Domenico Menorello
Avvocato in Padova, Coordinatore del Network “Ditelo sui tetti”

Appunti sulla filigrana antropologica nei contratti di maternità surrogata*

 

 

Sommario: 1. Vite “sotto contratto” − 2. Nel “cambio d’epoca” ovvero nella scomparsa di un’etica pubblica comune − 3. La maternità surrogata come paradigma della pretesa del trans-umano − 4. Il livello della questione − 5. Il criterio per scegliere fra Prometeo e Francesco.

 

 

 

  1. Vite “sotto contratto”

 

Il dibattito attorno a quella pratica che la stessa legge n. 40/2004, oltre che un’ampia letteratura, chiama “maternità surrogata” (altrimenti denominata anche “utero in affitto” o “gestazione per altri-GPA”) solitamente si sofferma per lo più sull’esame di aspetti medici, sociali e psicologici.

Nella presente sede, si intende, invece, attirare l’attenzione sull’aspetto giuridico di tale fenomeno, cosicché le riflessioni che seguono si prefiggono l’obiettivo di fornire − seppur stentati − spunti per una lettura, per così dire, in controluce, che cerchi di scorgere da quale concezione dell’umano, da quale antropologia abbia origine la pretesa, che va diffondendosi in un tempo assai recente, di una normazione giuridica della stessa maternità surrogata, e che, per converso, si oppone all’estensione dei divieti anche penali attualmente vigenti.

Vi è in effetti un ineliminabile fattore giuridico per poter ottenere prole, delegando la gravidanza e il parto a una terza donna che non è geneticamente correlata al feto che cresce.

Come si avrà modo di approfondire infra, pretendendo il committente di conformare il comportamento della gestante in senso opposto alla fisiologia delle relazioni madre/figlio, solo un vincolo contrattuale può assicurare l’immediata separazione del bimbo dalla partoriente e la consegna del neonato a chi ha commissionato la gravidanza. Altresì, l’osservazione del fenomeno, per come si conosce nella pratica, evidenzia condizioni sensibilmente gravose, cui deve sempre essere sottoposta la donna che ospita una “gestazione per altri”, imposte e regolate da parte dei committenti e dalle agenzie proprio con strumenti contrattuali ritenuti vincolanti, i quali dispongono, appunto, la fecondazione, la gestazione, i doveri della gestante, i divieti della partoriente verso il neonato e così via. Durante la gravidanza le donne possono, ad esempio, essere obbligate a stare in dormitori ad hoc o in case in affitto con altre donne “surrogate”, e comunque sono indotte a portare braccialetti con un transponder per il continuo controllo dei loro comportamenti, atteso che viene chiesto loro di seguire regimi dietetici e abitudini quotidiane severe per allinearsi allo stile di vita dei genitori intenzionali[1].

«Le regole quando sei incinta sono molto stringenti e dure da sopportare. Viene consegnato un decalogo che spesso arriva ben oltre le dieci voci: attenersi scrupolosamente alla dieta della nutrizionista, vietato fumare, non accarezzare la pancia, non cantare sotto la doccia, non dare soprannomi al feto, non parlare o contare al feto … Oltre a questo è prevista un’ora di psicoterapia al giorno: serve per costruire un distacco mentale dal bambino che la donna porta in grembo. La madre surrogata non viene messa al corrente di nulla rispetto al bambino, non conosce i suoi dati biometrici. Soltanto ai controlli chiede se va tutto bene e le viene risposto di sì. Nient’altro … la donna spesso nemmeno sa se partorisce un maschietto o una femminuccia …»[2].

Peraltro, durante la gestazione, i genitori intenzionali potrebbero richiedere una riduzione selettiva degli embrioni impiantati in base al numero di bambini che si desiderano effettivamente ottenere, nonché pretendere di abortire i feti con malattie, decisione rispetto alla quale l’opinione della madre surrogata non ha alcun rilievo, nonostante il fatto che il feto stia crescendo nel suo corpo. Altresì, la letteratura medica mostra che la GPA (nella misura in cui implica fecondazione in vitro, impianto di embrioni con DNA diverso da quello del portatore, trattamenti farmacologici per ovuli “donatori” e portatori, nella maggioranza dei casi impianto multi embrione e riduzioni selettive, parto cesareo) è la gravidanza a più alto rischio per la gestante, essendo particolarmente esposta a complicazioni quali il diabete gestazionale, la limitazione della crescita fetale, la pre-eclampsia, il parto prematuro, la pressione intracranica, varie malformazioni, il ritardo nella crescita delle ossa, l’infertilità e il cancro. Si consideri, altresì, che l’accesso alle cure postnatali e ai servizi sanitari in caso di complicazioni dopo il parto è spesso inaccessibile per le donne nei paesi in via di sviluppo. Dunque, nella prassi tali contratti dispongono letteralmente delle condizioni dell’esistenza della donna, nonché della vita del futuro bimbo in senso amplissimo, al punto che le madri surrogate debbono persino dichiararsi consapevoli dei rischi medici, inclusa la morte, appena accennati, che accettano di correre[3].

Le gravi condizioni fisiche ed esistenziali che devono essere sopportate dalle donne utilizzate per una gravidanza per altri forniscono immediata spiegazione del perché i mercati della maternità surrogata riguardino di fatto ambiti e donne in situazioni di povertà, che sopportano simili disumani sacrifici per un prospettato corrispettivo.

Siamo di fronte a scenari che solo qualche anno fa sarebbero stati imputati alla letteratura fantascientifica o fantapolitica di ispirazione orwelliana e che ora sono resi materialmente possibili dalla tecnica, ma per i quali si dibatte soprattutto attorno alla possibilità di addivenire lecitamente a contratti che impongano le prestazioni necessarie al fenomeno in esame, possibilità a sua volta dipendente dalla rimozione, variamente modulabile, dei divieti presenti in molti ordinamenti nazionali, di cui in particolare, al delitto previsto dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 20024, che il Parlamento italiano sta per assurgere a reato perseguibile anche all’estero[4].

Sul punto, giova attirare l’attenzione, seppur ex multis, sulla discesa in campo a tale scopo addirittura della Corte di Cassazione, che con l’ordinanza della Prima Sezione civile della Cassazione 21 gennaio 2022, n. 1842[5], ha rimesso alle Sezioni Unite[6] la decisione sulla possibilità, appunto, di ottenere una immissione, anche indiretta o parziale, nell’ordinamento italiano dei contratti sottoscritti all’estero per “maternità affittate”.

Per quale ragione uno strumento giuridico, quale un contratto, viene considerato tanto prioritario nella contemporaneità per promuovere fenomeni inediti sul piano delle relazioni intersoggettive, quale è quello della c.d. maternità surrogata? La domanda impone di indugiare brevemente su alcuni tratti del contesto storicamente corrente, al fine di comprendere come la vera posta in gioco del dibattito attorno alla richiesta di liceità giuridica per i contratti aventi ad oggetto una GPA sia innanzitutto antropologica.

 

  1. Nel “cambio d’epoca” ovvero nella scomparsa di un’etica pubblica comune

 

Il sentiment comune di fronte all’incalzare delle cronache dalle frontiere del trans-umano è un mix di perplessità, incertezza e disorientamento. Un sentiment che, inconsciamente, coglie nel segno, visto che su un fenomeno quale l’“utero in affitto” solo pochi anni fa si sarebbe invece alzata una diffusa, netta e pressoché unanime opposizione. Ora, non solo non vi è una siffatta massiccia reazione oppositiva, ma, all’opposto, non sono poche le voci che, come si vedrà, vorrebbero consentire, contrattualizzandola, una simile pratica[7].

Cosa è cambiato nel frattempo? È mutata, come si vedrà osservando la metamorfosi assiologica “nel e del” diritto, la stessa epoca storica.

  1. L’antropologia comune dell’epoca di prima. Di poco prima.

Negli anni Novanta, don Luigi Giussani notava la persistenza di una «traiettoria iniziata secoli prima»[8], che era stata caratterizzata «dalla prevalenza dell’etica sull’ontologia». Infatti, «gran parte della Chiesa si era attestata su quello che anche gli altri − detrattori inclusi − potevano capire o dovevano ammettere: l’etica fondamentale, valori morali, lasciando sullo sfondo il contenuto dogmatico del cristianesimo, la Sua ontologia, cioè l’annuncio che Dio si è fatto uomo e che questo avvenimento permane nella storiaSembrava più facile appellarsi alla morale cattolica per conservare una presa sulle persone» e «non si riteneva necessario offrire ragioni adeguate per seguire la Chiesa»[9].

