di fare il riconoscimento era regolata dalla legge italiana. Ha osservato che non vi era prova che si dovesse applicare al figlio la legge del Wisconsin e che comunque non era dimostrato che tale legge riconoscesse effettivamente la co-genitorialità alla coppia omosessuale che avesse fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa. Ha comunque eccepito che una tale legge straniera sarebbe stata comunque contraria all’ordine pubblico (art. 16 legge d.i.p.) e che comunque la sua applicazione sarebbe impedita, ai sensi dell’art. 17 legge d.i.p., perché la normativa italiana aveva carattere di applicazione necessaria.

Ha infine osservato che il minore non aveva mai acquisito la cittadinanza europea, sicché era fuori di luogo il richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di perdita di tale cittadinanza. Ha chiesto pertanto il rigetto del ricorso.

Anche il pubblico ministero si è opposto all’accoglimento del ricorso.

Con provvedimento dell’8 febbraio 2017 il Collegio ha nominato un curatore speciale del minore in persona dell’avv. David Cerri che si è costituito aderendo alla richiesta delle ricorrenti e concludendo per l’accoglimento della domanda.

Ad avviso del Collegio, il diritto interno presuppone che i genitori abbiano sesso diverso, come si desume:

  1. a) da una serie di disposizioni del Codice civile che utilizzano la terminologia di «padre» e «madre», o di «marito» e «moglie», e che comunque modellano la nozione di paternità e di maternità sul dato biologico, e segnatamente:

l’art. 231: «Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio»; l’art. 243 -bis: «L’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo. Chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità»;

l’art. 250 comma 1: «Il figlio nato fuori del matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’art. 254, dalla madre e dal padre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente»;

l’art. 269: «La paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso. La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo. La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre. La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità»,

  1. b) dall’art. 6 comma 1 legge 184/83: «L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni» (con riferimento all’adozione legittimante);
  2. c) dall’art. 5 della legge 40/2004: «Fermo restando quanto stabilito dall’art. 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

Che il legislatore italiano riconosca la genitorialità solo in relazione a coppie di sesso diverso emerge in trasparenza anche dalla considerazione che il divieto di applicare tecniche di procreazione assistita a coppie dello stesso sesso è presidiato da una sanzione amministrativa di elevatissimo importo (art. 12, comma 2, legge 40/04, con riferimento all’art. 5, disposizione dichiarata in parte illegittima da Corte cost., 162/14, con riferimento alla parziale illegittimità costituzionale del divieto di procreazione assistita eterologa, ma tuttora vigente per questa ipotesi, come si legge, fra l’altro, nella motivazione di Cass., 30 settembre 2016 n. 19599).

Infine, a definitiva chiusura del sistema, deve osservarsi che, ai sensi dell’art. 32 -bis legge d.i.p., introdotto dal decreto legislativo 7/17, «Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana», e quindi il nostro ordinamento non riconosce, per i cittadini italiani, le conseguenze del matrimonio same-sex contratto all’estero in materia di filiazione.

Se è vero che l’art. 1 comma 20 legge 76/2016 prevede «Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti», la parziale neutralizzazione che si è così ottenuta non sposta i termini del problema.

Non soltanto, infatti, la legge ben distingue il matrimonio dall’unione civile, ma dal rinvio restano esclusi, per espressa previsione normativa, in quanto non richiamate, le disposizioni che regolano la paternità e la maternità, quelle che regolano l’affinità, quelle che consentono l’adozione legittimante.

La disposizione in esame, quindi, non fa venire meno, almeno nella materia all’esame del giudice, il carattere non gender-neutral del diritto italiano.

Anzi, dal fatto che la legge 76/2016 non richiama alcuna disposizione del codice civile in materia di paternità e maternità si desume che, nella disciplina positiva della filiazione, il riferimento ai «coniugi», o al «padre» e alla «madre», non può, per legge, essere interpretato fino a ricomprendervi anche le parti dell’unione civile fra persone dello stesso sesso.

Il recente, notorio dibattito parlamentare che ha accompagnato l’approvazione della legge 76/2016, relativo alla possibilità di introdurre nell’ordinamento la c.d. stepchild adoption, ovvero l’adozione del figlio della parte con cui è stata contratta un’unione civile fra persone dello stesso sesso — possibilità, com’è noto, esclusa, salvo il riferimento nell’ultimo periodo del comma 20 al fatto che resti «fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti» che, allo stato del diritto vivente, va all’adozione in casi particolari — non consente di dubitare sulla volontà del legislatore al riguardo.

A tali chiarissimi indici normativi si deve aggiungere il fondamentale dato interpretativo che si evince dalla sentenza della Corte costituzionale n. 138/2010, che, dopo aver sostanzialmente condiviso l’impostazione dei giudici a quibus l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. codice civile e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può menzionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile. In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale veneziano. Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976)»], ha anche precisato:

«Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale. Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto. Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale. In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio».

Il Collegio trae da questa pronuncia conferma del fatto che il diritto italiano, in materia di famiglia, non è affatto gender-neutral e che una tale costruzione non è di per sé costituzionalmente illegittima.

Non soltanto, svolgendo analogo ragionamento, si deve concludere che anche la nozione di genitori come coppia formata da un padre e una madre di sesso opposto risponde a una nozione consolidata e ultramillenaria, ma nella richiamata pronuncia della Corte è anche contenuto un indice argomentativo che corrobora l’interpretazione, laddove si legge che proprio la potenziale finalità procreativa vale a differenziare il matrimonio dall’unione omosessuale (e quindi, a contrario, quest’ultima non è finalizzata alla filiazione).

Sul piano del diritto vivente, deve anche segnalarsi che la Corte di Cassazione, nella fondamentale pronuncia che ha espressamente escluso la contrarietà all’ordine pubblico dell’atto di nascita straniero da cui risulti la nascita di un figlio da due madri (Cass., 19599/2016, cit.) ha espressamente precisato in motivazione: «Il Ministero dell’interno ha ulteriormente obiettato che, riconoscendo l’atto di nascita di ( omissis ), si finirebbe per introdurre in Italia, di fatto e surrettiziamente, la possibilità di trascrivere atti di nascita da persone dello stesso sesso, nonostante l’assenza di una previsione legislativa che lo consenta e regoli la fattispecie. È agevole replicare che il giudizio riguardante la compatibilità con l’ordine pubblico secondo il diritto internazionale privato — è finalizzato non già ad introdurre in Italia direttamente la legge straniera, come fonte autonoma e innovativa di disciplina della materia, ma esclusivamente a riconoscere effetti in Italia ad uno specifico atto o provvedimento straniero relativo ad un particolare rapporto giuridico tra determinate persone».

Neppure confligge con la conclusione il fatto che il diritto vivente abbia ammesso, come si è accennato, l’adozione, ai sensi dell’art. 44 comma 1 lettera d) legge 184/83, del figlio della persona dello stesso sesso con cui si ha in corso una relazione sentimentale e di convivenza (Cass., 22 giugno 2016 n. 12962 e successive pronunce di merito). La c.d. adozione non legittimante è infatti un istituto profondamente diverso nei presupposti e negli effetti, e la ratio della decisione, come ben illustrato dalla Corte di cassazione, è quella di consentire, nel best interest del minore, il consolidarsi di rapporti affettivi ed educativi già in corso. Per giungere alla conclusione la Corte ha del resto fatto ricorso alla clausola, meno determinata e in un certo senso di chiusura, della lettera d) della richiamata disposizione («impossibilità di affidamento preadottivo»).

