Sebastiano Flaminio
Iscritto all’elenco dei D.P.O. certificati e qualificati

Sommario: 1. Lo sviluppo del web: uno sguardo preliminare – 2. Il caso americano: i c.d. social contro Trump – 3. Azione sproporzionata o tardiva e insufficiente? – 4. La ritorsione: l’oscuramento di Parler – 5. Il precedente italiano: CPI vs Facebook – 6. I dubbi sulla qualificazione giuridica dei social network e le conseguenze per le violazioni – 7. Le prospettive di riforma.

 

  1. Lo sviluppo del web: uno sguardo preliminare

 

Negli anni 1990 nessuno avrebbe accettato di essere seguito costantemente, né sarebbe stato accettabile cedere ad alcuno le informazioni che riguardano la propria sfera personale. Oggi, proprio per le modalità d’uso della tecnologia, si accetta con leggerezza di far tracciare i propri spostamenti – magari col fine di ottenere un servizio di navigazione GPS per raggiungere un luogo, o semplicemente per far sapere di aver scattato una foto in una località turistica – e ancor più si accetta di cedere i propri dati, considerando tale azione un sacrificio di minima rilevanza, al fine di utilizzare gratuitamente qualunque servizio oggi disponibile su internet.

Tali circostanze, poi, hanno cominciato ad avere maggiore impatto quando il mondo ha deciso di spostare parte della propria vita su piattaforme digitali, svolgendo lì molte delle azioni che riguardano lo sviluppo della personalità. Ciò ha reso più pressante l’esigenza di approntare una tutela efficace dei diritti della persona, riprendendo tradizionali categorie giuridiche, riadattandole, utilizzandole per risolvere problematiche inedite.

Le tradizionali definizioni dei concetti di “identità” e di “immagine”, adattate alla nuova realtà della digitalizzazione, hanno portato a esiti contraddittori. Si pensi al fatto che in Italia una piattaforma come Facebook svolge l’attività disciplinata all’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo, che ne esclude la responsabilità editoriale, nonostante ampia giurisprudenza consideri le condotte diffamatorie degli utenti come reati a mezzo stampa. Si pensi alla disciplina sulla tutela della privacy, che permette a molte piattaforme di cedere i dati degli utenti per motivi pubblicitari, ma spesso non permette di utilizzare gli stessi dati per il recupero di un account rimasto inutilizzato per molto tempo.

Gli ordinamenti si sono di recente posti il problema di disciplinare alcuni aspetti del “vivere in digitale” (si pensi all’evoluzione dei diritti della personalità generalmente inseriti nella tutela della riservatezza, dell’identità, della manifestazione del pensiero e del diritto d’autore), prevedendo la possibilità di risarcire il danno subito sul web, tramite gli strumenti della responsabilità contrattuale e aquiliana.

La rete nasconde dietro di sé una serie di insidie e richiede particolari regolamentazioni: questi ultimi subiscono fasi di accelerazione e rallentamento davanti ad eventi eccezionali. Proprio oggi, dopo la vicenda che ha visto la contrapposizione tra l’uscente presidente degli USA e un gran numero di piattaforme digitali, si stia assistendo al ripensamento delle regole da applicare.

 

  1. Il caso americano: i c.d. social contro Trump

 

Il dibattito sull’allontanamento dagli spazi messi a disposizione su internet da Twitter Inc. e Facebook Inc. dell’ex presidente Trump, e la discussione sui provvedimenti presi dalle due società, sono stati alimentati dalla notorietà dei soggetti coinvolti, più che dalla gravità delle violazioni poste in essere, in quanto le problematiche affrontate non hanno avuto lo stesso risalto quando vicende simili hanno coinvolto singoli utenti che, meno esposti all’opinione pubblica e scoraggiati dai costi della giustizia, non hanno mai fatto valere le proprie ragioni in un giudizio.

