Tomaso Epidendio
Sostituto Procuratore generale alla Corte Suprema di Cassazione

Per la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa *

 

Sommario: 1. Premessa – 2. Da dove veniamo – 3. Dove siamo arrivati – 4. Le radici cristiane dell’Europa – 5. Teologia politica contro teocrazia e Stato confessionale ‒ 6. La koinonia come radice cristiana dell’Europa ‒ 7. Conclusioni

 

  1. Premessa

 

Qualcuno ha detto che lo scorso 11 aprile, dopo il compromesso dei Ministri delle Finanze sugli aiuti per la pandemia, l’Europa è finita. Il virus uccide le persone e ha ucciso l’Unione Europea.

Non so se l’Europa è finita e se dall’Unione Europea si stia passando di nuovo all’idea della Grande Germania, o alla composizione di nuove grandi alleanze planetarie, oppure se si stia tornando all’idea westafaliana degli Stati-nazione o a nuove concezioni della sovranità: quello che è certo è che – dopo aver manifestato l’incapacità di reagire in modo solidale alle crisi finanziarie, dei migranti e ora della pandemia – una certa idea di Europa sembra effettivamente morta. Intendo l’idea originaria di una Europa nata – come brillantemente recita il nostro art. 11 della Costituzione – dalle cessioni di sovranità statali necessarie a un ordinamento che assicuri “la pace e la giustizia tra le nazioni”.

Un punto va subito chiarito: la morte di un’idea non è necessariamente cosa grave: può darsi che abbia fatto il suo tempo e che debba essere sostituita da altre più adeguate.

La morte di questa idea invece lo è.

Lo è per il motivo generatore che ne era alla base: la pacificazione di nazioni bellicose, protagoniste di ben due conflitti mondiali con strascico di genocidi e immense sofferenze per il mondo intero; lo è per la strada usata per perseguire questa pacificazione che, come vedremo, ha molto a che fare con le sue radici cristiane.

Lo è perché smarrire quell’idea di Europa significa smarrire le radici cristiane che incarnava e che, misconosciute, rinnegate e tradite, ne costituivano l’essenza vitale.

Credo, dunque, che sia importante impegnarsi perché questa idea risorga – rinnovata e trasformata dopo la prova a cui è stata sottoposta dal tradimento – e che sia importante farlo per ragioni che vanno ben al di là della contingenza e che, proprio nell’estrema sofferenza che ci infligge la tragedia pandemica, possono trovare l’energia di rinnovamento spirituale perché ciò avvenga.

Impegnarsi vuol dire prima di tutto riconoscere da dove siamo partiti, capire perché siamo arrivati a questo punto e poi individuare il modo in cui si possa avviare una nuova trasformazione.

 

  1. Da dove veniamo

 

Forse non ci rendiamo più ben conto di quello che l’Unione Europea ha significato per noi e di quello che ci ha assicurato in anni che sembrano ormai irrimediabilmente passati. Forse non ci rendiamo più ben conto di cosa stiamo perdendo e, per comprenderlo, è bene fare ricorso non alla Grande Storia, con quel tanto di astrattezza e di distanza che essa porta con sé, ma alle piccole storie individuali, che con questa si intrecciano e che hanno tutta la concretezza del vissuto che si appella alla memoria di ciascuno di noi.

Ho avuto un nonno che, per destino di nascita, ha dovuto attraversare molte guerre: la guerra italo-turca del 1911-1912, la I guerra mondiale e la II guerra mondiale; durante i conflitti serviva in sanità e, tra i feriti e i morti, sapeva quanto fosse evanescente la distinzione tra amici e nemici e fragile la vita di ciascuno, quanto pesasse la lontananza dagli affetti e quanto valore avesse poter riabbracciare un amico dopo essersi separati. Ha avuto la grazia di morire ridendo: non ha retto la gioia di riabbracciare un amico che credeva perduto.