Conclusivamente, quindi, dal punto di vista del diritto interno appare allo stato escluso che genitori di un figlio possano essere due persone dello stesso sesso.

Non appare quindi fondata la tesi principale delle ricorrenti, secondo cui si applicherebbe anche al loro caso la disciplina posta dagli artt. 8 e 9 della legge 40/04 (art. 8: «I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6»; art. 9: «Qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo “in violazione del divieto di cui all’art. 4, comma 3 [limitatamente a queste parole la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione]” il coniuge o il convivente il cui consenso è ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’art. 235, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile, né l’impugnazione di cui all’art. 263 dello stesso codice. 2. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396. 3. In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’art. 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi»).

Va rammentato che, nel sistema originario della legge, le tecniche eterologhe erano rigidamente vietate.

L’art. 8 si occupava quindi della sola fecondazione omologa, stabilendo che, in caso di consenso alla procreazione medicalmente assistita ai sensi dell’art. 6, i nati avevano lo stato di figli legittimi (ora: nati nel matrimonio), se la coppia era sposata, o altrimenti di figli riconosciuti.

Per le coppie sposate la filiazione risultava automaticamente (in conformità, del resto, alla presunzione posta dall’art. 231 c.c.).

Per le coppie non sposate era generalmente ritenuto che il consenso ritualmente espresso tenesse luogo del riconoscimento: sebbene risulti espressa anche l’opinione contraria, tale interpretazione, oltre che aderente alla lettera della legge che collega lo status al consenso, è l’unica coerente con la ratio di tutela del nascituro sottesa alla disposizione, dato che, se fosse necessario un autonomo riconoscimento, che dovrebbe intervenire dopo la nascita, e quindi a distanza di tempo dall’espressione del consenso, sarebbe possibile operare una resipiscenza semplicemente negando il riconoscimento e rendendo quindi obbligata la dichiarazione giudiziale di paternità (che, trattandosi di tecnica omologa, sarebbe astrattamente possibile).

Se lo status di figli legittimi (ora: nati nel matrimonio) o riconosciuti era attribuito dalla legge in conseguenza del consenso, anche se la legge non lo esplicitava, è agevole ricavare in via interpretativa che, nei casi regolati dall’art. 8, non è ammessa una successiva azione di disconoscimento di paternità o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. Se si ammette che il figlio nato da tecniche di procreazione medicalmente assistita consentita da una coppia non sposata ha per legge lo status di figlio riconosciuto per il solo fatto della nascita e del consenso espresso, senza necessità di un autonomo riconoscimento, l’impugnazione per difetto di veridicità non sarebbe del resto comunque possibile, per inesistenza dell’oggetto.

L’art. 9 comma 1, invece, si occupava della sola fecondazione eterologa, come si è detto vietata, stabilendo che, qualora alla tecnica vietata si fosse egualmente dato corso, il coniuge o il convivente che vi avevano dato consenso, anche per atto concludente, non potevano esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. Il successivo comma 2, applicabile anche alla fecondazione omologa, disponeva che la madre del nato in esito a tecniche di procreazione medicalmente assistita non potesse esercitare il proprio diritto di non essere nominata.

La disposizione dell’art. 9 comma 1 era quindi profondamente diversa da quella dell’art. 8: non attribuiva direttamente alcuno status al figlio, ma si limitava a precludere la possibilità giuridica di contestare la paternità, non consentendo, a tutela del nascituro, la resipiscenza rispetto al consenso già espresso.

Se la coppia era sposata, il figlio nato dalle tecniche eterologhe era figlio del marito in forza della presunzione posta dall’art. 231 c.c.

Se invece la coppia non era sposata, è giocoforza concludere che, in questo caso, occorresse un espresso riconoscimento del genitore, se solo si considera che (a) la disposizione che prevede l’equipollenza del consenso al riconoscimento è sicuramente eccezionale e insuscettibile di interpretazione analogica, (b) il consenso poteva essere espresso anche per atto concludente, ma in tal caso non poteva essere esibito all’Ufficiale dello Stato civile, (c) anche se fosse stato esibito un consenso redatto per iscritto, si sarebbe trattato comunque di un consenso invalido perché contrario a norma imperativa, presidiata anche da sanzioni amministrative.

La Corte costituzionale, con la sentenza 162/14, ha dichiarato illegittimi gli artt. 1 e 4 della legge 40/04 nella parte in cui non ammettono il ricorso a tecniche eterologhe qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. Ha pertanto dichiarato l’illegittimità anche dell’art. 9 comma 1 limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’art. 4 comma 3».

A seguito di tale modifica, tuttavia, il divieto del ricorso a tecniche eterologhe è venuto meno soltanto in caso di diagnosi di una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili.

L’art. 8, che disciplinava, nell’impianto originario della legge, la sola procreazione medicalmente assistita omologa, perché era la sola consentita, si deve quindi oggi interpretare nel caso che disciplini anche la procreazione medicalmente assistita eterologa compiuta legittimamente, perché vi è stata diagnosi di patologia che causa sterilità o infertilità assolute e irreversibili. La disposizione fa infatti rinvio al consenso espresso ai sensi dell’art. 6, che a sua volta menziona come soggetti destinatari dell’informazione quelli previsti dall’art. 5, che a sua volta tiene fermo l’art. 4 comma 1, e rende così evidente che gli effetti giuridici previsti dall’art. 8 presuppongono una procreazione medicalmente assistita compiuta in conformità, oggettiva e soggettiva, alle norme della legge.

Diversamente da quanto argomenta parte ricorrente, non si tratta, quindi, di una disposizione che regola soltanto la forma del consenso espresso in Italia, ma di una disposizione che, attraverso i plurimi rinvii che si sono sopra indicati, prevede (tra l’altro) l’equipollenza al solo riconoscimento del solo consenso espresso in presenza dei presupposti soggettivi e oggettivi posti dalla legge.

Con tali premesse, il Collegio non ritiene che si possa dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 40/04 nella parte in cui non attribuisce di diritto al bambino nato da procreazione medicalmente assistita lo status di figlio riconosciuto del coniuge o del convivente che vi abbia consentito.

In particolare, alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza 138/10, sembra di doversi escludere un contrasto con l’art. 29, Cost., mentre l’art. 30, Cost., tutela la filiazione, ma non consente certo di ritenere costituzionalmente obbligato il riconoscimento di qualsiasi rapporto di filiazione non biologica astrattamente ipotizzabile.

Analogamente, l’art. 2 tutela i diritti dell’uomo all’interno delle formazioni sociali, ma non se ne può dedurre la necessaria parificazione di formazioni sociali di tipo nuovo a quelle preesistenti.

Le ricorrenti sembrano ritenere che un’interpretazione dell’art. 8 della legge 40/04 nel caso di escludere la filiazione della ricorrente madre intenzionale contrasti con gli artt. 8 e 14 della CEDU.