Ai fini della presente trattazione, non ci si dilungherà sulla ricostruzione dell’episodio, poiché è possibile rinvenirne il percorso reperendo le informazioni sui notiziari e sui blog, ma si tenterà di ricostruirne alcuni aspetti essenziali. Merita una più attenta analisi la sequenza delle azioni contestuali e successive alla vicenda per apprezzare veramente le problematiche che emergono dal suo contesto, le conseguenti perplessità e le possibili soluzioni.

 

  1. Azione sproporzionata o tardiva e insufficiente?

 

Le “interazioni virtuali” dell’ex Presidente, da cui origina l’atteggiamento di contestazione delle piattaforme digitali, non hanno avuto inizio in tempi recenti, ma hanno percorso tutto il suo mandato, facendo persino sostenere a qualcuno che l’azione punitiva fosse stata tardiva e insufficiente[1]. Ma proprio tale affermazione fa emergere le prime nodali perplessità sull’intera questione.

Sul fronte della tardività della reazione sarebbe facile rilevare che i due social network in realtà abbiano approfittato della presenza dell’ingombrante utente per ben quattro anni, in quanto questa ha permesso loro di attingere a un enorme afflusso di capitali tramite sponsorizzazioni, accessi, visite degli utenti e conseguente pubblicità, senza mai preoccuparsi della portata delle affermazioni nei post, che hanno costellato l’intera durata del mandato presidenziale. In essi erano inseriti contenuti e dichiarazioni rilevanti anche a livello internazionale, come quelli del periodo in cui fioccavano le minacce sull’eventuale utilizzabilità dell’arsenale nucleare nel caso in cui l’acceso scambio di opinioni con Kim Jong-un si fosse trascinato a tal punto da scatenare un conflitto coreano-statunitense. Eppure, in tante di quelle numerose occasioni non sembrava essere emersa da parte delle aziende americane alcuna preoccupazione riguardo la sicurezza e l’incolumità di persone. Ciò solo basterebbe a liquidare la questione sulla tardività dell’azione di espulsione come frutto di un’enorme ipocrisia.

Le tempistiche e le modalità non permettono di escludere una posizione politica (probabilmente anche di politica commerciale) assunta dalle due società come ritorsione per i loro trascorsi burrascosi con il Presidente uscente, soprattutto per il periodo in cui questi aveva dichiarato di voler ridiscutere l’inquadramento giuridico del servizio che esse offrono al pubblico.

 

  1. La ritorsione: l’oscuramento di Parler

 

All’allontanamento del Presidente Trump dalle due piattaforme si aggiunge un ulteriore tassello, più grave ed importante: ci si riferisce alle notizie immediatamente successive al ban, in cui si apprendeva l’intenzione di diverse migliaia di utenti di migrare sulla piattaforma digitale Parler, seguite dalla rimozione dell’applicazione di questo social network dagli store di Google e Apple, e dall’oscuramento del suo sito internet da parte di Amazon. Azione ritorsiva, questa, giustificata dai soggetti coinvolti come conseguenza per il mancato adeguamento agli standard di limitazione dei contenuti rispetto alle piattaforme concorrenti, che avrebbero consentito (così si suppone) l’organizzazione delle proteste del Campidoglio di inizio gennaio 2021.

Il primo dubbio è se può una società privata determinare la chiusura di un’altra società privata senza passare dalla necessaria azione di un giudice. Può un privato sostituirsi alla giustizia, senza abusare della propria posizione di dominanza in un rapporto commerciale? Fra le opposte opinioni di chi sostiene che la regolamentazione interna alla piattaforma di Parler fosse troppo libera[2] e chi, invece, ritiene che usasse criteri più stringenti delle concorrenti Facebook e Twitter[3], non sarebbe stato più opportuno segnalare l’asserita violazione di legge davanti ad un giudice?