Lui sapeva bene – meglio di qualsiasi giurista o politico dei giorni nostri – quanto fossero importanti quelle cessioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicurasse la pace e la giustizia tra le nazioni; lui sapeva, molto meglio degli attuali protagonisti della Grande Storia, quale fedeltà si dovesse dimostrare nel gestire quelle cessioni di sovranità. Non è colpa di nessuno: lui lo sapeva meglio perché aveva fatto conoscenza per esperienza. Anche molti di coloro che hanno coltivato nel dopoguerra l’idea di Europa avevano questa conoscenza per esperienza, avevano conoscenze di tutte le umane debolezze e avevano provato sulla propria pelle quanto fosse difficile promuovere pace e giustizia tra i popoli.

Avevano conoscenza per esperienza e per questo hanno saputo far vivere il loro sogno, nonostante tutto quello che li separava, tutto il dolore di due conflitti mondiali che avrebbe potuto trasformarsi ancora una volta in vendetta e rancore. Per questo hanno saputo individuare gli elementi che potevano concretizzare la loro idea di Europa: la spinta dei mercati a superare i confini delle nazioni (cosmopolitismo dei mercati) e la loro esigenza di pacificazione per poter funzionare al meglio (pax mercatoria); il principio della “unità nella diversità” che, prima di tutto, riconosce la diversità delle culture, degli ordinamenti e delle strutture, ma anche la possibilità di una “equivalenza” dei diversi, che consente la vita in comune.

Quindi il mercato come mezzo, e non come fine, e un impianto giuridico complesso che, non ripetendo i modelli di uno Stato nazionale o di uno Stato federale, sia ispirato all’armonizzazione delle discipline nazionali secondo un opportuno self restraint dei poteri esercitati nei confronti degli Stati nazionali, che devono essere accompagnati verso una progressiva condivisione delle medesime prospettive di giustizia e di bene comune.

 

  1. Dove siamo arrivati

 

Ci si potrebbe attardare nella descrizione dei vari passaggi: di come si sia passati dal sistema delle Comunità a quello dell’Unione, da quello dei cd. “tre pilastri” a quello del Trattato di Lisbona; si potrebbero seguire i transiti dal mercato comune alla moneta unica e al ruolo assunto dalla Banca centrale europea; ci si potrebbe soffermare sui rapporti tra i diritti nazionali e il diritto comunitario: si potrebbe discorrere di impostazione monistica o dualistica degli ordinamenti, del modello “multilevel” di Pernice e delle sue traduzioni e varianti, di “reti normative” e di altre più fantasiose proposte che si sono di volta in volta tentate. Si potrebbe parlare della Carta di Nizza, di come la codificazione dei diritti fondamentali dell’Unione Europea abbia inciso sui rapporti tra le Corti. Si potrebbe citare questa o quella sentenza o fare una vera e propria “storia della giurisprudenza” e degli strumenti che questa ha creato per coordinare l’ordinamento nazionale con quello comunitario: si potrebbe discettare di “interpretazione conforme”, “disapplicazione” (recte inapplicazione) delle norme nazionali, della distinzione tra diretta “applicazione” e di diretta “efficacia” delle norme comunitarie, di “efficacia verticale” e di “efficacia orizzontale”, di  questioni di legittimità costituzionale e “controlimiti”. Tutti temi che hanno affascinato ormai generazioni di costituzionalisti, comunitaristi, penalisti, lavoristi, civilisti e amministrativisti e che, in passato, hanno attratto anche me, come magistrato penale e come cultore dilettante della materia.

Si potrebbe fare, ma sarebbe inutile. Si finirebbero per smarrire la direzione del cambiamento e, quindi, le cause della crisi a cui si è giunti.

Preferisco, dunque, concentrarmi sui sentieri che sono stati percorsi e che, nella mia prospettiva, hanno portato verso l’abisso.

