CORTE COSTITUZIONALE
Atto di intervento

 

nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale di Pisa con ordinanza depositata il 15 marzo 2018, iscritta nel Registro ordinanze 2018 di questa Ecc.ma Corte Costituzionale al n. 69, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, I Serie Speciale, n. 19 del 9 maggio 2018;

per

il Centro Studi “Rosario Livatino” (…) in persona del proprio legale rappresentante p.t. prof. avv. Mauro Ronco, rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dal prof. avv. Mauro Paladini (…) e dal prof. avv. Marcello Cecchetti (…), presso il cui studio (…) elegge domicilio, giusta procura allegata al presente atto.

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Con il presente atto il Centro Studi “Rosario Livatino”, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato, interviene in giudizio, ai sensi dell’art. 4 delle vigenti Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, chiedendo fin d’ora che Codesta Ecc.ma Corte dichiari la manifesta infondatezza nel merito della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Pisa con l’ordinanza indicata in epigrafe, per i motivi che di seguito si espongono e che comunque ci si riserva di ulteriormente precisare ed integrare nei modi e nei termini di rito.

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  1. Premessa

 

Con ordinanza depositata il 15 marzo 2018 il Tribunale di Pisa ha chiesto a Codesta Ecc.ma Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma che si desumerebbe dall’art. 449 c.c., dall’art. 29, co. 2, D.P.R. n. 396 del 2000, dall’art. 250 c.c. e dagli artt. 5 e 8, l. n. 40 del 2004, nella parte «in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile ex art. 33, l. n. 218/1995, per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 30 e 117 della Costituzione (in relazione agli artt. 3 e 7 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge n. 176/1991)».

In particolare, dopo una lunga e approfondita disamina delle ragioni per le quali nel nostro ordinamento non è possibile ricavare – e quindi applicare direttamente alla fattispecie dedotta in giudizio – una norma che consenta a due donne (nel caso di specie a una madre partoriente di nazionalità straniera e a una donna italiana che ha prestato il consenso alla fecondazione eterologa) di ottenere la formazione dell’atto di nascita del figlio concepito ricorrendo alla fecondazione eterologa, neppure invocando la legge nazionale della donna che ha dato alla luce il bambino, il Tribunale di Pisa formula la questione di legittimità costituzionale concernente l’opposta (implicita) norma che impedisce la valida formazione di un simile atto, lamentando il contrasto con:

  • gli artt. 2 e 3 Cost., «perché in modo irragionevole limita il diritto di persone il diritto di persone che, in base alla legge straniera applicabile, sono legate da un rapporto di genitorialità-filiazione di vedere riconosciuta pienamente in Italia la loro formazione sociale»;
  • l’art. 3 Cost., «per irragionevole discriminazione con la situazione in cui il cittadino di nazionalità straniera abbia due genitori intenzionali di sesso diverso, nel qual caso la formazione dell’atto di nascita sarebbe possibile, con ciò ponendo in essere una discriminazione basata sul sesso»;
  • gli artt. 3 e 24 Cost., «perché irragionevolmente non consente al figlio di ottenere la prova precostituita della filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile, in assenza di motivi di ordine pubblico internazionale che ostino alla sua applicazione in Italia»;
  • gli artt. 3 e 30 Cost., «dal quale ultimo si desume il diritto del figlio di ricevere mantenimento e istruzione dai genitori (che tali siano in base alla legge applicabile al rapporto di filiazione), e quindi, prima di tutto, anche secondo un criterio di ragionevolezza, di vedere riconosciuta formalmente la filiazione»;
  • l’art. 117 Cost., in riferimento agli artt. 3 e 7 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, resa esecutiva nell’ordinamento italiano con legge n. 176 del 1991, «in quanto non consente di garantire l’interesse superiore del fanciullo, imponendogli di non vedere formalmente riconosciuta una genitorialità che sussiste in base alla legge straniera applicabile, e ponendo ostacoli alla realizzazione della sua aspirazione a vivere con due genitori»;
  • l’art. 117 Cost., nuovamente in riferimento all’art. 7 della citata Convenzione di New York del 20 novembre 1989, questa volta sotto il differente profilo della violazione arrecata a tale disposizione «in quanto non consente di vedere riconosciuta immediatamente alla nascita la sua filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile».