Per vero, la Corte EDU ha ritenuto che non contrasti con gli artt. 8 e 14 della Convenzione consentire il ricorso alla procreazione medicalmente assistita alle sole coppie eterosessuali infertili (Gas e Dubois c. Francia), mentre in generale, quando si è occupata dei diritti delle coppie dello stesso senso, ha dimostrato cautela su materie che coinvolgono temi eticamente sensibili o diritti di terzi.

È pur vero che la Corte ha affermato nella pronuncia X et al. c. Austria che contrasta con gli artt. 8 e 14 della Convenzione la normativa che non consente l’adozione del figlio del convivente dello stesso sesso, se l’adozione sarebbe consentita al convivente di sesso diverso.

Tuttavia, il principio di parità di accesso che si trae da tale pronuncia non sembra al Collegio potersi applicare al caso di specie.

Da un lato, come si è detto, secondo l’interpretazione che si è sopra data dell’art. 8, il consenso che tiene luogo del riconoscimento è quello che risponde, anche dal punto di vista del contenuto, e in forza dei rinvii a catena che si sono esaminati, ai requisiti posti dagli artt. 4 comma 1 e 5 della legge. Da questo punto di vista, quindi, il sesso del convivente non è dirimente, perché, se anche la coppia fosse formata da persone di sesso diverso, non ci si troverebbe di fronte a infertilità o sterilità irreversibili e patologiche, e quindi si sarebbe comunque al di fuori dello schema legale.

Dall’altro lato, in quanto la legge italiana non consente la procreazione medicalmente assistita con tecnica eterologa se non alle coppie eterosessuali che in conseguenza di una patologia si trovino in condizione di infertilità o sterilità irreversibili, il ricorso a una tale tecnica al di fuori di tale condizione, sia per le coppie omosessuali, sia per le coppie eterosessuali, non costituisce oggetto di un diritto garantito dall’ordinamento, ma, come osserva la difesa erariale, conseguenza di una violazione di legge, in rapporto alla quale non sembra potersi porre alcuna questione di parità di accesso.

Ora, ai sensi dell’art. 449 c.c. «I registri dello stato civile sono tenuti in ogni comune in conformità delle norme contenute nella legge sull’ordinamento dello stato civile».

La legge sull’ordinamento dello stato civile, come è noto, è stata abrogata nell’ambito di un intervento di delegificazione; il riferimento deve leggersi, oggi, al decreto del Presidente della Repubblica 396/00, e segnatamente all’art. 29 secondo cui «Nell’atto di nascita sono indicati il luogo, l’anno, il mese, il giorno e l’ora della nascita, le generalità, la cittadinanza, la residenza dei genitori del figlio nato nel matrimonio nonché di quelli che rendono la dichiarazione di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio e di quelli che hanno espresso con atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati, il sesso del bambino e il nome che gli viene dato ai sensi dell’art. 35». Si consideri, inoltre, che uno dei genitori è la «puerpera» (arg. ex art. 30), laddove «il riconoscimento di un figlio nascituro può essere fatto dal padre o contestualmente a quello della gestante o dopo il riconoscimento di quest’ultima e la prestazione del suo consenso, ai sensi dell’art. 250, terzo comma, del codice civile» (art. 44).

Dato che, come si è detto, il diritto interno ammette come genitori solamente persone di sesso diverso, l’atto di nascita deve quindi indicare un padre e una madre.

La conclusione non è affatto contrastata dall’esistenza di noti precedenti giurisprudenziali (fra cui Cass., 19599/16, cit.) che hanno consentito la trascrizione di atti di nascita stranieri in cui due persone dello stesso sesso venivano indicate come genitori.

Come si è detto, la Corte di cassazione ha precisato (Cass., 19599/16, cit.) che in tal caso si tratta esclusivamente di riconoscere effetti in Italia ad uno specifico atto o provvedimento straniero relativo ad un particolare rapporto giuridico tra determinate persone. Dovendosi dare ingresso in Italia a un atto straniero, il giudice è chiamato soltanto a valutare se sia compatibile con l’ordine pubblico, e non con l’ordine pubblico interno, ma con l’ordine pubblico internazionale. Cass., 19599/16, cit., sul punto, ha affermato i seguenti principi di diritto: «il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero (nella specie, dell’atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma della legge n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65, e decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000, art. 18, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo… il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato in Spagna, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne — in particolare, da una donna italiana (indicata come madre B) che ha donato l’ovulo ad una donna spagnola (indicata come madre A) che l’ha partorito, nell’ambito di un progetto genitoriale realizzato dalla coppia, coniugata in quel paese — non contrastano con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, dell’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello status filiationis, validamente acquisito all’estero (nella specie, in un altro paese della UE) … l’atto di nascita straniero (valido, nella specie, sulla base di una legge in vigore in un altro paese della VE) da cui risulti la nascita di un figlio da due madri (per avere l’una donato l’ovulo e l’altra partorito), non contrasta, di per sé, con l’ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utilizzata non sia riconosciuta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 40 del 2004, la quale rappresenta una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate… in tema di PMA, la fattispecie nella quale una donna doni l’ovulo alla propria partner (con la quale, nella specie, è coniugata in Spagna) la quale partorisca, utilizzando un gamete maschile donato da un terzo ignoto, non costituisce un’ipotesi di maternità surrogata o di surrogazione di maternità ma un’ipotesi di genitorialità realizzata all’intento della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne registrate come madri in Spagna (per averlo l’una partorito e per avere l’altra trasmesso il patrimonio genetico)… la regola secondo cui è madre colei che ha partorito, a norma dell’art. 269 c.c., comma 3, non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale, sicché è riconoscibile in Italia l’atto di nascita straniero dal quale risulti che un bambino, nato da un progetto genitoriale di coppia, è figlio di due madri (una che l’ha partorito e l’altra che ha donato l’ovulo), non essendo opponibile un principio di ordine pubblico desumibile dalla suddetta regola». Sostanzialmente conforme è Cass., 15 giugno 2017 n. 14878, intervenuta in corso di causa.

Alla luce di tale importante pronuncia della Corte di Cassazione, che il Collegio condivide e che fa propria, e di altre pronunce di merito che hanno affermato principi similari (App. Torino, 29 ottobre 2014, confermata dalla pronuncia di legittimità sopra richiamata; App. Trento, 23 febbraio 2017, a proposito di un atto di nascita straniero in cui erano indicati due padri) si deve concludere che la contrarietà all’ordine pubblico della normativa straniera che consente di stabilire una filiazione con due genitori dello stesso sesso non sussiste.

Non è invece pertinente il richiamo, nelle difese erariali, a Cass., 11 novembre 2014 n. 24001, che riguarda un caso di maternità surrogata.

La parte erariale ha sostenuto che il principio enucleato da Cass., 19599/16, cit., non si potrebbe applicare al caso di specie perché, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, una delle madri aveva donato l’ovulo e l’altra aveva partorito, e quindi entrambe avevano un legame non meramente intenzionale con il figlio.