Il primo è la trasformazione del mercato da mezzo per la pacificazione dei popoli a fine. Questa inversione assiologica tra pacificazione e mercato è quella che, a mio avviso, rende vani tutti i “moniti” che da più parti giungono alla “solidarietà” europea. Se si usa la logica economica, non si vede perché Stati – che, svincolati da limiti di spesa, hanno, per la loro passata oculatezza, risorse ingenti per fronteggiare le crisi – dovrebbero finanziare Stati che non potranno mai far fronte ai loro debiti, anziché attendere e poi acquistarne gli elementi produttivi.

Il secondo è il figlio del primo: l’accelerazione impressa al processo di integrazione europea. La corsa verso mercati sempre più ampi ha fatto dimenticare che la velocità richiesta dal mercato è incompatibile con la lentezza attraverso cui si costruisce la fiducia tra popoli, che vengono da storie e culture diverse. Si è coltivata l’illusione della “doppia cittadinanza”, nazionale ed europea, senza avere la pazienza di costruirne i presupposti, rappresentati da una prospettiva di giustizia nazionale ed europea comune o, quanto meno, compatibile. Come i viventi, anche le istituzioni hanno tempi e ritmi che devono essere rispettati: averli trasgrediti ha reso una tragica illusione l’idea della “sovranità divisa”, secondo cui ogni Stato conserverebbe la funzione di garante della libertà propria di un democratico Stato di diritto e l’Unione quella di garante dalle deviazioni che i singoli Stati membri potrebbero prendere rispetto a tale condizione a un certo momento della loro Storia. In assenza della costruzione di una prospettiva popolare (e dal basso) di giustizia comune sembra che fino ad ora i singoli Stati membri abbiano usato della loro sovranità per difendere, a scapito degli altri, i propri interessi nazionali e l’Unione si è mostrata incapace, sul piano dell’effettività, di prevenire scarti (più o meno gravi) delle singole nazioni dagli standard di democraticità e di Stato di diritto.

Il terzo è quel processo che Gunther Teubner chiama di «autopoiesi giuridica» e che porta le istituzioni ad essere autoreferenziali. Il diritto europeo – facilitato da Stati tolleranti, che si sono dimostrati privi di reale capacità di visione – si è sempre più svincolato dalle volontà fondatrici, ha dimenticato o negato il suo rapporto di derivazione dalle altrui volontà, e si è attribuito forza propria e carattere originario. Ha così abbandonato progressivamente ogni criterio di self restraint e ha spostato il proprio asse portante dall’armonizzazione progressiva delle discipline nazionali – che vuol dire rispetto delle diversità e loro accompagnamento verso il bene comune – all’imposizione diretta di discipline comunitarie, che talvolta hanno significato l’omogeneizzazione di situazioni diverse e la produzione di ingiustificate disparità di trattamento, incomprensibili a chi le subiva. Ciò ha determinato la diffusa avversione popolare – curiosamente ma significativamente distribuita sia negli Stati avvantaggiati sia in quelli svantaggiati – verso quella che è stata sentita come la “burocrazia europea”.

Il quarto è quello che usualmente viene definito “juristocracy”. In questa sede, intendo in particolare quell’approccio in forza del quale la definizione dei diritti – e lo stabilire quale debba prevalere, nel bilanciamento tra quelli in conflitto – non debba avvenire in sede politico-rappresentativa, ma preferibilmente in sede giudiziaria, dove si realizzerebbe quella naturale convergenza delle giurisdizioni verso soluzioni condivise e ottimali, espressione di una medesima cultura internazionale dei giudici. La nota delicatezza di simile approccio all’interno degli Stati tradizionali risulta aggravata nell’Unione Europea. Essa, infatti, entra in competizione con il fragile e parallelo processo di democratizzazione delle istituzioni comunitarie, mettendo in crisi, ancor prima che possano affermarsi in termini di rilevante effettività, i poteri del Parlamento europeo. Così aumenta il deficit di rappresentatività delle istituzioni e la disaffezione delle popolazioni nazionali, ostacolando paradossalmente la formazione di una prospettiva di giustizia comune, sentita come calata dall’alto di una “aristocrazia” giudiziaria, alla quale si finiscono per attribuire compiti di rappresentatività e mediazioni politiche che la snaturano quale “giurisdizione”.

