Domenico Airoma
Procuratore della Repubblica di Avellino

 

Sommario: 1. Le origini della “transizione”. Il “Club di Roma” ‒ 2. Dallo “sviluppo sostenibile” alla “transizione ecologica” ‒ 3. Il dirigismo normativo come strumento per la realizzazione della transizione ecologica e in particolare il ruolo dell’Unione Europea ‒ 4. Friday without future.

 

  1. Le origini della “transizione”. Il “Club di Roma”

 

La transizione ecologica è il nuovo imperativo etico, la nuova frontiera, la nuova norma fondamentale dell’intero sistema normativo euro-unitario e nazionale. Essa, tuttavia, rappresenta l’esito di un percorso avviato da tempo, soprattutto in ambito sovranazionale.

Il termine transizione, in materia ambientale, compare per la prima volta nel Rapporto sui limiti dello sviluppo del 1972, meglio noto come Rapporto Meadows, dai nomi dei principali estensori dello stesso (Donella Meadows, Dennis Meadows, Jorgen Randers e William W. Behrens III). Si tratta di uno studio commissionato al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma, un’associazione non governativa composta da scienziati, economisti, politici, alti dirigenti pubblici, uomini d’affari, attivisti dei diritti civili; una sorta di gruppo di influenza dal duplice obiettivo: conferire una dignità scientifica all’ideologia che doveva rappresentare la versione aggiornata del socialismo[1] e apprestare una struttura operativa in grado di orientare i principali decisori politici e i cosiddetti stakeholders.

«Alla ricerca di un nuovo nemico che potesse unirci, trovammo l’idea che l’inquinamento, la minaccia del riscaldamento globale, dell’esaurimento delle risorse, della fame et similia sarebbe potuta andar bene. (…) Tutti questi pericoli hanno come causa l’intervento umano. (…) il nemico reale, quindi, è la stessa umanità. Gorbacev, parlando per il Club di Roma, disse: “La minaccia di una crisi ambientale causata da un disastro interno sarà la chiave che aprirà le porte al Nuovo Ordine Mondiale”»[2].

Ma veniamo alle tesi del Rapporto Meadows che il Club di Roma fa proprie e incomincia a diffondere in larga scala, soprattutto negli ambienti degli organismi internazionali.

La tesi di fondo è che la Terra non è un infinito serbatoio di risorse e che, per porre rimedio alla catastrofe che deriverà ineluttabilmente dall’esaurimento delle risorse stesse, occorre intervenire sul rapporto fra queste ultime e l’uomo. In che modo?

In primo luogo, non potendo agire sulle risorse, l’unica variabile manipolabile è la popolazione mondiale, mediante il controllo del tasso di crescita demografico; vengono riproposte, in buona sostanza, le teorie maltusiane sulla necessità di arginare l’espansione demografica mediante l’applicazione diffusiva dei metodi di controllo della riproduzione umana. Non è un caso, pertanto, se il Rapporto Meadows dedica uno specifico approfondimento alla Programmazione familiare centrata sulla necessità di pianificare le nascite, e specialmente di limitare il numero di figli per coppia. Così facendo, inoltre, vengono poste le condizioni perché, accanto alla pianificazione delle nascite, si faccia strada anche la questione della salute riproduttiva, intesa come definitiva separazione della procreazione dalla sessualità, indispensabile corollario della necessità di sottrarre alle incontrollabili scelte dei singoli quel che deve essere lasciato alle tecniche riproduttive affinate in laboratorio.

In secondo luogo, occorre cambiare radicalmente il modello economico e quello di fare impresa, passando da un paradigma tutto incentrato sulla crescita a uno focalizzato sull’esigenza di assicurare un equilibrio globale, nel quale l’obiettivo di tutti gli attori non è quello di aumentare i profitti ed i redditi, ma di contribuire a un nuovo ordine nel quale l’uomo non è più il protagonista, ma ‒ come sopra si è ricordato ‒ in qualche modo il nemico da emarginare, in quanto portatore di una cultura antropocentrica e non biocentrica. Emerge, in definitiva, una nozione di transizione di ampio respiro, come una riconfigurazione ed una trasformazione culturale a tutti i livelli e in tutti i settori, una sfida di giustizia sociale e di democrazia[3] che necessita, per alimentare la mistica della nuova frontiera, di una narrazione costantemente catastrofista.