La questione appare comunque, agli odierni fini, irrilevante: non si discute, infatti, della contrarietà all’ordine pubblico internazionale della genitorialità intenzionale; l’argomentazione della Corte di cassazione fa effettivamente leva sul contributo che entrambe le madri hanno dato alla nascita del figlio, ma per escludere la riconducibilità della fattispecie a quella della maternità surrogata; quel che oggi rileva è che, secondo la Corte di Cassazione, seguita sul punto da svariati giudici di merito, di per sé non contrasta con l’ordine pubblico internazionale la legge straniera che consente a due persone del medesimo sesso di essere genitori di un figlio (in caso contrario, la Suprema Corte non avrebbe dovuto neppure procedere nell’analisi).

Giova osservare che Cass., 14878/17, cit., ha affermato il medesimo principio in una fattispecie in cui, a quanto si evince dalla narrativa, vi erano una madre gestazionale e biologica e una madre intenzionale che non aveva alcun legame genetico con il minore.

D’altra parte, si è detto che App. Trento ha recentemente escluso che contrasti con l’ordine pubblico internazionale l’atto di nascita straniero che indica come genitori due padri, ed è ovvio che, in una simile fattispecie, la cooperazione di entrambi alla nascita non è neppure ipotizzabile.

Tuttavia, la questione che si pone oggi all’attenzione del Collegio è molto diversa. Mentre in tutti i precedenti noti si discuteva della trascrizione di un atto di nascita formato all’estero, in cui erano indicati due genitori del medesimo sesso, nel presente caso si discute, per la prima volta a quanto consta, della possibilità di formare in Italia un atto di nascita in cui siano indicati due genitori del medesimo sesso.

A opinione del Collegio, la formazione dell’atto di nascita è regolata da norme che non disciplinano direttamente i rapporti fra privati, ma disciplinano l’attività della pubblica amministrazione, e si debbono ritenere di applicazione necessaria.

Come è noto, ai sensi dell’art. 17 legge d.i.p., «è fatta salva la prevalenza sulle disposizioni che seguono delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera».

Mancando un criterio preciso per individuare, salvo che nei casi in cui la disposizione preveda espressamente di volersi applicare anche ai rapporti che presentano carattere di estraneità, quali siano le norme di applicazione necessaria, gli interpreti fanno di solito riferimento all’oggetto e allo scopo della disposizione.

In particolare, la Corte di cassazione ha affermato, in una delle rare occasioni in cui ha dato un’esplicita definizione dell’istituto, che si tratta delle norme «(definite sovente lois de police) spazialmente condizionate e funzionalmente autolimitate — e perciò solo destinate ad applicarsi nonostante il richiamo alla legge straniera —, quali, tra le altre, le leggi fiscali, valutarie, giuslavoristiche, ambientali» (Cass., SS.UU., 5 luglio 2011 n. 14650, in motiv.).

Ora, le leggi che disciplinano l’attività della pubblica amministrazione sembrano per loro natura spazialmente condizionate e funzionalmente autolimitate, in quanto regolano gli atti compiuti dall’organo dello Stato-apparato, che non può applicare, nella propria azione amministrativa, disposizioni straniere.

D’altra parte, anche se gli interpreti più recenti hanno apparentemente svalutato un tradizionale criterio che le riconduceva al diritto pubblico, è pur vero che, in senso stretto, le norme di applicazione necessaria sono pur sempre norme privatistiche. Applicando una tale nozione, il problema non si porrebbe neppure, e sarebbe ontologicamente escluso che un organo dello Stato possa formare un atto in conformità a una legge straniera.

Conforta il Collegio in questo convincimento il fatto che la stessa Corte di cassazione, nella già più volte richiamata sentenza 19599/16, abbia affermato, senza neppure svolgere un particolare approfondimento sul punto, come se considerasse la questione scontata: «Nel presente giudizio, infatti, non si tratta di verificare la conformità alla legge italiana della legge spagnola, in base alla quale è stato formato all’estero l’atto di nascita di un bambino da due madri, essendo evidente la difformità delle rispettive discipline: la legge italiana non consente alle nostre autorità di formare un atto di nascita del genere».

La legge italiana, dunque, secondo il giudice di legittimità, non consente alle nostre autorità di formare un atto di nascita in cui siano indicati due genitori dello stesso sesso.

Non giova in senso contrario osservare che è possibile (e anzi, dopo la sentenza della Corte di Giustizia 2 ottobre 2003 in C-148/02, Garcia Avello, doveroso) formare un atto di nascita attribuendo al neonato il cognome che gli spetta sulla base della sua legge nazionale, e non sulla base della legge interna, anche nei casi di doppia cittadinanza.

Sembra appena il caso di osservare che i due casi non sono comparabili: nell’uno si tratta di formare un atto di nascita in cui viene attribuito un cognome invece che un altro, ma quindi sostanzialmente rispondente alla fattispecie dell’atto di nascita come regolato dalla legge italiana, nell’altro si tratta di formare un atto di nascita in cui, anziché un padre e una madre, sono indicati due padri o due madri, e quindi divergente rispetto alla fattispecie dell’atto di nascita come regolato dalla legge italiana; o, se si preferisce, nell’un caso la legge straniera viene in considerazione per il contenuto dell’atto, nell’altro verrebbe in considerazione per la sua struttura.

Analogamente, non contraddice l’argomentazione il fatto che, a quanto affermano le ricorrenti, le istruzioni del Ministero dell’interno prevedano che, quando si forma l’atto di nascita di un bambino nato da genitori stranieri, si recepiscano le indicazioni dei dichiaranti quanto allo status di figlio legittimo o nato fuori del matrimonio, visto che, anche in questo caso, l’atto di nascita che viene così formato è coerente con la struttura prevista dall’ordinamento italiano per gli atti di nascita.

E, più in radice, per quanto sopra si è detto, non appare possibile affermare che la legge italiana consenta di stabilire la filiazione qualora alla procreazione medicalmente assistita eterologa faccia ricorso una coppia same-sex, almeno per il genitore intenzionale.

Ciò posto, resta da valutare la possibilità che, come sostenuto dalle ricorrenti, il giudice possa disapplicare la disposizione interna.

Ad avviso del Collegio, questa possibilità non sussiste.

In materia di cittadinanza europea, è ancora valido l’insegnamento della Corte di Giustizia (7 luglio 1992, in C-369/90, Micheletti) secondo cui «La determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza rientra, in conformità al diritto internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro, competenza che deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario. Non spetta, invece, alla legislazione di uno Stato membro limitare gli effetti dell’attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato».

Se è vero che la sentenza Micheletti interviene in una fattispecie in cui la cittadinanza di un altro stato già sussisteva, in linea assolutamente teorica il medesimo principio si dovrebbe applicare anche al caso in cui i requisiti ulteriori siano posti per l’acquisto della cittadinanza di uno Stato membro e quindi della cittadinanza europea.

Nel caso di specie, tuttavia, la legge italiana non pone alcun requisito ulteriore rispetto alla filiazione per l’acquisto della cittadinanza europea.