La tesi di questo intervento è che tutti e quattro questi sentieri verso l’abisso hanno a che fare con il disconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, in un senso che deve essere ben compreso per non essere confuso con una rivendicazione confessionale o peggio con la proposta di una teocrazia.

 

  1. Le radici cristiane dell’Europa

 

Molto si è parlato delle radici cristiane dell’Europa e lo hanno fatto mirabilmente almeno due pontefici: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. In particolare, il primo nell’atto europeistico a Santiago di Compostela dell’11 novembre 1982 aveva affermato che l’identità europea era incomprensibile senza il cristianesimo e, ancora nel settembre del 2008, si era già tenuta a Varigotti una conferenza internazionale sulle radici cristiane dell’Europa nel pensiero di Joseph Ratzinger, che aveva espresso a più riprese: ad esempio a Strasburgo nel 1979 sull’Europa come eredità vincolante per i cristiani; a Spira nel 2000 sulle speranze e i pericoli che essa correva; a Roma nel 2004 sui fondamenti spirituali dell’idea europeistica; nel 2005 a Subiaco sulla crisi della cultura europeistica.

Non credo tuttavia che sia stata pienamente recepita negli ambienti europei la complessità di pensiero di Ratzinger, che pure aveva chiaramente illustrato come l’Europa fosse un concetto, prima che geografico, storico-culturale. Puntuale era stata l’analisi delle svolte succedutesi nella storia sull’idea di Europa: quella del Sacro Romano Impero, in cui il mondo latino occidentale si costituiva in riferimento a quello slavo orientale; quella dopo la caduta di Bisanzio, in cui la latinità cattolica si era costituita in riferimento alla germanicità protestante; quella della Rivoluzione francese che aveva visto formarsi i concetti di laicità e confessionalità attorno alle idee di ragione e libertà. Preciso il riconoscimento della storia semantica dell’idea di Europa, in cui erano confluite diverse eredità culturali: greca, latina e moderna con le connesse dialettiche sui concetti di “bene” (in contrapposizione ai “beni”), di democrazia, di legge e fede.

Stupisce che, alla luce di tale complessità, si sia potuto banalizzare la richiesta di riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa come una richiesta di confessionalità e come un rifiuto del multiculturalismo.

Stupisce ancor di più il netto rifiuto opposto a tale riconoscimento in sede di progetto per la Costituzione europea – nel quale era caduto anche il riferimento, contenuto nel Preambolo, al “patrimonio spirituale e morale” – nonostante nella Costituzione di uno dei paesi europei più importanti d’Europa, il Preambolo della Costituzione tedesca recitasse testualmente «Cosciente della sua responsabilità davanti a Dio e agli uomini … il popolo tedesco … ha deliberato l’approvazione di questa legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania» e nonostante Herman Luebbe avesse precisato che gli elementi stabili della cultura religiosa integrati di fatto nel sistema politico non fossero affidati alle comunità religiose, ma legassero i cittadini alla comunità anche nella loro esistenza religiosa indipendentemente da un’appartenenza confessionale.

Stupisce ma, forse, più che stupire si manifesta nella sua consistenza di segno profetico della crisi imminente dell’Europa. Una Europa che, rifiutando le sue radici cristiane, si privava di quell’elemento identitario (non confessionale) che solo poteva costituire la base di quella idea di giustizia comune, sulla quale tutti ritenevano dovesse essere costruito nell’avvenire un “popolo europeo”, per affidarsi all’ideologia di uno Stato libertario e secolarizzato che, secondo la felice espressione di Böckenförde, «vive di presupposti che da sé stesso non può garantire»[1].