 

  1. Dallo “sviluppo sostenibile” alla “transizione ecologica”

 

La prima conseguenza sul piano economico-politico della penetrazione dell’ideologia ambientalista è il cosiddetto sviluppo sostenibile; esso segna, altresì, il passaggio dell’ideologia ambientalista da una fase di mera elaborazione intellettualistica ad una istituzionale, divenendo l’apparato ideologico di riferimento di molte organizzazioni internazionali.

La nozione di sviluppo sostenibile, pur contenuta in nuce nel Rapporto Meadows, fu illustrata compiutamente nel documento “Our Common Future”, il cosiddetto Rapporto Bruntland, dal nome di primo ministro norvegese che presiedette la Commissione Internazionale ONU su Ambiente e Sviluppo, tenutasi nel 1987. La tesi centrale del Rapporto ancora una volta batteva sulla necessità del controllo demografico: «Ogni anno il numero di esseri umani aumenta, ma l’ammontare di risorse naturali con cui sostenere questa popolazione, e migliorare la qualità di vita nonché eliminare la povertà di massa, resta definita (…). Gli attuali tassi di crescita della popolazione non possono continuare»[4].

Insomma, non è il sottosviluppo il problema, per l’ambiente come per le popolazioni più povere, bensì il numero delle nascite, soprattutto nei paesi a basso reddito. Ancora una volta, però, si colorava questa nozione in modo etico, mediante il richiamo al rispetto delle future generazioni, in nome delle quali giustificare i sacrifici imposti dalla realizzazione del nuovo equilibrio globale. Lo sviluppo sostenibile, infatti, è lo «sviluppo che incontri i bisogni del presente, senza compromettere le possibilità per le future generazioni di incontrare i loro bisogni», come prescrive il Rapporto Brundtland.

Pur avendo dovuto registrare il fallimento delle originarie previsioni, che fissavano subito dopo l’anno 2000 le prime catastrofiche conseguenze collegate alla rarefazione delle risorse naturali, soprattutto per effetto della crisi petrolifera, l’ideologia ambientalista veicolata dal Club di Roma e seguita dall’IPPC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change, istituito nel 1988, con l’obiettivo di influire sulle politiche economiche degli Stati nazionali) non arretrò dinanzi alla smentita dei fatti; anzi, rilanciò additando una nuova frontiera: la transizione ecologica, questa volta giustificata dall’esigenza di superare una nuova emergenza, anzi l’emergenza finale: il riscaldamento globale, poi rinominato cambiamento climatico.

La tesi di fondo della transizione ecologica è ancora più estrema di quella dello sviluppo sostenibile e ne rappresenta un superamento dai connotati vieppiù globali e stringenti. Non si tratta solo di intervenire sulla crescita demografica; occorre intervenire sulla stessa idea di sviluppo che sottende una valutazione positiva da attribuire alla crescita economica, che, viceversa, rappresenta un fattore da contenere. Al grido di “non c’è più tempo!”, si tratta, in definitiva, di manipolare l’uomo stesso, le sue abitudini, il modo di concepire il rapporto con i suoi bisogni e le sue priorità esistenziali.

Maurice Strong, uno dei contributori del Rapporto Brundtland, divenuto senior advisor di Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, e presidente della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 (il cosiddetto Earth Summit), successivamente tra gli organizzatori del Protocollo di Kioto, dichiarerà: «Possiamo arrivare al punto in cui l’unico modo di salvare il mondo sarà quello di far collassare la civiltà industriale»[5]. Poco importa se la scienza nutre molti dubbi sulla fondatezza della tesi circa il carattere emergenziale e catastrofico del riscaldamento globale, e in particolare sulla spiegazione mono-causale di origine antropica[6], perché la transizione ecologica va ben al di là del campo scientifico.

Timothy Wirth, il senatore americano vice-presidente della Fondazione delle Nazioni Unite istituita per supportare l’azione dell’O.N.U. in materia ambientale grazie al finanziamento di Ted Turner, proprietario dell’emittente televisiva CNN, così riassume il rapporto fra scienza e cambiamenti climatici: «Anche se la teoria del riscaldamento globale è sbagliata, vogliamo fare la cosa giusta in termini di politica economica e ambientale»[7].