Si discute, infatti, dello stabilimento della filiazione, che è un presupposto dell’acquisto della cittadinanza, e non direttamente della cittadinanza, che, come è pacifico, laddove la maternità della ricorrente genitrice intenzionale fosse riconosciuta, sarebbe acquisita senz’altro dal figlio. L’argomento, cioè, prova troppo.

Dato che la cittadinanza si acquista anche per matrimonio, se ne dovrebbe concludere che, prima dell’introduzione dell’art. 1 comma 20 legge 76/2016 in forza del quale anche l’unione civile fra persone dello stesso sesso consente l’acquisizione della cittadinanza, il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso fosse contrario al diritto europeo perché non consentiva l’acquisizione della cittadinanza europea al cittadino straniero che intendesse celebrare matrimonio con un cittadino italiano dello stesso sesso; ma una tale conclusione appare del tutto inaccettabile e comunque si deve escludere anche alla luce della richiamata giurisprudenza costituzionale.

Ciò detto, deve osservarsi che il minore è cittadino statunitense: la cittadinanza statunitense non è contestata, ma la si può comunque stabilire sulla base della section 301 (g) dell’INA secondo cui «The following shall be nationals and citizens of the United States at birth: (…) a person born outside the geographical limits of the United States and its outlying possessions of parents one of whom is an alien, and the other a citizen of the United States who, prior to the birth of such person, was physically present in the United States or its outlying possessions for a period or periods totaling not less than five years, at least two of which were after attaining the age of fourteen years» [«I seguenti soggetti avranno la cittadinanza e la nazionalità degli Stati Uniti alla nascita: (…) una persona nata fuori dai confini degli Stati Uniti e dei suoi possedimenti esterni da genitori di cui uno sia uno straniero, e l’altro un cittadino degli Stati Uniti che, prima della nascita di tale persona, era stato fisicamente presente negli Stati Uniti o nei suoi possedimenti esterni per un periodo, o più periodi, ammontanti in totale a non meno di cinque anni, di cui almeno due dopo aver raggiunto l’età di quattordici anni»; il prosieguo della disposizione presenta condizioni ulteriori che non sono di interesse in causa].

In particolare, la madre gestazionale è nata in Illinois, ha contratto matrimonio all’età di 41 anni con la madre intenzionale in Illinois, e si deve presumere, quindi, fino a prova contraria, che, fra le due date, sia rimasta sul territorio degli Stati Uniti.

Assodato, quindi, che il minore è cittadino statunitense, non è contestato che l’ultimo domicile della madre gestazionale si trovasse nello stato del Wisconsin e anzi che la stessa conservi il domicile in tale Stato avendo provato l’iscrizione alle liste elettorali del Wisconsin.

Come è noto, in common law il domicile si mantiene in un luogo anche se ci si trasferisce a vivere altrove, anche per un tempo lungo, purché in quel luogo si conservi l’intenzione di fare ritorno [«Bouvier defines domicile as that place where a man has his true, fixed, and permanent home and principal establishment, and to which he has the intention of returning whenever he is absent therefrom» («Bouvier definisce il domicile come quel luogo dove un uomo ha la sua dimora autentica, fissa e permanente e il suo principale stabilimento, e a cui ha l’intenzione di ritornare ogniqualvolta ne sia assente»): Stine v. Moore, 213 F.2d 446 (5 th Cir. 1954); si veda anche, per quanto possa essere di interesse, Mas v. Perry, 489 F.2d 1396 (5 th Cir.), secondo la quale la donna sposata con una persona straniera non perde il proprio domicile originario].

D’altra parte, il figlio minore ha il domicile dei genitori [«Domicile is established for adults by physical presence in a place combined with intent to remain there. Holyfield, 490 US at 48, 109 SCt at 1608, 104 LEd2d 29 (citing Texas v. Florida, 306 U.S. 398, 424, 59 SCt 563, 576, 83 Led 817 (1939). A minor takes the domicile of his parents. Id.» (Il domicile è stabilito per gli adulti in base alla presenza fisica in un luogo combinata con l’intenzione di rimanervi. Holyfield, 490 US at 48, 109 SCt at 1608, 104 LEd2d 29 (citando Texas v. Florida, 306 U.S. 398, 424, 59 SCt 563, 576, 83 LEd 817 (1939)). Un minore prende il domicile dei suoi genitori. Id.): In Re the Matter of J.D.M.C., 2007 SD 97].

Ai sensi dell’art. 18 comma 1 legge d.i.p., in quanto l’ordinamento degli Stati Uniti d’America è plurilegislativo, si deve far riferimento, com’è noto, alla legge dello Stato del domicile, che costituisce la residenza legale.

Ora, ai sensi dell’art. 33 legge d.i.p. «1. Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita. 2. La legge individuata ai sensi del comma 1 regola i presupposti e gli effetti dell’accertamento e della contestazione dello stato di figlio; qualora la legge così individuata non permetta l’accertamento o la contestazione dello stato di figlio si applica la legge italiana. 3. Lo stato di figlio, acquisito in base alla legge nazionale di uno dei genitori, non può essere contestato che alla stregua di tale legge; se tale legge non consente la contestazione si applica la legge italiana. 4. Sono di applicazione necessaria le norme del diritto italiano che sanciscono l’unicità dello stato di figlio», mentre, ai sensi dell’art. 35 legge d.i.p., «1. Le condizioni per il riconoscimento del figlio sono regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita, o se più favorevole, dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene; se tali leggi non prevedono il riconoscimento si applica la legge italiana 2. La capacità del genitore di fare il riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale. 3. La forma del riconoscimento è regolata dalla legge dello Stato in cui esso è fatto o da quella che ne disciplina la sostanza».

Ora, come si è detto, la legge del Wisconsin, e in particolare la section 891.40 (rubricato artificial insemination, inseminazione artificiale) dei Wisconsin Statutes che si è sopra trascritto, prevede che il marito, tale al tempo del concepimento, della donna che ha fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa, se ha espresso consenso per iscritto, sia [equiparato al] padre biologico.

Occorre precisare che la section 891.40 non è una norma processuale: anche se il chapter 891 è rubricato presumptions (presunzioni), e la sezione in cui è inserito Provisions Common to Actions and Proceedings in All Courts (disposizioni comuni alle azioni e ai procedimenti davanti a tutti i tribunali), si tratta evidentemente di una disposizione di contenuto sostanziale, che fonda la paternità giuridica istituendo una fictio iuris di paternità biologica.

Ora, nel diritto statunitense, e in particolare nel diritto del Wisconsin, le disposizioni debbono essere genderneutral e la parola husband (marito) deve quindi essere interpretata nel senso di spouse (coniuge).