È evidente, infatti, che un privato non può in alcun modo ergersi ad “autorità garante”, né può elevare il proprio regolamento interno a fonte superiore alla legge degli Stati: su questo crinale potrebbe risiedere la riflessione sulla differenza tra l’esercizio di un diritto costituito per contratto e l’esercizio abusivo delle proprie ragioni. La stessa Facebook Inc., che viene considerata la società con la piattaforma più aderente ai valori civili, in realtà utilizza regole non esattamente conformi ai principi cardine dell’eguaglianza[4]. Senza considerare che tali regole vengono sommariamente applicate da un algoritmo che spesso cade in errore (analizzando singole successioni di lettere o parole, senza conoscere il reale contenuto di una espressione linguistica o di una frase), con in più le difficoltà di presentare un reclamo derivanti dal fatto che anche la composizione amichevole di una lite viene spesso affidata al medesimo algoritmo.

 

  1. Il precedente italiano: CPI vs Facebook

 

Non meno importanti sono altri precedenti che hanno coinvolto Facebook in questioni simili, come nel caso che ha visto la contrapposizione tra gli algoritmi della società americana e l’associazione politica CasaPound Italia, risolta nel dicembre 2019. In quell’occasione il Tribunale di Roma con ordinanza[5] ha ordinato la riattivazione delle pagine e dei profili oscurati, oltre un risarcimento di 15.000 euro per danno all’immagine, più 800 euro per ogni giorno di ritardo nelle procedure di riattivazione, in quanto «è […] evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano […]. Ne deriva che il rapporto tra FACEBOOK e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o con l’utente già abilitato al servizio come nel caso in esame) non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto FACEBOOK, ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che FACEBOOK, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente. […] Conseguentemente ai principi sopra esposti, l’esclusione dei ricorrenti da FACEBOOK si pone in contrasto con il diritto al pluralismo». (…) «non è possibile affermare la violazione delle regole contrattuali da parte dell’Associazione ricorrente solo perché dalla propria pagina sono stati promossi gli scopi dell’Associazione stessa, che opera legittimamente nel panorama politico italiano dal 2009».

Il Tribunale di Roma ha inoltre stabilito che nel caso di specie non sarebbe configurabile una responsabilità di posizione, tale da scaricare sull’ex partito di destra le conseguenze delle azioni di singoli individui ad esso ricollegabili, in quanto «non è possibile sostenere che la responsabilità (sotto il profilo civilistico) di eventi e di comportamenti (anche) penalmente illeciti da parte di aderenti all’associazione possa ricadere in modo automatico sull’Associazione stessa (che dovrebbe così farsene carico) e che per ciò solo ad essa possa essere interdetta la libera espressione del pensiero politico su una piattaforma così rilevante come quella di FACEBOOK». Né, secondo il giudice romano, sarebbe ammissibile il collegamento della singola sanzione con la rimproverabilità per episodi precedenti ad essa non collegati, in quanto «non possono inoltre essere considerate come violazioni dirette da parte dell’Associazione gli episodi […] che singolarmente non paiono infrangere il limite di cui si è parlato sopra e che infatti non hanno generato la disabilitazione dell’intera pagina ma la rimozione di singoli contenuti ritenuti non accettabili».

Nelle parole del giudice italiano, quindi, sono contenute molte risposte alle perplessità e ai dubbi esposti in precedenza, in quanto esso espressamente afferma che i social network hanno assunto un “rilievo preminente” anche ai fini dell’esercizio delle libertà costituzionali, e che il rapporto tra piattaforma e utente non è un semplice rapporto tra privati, in quanto la prima esercita un potere sproporzionato, ricoprendo una “speciale posizione” che non può e non deve prescindere dai valori costituzionali. Pertanto, il giudice ha stabilito che l’esclusione dai c.d. social, soprattutto quando assumono l’importante ruolo di luogo del dibattito e del pluralismo, deve cedere il passo alla legge qualora non venga dimostrata una violazione dei valori costituzionali (e quindi anche della legge stessa) da parte dell’utente.

Simili affermazioni sarebbero idonee a sciogliere gran parte dei dubbi sulla vicenda dell’ex Presidente degli Stati Uniti e basterebbe a rispondere con fermezza, almeno in Italia, a chi sostiene che il solo consenso prestato (spesso con enorme leggerezza) verso le condizioni d’uso basti ad accettarle come fonte del diritto, in abdicazione della legge.