L’obiettivo della chiamata alle armi è ben espresso dall’ex vice presidente degli Stati Uniti, Al Gore, nella XIII Conferenza ONU tenutasi a Bali nel 2007: «la battaglia per il clima e la salvezza della terra è la nuova frontiera dell’antifascismo nel mondo»[8].

 

  1. Il dirigismo normativo come strumento per la realizzazione della transizione ecologica e in particolare il ruolo dell’Unione Europea

 

Il carattere globale della transizione ecologica comporta la necessità che i comportamenti di tutti gli attori, a partire dagli imprenditori e dagli amministratori per finire ai singoli cittadini (tant’è che si parla di eco-cittadinanza), venga inserito in un quadro coerente complessivo che richiede che le direttive vengano il più possibile concentrate in pochi centri decisori[9]. Non solo. Occorre che tali direttive vengano assunte, preferibilmente, da organi sovranazionali, in modo da ridurre al minimo le variabili connesse alle peculiarità ed ai bisogni delle comunità nazionali e dei territori.

Non è un caso, pertanto, se l’ambiente è il settore nel quale il legislatore comunitario si dimostra più prolifico; e non è neppure un caso se in questo settore si faccia ricorso sistematico allo strumento della direttiva o del regolamento, che innovano direttamente il diritto interno, bypassando i parlamenti nazionali; significativa è pure la frequenza – superiore a quella registrata negli altri settori di competenza legislativa concorrente – con la quale vengono inflitte sanzioni agli Stati membri per il mancato recepimento delle disposizioni comunitarie.

La diretta incidenza negli ordinamenti interni delle scelte in materia ambientale e l’effettività dell’attuazione delle normative è, inoltre, presidiata da un rigoroso sistema sanzionatorio. Il settore ambientale è, infatti, quello in cui si è registrata l’erosione più profonda alla sovranità degli stati membri, colpita in una delle sue espressioni più significative: la potestà di sanzionare penalmente i comportamenti dei propri cittadini. Plurime e gravi sono le fattispecie incriminatrici nazionali il cui precetto viene riempito dalle statuizioni non di assemblee elettive, ma da organismi comunitari composti da tecnici ed esperti.

La centralità delle tematiche ambientali nelle politiche dell’Unione Europea è peraltro testimoniata dalla trasversalità degli interventi che, giustificati dalla suprema esigenza di salvaguardare la casa comune, finiscono per l’invadere e incidere significativamente negli ambiti riservati ai diritti delle persone, delle famiglie e delle imprese, che vengono relativizzati in chiave ecologista[10]. La cifra ideologica del riferimento all’ambiente discende, infatti, in modo evidente dalla strumentalizzazione che viene operata di esigenze, pur condivisibili, di salvaguardia dell’habitat naturale per introdurre vincoli e obiettivi tali da condizionare in modo significativo non solo le politiche nazionali, ma la stessa vita dei singoli e delle comunità; vincoli ed obiettivi che, spesso, vanno ben al di là della pur sacrosanta tutela dell’ambiente.

Né è da trascurare, quale ulteriore dato di conferma, il rilievo che è stato attribuito all’adesione agli indirizzi e alle normative in materia ambientale, nel novero delle condizionalità che i Paesi candidati ad accedere all’Unione Europea sono tenuti a soddisfare pena il mancato ingresso nel consesso comunitario, con gli annessi benefici economico-finanziari. Non è un caso, pertanto, se, fin dall’inizio, gli interventi in materia ambientale hanno assunto la veste di programmi e piani di azione, quasi a riproporre la mistica della pianificazione delle passate esperienze del cosiddetto socialismo reale.

Il primo “piano di azione quinquennale sull’ambiente” risale al 19 giugno 1973; l’ultimo, in ordine di tempo, ha lanciato, per il quinquennio 2019-2024, la nuova frontiera, il green new deal europeo, destinato ad assorbire un terzo dell’intero pacchetto di risorse stanziate per il più imponente programma di finanziamento euro-unitario, noto come “Next Generation EU[11].