In effetti, fino a tempi non lontani resisteva, magari stancamente, una “morale” socialmente condivisa (forse solo apparentemente condivisa), ma che permaneva almeno nella prospettazione per così dire “esterna” della società italiana, ovvero nelle affermazioni che potevano avere un tono di sintesi nelle comunicazioni istituzionali e politicamente apicali o, più ancora, nella patina di ordine valoriale dell’impianto dell’ordinamento giuridico.

Esemplificativamente, nel gennaio 1995 “Famiglia Cristiana” e “L’Unità” ospitavano un dialogo fra Carlo Casini e Massimo D’Alema, nel quale, sul tema dell’eutanasia, persino l’esponente politicamente più esposto del fronte asseritamente “progressista” si proclamava comunque contrario «all’arresto deliberato di una vita»[10], con ciò implicitamente affermando un valore intangibile anche a circostanze di vita fragili, quali sono i momenti di malattia, di grave dolore e di prossimità alla fine dell’esistenza.

Con maggior evidenza, tale matrice culturale veniva esplicitata nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che più volte ha ribadito due tratti antropologici fondamentali: 1) la vita deve essere tutelata come inviolabile in ogni circostanza, specie se fragile; 2) l’umano viene valorizzato in un contesto relazionale e sociale, inscindibile nello sviluppo della singola persona. Ad esempio, seguendo una significativa narrazione costituzionale (cfr. sentenze n. 54 del 1979 e n. 223 del 1996), ancora il recente arresto della Consulta 15 febbraio 2022, n. 50 riteneva che «il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è “da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (sentenza n. 35 del 1997). Esso “concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (sentenza n. 238 del 1996)”, essendo, cioè, il “primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223 del 1996), in quanto “presupposto per l’esercizio di tutti gli altri», ponendo altresì in evidenza come da esso discenda “il dovere dello Stato di tutelare la vita”», «senza distinizione di condizioni individuali e sociali», come recita l’art. 1 della legge n. 833/1978 di istituzione del servizio sanitario nazionale.

In estrema sintesi, «al centro della Costituzione c’è la persona, cioè, sempre un “noi”. Non c’è l’individuo. È una concezione evangelica che è stata fatta propria da tutti i padri costituenti, di ogni credo e sensibilità politica»[11].

Questa “concezione” dell’umano, perciò, è stata la protagonista pressoché unica dell’ordinamento giuridico italiano in quanto generalmente riconosciuta nella società, fino al permanere di un ordinamento giuridico coerente con l’impianto costituzionale.

  1. b) Il diritto: alert della scomparsa di una koiné.

Se l’impianto assiologico per così dire “costituzionale” corrispondesse ancora alla cultura prevalente della società italiana, potrebbe davvero aprirsi un dibattito tanto esteso e intenso quale quello in corso, circa la possibile liceità di contratti per l’uso da parte di terzi di un corpo di una donna in situazioni di povertà e per la disponibilità della vita di un neonato?

Per quale motivo i tentativi di legittimazione di “affitto” addirittura della maternità non vengono subito stoppati, allo scopo bastando richiamare l’art. 5 del Codice civile che, proprio a tutela di ogni condizione di fragilità, con chiarezza «vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando siano contrari alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico», il che sarebbe sufficiente «per ritenere impossibile in Italia la pratica della maternità surrogata»[12].

Invece, come si è visto, si tratta di certezze giuridiche smarrite persino dalla prima sezione della Corte di Cassazione[13], il che consiglia di tornare all’origine del fenomeno normativo.

In particolare, Tommaso d’Aquino da secoli insegna che una legge, una norma «non [è] che una prescrizione della ragione, in ordine al bene comune, promulgata dal soggetto alla guida della comunità»[14]. Una decisione normativa, dunque, “sceglie” − sempre! − qualcosa ritenuto un “bene per tutti” e indirizza − sempre! − l’intera comunità civile verso quello stesso ritenuto “valore”. Ce lo indica, con molta immediatezza, anche il linguaggio, che utilizza l’aggettivo “legale” come sinonimo di “buono”, di “positivo”. La larga, forse larghissima condivisione sociale di “valori” comuni nel dopoguerra ha dato linfa ai ricordati canoni costituzionali, cosicché tale plafond assiologico è, poi, sopravvissuto nel diritto e nella legislazione più di quanto lo stesso fosse rimasto esperienza viva e diffusa nella società dei decenni successivi, come accade quando il tepore rimane in una stanza anche dopo che il fuoco che l’aveva generato si sia spento.

Rimanendo, dunque, nel rapporto strutturale rilevato dall’Aquinate fra diritto e koiné sociale, esso, da un lato e come si è visto per la “precedente epoca”, consente di osservare princìpi e valori nel corpo normativo presumendo che essi rivelino ideali socialmente condivisi, ma, per un altro speculare verso, qualora invece accada che nel corpo giuridico vadano sensibilmente mutando parametri precedentemente consolidati, tale fenomeno deve essere avvertito (anche) come un chiaro sintomo che nella società è avvenuto un previo mutamento nella cultura del popolo.

In Italia sta accadendo esattamente la seconda dinamica.

Infatti, da circa una decina di anni (seppur con qualche anticipazione, quale, ad esempio, la legge n. 194/1978) l’ordinamento giuridico conosce una sorta di costante e progressiva “fibrillazione valoriale”, riferibile proprio al frequente venire meno di “certezze” di impianto costituzionale che per decenni non erano mai state poste in discussione. Per oltre sessant’anni, cioè, il Parlamento ha legiferato pressoché solo su materie amministrative, fiscali, economiche, del welfare et similia, mai invadendo lo statuto delle convinzioni esistenziali più profonde, in particolare non ponendo in discussione l’assolutezza del valore della vita in qualsiasi condizione essa si trovi, nonché rispetto a un paradigma dell’umano intrinsecamente connotato da una dimensione relazionale con l’altro da sé e con il reale. Tali valori antropologici venivano considerati socialmente acquisiti, cosicché il diritto non è intervenuto per decenni se non per confermare, magari solo formalmente, l’impianto assiologico tradizionale.

Invece, tale antropologia costituzionale è stata, poi, improvvisamente contestata da un impressionante incalzare di leggi, provvedimenti e sentenze apparsi nell’ultimo decennio, che in questa sede basterà solo accennare, al fine di comprendere l’emersione, nel diritto, di pretese proprie di una matrice antropologica radicalmente diversa, che ora perviene a ipotizzare persino la legittimazione della maternità surrogata.

Ne citiamo solo alcune.

  • 2015: la legge n. 55/2015 contesta la responsabilità (anche) sociale del matrimonio, rendendone facilissima la risoluzione del legame matrimoniale, e derubricandolo a mero fatto privato, giacché può essere sciolto anche senza ricorrere al Giudice;
  • 2016: la legge n. 76/2016 crea modelli intitolati alla “famiglia”, negando però la necessità di relazioni tendenzialmente fedeli, stabili e reciprocamente responsabili, nonché vocate strutturalmente alla nascita di nuove vite;
  • 2017: la legge n. 219/2017 per la prima volta spezza l’assioma costituzionale, secondo cui la “vita” ha valore assoluto in qualsiasi circostanza, introducendo la tutelabilità solo della “vita dignitosa”, altresì lasciando il perimetro di tale “dignità” al mero soggettivismo[15];
  • 2018 e 2019: la Consulta (ordinanza n. 207/2018 e sentenza n. 242/2019) per due volte intima al Parlamento di introdurre per legge il suicidio medicalmente assistito, dunque accettando il principio di tutela prioritaria da parte del SSN della sola «vita dignitosa»[16];
  • 2020: con la Circolare del 12 agosto 2020, il Ministero della Salute inizia la “privatizzazione” dell’aborto, favorendo la soluzione chimica domiciliare con la pillola RU486 e relegando la donna in uno spazio solitario, privo persino del sostegno ospedaliero; nell’ottobre del 2020 l’AIFA elimina la prescrizione medica per le minorenni per l’assunzione della pillola antinidatoria Ellaone, il cui conclamato effetto è di impedire all’ovulo fecondato di impiantarsi nell’endometrio, ma senza che di tale realtà vi siano coscienza e responsabilità, né sostegno; il 4 novembre 2020 la Camera licenzia il c.d. “Ddl Zan”, con il tentativo di imporre il soggettivismo e il relativismo verso il reale propri dell’ideologia “gender”[17];
  • 2021: la Camera dei deputati approva il 9 dicembre 2021 la Pdl per il “suicidio assistito” negli ospedali per vite considerate “non dignitose” (c.d. “Pdl Bazoli”), che ha poi assunto, nel 2022, il n. ddl 2553 al Senato, decaduto per l’anticipato scioglimento del Parlamento[18], mentre nello stesso periodo era stato richiesto il referendum per legittimare l’omicidio del consenziente, dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale[19];
  • Nel settembre 2021, dopo la legge 2 dicembre 2016, n 242, Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa, e la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12348 del 19/12/2019 sull’uso personale di sostanze tossicodipendenti[20], le Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali approvano il testo unificato Disposizioni in materia di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope nei casi di lieve entità (C. 2307 Magi e C. 2965 Licatini)[21], per la legalizzazione di sostanze stupefacenti, accompagnata da un’omogenea iniziativa referendaria nel 2022, anch’essa respinta dalla Corte costituzionale[22].
  1. c) Il portato antropologico del “nuovo diritto”: il neo-individualismo