Le censure sono prive di fondamento nel merito, in relazione a tutti i parametri invocati dal Giudice rimettente, per le ragioni che di seguito si espongono.

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  1. Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata per errata interpretazione della nozione di “ordine pubblico” da parte del Giudice a quo.

 

II.1. Innanzitutto, occorre prendere in considerazione la doglianza del Giudice a quo, secondo la quale «se l’atto di nascita fosse stato formato all’estero, lo si sarebbe potuto trascrivere in Italia e dare giuridico rilievo alla filiazione» (p. 35 dell’ordinanza di rimessione). A tale proposito, nell’ambito del percorso logico-argomentativo dell’ordinanza di rimessione, vengono richiamate due pronunce della Suprema Corte di Cassazione, ed in particolare:

  • 30 settembre 2016, n. 19599 (che conferma App. Torino, 29 ottobre 2014), relativa al caso di un minore nato in Spagna da una coppia di donne ivi coniugate, in seguito alla fecondazione eterologa con l’impianto di gameti da una donna all’altra, secondo la quale è trascrivibile l’atto di nascita formato in Spagna e indicante le due donne come madri, poiché esso non contrasta «con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano, dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, dell’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello status filiationis, validamente acquisito all’estero»;
  • 15 giugno 2017, n. 14878, ove si afferma il principio secondo cui «deve essere accolta la richiesta di due cittadine italiane, coniugate nel Regno Unito, di rettificare l’atto di nascita del figlio, nato a seguito di fecondazione assistita, che originariamente indicava come genitore la sola madre biologica, mentre successivamente era stato integrato con l’indicazione quale genitore anche della compagna della madre, atteso che tale atto, così integrato, non può considerarsi contrario all’ordine pubblico, nella sua accezione di ordine pubblico internazionale».

Al riguardo, va segnalato che il Tribunale rimettente ha erroneamente interpretato la nozione di ordine pubblico.

II.2. Ciò, in primo luogo, perché ha ritenuto di dover mutuare tale nozione dalla giurisprudenza citata, ai fini di applicarla al caso di specie, quando con tutta evidenza l’“ordine pubblico”, come definito dalle pronunce richiamate, è riferito a casi totalmente diversi da quello di specie, ossia a casi in cui l’atto da sottoporre al vaglio si era già validamente formato fuori dal territorio italiano. Non a caso nella sent. n. 19599 del 2016, che rimarca in diversi passaggi tale circostanza, si legge al par. 12.1 che «nel presente giudizio […] non si tratta di verificare la conformità alla legge italiana della legge spagnola, in base alla quale è stato formato all’estero l’atto di nascita di un bambino da due madri, essendo evidente la difformità delle relative discipline: la legge italiana non consente alle nostre di formare un atto di nascita del genere. La questione che si pone […] è se questa difformità di disciplina renda incompatibile con l’ordine pubblico l’ingresso in Italia […] di un particolare e specifico atto giuridico riguardante il rapporto di filiazione tra determinati soggetti»: è chiaro, cioè, che ad avviso della Suprema Giurisdizione di legittimità il limite dell’ordine pubblico opera nei confronti dell’“ingresso” nel nostro ordinamento di atti posti in essere all’estero e non certo nei confronti della formazione di atti che, seppure ammessi dalla legislazione di altri ordinamenti cui rimandano le norme di conflitto ex l. n. 218 del 1995, non sono consentiti in Italia.