 

Non si tratta di interventi marginali, e non solo per quantità di stanziamenti. Gli ambiti interessati vanno dall’economia all’agricoltura, dai trasporti all’istruzione, fino a comprendere «la coesione, la resilienza, i valori». Non è questione, insomma, di passare semplicemente da una forma di energia ad un’altra, ma da una politica a un’altra, da una cultura ad un’altra, da un uomo ad un altro uomo. Come è stato osservato: «La transizione ecologica non è politicamente neutra. Non è una questione ‘solamente’ tecnica, scientifica e tecnologica» (così, Caterina Sarfatti, Inclusive Climate Action, aC40 Cities). È una questione, in definitiva, antropologica.

Non c’è da scandalizzarsi per questo. Bisogna, tuttavia, chiamare le cose con il loro nome. È evidente, infatti, che l’ecologia non è più intesa nel senso di studio e cura della casa, per tutelare innanzitutto chi la abita e chi la abiterà in futuro; spostando l’accento sulla transizione, la casa perde le sue fondamenta, diventa qualcosa di fluido, nelle mani di chi ne decide il movimento, e in fin dei conti la destinazione. La transizione ‒ il movimento ‒ è destinata a prevalere sulla casa e su chi la abita; anzi quest’ultimo è guardato sempre più con sospetto, come un fastidioso intralcio, perché legato magari a valori non più sostenibili.

 

  1. Friday without future

 

Friday for future, come è noto, è il nome del movimento ambientalista  internazionale di protesta, composto da studenti che decidono di non frequentare le lezioni scolastiche per partecipare a manifestazioni in cui chiedono azioni atte a prevenire il riscaldamento globale. Forse è davvero un Friday, un Venerdì, quello che stiamo vivendo, ma di Passione, essendo il futuro sempre più incerto, ma non tanto per il riscaldamento globale, quanto piuttosto per i sacrifici che soprattutto i ceti e le popolazioni più svantaggiate saranno sempre più chiamati a sostenere sull’altare della transizione ideologica[12].

Quel che più indigna è che, dinanzi ad una tale deportazione ideologica, le famiglie e le imprese non hanno voce.

Il compito dei giuristi è anche quello di smascherare questa truffa di etichetta e invocare la centralità dell’uomo, che deve rimanere l’obiettivo ultimo di ogni politica autenticamente a difesa della natura.

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] «(…) è difficile escludere che lo spirito rivoluzionario non assuma in un futuro più o meno prossimo, nuove sembianze”. (…) “O forse le ha già assunte, se è vero quanto ha osservato Vittorio Mathieu (…): che lo spirito rivoluzionario ha individuato nell’ecologia il suo nuovo teatro d’azione. Un teatro che già vent’anni fa Andrè Gorz indicava alla sinistra gnostica, scrivendo: ‘La lotta ecologica non è fine a sé stessa, è una tappa. Essa può creare difficoltà al capitalismo ed obbligarlo a cambiare’ (…). Lo stesso Gorz recentemente ha riconosciuto che ‘la fede materialistico-dialettica nel senso della storia ha lasciato il posto alla fede quasi religiosa nella bontà della Natura e in un ordine naturale che dovrebbe essere ristabilito’ (Capitalismo, socialismo, ecologia, Manifesto, Roma, 1992)». Cfr. L. Pellicani, La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario, Soveria Mannelli, 2012, p. 581.

[2] Cfr. M. Giaccio, Il climatismo: una nuova ideologia, 21mo Secolo, Milano, 2019, p. 315.

[3] Così la definisce L. Boissonade, Commissariat général au développement durable, Ministère de la transition écologique et solidaire, Francia, 2017.

[4] Cfr. M. Giaccio, op. cit., p. 65.

[5] Cfr. M. Giaccio, op. cit., p. 269.

[6] Cfr. Aa.Vv. Clima, basta catastrofismi, 21mo Secolo, Milano, 2019; nonché, F. Prodi, Sul clima una prospettiva da aggiornare, Il Foglio, 1.11.2021.

[7] Cfr. M. Giaccio, op. cit., p. 270.

[8] Cfr. M. Giaccio, op. cit., p. 270.