Non è più, evidentemente, l’umano della costituzione il nerbo culturale sotteso a un sì sensibile fenomeno di produzione normativa, amministrativa e giurisprudenziale.

Questo “nuovo diritto” appare piuttosto contrassegnato, come si vedrà di seguito dai tratti del modello antropologico di un “neo-individualismo”, del quale, come vedremo la pretesa della maternità surrogata propone una sintesi particolarmente potente.

La prima evidenza antropologica di tale “nuovo diritto” è quella indicata da Alfredo Mantovano dal 2019, ovvero la affermata equivalenza fra la “dignità” della vita e una assoluta “autodeterminazione[23]. Ma se il valore della vita risiede nella capacità del singolo di essere totalmente autodeterminato, autonomo, possessore del reale, allora quando la persona non è in queste condizioni, ma nella fragilità, nella debolezza, nella malattia irreversibile, il suo valore e il suo significato diminuiscono e la sua vita può essere scartata. Così, l’esistenza non ha più un valore assoluto in ogni circostanza, dunque sempre, ma diviene a “dignità variabile”: quando l’esistenza diviene debole, la sua dignità viene meno, fino ad essere negata, e lo sbandierato mito dell’autodeterminazione si risolve nella logica e nella “cultura dello scarto”, secondo l’ulteriore acutissima intuizione di Papa Francesco[24].

La seconda evidenza antropologica è un corollario di tratti derivati dalla cifra individualista della prima. Se conta solo la “autoreferenzialità”, come ha indicato il Presidente dei Vescovi Italiani, Card. Matteo Zuppi nel messaggio per la festa dell’Assunta del 2022[25] ripreso, sul punto, anche nell’intervista del 3 settembre successiva del Segretario di Stato, Card. Pietro Parolin[26], la realtà, gli altri, i legami umani diventano fattori negativi, pregiudicanti la cifra dell’autodeterminazione, unica leva del valore del singolo, e quindi i condizionamenti naturali, le relazioni con i propri simili, e le relative responsabilità vanno negati, rimossi o almeno limitati il più possibile. Illuminante, sul punto, Stefano Zamagni: «Noi viviamo l’epoca della seconda secolarizzazione. La prima era comportarsi etsi deus non daretur. Oggi siamo entrati nella seconda secolarizzazione di cui però nessuno vuol parlare. Questa seconda secolarizzazione è ben resa da quest’altro aforisma: bisogna comportarsi etsi communitas non daretur, come se la comunità non esistesse»[27].

Quindi, se nella concezione dell’umano della Costituzione la relazione umana era percepita come volano di sviluppo della persona, essa nel campo neo-individualista dell’esaltata autodeterminazione diviene invece un grave “limite” per la libertà, così come le stesse condizioni del reale e della natura umana[28] appaiono ostacoli da rimuovere per le sempre più indeterminate pretese soggettive di misurare tutto e di pretendere tutto.

Perciò la vita è libera se non deve “dipendere” da un “altro da sé” per potersi autodeterminare, cioè per affermarsi quale unica e suprema misura di tutte le cose. Viene, insomma, alla luce una sorta di «non-antropologia, costruita sul rifiuto sistematico di ogni categoria, definizione o conoscenza previa, percepite come inaccettabili imposizioni»[29].

In realtà, e paradossalmente, un uomo solo, senza appartenenza, si autodetermina secondo la mentalità dominante. Le iperboli soggettive in effetti mutuano i modelli dai canoni più radicati di un atteso “successo”. Così la dignità finisce per diventare sinonimo di efficienza, di capacità di essere performanti, che diviene, in questa parabola, il parametro concreto della dignità. Chi non “riesce” ovvero, in pratica, non ha più “successo” per fallimenti, inabilità, povertà, fragilità diviene uno scarto. Può essere scartato. Anzi, viene indotto a desiderare di essere scartato.

L’altra faccia dello scarto è la reificazione della persona. Chi è debole, piccolo, bisognoso ha un valore ridotto ed è così alla mercé del più forte, del più ricco, che per affermare sé stesso e i suoi desideri lo può dominare, secondo quella dinamica possessiva che si riversa più propriamente verso le res.

Il crinale di questa idea ridotta di uomo è efficacemente scolpito nella Laudato sì: “Quando l’essere umano pone sé stesso al centro, finisce per dare priorità assoluta ai suoi interessi contingenti, e tutto il resto diventa relativo. Perciò non dovrebbe meravigliare il fatto che, insieme all’onnipresenza del paradigma tecnocratico e all’adorazione del potere umano senza limiti, si sviluppi nei soggetti questo relativismo, in cui tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati. Vi è in questo una logica che permette di comprendere come si alimentino a vicenda diversi atteggiamenti che provocano al tempo stesso il degrado ambientale e il degrado sociale[30].

  1. d) Il ruolo proattivo, nel cambio d’epoca, della leva del diritto per l’antropologia del neo-individualismo e del trans-umano.

Se è vero che “diritto” e “valore sociale” si specchiano sempre e si alimentano reciprocamente, appare di particolare evidenza che massimamente all’antropologia del neo-individualismo è necessaria la leva giuridica, non solo come riverbero di tale concezione antropologica, ma anche come strumento di promozione della stessa.

In effetti, il protagonista dell’autodeterminazione, che pretende la libertà dai legami umani e dai condizionamenti della sua natura umana, si fa spazio nel “cambio d’epoca” utilizzando due strumenti privilegiati: «la tecnica e il diritto sono diventati gli strumenti fondamentali per “tagliare” i legami. E per questo diritto e tecnica oggi sono i baluardi della libertà moderna»[31].

Per un primo aspetto, dunque, è la tecnica e in particolare la bio-tecnica a suggerire al novello Prometeo coniato dal neo-individualismo una strada prima inimmaginabile per farsi “creatore”, contestando le leggi naturali e facendo prevalere la propria volontà potendosi addirittura svincolare i condizionamenti della sua natura.

Per un secondo aspetto, se l’individuo viene affermato come proiezione proprietaria sul reale e se la libertà è percepita come assenza di condizionamenti e di legami, allora la norma, la legge, il diritto divengono straordinari strumenti per recidere ogni vincolo di responsabilità verso gli altri e, addirittura, per disconoscere l’oggettività della realtà, disegnando dei “diritti” a essa sovrapposti e dominanti.

Ora ci appare più semplice comprendere perché addirittura la prima sezione civile della Cassazione, oltre che gli assordanti cantori del politically correct, tambureggino affinché la maternità surrogata -frutto dell’iperbole dell’autodeterminazione e dunque del preteso valore di chi è in posizione dominante- possa essere recepita in sede giuridica, auspicando l’eliminazione o l’attenuazione degli attuali vincoli, per riconoscere almeno in parte liceità ai relativi, essenziali contratti.

Tale pretesa corrisponde con l’avanzare stesso di una prospettiva antropologica che ricerca il pieno utilizzo delle nuove frontiere delle bio-tecniche attraverso la liberazione dai divieti vigenti, cosicché si chiedono novellazioni normative, affinché l’autodeterminazione di chi non ha debolezze né fragilità non incontri ostacoli alla propria affermazione e dunque al proprio ritenuto valore.