II.3. In secondo luogo, com’è noto, il concetto di “ordine pubblico internazionale” è ben più ampio di quello (restrittivo) accolto dalle pronunce di legittimità poc’anzi citate.

A tal proposito, con ordinanza 22 febbraio 2018, n. 4382, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione se la trascrizione di un provvedimento con il quale è riconosciuta la genitorialità acquisita all’estero da una coppia dello stesso sesso sia contraria all’ordine pubblico. Il caso nell’ambito del quale si è posta la questione è quello deciso dalla Corte di Appello di Trento, con sentenza 23 febbraio 2017, che ha affermato la compatibilità con l’ordine pubblico internazionale degli effetti dell’adozione piena pronunciata all’estero a favore del coniuge dello stesso sesso del genitore biologico, il cui provvedimento è reputato trascrivibile nei registri dello stato civile ex art. 28, co. 2, lett. g), D.P.R. n. 396 del 2000 (nella specie, i minori erano nati da surrogazione di maternità). Nell’ordinanza si osserva che vi è un contrasto giurisprudenziale tra la pronuncia (sopra richiamata) n. 19599/2016, secondo la quale «i principi di ordine pubblico devono essere ricercati esclusivamente nei principi supremi e/o fondamentali della nostra Carta costituzionale, vale a dire in quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario» e quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 5 luglio 2017, n. 16601 (in materia di danni punitivi).

In particolare, nella pronuncia citata da ultimo si legge che «la descrizione dell’ordine pubblico internazionale “come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzitutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria” (cfr. ord. 9978/16 pag. 21), può far pensare a una “riduzione della portata del principio di ordine pubblico”. Ciò che va registrato è senz’altro che la nozione di “ordine pubblico”, che costituisce un limite all’applicazione della legge straniera, ha subito profonda evoluzione. Da “complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico, e nei principi inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici” (così Cass. 1680/84) è divenuto il distillato del “sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione Europea dall’art. 6 TUE (Cass. 1302/13)”. La dottrina ha spiegato che l’effetto principale recato dal recepimento e dall’interiorizzazione del diritto sovranazionale non è la riduzione del controllo avverso l’ingresso di norme o sentenze straniere che possono “minare la coerenza interna” dell’ordinamento giuridico. […] a questa storica funzione dell’ordine pubblico si è affiancata, con l’emergere e il consolidarsi dell’Unione Europea, una funzione di esso promozionale dei valori tutelati, che mira ad armonizzare il rispetto di questi valori, essenziali per la vita e la crescita dell’Unione. È stato pertanto convincentemente detto che il rapporto tra l’ordine pubblico dell’Unione e quello di fonte nazionale non è di sostituzione, ma di autonomia e coesistenza. Le Sezioni Unite ne traggono riprova dall’art. 67 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), il quale afferma che “l’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”. Pertanto a fungere da parametro decisivo non basta il confronto tra le reazioni delle corti dei singoli Stati alle novità provenienti da uno Stato terzo, o da un altro stato dell’Unione […]. La sentenza straniera che sia applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina Europea, deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale. Se con riguardo all’ordine pubblico processuale, ferma la salvaguardia dell’effettività dei diritti fondamentali di difesa, il setaccio si è fatto più largo per rendere più agevole la circolazione dei prodotti giuridici internazionali, con riguardo all’ordine pubblico sostanziale non può dirsi altrettanto. Gli esiti armonizzanti, mediati dalle Carte sovranazionali, potranno agevolare sovente effetti innovativi, ma Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca. Non vi potrà essere perciò arretramento del controllo sui principi essenziali della “lex fori” in materie, come per esempio quella del lavoro (v. significativamente Cass. 10070/13) che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della Repubblica. Nel contempo non ci si potrà attestare ogni volta dietro la ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani» (così Cass. Sez. Un., sent. 5 luglio 2017, n. 16601).