 

  1. I dubbi sulla qualificazione giuridica dei social network e le conseguenze per le violazioni

 

Successivamente alle reazioni delle prime due società, altri social network (come YouTube, TikTok, ecc.) e società che offrono servizi di prenotazione sul web hanno continuato il processo di eliminazione dei profili dell’ex Presidente americano e persino delle sue attività commerciali, tanto da indurre lo stesso Jack Dorsey (fondatore di Twitter), pur rivendicando la decisione della sua azienda, a dichiarare che il fatto costituisce un grave precedente. Anche alcuni governi europei (soprattutto Germania e Francia) si sono posti il dubbio sulla possibilità di regolamentare la materia, esprimendo perplessità sui risvolti della vicenda.

Qualora si affermasse la correttezza delle condotte poste in essere dalle società di cui sopra, bisognerebbe chiedersi quale dovrebbe essere la qualificazione giuridica da dare ai soggetti coinvolti nella vicenda per risolvere la questione. Sulla disputa della distinzione tra soggetti fornitori di un servizio editoriale e soggetti fornitori di un servizio di hosting sembrano essere quasi del tutto concordi le discipline degli USA[6] e dell’UE[7], almeno dal punto di vista teorico, nell’inquadrare i c.d. social network nella seconda categoria. Tuttavia, poiché l’azione di “controllo” posta in essere in molte occasioni, soprattutto in quella relativa al Presidente uscente degli USA, dalle piattaforme sembra essere più preventiva che successiva, è giusto chiedersi se le società che gestiscono gli spazi su internet non abbiano deciso di transitare da una categoria all’altra.

La problematica non è di poco conto, in quanto entrambi gli ordinamenti fanno dipendere la sussistenza di una maggiore responsabilità dal maggiore potere di controllo esercitabile da parte di un editore. Tutti gli elementi sin qui considerati fanno comprendere come, almeno in Italia ed in Europa (sulla scorta degli ordinamenti costituzionali), ma presumibilmente anche in tutta l’area dei Paesi di common law (almeno sulla scorta delle discipline contrattuali c.d. B to c), il rapporto tra utente e piattaforme digitali richieda una rivisitazione del rapporto che bilanci le forze in campo con adeguati strumenti di tutela.

Ipotizzando inoltre che l’eventuale azione di controllo dei colossi del digitale all’interno dei propri spazi fosse pienamente legittima e opportuna, e ammettendo rilevanti differenze tra ordinamento italiano e statunitense, l’oscuramento della piattaforma di Parler operato da Amazon, in assenza di una pronuncia giurisdizionale, comporterebbe comunque la violazione di ogni principio di tutela stabilito per il soggetto debole in un contratto commerciale qualificabile come rapporto c.d. B to b. In tali tipologie di rapporti, le discipline e le giurisprudenze di tutto l’Occidente protendono per la maggior tutela dell’imprenditore che ha un rapporto di dipendenza con il soggetto dominante. Pertanto, almeno nel o caso che ha coinvolto Parler, la società avrebbe diritto di veder riabilitare la sua connessione ai server di Amazon, con conseguente risarcimento per il danno subìto, soprattutto alla luce del fatto che l’oscuramento è avvenuto in un periodo di probabile crescita, come quello della migrazione degli utenti tra piattaforme.

La questione più importante, specie davanti alle decisioni assunte da società che operano in tutto il mondo, riguarda gli strumenti che ogni ordinamento può offrire ai propri consociati a difesa dei propri diritti. Proprio nel periodo in cui tutto il mondo si occupava della discussione oggetto di queste pagine, in Italia l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali interveniva in via d’urgenza portando all’attenzione dell’European data protection board[8] la questione sull’informativa con cui WhatsApp avvertiva i propri utenti che sarebbero state apportate delle modifiche al proprio contratto (in particolare in materia di condivisione dei dati personali), ritenendola poco chiara e non immediatamente intellegibile[9].