[9] Particolarmente significativa al riguardo è quanto dichiarato dal Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, nel corso del Convegno su “Lavoro ed energia per una transizione sostenibile” tenutosi nel novembre del 2021: «La transizione ecologica ha un’importanza esistenziale» Essa «richiederà trasformazioni radicali, nelle tecnologie, nelle abitudini di consumo, e per avere successo dovrà essere sostenibile anche dal punto di vista sociale ed economico» e lo Stato «avrà un ruolo centrale nella gestione di questi cambiamenti». (Draghi: «Transizione verde sfida esistenziale, dal G20 a Cop 26 impegni significativi, ora onorarli», Il Sole 24 ore, 30.11.2021).

[10] Si veda, ad esempio, quanto accaduto con riferimento alla Direttiva Acque sul Deflusso Ecologico, che, al fine di salvaguardare l’habitat dei corsi d’acqua in Europa, prevede, a partire dal 1°/01/2022, un maggior rilascio di acqua nei fiumi; il che vuol dire ridurre drasticamente i prelievi da destinare all’irrigazione dei campi, cioè ai bisogni di chi abita quell’habitat. Poco importa se tutto ciò significherà un calo del 46% delle produzioni agricole nell’area pedemontana veneta e nel trevigiano, secondo le stime di Enel Green Power (Da gennaio la Ue riduce l’acqua per l’agricoltura: gravi danni per l’Italia, Il Sole 24 ore, 10.11.2021).

[11] Il primo “piano di azione quinquennale sull’ambiente” risale al 19 giugno 1973; esso rappresentò l’inizio di una costante attività di pianificazione diretta a tracciare le linee di una politica comune delle istituzioni europee per la tutela dell’ambiente, sul presupposto della necessità dell’adozione di una strategia globale e della fissazione di obiettivi rigorosi.

Le tappe più significative di una programmazione sempre più omnipervasiva possono così riassumersi:

— il secondo piano di azione quinquennale (del 13 giugno 1977) introdusse la valutazione di impatto ambientale nelle procedure aventi ricadute potenzialmente inquinanti, con evidenti ricadute sulla libertà di impresa oggetto di una subdola espropriazione in nome della salvaguardia dell’ambiente;

— il terzo piano (del 17 febbraio 1983) si soffermò sul ruolo attribuito alla ricerca scientifica, centrata non più sull’uomo ma sul suo habitat considerato come valore in sé;

— il quarto piano (del 1° ottobre 1987) richiamò gli Stati membri ad un’attività di monitoraggio dei fattori di degrado, con attenzione sempre maggiore alle cause antropiche delle criticità ambientali;

— il quinto piano (adottato dopo il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992), nel quadro della ormai riconosciuta competenza dell’Unione Europea in campo ambientale, disegnò la strategia “per uno sviluppo durevole e sostenibile”;

— il sesto programma comunitario di azione per l’ambiente, licenziato nel 2002, intitolato “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” individuò quattro settori prioritari (cambiamenti climatici, natura e biodiversità, salute e qualità della vita, risorse naturali e rifiuti) e si pose come prima elaborazione di un programma di sviluppo sostenibile nella futura Comunità allargata. Il programma fissò cinque assi prioritari di azione strategica: migliorare l’applicazione della legislazione vigente, integrare le tematiche ambientali nelle altre politiche, collaborare con il mercato, coinvolgere i cittadini modificandone il comportamento e tener conto dell’ambiente nelle decisioni in materia di assetto e gestione territoriale. Per ciascuno di questi assi vennero proposte e attuate azioni specifiche.

–nel 2013 il Consiglio ed il Parlamento hanno adottato il Settimo piano di azione, per il periodo fino al 2020, dal titolo “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”, con il quale sono stati posti nove obiettivi prioritari, tra cui quello di una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile, in quanto fondata su basse emissioni di carbonio.

Con il Trattato costituzionale europeo, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, inoltre, l’Unione si è impegnata ad adoperarsi «per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata (…) su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente», nonché a «contribuire alla messa a punto di misure internazionali volte a preservare e a migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile».

In tale prospettiva di azione globale, l’Unione Europea ha svolto un ruolo importante nei negoziati internazionali in materia di ambiente, intervenendo quale protagonista nella definizione dell’Agenda delle Nazioni Unite 2030 per lo sviluppo sostenibile e nell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.

[12] Cfr. R. Cingolani, Ministro della Transizione Ecologica, La transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue, Huffington Post, 1.7.2021.