  1. e) Il “cambio d’epoca” e la compresenza di più matrici antropologiche.

Un tanto massiccio utilizzo di un diritto, condizionato e portatore al tempo stesso, di valori antropologici quali quelli accennati, impone di prendere atto che uno scenario di generale condivisione di una “etica fondamentale” di impianto costituzionale non esiste più. Dunque, quel dialogo fra Carlo Casini e Massimo D’Alema di meno di 30 anni fa viene “sentito” molto più lontano nel tempo di quanto effettivamente sia, proprio perché nella contemporaneità è appena intervenuto un fatto sociale eccezionale, che Papa Francesco nel 2015 ha riconosciuto quale quel particolare “cambio d’epoca”, per cui «non siamo più nella cristianità»[32].

In effetti, sempre un “cambio d’epoca” è connotato proprio dalla scomparsa, dalla caduta verticale di “certezze” valoriali nel sentimento sociale comune. Perciò, se la “precedente epoca”, durata almeno fino alla Costituzione e trascinatasi ancora per qualche ulteriore decennio, si fondava sulla condivisione diffusa dell’antropologia cristiana, proprio nella crisi e nello smarrimento dello sguardo sull’uomo portato e sviluppato dal cristianesimo sta la cifra del tempo che viviamo.

Di conseguenza, mancando quella koiné socialmente condivisa, nel guazzabuglio identitario proprio di ogni cambio d’epoca vengono ora pubblicamente proposte (rectius: sovente “imposte”, magari opportunamente imbellettate con gli stereotipi del politically correct) diverse matrici antropologiche. Non ha più alcun senso, perciò, riferirsi sbrigativamente a un’“etica fondamentale[33], semplicemente perché non esiste più alcuna etica condivisa, cosicché il profetico invito di don Giussani a lasciarsi interrogare dall’ontologia diventa ineludibile[34].

Quindi, i tratti nuovi del dibattito pubblico, le pretese derivanti da una filiera inaudita di tentativi normativi e giurisprudenziali distonici rispetto all’impianto costituzionale, così come nell’urto del galoppante evolversi delle bio-tecnologie, impongono come «necessario definire cosa è l’umano»[35], con ciò facendoci acquisire consapevolezza della sfida più importante che il “cambio d’epoca” offre a tutti: comprendere e farsi provocare, “interrogare”, dalle diverse concezioni antropologiche davanti a cui ciascuno si trova, per esercitare una rinnovata capacità di giudizio e scelta[36].

È una avventura della ragione e del cuore umani straordinaria, cui siamo chiamati dopo secoli di (almeno formale) compattezza valoriale. Per noi, davvero «occorre perforare» le «immagini indotte dal clima culturale in cui si è immersi, scendere a prendere in mano le proprie esigenze ed evidenze originali e in base a queste giudicare e vagliare ogni proposta, ogni suggerimento esistenziale»[37].

Così, urge “perforare” e vagliare anche ciò che la mentalità dominante propone come “diritti”, che vanno così tanto estendendosi da pretendere persino di poter appropriarsi, con un contratto, di una maternità e di una nuova vita.

 

  1. La maternità surrogata come paradigma della pretesa del trans-umano

 

Tenendo conto del cambio d’epoca in cui siamo ormai pienamente immersi e nel quale si appaiano concezioni dell’umano ontologicamente differenti senza più alcuna koiné socialmente prevalente, si è osservato come la pretesa che vengano riconosciuti come leciti “contratti” aventi quale proprio oggetto negoziale la gestazione per altri e la vita che nasce, riveli gli inequivoci tratti della specifica silhouette antropologica che è apparsa con costanza nell’ordinamento da almeno un decennio, dominata dal mantra della “autodeterminazione” come paradigma assoluto di valore.

Più ancora. La maternità surrogata esplicita gli esiti del modello neo-individualista, che possono definirsi trans-umani o post umani, in quanto si risolvono nel voler legittimare posizioni dominanti e possessive sui più deboli, con la relativa regressione del perimetro di tutela per i secondi, fino a negare, per essi, il principio di indisponibilità della vita e dell’umano. E i tratti antropologici dai quali si coglie il passaggio a un orizzonte culturale trans-umano si rinvengono con chiarezza soprattutto osservando il fondamentale ruolo delle leve giuridiche, su cui si sviluppa quella “riflessione” sulla “gestazione per altri”, che i “documenti politici” dei vari “pride days” che si susseguono nella penisola vorrebbe «lontana da pregiudizi che la rendono ostaggio di ideologie»[38], proprio per ottenere il riconoscimento dei contratti di GPA.

Tali “tratti” del novello Prometeo sembrano, cioè, essere almeno tre.

  1. a) Primo tratto antropologico: i vincoli contrattuali alla maternità esaltano il dogma dell’autodeterminazione, superando tutti i limiti strutturali della natura per la procreazione.

L’assolutizzazione della “autodeterminazione” come unico parametro di valore dell’esistenza implica − come detto − la rimozione di ciò che, in natura e nelle relazioni umane, la limita, usando gli strumenti della tecnica e del diritto.

Si è avuto modo, infatti, di osservare come numerose iniziative normative dell’ultimo decennio abbiano cercato la “liberazione” da legami e vincoli umani tradizionalmente rilevanti, quali quelli coniugali e familiari.

L’ideologia gender ha, poi, evidenziato, quanto rilievo attribuisca il neo-individualismo alla rimozione dei limiti propri della natura umana. Il gender, infatti, contesta l’oggettività della realtà in una delle macroscopiche e strutturali differenze che essa propone, quale è la articolazione dell’essere in due sessualità, diverse ma complementari tanto fisicamente, quanto psicologicamente e spiritualmente. Probabilmente, tale struttura “binaria” dell’essere umano viene così tanto avversata dal neo-individualismo con ascendente gender, in quanto in essa appare lo stigma della vocazione ontologica della persona verso la diversità ovvero verso “l’altro da sé”, addirittura rendendo evidente che la dinamica strutturale dell’esistenza (per cui le sessualità differenti si attraggono persino reciprocamente) non contiene affatto l’autosufficienza del singolo vivente, su cui si fonda, invece, lo stesso modello neo-individualista.

Per tale impostazione ideologica, la fecondazione in vitro, estesa all’impianto eterologo per mezzo della sentenza della Corte costituzionale 8 aprile 2014, n. 162[39], è apparsa funzionale agli scopi di liberazione dalla natura umana, avendo (anche) consentito di superare, sotto il profilo bio-tecnico, il sempre ritenuto invalicabile limite della diversità sessuale nella coppia generante, e ciò almeno per i rapporti omogenitoriali femminili.

Tuttavia, anche nella frontiera della PMA eterologa, rimaneva l’ulteriore limite naturale dell’unicità della maternità, che ogni cultura non ha mai dubitato essere il rapporto inscindibile della donna con il bimbo che cresce nel suo grembo.

Per individuare, allora, l’inedito proprium della maternità surrogata soccorre la consapevole prosa della Cassazione, nella già incrociata sentenza della Sezioni Unite 30 dicembre 2022, n. 38162 (anche solo Sezioni Unite): «Nel quadro delle metodiche di procreazione medicalmente assistita, la maternità surrogata riveste una posizione del tutto peculiare rispetto alle ordinarie procedure di fecondazione artificiale, omologa o eterologa, postulando la collaborazione di una donna estranea alla coppia, che presta il proprio corpo per condurre a termine una gravidanza e partorire un bambino non per sé ma per un’altra persona».

Con ciò, si ottiene il superamento completo, almeno sul piano dei risultati, dell’originario limite naturale relativo all’impossibilità di ottenere prole sulla base di legami omoaffettivi maschili.

Si badi bene. La “liberazione” del vincolo naturale fra la madre e il figlio che partorisce (id est: la maternità surrogata) utilizza le medesime tecniche di PMA eterologa già note. Ciò significa che la possibilità che il bambino possa putativamente e convenzionalmente divenire “figlio” dei committenti omosessuali maschi viene ottenuta esclusivamente con l’utilizzo di uno strumento giuridico, un “contratto”, con il quale la puerpera, sul cui corpo sia stato impianto un embrione con tecniche di PMA eterologa, si obbliga a interrompere la sua relazione materna con il bimbo partorito e a consegnarlo ai committenti. Poi, in base al luogo di stipula del contratto e del parto, si potrà dare corso alle pratiche per la trascrizione o la iscrizione anagrafica da parte dei committenti del bambino così ottenuto.