In particolare, si vedano i precedenti Wolf v. Walker (« It is DECLARED that art. XIII, § 13 of the Wisconsin Constitution violates plaintiffs’ fundamental right to marry and their right to equal protection of laws under the Fourteenth Amendment to the United States Constitution. Any Wisconsin statutory provisions, including those in Wisconsin Statutes chapter 765, that limit marriages to a “husband” and a “wife,” are unconstitutional as applied to same-sex couples»: «si dichiara che l’art. XIII, § 13 della Costituzione del Wisconsin viola il diritto fondamentale degli attori a sposarsi e il loro diritto alla pari protezione giuridica, tutelato dal Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti. Ogni disposizione legislativa del Wisconsin, incluse quelle del chapter 765 dei Wisconsin Statutes, che limiti il matrimonio a un “marito” e a una “moglie”, è incostituzionale se applicata a coppie dello stesso sesso») e, nello specifico, Torres v. Seemeyer, 207 F. Supp. 3d 905 – Dist. Court, WD Wisconsin 2016 («It is DECLARED that the Wisconsin Department of Health Services’s practice before May 2, 2016 of enforcing Wis. Stat § 891.40(1) against female married couples but not different-sex couples is unconstitutional. The department is directed to construe Wis. Stat. § 891.40(1) in gender-neutral terms. In particular, the word “husband” in § 891.40(1) should be construed to mean “spouse.”»: «si dichiara che la prassi del Dipartimento dei Servizi Sanitari del Wisconsin, prima del 2 maggio 2016, di applicare il § 891.40(1) degli Wis. Stat. in danno di coppie di donne sposate ma non di sesso differente è incostituzionale. Al dipartimento viene ordinato di interpretare il § 891.40(1) degli Wis. Stat. in termini neutri quanto al genere. In particolare, la parola “marito” nel § 891.40(1) dovrebbe essere interpretata nel senso di “coniuge”»).

A livello federale, deve farsi dapprima richiamo del notissimo precedente Obergefell v. Hodges, con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto il diritto al matrimonio delle coppie dello stesso sesso.

Infine, la Corte Suprema ha deciso, nella sentenza Pavan v. Smith, 582 U.S. (2017): «…when an opposite-sex couple conceives a child by way of anonymous sperm donation – just as the petitioners did here – state law requires the placement of the birth mother’s husband on the child’s birth certificate… And that is so even though (as the State concedes) the husband “is definitively not the biological father” in those circumstances… Arkansas has thus chosen to make its birth certificates more than a mere marker of biological relationships: the State uses those certificates to give married parents a form of legal recognition that is not available to unmarried parents. Having made that choice, Arkansas may not, consistent with Obergefell, deny married same-sex couples that recognition» («…quando una coppia di sesso diverso concepisce un figlio attraverso una donazione anonima di seme – come hanno fatto gli odierni ricorrenti – il diritto dello Stato prevede l’inserimento del marito della madre biologica sul certificato di nascita del figlio… e ciò avviene anche se (come lo Stato riconosce) il marito in tali casi “sicuramente non è il padre biologico”… L’Arkansas ha così scelto di fare dei suoi certificati di nascita qualcosa di più che semplici indicatori di relazioni biologiche: lo Stato usa questi certificati per dare ai genitori sposati una forma di riconoscimento legale che non è disponibile per i genitori non sposati. Avendo fatto questa scelta, l’Arkansas non può, in coerenza con la sentenza Obergefell, negare questo riconoscimento a coppie sposate dello stesso sesso»).

La parte pubblica aveva inizialmente sostenuto che le norme di conflitto consentirebbero al giudice italiano di applicare la legge straniera, ma non anche la giurisprudenza straniera: ma l’eccezione è manifestamente infondata.

È principio fondamentale del diritto internazionale privato che le norme di rinvio conducono all’ordinamento straniero nel suo complesso, e quindi anche all’interpretazione che ne danno i giudici di quell’ordinamento: anzi, secondo una nota formula, il giudice, quando applica il diritto straniero, deve considerare se stesso come se avesse sede in quel Paese. La distinzione, poi, perde quasi completamente il proprio significato quando l’ordinamento richiamato sia di common law, come è quello statunitense.

Non ha poi fondamento la tesi della parte erariale secondo cui le sentenze straniere non potrebbero essere utilizzate dal giudice, perché non sono state sottoposte allo scrutinio di cui all’art. 65 legge d.i.p.: a prescindere da ogni altra considerazione, tale scrutinio riguarda infatti la possibilità di portare a esecuzione la sentenza straniera quanto al suo comando concreto, vale a dire la sua concreta incidenza sui rapporti giuridici controversi, ma non ha nulla a che vedere con la possibilità di tener conto della giurisprudenza straniera come elemento costitutivo del diritto vivente straniero.

Secondo la legge del Wisconsin, quindi, la madre intenzionale, che, per l’ordinamento statunitense, è sposata con la madre gestazionale, e ha dato per iscritto il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, è genitore del minore.

Non ha pregio l’osservazione della parte pubblica secondo cui, per l’ordinamento italiano, le ricorrenti non sono sposate: nel momento in cui il giudice deve valutare se, per l’ordinamento statunitense, la ricorrente di cittadinanza italiana è madre del minore, deve considerare che, per tale ordinamento, le ricorrenti sono coniugi.

Per quanto si è sopra detto, alla luce del diritto vivente (e in particolare di Cass., 19599/16, cit.), si deve escludere che l’applicazione della legge del Wisconsin sia contraria all’ordine pubblico internazionale.

Appare il caso di precisare che il giudizio sulla contrarietà all’ordine pubblico della legge straniera non è diverso a seconda che si tratti di recepire un atto straniero, o di fare diretta applicazione della legge straniera. La distinzione introdotta dalla Corte di cassazione nel rimarcare che le autorità italiane non potrebbero formare un siffatto atto di nascita rileva infatti sotto un altro profilo, come si illustrerà oltre.

Ciò significa che, da un lato, se, ai sensi della legge del Wisconsin, può stabilirsi alla nascita la filiazione tra il minore e la madre intenzionale, questo stabilimento è rilevante per il diritto italiano; dall’altro, la madre intenzionale può invocare la legge del Wisconsin, quale legge nazionale del figlio, per operare il riconoscimento.

Sembra il caso di rilevare, anche in relazione alle eccezioni della parte erariale, che (a) il riferimento alle norme di diritto internazionale privato è pertinente, perché la fattispecie presenta caratteri di estraneità, in quanto il figlio è cittadino statunitense, come lo è il genitore che è menzionato come tale nell’atto; (b) la nazionalità italiana dell’altro genitore non preclude l’efficacia del riconoscimento, perché l’art. 35 comma 2 legge d.i.p., nel prevedere che la capacità del genitore di effettuare il riconoscimento è regolata dalla sua legge nazionale, si riferisce alla capacità di agire, mentre il comma 1 del medesimo art. 35 rinvia, per le condizioni del riconoscimento, alla legge nazionale del figlio; la conclusione appare del resto ovvia anche alla luce del secondo periodo dell’art. 20 legge d.i.p. secondo cui le condizioni speciali di capacità sono disciplinate dalla legge del rapporto.

Non può poi condividersi la posizione della parte erariale, laddove sembra ritenere che, in conseguenza della mancata formazione dell’atto di nascita, la ricorrente di cittadinanza italiana non possa considerarsi madre del minore. In effetti, come si desume dall’art. 236, c.c., l’atto di nascita dà la prova della filiazione, ma non la fa sorgere: la filiazione, sussistendone i presupposti di legge – della legge applicabile – sorge per il solo fatto della nascita.