Anche in questo caso l’ordinamento italiano (e di converso anche quello comunitario) hanno dato prova di potere e sapere intervenire per arginare gli effetti delle decisioni di imprese multinazionali, riaffermando il principio per cui una buona regolamentazione porta con sé un sufficiente grado di tutela per i singoli. Nell’immediato l’impresa americana ha rinviato l’entrata in vigore delle nuove regole, essendo costretta a rivedere la sua politica sulla cessione dei dati alle società del suo gruppo.

 

  1. Le prospettive di riforma

 

A tutte le considerazioni già esposte si aggiunga che internet, e le piattaforme più frequentate, sono diventate un’estensione del mondo reale, in quanto è il centro degli affari di molte imprese, luogo di aggregazione socioculturale, mezzo di comunicazione indispensabile per molti soggetti e strumento nel quale la nostra società ha riposto gran parte di sé. Per questo motivo, una società che gestisce un servizio come quello offerto da molti social network non può essere considerata alla stregua delle piattaforme su cui è possibile creare un semplice blog personale (sul quale è comunque solo il singolo utente ad effettuare un controllo delle proprie interazioni). Ciò è dimostrato dalla crescente attenzione degli ordinamenti a regolare la materia di internet, con interventi che coinvolgono la privacy, il commercio, la finanza e financo aspetti illeciti di rilievo penale come il c.d. revenge porn o il cyberbullismo.

Da dove partire allora? L’eventuale disciplina del settore non potrebbe prescindere da un principio generale, in Italia stabilito all’art. 1372 cod. civ., secondo cui «il contratto ha forza di legge tra le parti», ma al tempo stesso «non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge». Ciò, pertanto, in connessione a quanto stabilito dal Tribunale di Roma nell’ordinanza menzionata[10], renderebbe lecito il recesso unilaterale da parte delle piattaforme digitali solo in presenza di una adeguata disciplina che bilanci i diritti ed i doveri delle parti, sia nel rapporto tra impresa ed utente, sia nel rapporto tra singoli utenti.

È ovvio che nei rapporti tra singoli utenti le piattaforme debbano mettere a disposizione dei sistemi di moderazione per tutelarne gli interessi da ogni forma di illecito prospettabile (dal c.d. cyberbullismo al furto di identità, al c.d. fishing e all’abuso di diritto), nonché da forme di molestia che interferiscano con la quieta fruizione del servizio reso (dal c.d. spam all’eccessiva invadenza di un altro utente, alle attenzioni indesiderate e, persino, alle circostanze in cui il fastidio derivi dalla semplice apparizione di contenuti indesiderati nella home page).

Altrettanto ovvio è che il gestore della stessa piattaforma non possa abusare di questa sua prerogativa per attuare un trattamento diversificato tra utenti, specie se basato su di divergenze di opinioni politiche, culturali, etiche, o condizioni sociali ed economiche, in quanto la sua azione non può mai prescindere dai principi stabiliti da un ordinamento o dai diritti tutelati dalla stessa legge. Seppure un’impresa è libera di stabilire un proprio codice di condotta, esso non può in alcun modo violare né sovrastare la legge, sulla scorta del fatto che i diritti – che sono parti inscindibili dell’individuo – specialmente se riconducibili a una tutela superiore quale quella costituzionalmente garantita, implicano una scelta libera sulla possibilità di usufruirne, poiché per mezzo di essi un individuo diviene cittadino e partecipa attivamente alla vita della società, e nemmeno lo Stato è legittimato a sradicarne il legame con il soggetto titolare, potendo solo limitarli o sospenderli temporaneamente in virtù del proprio potere sovrano[11]. Mentre la legge è sovrana e trova limite solo in principi superiori, il contratto tra privati è a essa sottoposto e deve rispettarla.