A mezzo del “diritto”, pertanto, le ragioni e le dinamiche, che sono state osservate come proprie del “cambio d’epoca” in cui ci troviamo, trovano nel contratto di maternità surrogata una tanto nuova quanto potente affermazione, “liberando” del tutto il soggetto da vincoli della realtà umana che si credevano consustanziali all’essere, quali quelli della diversità fra i sessi come condizione per ottenere una “filiazione”, così consentendogli una grandiosa estensione della propria “autodeterminazione”.

La prospettiva promessa all’uomo dal serpente nel giardino dell’Eden[40] diviene finalmente ottenibile, perché appare nello scenario della storia umana un novello creatore di vita, con dinamiche che sembrano innovare quelle proprie della natura.

Un nuovo Prometeo può tornare, con straordinarie forza e suggestione, a competere con gli dèi, dotato di un inedito e mai immaginato “fuoco simbolo di energia creativa legato al divino, alla Conoscenza suprema, forse all’immortalità[41], perché addirittura dirompenti strutturali limiti naturali, che mai prima erano stati contestati.

  1. b) Secondo tratto antropologico: il contratto di maternità surrogata crea relazioni asimmetriche e rompe l’unità propria della maternità.

Se, con riferimento ai condizionamenti della realtà, il contratto di maternità surrogata ottiene l’obiettivo di allargare l’“autodeterminazione” oltre ogni confine della natura umana, rispetto invece alle relazioni e ai legami con gli altri soggetti umani, i contenuti specifici di detto “contratto” propongono un predominio “proprietario” del soggetto committente, che, in una grave asimmetria relazionale, equipara la gestante e il bimbo a “sue” cose.

In tal senso, e in primo luogo, sono le stesse Sezioni Unite ad accorgersi che l’obbligo contrattuale, che viene fatto assumere dalla gestante, di abbandonare il bimbo da lei nato, «tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e così smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto»[42].

In altri termini, il contratto per l’utero in affitto spezza l’ancestrale sicurezza circa la unicità e sicurezza del rapporto di maternità/filiazione, perché «parcellizza la maternità, programmando una rottura violenta tra il bambino e la gestante»[43]. Con la GPA, cioè, e a dispetto di una fra le più inveterate e proverbiali convinzioni, anche mater numquam certa est. La storia umana conosce per la prima volta la inedita possibilità che la puerpera non sia la madre del nato e che la madre biologica non sia anche la “culla” corporea da cui la vita si alimenta e in cui inizia la percezione del suo essere nel reale[44].

Secondariamente, il contratto di maternità surrogata evidenzia ulteriori conseguenti aspetti, che corrispondono a caratteristiche proprie della matrice antropologica sviluppata sull’assioma dell’“autodeterminazione” e delle dinamiche intersoggettive che vengono in essere.

Infatti, il piano proprio in cui opera un “contratto” realizza la presenza di un “creditore” (la parte più forte), di un “debitore” (la parte più debole) e l’“oggetto” o gli “oggetti” della prestazione.

Ecco, allora, venire in rilievo una relazione strutturalmente asimmetrica, in cui le parti non sono sullo stesso piano, e la parte più debole sacrifica una parte della propria esistenza fisica, affettiva e spirituale al volere della parte più forte. Proprio in ragione del “contratto”, d’altro canto, la gestante rinuncia a un ampio tratto della propria libertà e della propria personalità per sottomettere la propria esistenza a una “controparte” dominante e solo grazie a tale strumento giuridico, precisano acutamente le Sezioni Unite, «il desiderio di una persona di avere un figlio» può, asimmetricamente, «realizzarsi al costo dei diritti di altre persone»[45].

Più esattamente, l’asservimento contrattuale si ordina rispetto a due “oggetti”, cioè il corpo fertile della parte debole e il feto/bambino, che sono entrambi oggetto di vere e proprie disposizioni negoziali, venendo perciò “reificati”.

Sono ancora le Sezioni Unite a precisare gli effetti del contratto di maternità surrogata sulla dimensione soggettiva delle “madre” e del “figlio”, «riducendo la prima a mero servizio gestazionale e il secondo ad atto conclusivo di tale prestazione servente». La Suprema Corte indugia nel ricordare che un siffatto contratto, oltre a pretendere, come si è visto, la «rescissione immediata di ogni rapporto con il bambino», sottopone la gestante «durante la gravidanza … a una serie di limiti e di controlli sulla sua alimentazione, sul suo stile di vita, sulla sua astensione dal fumo e dall’alcol e subito dopo il parto è oggetto di limitazioni altrettanto pesanti». Con efficace sintesi, la Cassazione osserva ancora che il committente, quale parte dominante «pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un’altra persona utilizzato come mero supporto materiale per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile», con ciò altresì asseverando il dirimente ruolo che l’antropologia neo-individualista assegna al “diritto” per affermarsi[46].

D’altronde, se si afferma il dogma dell’autodeterminazione assoluta e se questa intravveda nello sforamento dei limiti naturali e nella negazione delle relazioni umane l’unica possibilità di affermare il proprio valore, tale specifica prospettiva antropologica non potrebbe ammettere una alterità da sé, salvo negare lo scopo stesso della sua azione, cosicché  tale assunto ideologico impone di disconoscere la dignità di “esistenza” alle parti deboli, perciò degradando, come stigmatizzato dalle Sezioni Unite, la gestante a un mero “supporto materiale” alla volontà della committenza, nonché pure il bambino che deve nascere a una vera e propria res, della quale si dispone persino nel senso di imporre il distacco immediato e radicale dalla donna che lo ha partorito, senza in nulla considerare le sofferenze drammatiche che ciò comporta sia per la puerpera che per il neonato.

Se, dunque, l’immediato profilo antropologico della maternità surrogata è l’iperbole assoluta dell’autodeterminazione, il successivo aspetto attinente la concezione dell’umano e insito nella pretesa contrattuale, con la quale viene regolata e imposta la GPA, sono la rottura dell’unità fra madre e figlio, nonché, con buona pace dell’art. 3 della Costituzione, l’ineliminabile disassamento asimmetrico delle relazioni soggettive, per offrire alla posizione dei più forti un dominio sul più debole, reificando gli altri soggetti, che divengono meri strumenti per il desiderio del novello Prometeo.

Si è di fronte a una architettura relazionale che contraddice tout court la “giuridicità”, atteso che «la reciprocabilità delle esigenze e richieste è la condizione di un ordine simmetricamente giusto che presuppone (e conferma) la uguaglianza ontologica tra i soggetti»[47].

Il corollario di una simile, consustanziale asimmetrica postura relazionale è che la posizione dominante troverà più facili terreni di espansione laddove le condizioni sociali della donna prescelta per la GPA siano deboli e, cioè, povere, condizionate cioè da una situazione di bisogno, sì da opporre meno resistenza alla proiezione appropriativa dell’autodeterminazione del più forte.  Infatti, la stessa «Corte costituzionale ha rilevato che gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell’esclusivo interesse di terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita (sentenza n. 33 del 2021)»[48].

Appare allora particolarmente adeguata la imputazione (anche) delle pretese di cui al contratto di maternità surrogata a un “antropocentrismo deviato”, per cui «l’essere umano pone sé stesso al centro», finendo «per dare priorità assoluta ai suoi stessi interessi contingenti, e tutto il resto diventa relativo», cosicché tale «cultura del relativismo … spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto, …  riducendola in schiavitù»[49].

  1. c) Terzo tratto antropologico: la cesura fra vita e gratuità, con la contestazione della dipendenza.

«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Matteo 10, 8).

Fino al confine ontologico su cui si è affacciato per la prima volta il fenomeno del contratto di maternità surrogata, ogni riflessione sulla “vita” doveva riconoscere che l’esistenza nel suo inizio, nel suo apparire è determinata da una dinamica di gratuità. L’abbrivio della vita è, cioè, oggettivamente un avvenimento. Accade come “dono”, come un fatto che si riceve, non come risposta a una misura e ad azioni addirittura contrattualizzate.