E tuttavia, pur dovendosi ritenere che la ricorrente genitrice intenzionale sia madre del minore secondo la legge del Wisconsin applicabile alla fattispecie, la legge italiana, come si è sopra illustrato, per usare le parole della Corte di cassazione, non consente alle nostre autorità di formare un atto di nascita in cui un figlio risulti avere due genitori dello stesso sesso.

A questo punto, il Collegio dubita della legittimità costituzionale della norma che si desume dagli artt. 449 c.c., dagli artt. 29 comma 2 e 44 comma 1 decreto del Presidente della Repubblica 396/00, dall’art. 250 c.c., e dagli artt. 5 e 8 della legge 40/04, nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile in base all’art. 33 legge 218/95, per contrasto:

1) con gli artt. 2 e 3, Cost., perché in modo irragionevole limita il diritto di persone che, in base alla legge straniera applicabile, sono legate da un rapporto di genitorialità-filiazione di vedere riconosciuta pienamente in Italia la loro formazione sociale;

2) con l’art. 3, Cost., per irragionevole discriminazione con la situazione in cui il cittadino di nazionalità straniera abbia due genitori intenzionali di sesso diverso, nel qual caso la formazione dell’atto di nascita sarebbe possibile, con ciò ponendo in essere una discriminazione basata sul sesso;

3) con gli artt. 3 e 24, Cost., perché irragionevolmente non consente al figlio di ottenere la prova precostituita della filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile, in assenza di motivi di ordine pubblico internazionale che ostino alla sua applicazione in Italia;

4) con gli artt. 3 e 30, Cost., dal quale ultimo si desume il diritto del figlio di ricevere mantenimento e istruzione dai genitori (che tali siano in base alla legge applicabile al rapporto di filiazione), e quindi, prima di tutto, anche secondo un criterio di ragionevolezza, di vedere riconosciuta formalmente la filiazione;

5) con l’art. 117, Cost., per contrasto con gli artt. 3 («In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. 2. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati. 3. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle Autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo») e 7 («Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi. 2. Gli Stati parti vigilano affinché questi diritti siano attuati in conformità con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che sono imposti loro dagli strumenti internazionali applicabili in materia, in particolare nei casi in cui se ciò non fosse fatto, il fanciullo verrebbe a trovarsi apolide») della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge 176/91, in quanto non consente di garantire l’interesse superiore del fanciullo, imponendogli di non vedere formalmente riconosciuta una genitorialità che sussiste in base alla legge straniera applicabile, e ponendo ostacoli alla realizzazione della sua aspirazione a vivere con due genitori;

6) con l’art. 117, Cost., per contrasto con l’art. 7 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge 176/91, in quanto non consente di vedere riconosciuta immediatamente alla nascita la sua filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile.

Giova premettere che il Collegio è consapevole del fatto che il decreto del Presidente della Repubblica 396/00 ha natura regolamentare, e quindi di per sé non sarebbe assoggettabile alla valutazione della Corte costituzionale.

Il Collegio osserva tuttavia da un lato che la Corte costituzionale con sentenza 286/2016 ha ritenuto ammissibile e ha accolto la questione di legittimità costituzionale di una norma derivata in via interpretativa da una congerie di disposizioni, fra le quali gli artt. 33 e 34 decreto del Presidente della Repubblica 396/00 (si trattava, allora, della norma che non consentiva ai coniugi di trasmettere ai figli, di comune accordo, al momento della nascita, anche il cognome della madre), dall’altro che, in quanto l’art. 449 c.c., nel prevedere che i registri dello stato civile siano tenuti in conformità alle norme contenute nella legge sull’ordinamento dello stato civile, e quindi ora al regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile portato dal suddetto decreto del Presidente della Repubblica 396/00, in tal modo vincolando con norma primaria l’amministrazione a conformarsi alle previsioni regolamentari, e soprattutto in quanto il dubbio di illegittimità che il Collegio ravvisa non è di immediato contrasto del regolamento con la Costituzione, ma di contrasto con la Costituzione di una norma immanente nell’ordinamento a livello primario e al cui rispetto il regolamento, attraverso l’art. 449 c.c., vincola la formazione degli atti di nascita, la questione non possa circoscriversi alla sola legittimità del regolamento e non possa quindi risolversi con la sua disapplicazione.

La questione è rilevante, perché il suo accoglimento comporterebbe l’accoglimento del ricorso, che, in caso contrario, dovrebbe essere rigettato.

Il Collegio non ritiene che sia possibile fornire un’interpretazione diversa delle norme, e supporre quindi che il concetto di «genitori» possa essere letto, sul piano del diritto interno, in termini neutrali, e non in termini di padre e madre nel significato comune delle parole, per le considerazioni che si sono sopra svolte, e in particolare per l’analogia concettuale fra l’istituto della filiazione e quello del matrimonio (relativamente al quale, come si è detto, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’ordinamento recepisse la nozione tradizionale e millenaria che presuppone la diversità di sesso), per i chiarissimi indici testuali che si traggono dalla legge 40/04 e dalla stessa legge 76/17 (che hanno escluso la possibilità di consentire alle coppie omosessuali la genitorialità attraverso la procreazione medicalmente assistita o l’adozione legittimante), e per l’autorevole insegnamento della Corte di cassazione che, come si è detto, ha escluso, sia pure obiter, la possibilità per le autorità italiane di formare un atto di nascita nel quale due persone dello stesso sesso siano indicate come genitori.

La questione appare inoltre al Collegio non manifestamente infondata.

In ordine al primo punto, sulla scorta di Corte cost., 138/10, cit., anche se si vuole escludere che la tutela della famiglia fondata sulla coppia omosessuale possa ricondursi all’art. 29, Cost., sembra evidente che costituisca una formazione sociale che, secondo il diritto vivente, non è contraria con l’ordine pubblico internazionale, e che è meritevole di riconoscimento e di tutela. A maggior ragione, quindi, appare meritevole di riconoscimento e di tutela il rapporto di filiazione, sussistente per la legge straniera, tra due membri di un siffatto nucleo familiare, ancorché privi di legami genetici.

L’impossibilità di formare un atto di nascita in cui si dia atto di un tale rapporto di filiazione degrada invece il rapporto familiare a una condizione di mero fatto e non consente di offrirle di per se stessa riconoscimento e tutela (ad esempio, costringerebbe il genitore intenzionale che è genitore dalla nascita per la legge applicabile a chiedere in Italia l’adozione in casi particolari, che tuttavia ha un effetto giuridico minore).

È pur vero che, come si è detto, ai sensi dell’art. 236 del codice civile, l’atto di nascita dà prova della filiazione, e non la fa sorgere; e tuttavia l’impossibilità di ottenere un atto di nascita ostacola fortemente il riconoscimento giuridico del rapporto familiare.

L’ostacolo appare ancora maggiore laddove si consideri che, in assenza di un atto di nascita che ne dia atto, il minore e il genitore intenzionale si potrebbero trovare concretamente in difficoltà nel far valere la filiazione anche nell’ambito di ordinamenti che accettano la genitorialità omosessuale.

In tal modo, quindi, la norma sembra comprimere i diritti della formazione sociale senza che possa rinvenirsi un ragionevole motivo al riguardo, se solo si considera che, se l’atto di nascita fosse stato formato all’estero, lo si sarebbe potuto trascrivere in Italia e dare giuridico rilievo alla filiazione.