Si aggiunga che ogni diritto (e il suo conseguente esercizio) è ricollegato all’adempimento di doveri, la cui violazione è la sola possibile fonte di sanzioni, nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento. Tra diritti e doveri, quindi, c’è una interrelazione che permette il vivere civile: pertanto, al diritto all’istruzione del discente corrisponde il dovere di insegnare del docente, al diritto a non essere lesi corrisponde il dovere di non ledere, e persino al diritto di godere di una prestazione corrisponde il dovere di adempiere alla controprestazione.

I principi sopra descritti non possono non essere rispettati anche dalle società che gestiscono piattaforme digitali, soprattutto se si considera che esse acquisiscono un’enorme quantità di dati personali (utilizzandoli e cedendoli per trarne profitto), che non cessano di trattare qualora un utente venga estromesso in via definitiva dall’utilizzo del servizio costituente la controprestazione. È da accogliere l’indirizzo, che nell’UE sembra aver ispirato ben due progetti di regolamento[12], secondo il quale bisogna ritrovare un equilibrio tra posizioni attive e passive delle parti coinvolte. Tale regolamentazione, tuttavia, per quanto una piattaforma come quella di Twitter, Facebook o YouTube abbia delle facoltà superiori rispetto a quelle di altre che permettono di creare un solo un blog personale, non sarebbe congrua se associasse un social network alla posizione ricoperta da un editore solo per la rilevante dimensione, in quanto il controllo preventivo dei contenuti di diversi miliardi di utenti non potrebbe essere gestito in modo adeguato.

Un’eventuale disciplina sul punto dovrebbe prevedere solo la possibilità di effettuare un controllo successivo sulla singola attività di un utente, a seguito di un congruo numero di segnalazioni e con la possibilità di accedere a una composizione amichevole della questione. Ciò perché dietro la valutazione di un atteggiamento apparentemente lesivo per taluno potrebbe celarsi una condotta lecita e per nulla censurabile da parte di alcuno.

Si pensi a un video caricato su un social network, e successivamente segnalato dagli utenti per violazione di una eventuale regola che vieti il turpiloquio o un linguaggio aggressivo. Tali segnalazioni, alle condizioni descritte, non porterebbero alla rimozione del contenuto dalla piattaforma qualora, se pure il turpiloquio o le espressioni aggressive fossero effettivamente presenti nel video, si accertasse che gli scopi di esso non fossero lesivi della sensibilità altrui in quanto mere riproposizioni parodistiche della vita reale all’interno di una rappresentazione comico-teatrale. Non stupisce, da Plauto in poi, che l’autore di una rappresentazione comica usi persino un linguaggio scurrile al fine di suscitare la risata dello spettatore.

Si aggiunga che, salvo nei casi di violazione di leggi penali o gravi violazioni in ambito privatistico (tali da comportare il risarcimento del danno), qualora l’ente gestore di una piattaforma non possa o si rifiuti di porre fine al trattamento dei dati acquisiti durante il rapporto, la sanzione applicabile all’utente potrebbe avere solo natura temporanea e limitativa (quindi non interruttiva del rapporto). Ciò perché, mentre l’utente accetta le condizioni generali di un servizio, l’impresa acquisisce dei dati per trarne profitto: sarebbe ingiusto che un soggetto possa interrompere il rapporto, negando l’esecuzione della prestazione, pur continuando ad usufruire dei dati acquisiti solo ai fini del contratto.

Tutto ciò premesso, il rispetto di una simile disciplina richiederebbe il controllo da un soggetto terzo, imparziale e vincolato al rispetto dei principi normativi su cui è improntato l’ordinamento. Un tale soggetto potrebbe essere solo il giudice (o al più un’autorità garante indipendente), libero da conflitti di interessi e vincolato al rispetto di un codice deontologico adeguato. Soggetti del genere, se pure idonei a tutelare l’individuo all’interno dei confini nazionali del singolo Stato, potrebbero solamente dare inizio a un processo più organico che richiede uno sforzo comune all’interno di organizzazioni internazionali, in virtù del fatto che internet non conosce confini e coinvolge la sfera giuridica di un’enorme varietà di soggetti.