In sintesi, il principio che si ricava dalla pronuncia delle Sezioni Unite riportata è che la nuova nozione di ordine pubblico non comporta una riduzione o un arretramento del controllo da parte dell’ordinamento ai fini dell’applicazione della legislazione straniera. Allo stesso tempo, la semplice diversità tra un istituto straniero e la legge italiana non può automaticamente tradursi nel contrasto del primo con l’ordine pubblico; infatti, resta sempre ferma la necessità che, specie nel diritto sostanziale, la legge straniera non produca effetti incompatibili con i principi costituzionali, anche nel caso in cui gli stessi non siano principi inviolabili.

Tuttavia, come si dirà meglio nel paragrafo che segue, è proprio la tutela di alcuni principi costituzionali, che rientrano nella nozione di ordine pubblico così come enucleata dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a ergersi a limite invalicabile all’applicazione nel nostro ordinamento della legge della madre partoriente straniera e a rendere pienamente ragionevole la differenziazione tra fattispecie nelle quali venga in rilievo la formazione dell’atto di nascita di un minore nato in forza della fecondazione eterologa tra genitori di sesso diverso e la formazione del medesimo atto qualora i genitori siano del medesimo sesso. Da qui – come si vedrà a breve – la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Pisa in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, nonché agli artt. 3 e 24, Cost. nella parte in cui la norma oggetto di censura – ad avviso del rimettente – «irragionevolmente non consente al figlio di ottenere la prova precostituita della filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile, in assenza di motivi di ordine pubblico internazionale che ostino alla sua applicazione in Italia».

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III. Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 Cost.

 

III.1. La premessa da cui muovere ai fini dell’esame della censura del rimettente circa la lamentata irragionevole limitazione che la norma impugnata arrecherebbe in danno del «diritto di persone che, in base alla legge straniera applicabile, sono legate da un rapporto di genitorialità-filiazione di vedere riconosciuta pienamente in Italia la loro formazione sociale», con conseguente violazione degli artt. 2 e 3 Cost., nonché circa l’asserita irragionevole discriminazione che la medesima norma determinerebbe tra la fattispecie dedotta nel giudizio a quo e «la situazione in cui il cittadino di nazionalità straniera abbia due genitori intenzionali di sesso diverso, nel qual caso la formazione dell’atto di nascita sarebbe possibile, con ciò ponendo in essere una discriminazione basata sul sesso», con conseguente violazione dell’art. 3, Cost., deve essere rinvenuta nella giurisprudenza di questa Ecc.ma Corte, laddove ha affermato con chiarezza che «l’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» (così Corte cost., sent. n. 138 del 2010, par. 8 del Considerato in diritto).

L’importanza del passaggio estrapolato dalla nota pronuncia di questa Corte in tema di matrimonio tra persone dello stesso sesso è dovuta al fatto che da tali parole emerge chiaramente come, sia la formazione sociale che coincide con la coppia omosessuale, sia – ai fini che qui più strettamente interessano – gli effetti giuridici che, in termini di diritti e doveri, da essa devono farsi discendere, sono affidati alla disciplina del legislatore e alla sua piena discrezionalità; ciò, tuttavia, nel presupposto che sia da escludere che la tutela di una simile formazione sociale «possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio». La citata sentenza, infatti, prosegue affermando che, se è vero che «spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», è altrettanto vero che resta «riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza».

Alla luce di tali principi giurisprudenziali, dunque, occorre verificare se il differente trattamento riservato dal nostro legislatore, in tema di filiazione a seguito di procreazione medicalmente assistita (PMA), nei confronti delle coppie formate da persone dello stesso sesso, sia idoneo a superare il vaglio di ragionevolezza richiamato da Codesta Ecc.ma Corte.

III.2. A tale interrogativo si ritiene di dover dare risposta affermativa. Infatti, nella citata sent. n. 138 del 2010, se da una parte si legge che «i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi», dall’altra, viene affermato che «detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata», concludendo, infine, che «Non è casuale […] che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima» (par. 9 del Considerato in diritto).