In particolare – e la considerazione si svolge con riferimento a questo primo motivo, ma potrebbe essere ripetuta anche con riferimento ai motivi successivi – il mancato riconoscimento della genitorialità della madre intenzionale comporterebbe una lunga serie di inaccettabili limitazioni.

Esemplificativamente, il minore non potrebbe far valere nel territorio della Repubblica, nei confronti di una persona di cui è figlio per la sua legge nazionale, cui le norme di conflitto italiane fanno rinvio, e che non contrasta con l’ordine pubblico, il proprio diritto al mantenimento, alla cura, al sostegno materiale e spirituale, all’istruzione e all’educazione, a una vita familiare comune; eventuali conflitti fra i genitori non potrebbero essere risolti da un giudice; in caso di rottura della coppia il genitore intenzionale potrebbe essere escluso dalla frequentazione con il minore.

In ordine al secondo punto, è evidente che l’atto di nascita potrebbe essere formato senza questioni, e quindi la genitorialità intenzionale immediatamente riconosciuta, se alla procreazione medicalmente assistita avesse fatto ricorso, all’estero, una coppia di sesso diverso, se la filiazione fosse stabilita in base alla legge applicabile.

Poiché l’unica distinzione che non consente la formazione di un atto di nascita che dia atto della filiazione sussistente secondo la legge applicabile è data dal sesso della coppia genitoriale, sembra sussistere una discriminazione basata sul sesso.

In ordine al terzo punto, è stato affermato dalla Corte costituzionale: «È ben vero che l’esclusione o la limitazione della disponibilità di un mezzo probatorio e in particolare del ricorso alla prova per testi sono state dalla Corte ritenute costituzionalmente legittime, se giustificate dalla esigenza di “salvaguardia di altri diritti o altri interessi giudicati degni di protezione in base a criteri di reciproco coordinamento”»; in caso contrario, ne resta violato l’art. 24 della Costituzione, limitandosi ingiustificatamente il diritto alla prova, che costituisce nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa (C. Cost., 248/74). Analoga conclusione è stata raggiunta da C. Cost., 146/87 e da altre pronunce.

Dato che la funzione primaria dell’atto di nascita è quella di dare prova (precostituita e privilegiata) della filiazione, e che, in sua assenza, la prova della filiazione (sussistente secondo la legge applicabile) può essere particolarmente difficoltosa, e dato che non si ravvisano esigenze di salvaguardia di altri diritti o interessi degni di protezione, la limitazione sembra ingiustificata.

È vero che, nella presente fattispecie, non si discute dell’efficacia probatoria dell’atto di nascita, ma della sua formazione; tuttavia, escludere la possibilità di formare l’atto di nascita impedisce anche il suo futuro utilizzo come prova.

Nel dare applicazione alla norma che non consente di formare atti di nascita in cui sono indicati genitori dello stesso sesso, sembra al Collegio di potere, e dovere, dubitare della sua legittimità anche sotto questi profili solo apparentemente eventuali o meglio potenziali.

In ordine al quarto punto, l’impossibilità di far constare la filiazione, che pure sussiste secondo la sua legge nazionale, preclude al minore di far valere il proprio diritto a ricevere mantenimento e istruzione dal genitore; tale diritto deve necessariamente comprendere, come presupposto, e secondo un criterio di ragionevolezza, il diritto a veder accertata la filiazione.

Anche in questo caso, nella presente fattispecie, non si discute del mantenimento del minore; ma, nel dare applicazione alla norma che non consente di formare atti di nascita in cui sono indicati genitori dello stesso sesso, sembra al Collegio di potere, e dovere, dubitare della sua legittimità nei medesimi sensi di cui si è detto al punto che precede.

In ordine al quinto e al sesto punto, l’impossibilità di formare un atto di nascita che faccia constare la maternità intenzionale sembra al Collegio violare le richiamate disposizioni della Convenzione di New York, che impongono di riconoscere alla nascita la genitorialità che sussista secondo la legge applicabile, di non porre ostacoli alla sua aspirazione di vivere con i genitori.

In effetti, la mancata formazione dell’atto di nascita, come si è già osservato, comporterebbe in via immediata la degradazione a livello di mero fatto del rapporto fra il minore e una delle sue madri, con ciò ostacolando in modo evidente il suo benessere e l’esplicazione della bigenitorialità.

La Convenzione fa infatti riferimento a «genitori» al plurale e ad «entrambi i genitori» (art. 18); e che il diritto alla bigenitorialità sia uno dei principi portanti della Convenzione stessa, e cardine di ogni valutazione in termini di miglior interesse del minore, è opinione generalizzata degli interpreti, mentre sembra soltanto una petizione di principio affermare che la Convenzione non affermi che sia interesse del minore avere due genitori dello stesso sesso.

Sembra poi al Collegio riduttiva l’opinione della parte erariale secondo cui l’art. 7 non sarebbe violato per il fatto che l’atto di nascita è stato comunque redatto: in una lettura non atomistica della disposizione, che comprende il diritto a essere immediatamente registrato e, nei limiti del possibile, conoscere i suoi genitori, comporta anche il diritto a non veder disconosciuta la filiazione che gli attribuisce la sua legge nazionale senza contrasto con l’ordine pubblico costituzionale.

Appare poi non convincente l’osservazione secondo cui la Convenzione non comporterebbe la necessità per uno Stato di riconoscere la genitorialità prevista dalla legge di cui il minore è cittadino, visto che la filiazione deve ritenersi già riconosciuta attraverso il rinvio compiuto dal diritto internazionale privato italiano e della non contrarietà della legge straniera all’ordine pubblico internazionale, mentre, per i motivi già esposti quando si è illustrata la non manifesta infondatezza del primo dubbio di legittimità costituzionale, non convince neppure la tesi secondo cui il mancato riconoscimento della filiazione non impedirebbe al genitore intenzionale di accudire e allevare il minore.

Per tali motivi il Collegio ritiene di dover procedere a sollevare questione di legittimità costituzionale, nei sensi di cui sopra.

P.Q.M.

Il Tribunale di Pisa,

Visto l’art. 23 legge 87/1953,

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma che si desume dagli artt. 449 c.c., 29 comma 2 decreto del Presidente della Repubblica 396/00, dell’art. 250 c.c., e degli artt. 5 e 8 della legge 40/04, nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile in base all’art. 33 legge 218/95, per contrasto:

  1. a) con gli artt. 2 e 3, Cost.,
  2. b) con l’art. 3, Cost.,
  3. c) con gli artt. 3 e 24, Cost.,
  4. d) con gli artt. 3 e 30, Cost.,
  5. e) con l’art. 117, Cost., per contrasto con gli artt. 3 e 7 della Convenzione di New York del 20 novembre

1989, ratificata con legge 176/91

  1. f) con l’art. 117, Cost., per contrasto con l’art. 7 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge 176/91;

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

Sospende il processo in corso;

Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, compreso il pubblico ministero, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri, e che sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

 

Pisa, 20 dicembre 2017

 

Il Presidente: DINISI