Più ancora. Constatare e riconoscere che l’incipit dell’esistenza è un “dato” impone il considerare un altro consustanziale fattore ovvero che l’essere umano vivendo, dipende. La “dipendenza” da altro da sé consente la vita dell’uomo, che non ha la capacità di decidere di sussistere nemmeno per un solo istante, atteso che «vulnerabilità e dipendenza sono caratteristiche ineludibili della realtà umana»[50]. Tale aspetto «trova conferma empirica nel vivere umano -proprio- a partire dalla nascita biologica (il venire da che manifesta per eccellenza la dipendenza da altri)», che «si rivela come l’aspetto ontologico primario dell’uomo. Non è soltanto un esserci per mezzo dell’altro, ma un essere-con-l’altro”: “l’uomo si conosce quale ente-in-relazione, per cui, fuori dalla relazione, si può ben dire, l’io non è”»[51].

Per converso, anche paternità e maternità sono fenomeni relazionali intrinsecamente concepiti o attesi − almeno nel sussulto iniziale degli stessi − come una “gratuità”, come un’offerta e una tensione amorose prive di misura e calcoli verso la nuova vita che accade.

Ebbene, l’archetipo e la originaria esperienza della gratuità, della reciproca dipendenza e interrelazione che caratterizzano la vita nel suo accendersi sono offerti esperenzialmente dall’unità del concepito e del feto con il corpo della madre.

Ma, come si è letto nella sentenza 30 dicembre 2022 delle SS.UU., con la maternità surrogata, per la prima volta nella storia umana, si pretende addirittura di «cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e così smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto». Così, si perviene a incidere in quel livello originario di “gratuità” dell’esistenza che è sempre apparso innanzitutto come “avvenimento”, negando, conseguentemente, che la vita è “data” e che i primi moti dell’animo e dell’intelligenza verso un uomo che nasce sono uno stupore, un’attesa e una tensione gratuiti, i quali offrono la prima evidenza esistenziale quale “dipendenza” dell’io da altro da sé.

Siamo probabilmente di fronte alla contestazione più radicale della natura dell’Essere, giacché il contratto per la GPA pretende di misurare l’essere stesso e di progettare per il soggetto dominante azioni serventi della gestante corrispondenti alla proiezione dell’“io”, nelle quali non vi è spazio per il “tu”, né per l’irrompere fenomenologico di una nuova vita come imperscrutabile “avvenimento”.

Dunque, con il contratto di maternità surrogata il “Prometeo” committente afferma la potenza della propria autodeterminazione contro i limiti della natura umana, nonché contro ogni riconoscimento di gratuità e relazionalità dell’esistenza. Con ciò reificando gli altri soggetti di cui si serve e opponendosi alla dinamica per cui nell’Essere la vita viene donata senza una previa misura, senza condizionamenti, e si struttura come dipendenza da altro da sé.

 

  1. Il livello della questione

 

Quanto sin qui osservato, conduce ad osservare che la posta in gioco nel dibattito sulla maternità surrogata non sono innanzitutto i tecnicismi circa i limiti di trascrivibilità di atti compiuti all’estero a seconda delle non poche combinazioni possibili del trans-umano, come accade nelle cronache che si occupano delle decisioni dei tribunali sul punto. Nemmeno il senso del dibattito può consistere nella “misura” con cui dare ingresso a presunti “diritti” per le genitorialità trans-naturali a scapito di quelli -di cui assai poco si parla- del concepito e del neonato.

Piuttosto, il livello della questione è sulla stessa concezione di “uomo” che si ritiene più ragionevole, cioè più corrispondente alla propria umanità. Solo una volta compresa e valutata la scelta antropologica sottesa alla pratica della maternità surrogata, si potrà comprendere se sia o meno un “bene” considerare leciti i contratti di GPA e ogni eventuale conseguenza discendente dagli stessi, anche in ordine ai vari profili anagrafico-amministrativi ovvero a consequenziali posizioni di presunti “diritti” degli adulti “autodeterminantesi”, che sono meri corollari di un’opzione assiologica neo-individualista.

È la stessa Corte di Cassazione, nella più volte citata sentenza del 30 dicembre 2022, a fissare a questa altezza l’asticella. «Le Sezioni Unite» − si legge − «non ignorano che la lettura suggerita dall’ordinanza di rimessione trova sostegno in una parte significativa del pensiero giuridico e culturale del nostro Paese, che prende le distanze dall’idea dei valori della persona che si impongono alla persona medesima, anche oltre quanto da questa voluto in maniera assolutamente libera, consapevole, integra e non condizionata. In questa prospettiva, il limite dell’ordine pubblico internazionale non sarebbe destinato ad operare quando la lex loci salvaguardi il diritto alla libertà e all’autodeterminazione della donna, alla quale soltanto sarebbe rimesso, in ultima istanza, il potere di individuare i tempi e i modi di realizzazione della sua personalità, sicché anche la scelta di accogliere l’embrione per aiutare altri a realizzare il loro progetto di genitorialità potrebbe rappresentare per la gestante un modo per realizzare la propria personalità»[52].

Dunque, il Giudice della nomofilachia si accorge con chiarezza del nucleo antropologico della questione: il protagonista culturale e il modello su cui si fonda la richiesta di validità dei contratti di maternità surrogata derivano dal dogma assoluto della autodeterminazione, al fine di consentire al soggetto più forte di estendere il proprio dominio, negando dignità ai soggetti più deboli che vengono “reificati”, dunque contestando la legge della gratuità e della dipendenza originaria dell’esistenza umana, all’opposto affermando la disponibilità dell’esistenza in capo alla parte dominante.

Qualora, invece, si ritenga di considerare la diversa prospettiva antropologica, per cui «tutti i capelli del capo sono contati»[53], ove, cioè, ogni circostanza di vita viene assunta con un valore assoluto, non potrà che riconoscersi la indisponibilità dell’esistenza, con la necessaria preclusione giuridica all’asservimento di qualcuno rispetto ad altri, specie se in condizioni di fragilità e debolezza. Dunque, per riutilizzare le parole della Suprema Corte, in questa seconda prospettiva antropologica, una donna non potrà mai divenire “mero servizio gestazionale” e il parto ovvero il bambino nato non potranno essere annichiliti ad “atto conclusivo di tale prestazione servente”, né potrà ammettersi «la riduzione del corpo della donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata ad altri», senza violare oggettivamente la “dignità della donna”. È ancora la Cassazione a ricordare che «in termini analoghi si è espressa la Corte costituzionale, sottolineando che la pratica della maternità surrogata “offende in modo in tollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” (sentenza n. 272 del 2017 e, da ultimo, sentenze n. 33 del 2021 e n. 79 del 2022)», relazioni che vengono addirittura recise nell’esempio più significativo di unità fra le stesse, quale è la maternità.

Di qui, la presa di distanza dall’assolutizzazione del principio di autodeterminazione come unico parametro assiologico, atteso che «la dignità ha una dimensione non solo soggettiva, ancorata alla sensibilità, alla percezione e alle aspirazioni del singolo individuo, ma anche oggettiva, riferita al valore originario, non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona»[54]. Tale criterio “oggettivo” del valore dell’esistenza ha fatto, peraltro, ancora riflettere le Sezioni Unite anche circa l’ipotesi di una gestazione per altri non onerosa. Al riguardo, «il Collegio delle Sezioni Unite ritiene che non possa essere seguita la proposta interpretativa della Sezione rimettente di escludere il contrasto con l’ordine pubblico, e quindi di ammettere la delibazione, là dove la pratica della gestazione per altri sia considerata lecita nell’ordinamento di origine, in quanto frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile sino alla nascita del bambino e indipendente da contropartite economiche. Il legislatore italiano, infatti, nel disapprovare ogni forma di maternità surrogata, ha inteso tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito. Indipendentemente dal titolo, oneroso o gratuito, e dalla situazione economica in cui versa la madre gestante (eventuale stato di bisogno), la riduzione del corpo della donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata ad altri, ne offende la dignità, anche in assenza di una condizione di bisogno della stessa e a prescindere dal concreto accertamento dell’autonoma e incondizionata formazione del suo processo decisionale». Nella medesima direzione, il filosofo Massimo Cacciari ritiene «veramente difficile stabilire la differenza tra consenso e sfruttamento ai fini economici, rischio infatti è che si crei un mercato dei più ricchi che sfruttano i più deboli»[55].