A tal fine, al pari dei regimi di tutela offerti da carte internazionali, dal GDPR o dalla Direttive e-commerce, sarebbe opportuno disciplinare la materia tramite una sorta di “Carta internazionale dei diritti e dei doveri nel web”, che preveda l’esistenza di una Corte internazionale che assuma il ruolo di giudice di ultima istanza e della nomofilachia sulle disposizioni in questione. Solo in questo modo si riuscirebbe a restituire, anche in rete, dignità alla tutela di diritti preminenti nel mondo reale.

Non si trascuri che la sempre maggiore presenza dell’individuo sulla rete e la contemporanea spinta degli ordinamenti a rendere accessibile anche il servizio pubblico tramite strumenti digitali rappresentano la sfida che oggi si prospetta davanti agli Stati sovrani e ne determinerà il percorso futuro Pertanto, è necessario che il legislatore utilizzi le migliori energie allo scopo di produrre la migliore regolamentazione possibile, in quanto non affrontare o uscire sconfitti da questa battaglia potrebbe avere conseguenze anche sulla già fragile credibilità delle istituzioni statali

 

Bibliografia

 

Autorità Garante per la protezione dei dati personali, Comunicato stampa, 14 gennaio 2021, in https://bit.ly/3f6ljgW

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Di Stefano M. – Spence A. – Mac R., Pro-Trump Activists Are Boosting A Twitter App Used By Banned Personalities And It Appears To Have Already Stalled, in BuzzFeed News, 12 febbraio 2019;

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  1. Cerrina Feroni, Sicurezza e diritti, la tutela della libertà nel “permanente stato d’eccezione”, in https://www.garanteprivacy.it, 17 dicembre 2020;

Hadavas C., What’s the Deal With Parler?, in Slate, 3 luglio 2020;

Lerman R., The conservative alternative to Twitter wants to be a place for free speech for all. It turns out, rules still apply, in The Washington Post, 15 luglio 2020;

Pressman A., Parler is the new Twitter for conservatives. Here’s what you need to know, in Fortune, 29 giugno 2020

Saul I., This Twitter Alternative Was Supposed To Be Nicer, But Bigots Love It Already, in The Forward, 18 luglio 2019

Simonetta B., I social hanno bloccato gli account di Trump, ma forse è troppo tardi, in Mashable Italia, 7 gennaio 2021;

Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di Impresa, Ordinanza 11 dicembre 2019, resa nel ricorso n. 59264/2019 R.G.

 

[1] Cfr. B. Simonetta, I social hanno bloccato gli account di Trump, ma forse è troppo tardi, in Mashable Italia, 7 gennaio 2021.

[2] A tal proposito cfr. E. Culliford, Unhappy with Twitter, thousands of Saudis join pro-Trump social network Parler, in Reuters, 14 giugno 2019; Isaac Saul, This Twitter Alternative Was Supposed To Be Nicer, But Bigots Love It Already, in The Forward, 18 luglio 2019; M. Di Stefano – A. Spence – R. Mac, Pro-Trump Activists Are Boosting A Twitter App Used By Banned Personalities And It Appears To Have Already Stalled, in BuzzFeed News, 12 febbraio 2019.

[3] Sulla tesi opposta alla precedente si vedano R. Lerman, The conservative alternative to Twitter wants to be a place for free speech for all. It turns out, rules still apply, in The Washington Post, 15 luglio 2020; A. Pressman, Parler is the new Twitter for conservatives. Here’s what you need to know, in Fortune, 29 giugno 2020; D. Cameron, Parler CEO Says He’ll Ban Users for Posting Bad Words, Dicks, Boobs, or Poop, in Gizmodo, 30 giugno 2020; C. Hadavas, What’s the Deal With Parler?, in Slate, 3 luglio 2020.