Stupisce, ma forse va compresa nella sua umana fragilità che, travolta dalla paura ormai storicamente inconsistente di una confessionalità sovranazionale, si era caricata di un pregiudizio anticristiano, che le ha impedito di vedere i reali pericoli che l’Europa aveva di fronte e che purtroppo si sono ora manifestati in tutta la loro dirompente drammaticità.

E allora bisogna forse ricominciare da qui: bisogna ripartire dalla comprensione che una “teologia politica”, questa sì sottesa al riconoscimento delle radici cristiane, non significa una “teocrazia”; bisogna acquisire di nuovo consapevolezza del modo rivoluzionario in cui il “cristianesimo” concepisce i rapporti con la comunità civile, senza confondere i “tradimenti cristiani”, che la comunità confessionale ha perpetrato talvolta nella storia, con il “cristianesimo” e comprendere come esso possa radicare la comunità civile per costruire davvero, lentamente e per successive approssimazioni, un “popolo europeo”, premessa di ogni “solidarietà” oggi tanto invocata quanto assente.

Per farlo bisogna cercare di cancellare l’ipoteca che grava (o gravava) sulla “teologia politica”, dopo l’uso che ne ha fatto un pensatore compromesso dalla storia come Carl Schmitt, una “teologia politica” che solo recentemente si sta riabilitando nel dibattito filosofico culturale (ad esempio nell’opera di Giorgio Agamben).

Bisogna riscoprire il nano sotto la scacchiera, la teologia piccola e gobba che si vuole nascondere sotto la scacchiera come nell’automa di von Kempelen, solo grazie alla quale, però, si muovono i pezzi per vincere la partita.

Per farlo, e per capire in quale modo possa giocare un ruolo di rinascita (o resurrezione) il riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, può essere utile partire da un breve e denso frammento di Walter Benjamin, il frammento teologico-politico: un pensatore ebreo, come noto, un “fratello maggiore” che può aiutarci a comprendere le radici cristiane dalle radici del cristianesimo e cioè dall’ebraismo; tacciato all’epoca di marxismo e rifiutato dai marxisti, l’opposto del fantasma nazista che si agita non appena si menzioni Carl Schmitt.

 

  1. Teologia politica contro teocrazia e Stato confessionale

 

Il frammento teologico-politico di Benjamin è tanto breve quanto di complessa interpretazione: molti eminenti studiosi (filosofi e teologi) vi si sono impegnati e certo sarebbe velleitario pensare di poter aggiungere qualcosa di significativo.

In questa sede interessa sottolineare solo alcuni passaggi nel tentativo di illuminare in quale modo il riconoscimento delle radici cristiane possa costituire una via di salvezza per l’Europa.

Secondo una delle possibili interpretazioni del frammento, in esso Benjamin mette in luce la dialettica che si può instaurare tra il sacro del “regno messianico” e il profano della ricerca della “felicità” (aspirazione di ogni politica). Mentre l’aspirazione terrena alla felicità si nutre del proprio realizzarsi e tende quindi ad estinguersi, a costruire rovine, l’energia messianica che è mossa dall’assenza e dalla privazione ha la capacità di resistere e di sollevarsi dalle macerie lasciate dai vincitori della storia e riscattare i vinti.

Ecco, per noi cristiani (che crediamo il Messia già giunto) il compito è quello di cercare e indicare la luce messianica che brilla negli eventi umani, non imporre una teocrazia od obbligare qualcuno a credere in qualcosa, ma assecondare una direzione della storia impressa dall’energia messianica che si trova in essa e che ogni volta è trattenuta (il paolino katéchon) da una ricerca della felicità che non può realizzarsi qui senza esaurirsi e finire in macerie.