Dalla prospettiva antropologica che ritiene non disponibile l’esistenza, riconoscendo alla stessa un valore e una dignità non comprimibili in ogni circostanza, si registra un ampio fronte di pensiero che riconosce l’impossibilità, per il bene comune, di ritenere leciti i contratti di maternità surrogata. Netta, in primis, è «la condanna» – come ricordano ancora le Sezioni Unite della Suprema Corte n. 3982/2022 – di «qualsiasi forma di maternità surrogata a fini commerciali» espressa anche dal Parlamento europeo nella propria risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea nel 2015”. Altresì significativo l’esteso spettro culturale e politico che si oppone a tale pratica, al riguardo bastando ricordare gli appelli[56] che vanno succedendosi da tempo contro il fenomeno in parola, che «offende i diritti dei bambini» e «mina la dignità della donne, soprattutto le più vulnerabili, mercificando i loro corpi», come si legge  si legge in una petizione on line contro l’utero in affitto lanciata nel gennaio 2021, fra gli altri, da Marina Terragni, Cristina Comencini, Silvia Costa, Francesca Izzo, Simonetta Matone, Giovanna Melandri, Susanna Tamaro, Paola Tavella, Livia Turco[57].

Dalle riportate prospettive valoriali, ne discende la necessità della permanenza anzi dell’allargamento del divieto giuridico, penalmente sanzionato, di gestazione per altri, da cui deriva, more geometrico, la nullità assoluta di ogni contratto per la maternità surrogata.

 

  1. Il criterio per scegliere fra Prometeo e Francesco

 

Se si accetta che il dialogo tocchi davvero il fondo della questione, allora vanno anche indagati i criteri grazie ai quali ci si può confrontare, al fine di proporre, in base a essi, anche una scelta fra l’una o l’altra delle opzioni antropologiche che sono fatte emergere, quasi l’una di fronte all’altra, dalla questione dibattuta.

Ma abbiamo gli strumenti per giudicare ciò che viene proposto/imposto dal “cambio d’epoca” nella pretesa metamorfosi giuridica cui si è accennato? Soccorre, icastico, don Giussani: «Questa è la prima cosa che corrisponde al cuore: io non c’ero, se voglio esserci devo seguire un altro. E chi mi parla dell’uomo in questo modo ha ragione. E chi mi parlasse invece, dell’uomo come padrone del suo destino, capace di essere – “Volli, sempre volli, fermissimamente volli” alla Alfieri −, mi inganna: è un inganno»[58].

Per questo, «la parola coscienza sulla bocca del cristiano»sovviene ancora don Giussani − «è totalmente l’opposto di quella sulla bocca dell’uomo moderno. Sulla bocca dell’uomo moderno la parola coscienza significa il luogo dove uno genera i suoi pareri, i suoi pensieri, e ha il diritto di affermare quel che pensa e sente, perché intende sé come la sorgente di tutto: la coscienza è concepita come la sorgente dei criteri e dei pareri. Per l’uomo cristiano, − ma potremmo più in generale dire per l’homo religiosus[59]invece, la coscienza è il “luogo di sé dove uno cerca e ascolta la verità di un Altro”»[60].

Ecco il punto.

L’osservazione dell’umano, per come ci appare all’esperienza esistenziale propria di ciascuno, ci fa riconoscere − per usare l’efficacissima immagine di un pensatore laico quale Dario Antiseri − che «l’uomo non è un costruttore di senso, bensì un mendicante di senso»[61].

Ciò significa che le “cose”, la bellezza del creato, la realtà, la natura e soprattutto le persone sono segno di Altro da sé, promessa e presentimento di un atteso Significato, poiché -come suggestivamente ricorda il poeta Montale, «sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: “più in là!”»[62].

È uno sguardo che, di fronte al rilucere naturale dell’Essere nella maternità e nella vita nascente, si inchina commosso, rispettoso e teneramente grato per il dono di segni di tale grandezza e bellezza. È lo sguardo di Francesco d’Assisi, che guarda, con stupore, ogni aspetto dell’esistenza non come limite, come nemico del proprio valore, ma «considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella»[63], percependole verso uno stesso destino buono, che riluce nel creato e nelle relazioni con gli altri uomini.

«Se noi ci accostiamo alla natura … senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo», afferma Papa Francesco nell’apertura della Laudato sì, «i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio»[64].

Tale postura antropologica diffida della tentazione di Prometeo, che pretende invece di riforgiare le fattezze e le dinamiche della vita, persino negando, con i contratti di maternità surrogata, l’originaria unità fisica e spirituale della maternità. Altresì, appare gravemente irragionevole ogni riduzione di tali Segni e delle persone che li incarnano a res di un soggetto che non si fa scrupolo di un dominio prepotente contro i più fragili.

Anzi, la “piccolezza” e la “fragilità”, come sono i tratti propri di un nascituro o di una madre tutta tesa verso lo straordinario “altro da sé” che custodisce fisicamente secondo la dinamica della natura, sono guardate come valore assoluto, e proprio simili circostanze “deboli” sono occasione per una accoglienza e una cura umane particolarmente intense, non per una appropriazione.

Così, possiamo constatare questa “epoca cambiata” appare paradossalmente un tempo privilegiato, perché ci provoca soprattutto a «difendere la ragione», anche «per esser cattolici»[65], come profetizzava il card. Newman all’unisono con la speranza espressa dalle parole del già citate di don Giussani, quando, allo spirare del secolo scorso, riteneva imprescindibile saper «offrire ragioni adeguate per seguire la Chiesa» e quello sguardo di speranza così umano sull’uomo, che veicola da oltre due millenni[66]. Il che chiede sempre più, specie di fronte a pratiche come la GPA, «un lavoro su di sé che ci renda coscienti che concepire l’io come il tutto della vita perché questo è il problema dell’individualismo: concepire l’io come il dio, l’idolo della propria vita non è una posizione che porta alla felicità»[67]. D’altronde, come ricorda con sincerità il cantautore italiano Roberto Vecchioni, nella tragedia di Eschilo è quello stesso emulo degli dei, Prometeo, ad ammettere di aver «immesso nel cuore degli uomini speranze cieche»[68].

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

 

[1] Cfr., per la sintesi descrittiva riportata, D. Bandelli (LUMSA), E. Di Leo (Steadfast), S. Gennarini (Center for Family and Uman Rights (C-Farm),  Raising Awareness on Gestational Surrogacy Among Vulnerable Women in Developing Countries, in Sociological Debates on Gestational Surrogacy, ed. Springer, 2021, anche in www.lumsa.it/sites/default/files/link/Raising-Awareness-on-Gestational-Surrogacy-3.16.21.pdf.

[2] Intervista a un giurista serbo che ha operato per anni nel business dell’utero in affitto, in Il Timone, n. 228 del maggio 2023, cit., p. 10 e ss.

[3] Cfr. D. Bandelli e altri, cit.

[4] Cfr. Proposte di legge Camera dei deputati n. 887-342-1026, XIX legislatura.

[5] https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Corte-di-Cassazione-ordinanza-interlocutoria-n.-1842-2022-riconoscimento-di-entrambi-i-genitori-nell-atto-di-nascita-del-minore-nato-tramite-maternita-surrogata.

[6] Cfr. SS.UU. civ., sentenza n. 38162 del 30 dicembre 2022, pp. 9 e ss.

[7] I sondaggi demoscopici, ad esempio pubblicati sulla stampa nel marzo 2023 (https://www.corriere.it/politica/23_marzo_25/sondaggio-maternita-surrogata-65percento-contrario-ma-c-si-riconoscimento-figli-c11da9b6-cad4-11ed-837f-eb79d7be2937.shtml) evidenziano una significativa percentuale di non contrari alla pratica in parola anche fra la popolazione.

[8] Cfr. anche L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, BUR, 1994.

[9] Cfr. L. GIUSSANI, L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti, 1999, pp. 63-74, citato in L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un altro, a cura di Julian Carron, BUR, 2021, pp. I, II.

[10] Cfr. L’Unità, 25 gennaio 1995.

[11] M. Zuppi, Lettera alle istituzioni, in Avvenire, 1° giugno 2022.