[4] Si prenda, infatti, quanto affermato sulle regole che riguardano in c.d. hate speech in E. Dwoskin – N. Tiku – H. Kelly, Facebook to start policing anti-Black hate speech more aggressively than anti-White comments, documents show, in The Whashington Post, 3 dicembre 2020.

[5] Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di Impresa, Ordinanza 11 dicembre 2019, resa nel ricorso n. 59264/2019 R.G.

[6] Sezione 230 del Communications Decency Act dal 1996.

[7] Artt. 14 e 15 Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo.

[8] L’European data protection board (in italiano Comitato europeo per la protezione dei dati) è un organo europeo indipendente, composto da rappresentanti delle Autorità nazionali per la protezione dei dati e dal Garante europeo della protezione dei dati, che contribuisce all’applicazione coerente della normativa del GDPR in tutta l’Unione europea e promuove la cooperazione tra le Autorità competenti per la protezione dei dati dell’UE.

[9] Cfr. Comunicato stampa dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali del 14 gennaio 2021 in https://bit.ly/2TIQirO

[10] Trib. di Roma, Sez. spec. in materia di Impresa, Ord. 11 dicembre 2019 cit.

[11] A tal riguardo pare interessante un intervento del Vicepresidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, che ha speso parole di denuncia davanti al cronicizzarsi degli stati d’emergenza (a inizio secolo per il terrorismo, e da ultimo a causa della pandemia di Covid-19), destando la mia riflessione su quanto lo Stato di diritto debba vigilare sulla tenuta della libertà. Le parole della Prof.ssa Ginevra Cerrina Feroni mi sembrano tanto interessanti da impormi l’onere di condividere una parte di quell’intervento con il lettore, al fine di comprendere la reale portata del tema oggetto che intendo trattare in queste pagine: «Il rapporto tra diritti e sicurezza non è ricostruibile come momento di conflitto, poiché libertà e sicurezza non devono essere intese come tra loro negoziabili. Improprio dunque affermare che ad una maggiore sicurezza corrisponde una compressione della libertà: la scelta di uno dei due diritti – libertà e sicurezza – a vantaggio dell’altro è una falsa scelta, poiché la sicurezza non è un fine in sé, ma piuttosto uno strumento per accrescere le libertà. Il diritto alla sicurezza se entra in bilanciamento […] è una “non sicurezza”. […] Innegabile è la tendenza da parte degli Stati a rendere permanenti le misure restrittive dei diritti, pur se, ab origine, previste come temporanee. […] Si tratta della cosiddetta «normalizzazione dell’emergenza», di cui ha scritto con grande chiarezza Giuseppe de Vergottini. Il che ci porta a pensare alla condizione attuale, cioè allo «stato d’eccezione permanente» […] dove il diritto alla sicurezza diventa fisico, anzi, biologico. […] Tutti vediamo quanto incida in una riflessione teorico-scientifica anche la nuova esperienza pratica. Ora occorre concentrare il focus sulla circostanza che le legislazioni limitative dei diritti a causa di “emergenza” sono, purtroppo, destinate a cronicizzarsi e che, di conseguenza, la garanzia dei principi dello Stato di diritto deve utilmente concentrarsi, soprattutto, sulla consistenza ed efficacia dei controlli sul piano politico da parte delle rappresentanze parlamentari», G. Cerrina Feroni, Sicurezza e diritti, la tutela della libertà nel “permanente stato d’eccezione”, in https://www.garanteprivacy.it, 17 dicembre 2020. Non stupisca una tale menzione in queste pagine, in quanto proprio la portata dei limiti che lo Stato di diritto deve autoimporsi per non abusare del proprio potere deve illuminare al legislatore la strada per arginare lo strapotere di facoltosi privati che intendono ergere un modello contrattuale a norma superiore alla legge.

[12] Ci si riferisce a due interessanti progetti: il Digital Service Act e il Digital Market Act. Secondo l’opinione di chi scrive, tuttavia, entrambe le proposte, seppure interessanti, necessitano di un’ulteriore integrazione nella direzione che meglio sarà spiegata di qui in avanti nel presente saggio.