Se così è, le radici cristiane dell’Europa significano l’esatto opposto di quello che hanno inteso coloro che hanno rifiutato di riconoscerle e quel tanto di teologia politica che è compresa in esse significa proprio esaltare quei presupposti che sono alla base del concetto cristiano di comunità, come koinonia e che – seppure non esplicitamente e anzi nascondendo il nano gobbo del concetto teologico – ha costituito le fondamenta dalle quali ha preso origine quell’idea di Europa che, ora morente se non già morta, si deve cercare di far risorgere.

 

  1. La koinonia come radice cristiana dell’Europa

 

Se, come è stato detto, la comunità cristiana è in realtà l’articolazione dei concetti di communitas e  di koinonia e se quest’ultima rifugge sia il dominio (che esalta la diversità del forte rispetto al debole), sia l’egualitarismo (che oblitera le differenze e porta al relativismo culturale), ma riconosce la diversità e la complementarità dell’altro per la vita comune, ben si può comprendere quale importanza abbiano queste “radici cristiane” per l’Europa – fatta di nazioni diverse che, bellicose e belligeranti (si pensi ad alcuni Stati dell’ex Jugoslavia), hanno forze economiche differenti, lingue diverse, storie diverse e culture diverse – e, segnatamente, quanta importanza abbiano per la costruzione di una “comunità” europea, termine assai più pregnante di quello tanto pretenzioso quanto ambiguo di “Unione” che le si è successivamente preferito, credendo di farle fare un passo avanti e facendole fare, invece, più di un passo indietro.

Ben si comprende in termini più strettamente giuridici quale valenza fondamentale avesse avuto, per la soluzione dei conflitti normativi, la preferenza assegnata a criteri di competenza (complementarità) piuttosto che a quelli di gerarchia (dominio); ben si comprende quanto fosse importante la preferenza data a “direttive” vincolanti nei fini rispetto alla diretta efficacia di norme comunitarie che comportassero la disapplicazione di quelle nazionali; ben si comprende quale rilevanza avesse lo spazio di adattamento nell’attuazione dato alle peculiarità istituzionali dei vari Stati membri (principio di equivalenza). Ben si comprende l’importanza che era stata data al “dialogo” tra le Corti e quale attenzione si ponesse – sia a livello nazionale, sia a livello di europeo – ad evitare situazioni di aperto scontro.

L’obliterazione di tali aspetti dopo il Trattato di Lisbona, l’assenza di pazienza e ascolto delle diversità sciaguratamente accompagnata dall’accelerazione di integrazioni che in realtà hanno ampliato le diversità senza rispetto dei ritmi di ciascuno, rappresentano emblematicamente i frutti velenosi del rifiuto delle radici cristiane dell’Europa.

Recuperarle non è a mio avviso un regresso, ma una “ripartenza” e il cristiano credente – che dovrebbe avere buona pratica di queste radici – ben può rappresentare quella “minoranza creativa” che può muovere verso la risurrezione di quell’idea di Europa.

 

  1. Conclusioni

 

La questione della riscoperta delle radici cristiane dell’Europa, soprattutto per come sopra tratteggiata, rappresenta un capitolo del più ampio tema del ruolo del cristiano nella società civile e della costruzione di un senso di giustizia comune, che sempre più spesso sembra smarrito nella divergenza dei valori e delle opinioni. Sopra l’ho trattato dal punto di vista di come può essere recepito dalla società civile. Resta invece la responsabilità del cristiano su come si rende testimone della sua cristianità nella società civile.

Proprio per questo mi piace ricordare quale conclusione di queste brevi riflessioni, le parole pronunciate proprio da Livatino a Canicattì il 30 aprile 1986 ad una Conferenza su “Fede e diritto”: «rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera e dedizione di sé a Dio».

Queste parole erano pronunciate in riferimento al ruolo dei magistrati, ma se tutti noi cristiani interpretassimo il nostro lavoro e il nostro compito nella società civile come una “preghiera”, ecco credo che si sarebbe già a buon punto.

 

Bibliografia essenziale

 

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* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] Cfr. E. -W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, Roma-Bari, 2010, p. 53.