[12] S. Nitoglia, I contratti di maternità surrogata: nozione, problemi di esecuzione, clausole abortive, diritto di recesso, in https://www.centrostudilivatino.it/i-contratti-di-maternita-surrogata-nozione-problemi-di-esecuzione-clausole-abortive-diritto-di-recesso/, 19 giugno 2023.

[13] Cfr. Ordinanza 1842/2022, cit.

[14] Tommaso D’Aquino, Somma teologica, I pars, q. 90, a. 4.

[15] Cfr.  P. Binetti (a cura di), Servono ancora i cattolici in politica? Testimonianze dal dibattito parlamentare sul valore della vita e sul testamento biologico, Edizioni Magi, Roma, 2017.

[16] Cfr. D. Menorello (a cura di), Diritto o condanna a morire per vite inutili?, Edizioni Cantagalli, Siena, 2019.

[17] Cfr. A. Mantovano (a cura di), Legge omofobia: perché non va, Edizioni Cantagalli, Siena, 2021.

[18] Cfr. A. Mantovano (a cura di), Eutanasia; le ragioni del No, Edizioni Cantagalli, Siena, 2021.

[19] Cfr. https://www.centrostudilivatino.it/?s=referendum+omicidio+consenziente; sentenza Corte costituzionale 15 febbraio 2022, n. 50.

[20] D. Airoma, Sezioni Unite e “modica coltivazione” della cannabis, 24 aprile 2020, in https://www.centrostudilivatino.it/sezioni-unite-e-modica-coltivazione-della-cannabis/#more-770; sentenza Corte costituzionale 15 febbraio 2022, n. 51.

[21] Cfr. AA.VV.., Droga, le ragioni del No, a cura di Alfredo Mantovano, ed. Cantagalli, 2022.

[22] Cfr. https://www.centrostudilivatino.it/il-comitato-per-il-no-alla-droga-legale-si-costituisce-nel-giudizio-di-ammissibilita-costituzionale-del-referendum-col-supporto-del-centro-studi-livatino/.

[23] Cfr. D. Menorello (a cura di), Diritto o condanna a morire per vite inutili?, Edizioni Cantagalli, Siena, 2019, cit.

[24] Francesco, Udienza generale, Roma, 5 giugno 2013.

[25] M. Zuppi, Riaprire ora vita e speranza. Disincanto, valori e scelte forti, Avvenire, 13 agosto 2022.

[26] M. Zuppi, intervista a L’Osservatore romano, cit.

[27] S. Zamagni, Intervista all’Osservatore Romano, 22 maggio 2019.

[28] Per la “natura” intesa solo come “ambiente naturale”, si assiste, invece, nella contemporaneità ad una esaltazione dello stesso, affermato, però, nel senso di prefigurare una tendenziale condizione ottimale ambientale senza il fattore umano, considerato come il principale fattore di disequilibrio. Tutto torna, dunque.

[29] P. Parolin, Incontro con le Associazioni Cattoliche, Biblioteca della Segreteria di Stato, 9 giugno 2021, in https://www.suitetti.org/2021/06/09/sui-tetti-incontro-con-s-e-r-card-pietro-parolin/.

[31] A.  Simoncini, Intervista all’Osservatore Romano, 30 maggio 2019.

[32] Francesco, Incontro con i rappresentanti del V convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015.

[33] L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, cit.

[34] Cfr. annotazione precedente di L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, cit.

[35] A. Morresi, Tra Provette e algoritmi, cos’è oggi l’umano, in Avvenire, 22 giugno 2023.

[36] In ciò consiste lo scopo del nuovo lavoro culturale di tante persone singole e associate, fra cui anche il network di circa cento associazioni “Ditelo sui tetti”, che sviluppano una riflessione operosa e condivisa per accorgersi della filigrana dell’umano di nuovo conio trascinata dal “cambio d’epoca” e per proporre a tutti, “sui tetti” appunto, un giudizio su quale proposta antropologica sia più ragionevole (www.suitetti.org).

[37] L. Giussani, Il senso religioso-Volume primo del percorso. Con prefazione di Jorge Maria Bergoglio, BUR, 2023, cap. I, par. 7.

[38] Cfr., per documenti pressoché sempre identici, il Documento politico Lazio Pride 2023, www.laziopride.com/documento-politico-lazio-pride-2023/.

[39] Cfr. https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=162

[40] Cfr. Genesi 3, 4-5: «Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».

[41] S. Saporito, Il mito di Prometeo ci svela i segreti del nostro fuoco interiore, in www.eticamente.net, 3 gennaio 2022.

[42] Cass., SS. UU., sentenza n. 3892/2022, cit.

[43] Cfr. L. Zanella, Il Dubbio, intervista del 28 giugno 2023.

[44] Cfr. C.V. Bellieni, L’alba dell’«io». Dolore, desideri, sogno, memoria del feto, Soc. editrice fiorentina, 2004.

[45] Cass. SS.UU. 3 dicembre 2022, n. 3892, citando nel passaggio, il Tribunal Supremo spagnolo, sentenza n. 277 del 2022.

[46] Cfr. Cass. SS.UU., cit.

[47] S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffré, Milano, 1991.

[48] Cass. SS. UU., sent. n. 3892/2022, cit.

[49] Francesco, Enciclica Laudato si’, paragrafi 122, 123.

[50] C. Navarini, E. Ricci, La sofferenza di fine-vita: cure palliative simultanee, virtù e fioritura morale nella fragilità, in Bioetica Rivista interdisciplinare, n. 4/2021.

[51] M. Daverio, Perché le tortura? Un’interpretazione filosofica, Giappichelli, Torino, 2023, citando S. Cotta, Giustificazione e obbligatorietà delle norme, Studium, Roma, 1981.

[52] Cfr. Cass. SS.UU. n 3892/2022, cit.

[53] Cfr. Luca, 12, 1-7.

[54] Cass. SS.UU., sentenza n. 3892/2022, cit.

[55] M. Cacciari, intervista a La Verità, riportata il 12 giugno 2023 su https://www.ilsussidiario.net/news/utero-in-affitto-cacciari-e-linferno-in-terra-cosi-le-donne-diventeranno-merce/2551019/.

[56]Cfr. https://laboratoriodonnae.wordpress.com/2020/01/12/lettera-alle-forze-di-governo/; cfr. anche “L’appello. 500 firme a sinistra per dire no alla maternità surrogata”, in Avvenire, 30 maggio 2023. https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallarete/lappello-500-firme-a-sinistra-per-dire-no-alla-maternita-surrogata/ ; Alla petizione hanno aderito, infatti, molti esponenti delle aree del centro e del centro destra, ma anche personalità della sinistra quali Matteo Renzi, Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio.

[57] Nello stesso senso, e fra i molti esempi possibili, già dal 2016 anche una personalità politica progressista quale Anna Finocchiaro dichiarava in aula al Senato che «la mia contrarietà alla maternità surrogata non si fonda solo sull’inaccettabilità dello sfruttamento del corpo di una donna …  la mia ostilità si fonda anche su un’altra ragione: quella secondo cui la maternità surrogata è finalizzata alla produzione di corpi destinati allo scambio, spesso economico. Si tratta di bambini destinati ad essere prodotti da madre surrogate, su commissione, per essere destinati allo scambio: questo è il punto!».

[58] L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così? BUR, 1996, pag. 222, cit. in J. Carron, C’è speranza? Il fascino della scoperta, Edizioni Mondo Nuovo, Pescara, p. 40.

[59] M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino, 1973 (1956).

[60] L. Giussani, La convenienza umana delle fede, citata in J. Carron, Il brillio degli occhi-Che cosa ci strappa dal nulla, Edizioni Tracce, Roma, 2020.

[61] D. Antiseri, Perché l’uomo continua a credere, Morcelliana, Brescia, 2020.

[62] E. Montale, Maestrale, in Ossi di Seppia, 1925.

[63] Francesco, Laudato sì, par. 11.

[64] Ibidem.

[65] J.H. Newman: «È venuto il tempo in cui i cattolici, che vivono di fede, per essere tali devono difendere la ragione», cit.

[66]Cfr.  L. Giussani, L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti Editore, Bologna, 1999, cit.

[67] M. G. Lepori, Cristo, vita della vita-Esercizi della fraternità di Comunione e liberazione, Edizioni Mondo Nuovo, Pescara, 2022, p. 50.

[68] R. Vecchioni, intervista a Il Corriere della Sera, 25 giugno 2023, citando Eschilo, Il prometeo incatenato.