Da quanto detto deriva che è affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta circa la forma, i limiti e gli effetti dell’unione tra persone dello stesso sesso, ma la scelta legislativa deve intendersi costituzionalmente vincolata in negativo, nel senso, cioè, della necessità – derivante dagli artt. 29 e 30 Cost. – che il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali avvenga tramite un istituto diverso dal matrimonio, quale, appunto, l’unione civile tra persone dello stesso sesso (legge 20 maggio 2016, n. 76). E poiché il matrimonio, per espresso riconoscimento di Codesta Corte, ha «(potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale», è evidente che non può essere affatto considerata irragionevole la scelta del legislatore italiano di non estendere alle coppie omosessuali la possibilità di ricorrere alla PMA eterologa.

Ciò a maggior ragione ove si pensi che, per quanto riguarda l’accesso alla PMA, le biotecnologie non alterano lo schema della generazione, né rendono superfluo il concorso dei due sessi, perché anche in laboratorio la partecipazione dei due sessi è necessaria per il tramite dei gameti maschili e di quelli femminili. È del resto noto che la fecondità continua a presupporre la sessuazione e che il concepimento richiede l’apporto complementare del maschile e del femminile, ciascuno dei quali non è intercambiabile con l’altro.

III.3. Infine, dal combinato disposto degli artt. 29 e 2 Cost. si può evincere che la Costituzione vincola a non estendere all’unione civile gli stessi effetti del matrimonio, tra i quali, in primis, quelli legati alla filiazione. Se, infatti, il matrimonio ha finalità procreativa e la procreazione implica la complementarità biologica dell’uomo, anche la filiazione comporta complementarità biologica dell’uomo e della donna e, quindi, paternità e maternità.

Come lo stesso Tribunale di Pisa riconosce, la ragione per la quale non si è potuto estendere il matrimonio a coppie dello stesso sesso è che il matrimonio ha una funzione generativa costituzionalmente vincolata dagli artt. 29 e 30 Cost. (cfr. ad es. Corte Cost., sent. 15 aprile 2010, n. 138; Corte Cost., sent. 22 luglio 2010, n. 276; Corte Cost., sent. 5 gennaio 2011, n. 4; Corte Cost., 11 giugno 2014, n. 170). Si legge, infatti, a p. 26 dell’ordinanza di rimessione che «il Collegio trae da questa pronuncia [Corte cost. n. 138/2010] conferma del fatto che il diritto italiano, in materia di famiglia, non è affatto gender-neutral e che una tale costruzione non è di per sé costituzionalmente illegittima. Non soltanto, svolgendo analogo ragionamento, si deve concludere che anche la nozione di genitori come coppia formata da un padre e una madre di sesso opposto risponde a una nozione consolidata e ultramillenaria, ma nella richiamata pronuncia della Corte [n. 138 del 2010] è anche contenuto un indice argomentativo che corrobora l’interpretazione, laddove si legge che proprio la potenziale finalità procreativa vale a differenziare il matrimonio dall’unione omosessuale (e quindi, a contrario, quest’ultima non è finalizzata alla filiazione)».

Il principio di genitorialità maschile e femminile è quindi implicitamente ricavabile dalla nostra Costituzione, con il conseguente divieto di accesso per le coppie dello stesso sesso alla PMA eterologa e di formazione, in Italia, di un atto di nascita che indichi come genitori persone dello stesso sesso, dal momento che la legge straniera che consente di stabilire tale rapporto di filiazione si porrebbe in contrasto con l’anzidetto principio.

Ciò a maggior ragione ove si ponga mente al fatto che, mentre nelle ipotesi in cui viene in rilievo un atto di stato civile formato all’estero o una sentenza resa da un’autorità giudiziaria straniera è necessario, ai fini della relativa trascrizione, tenere conto della provenienza di tali atti da un ordinamento straniero che ha proprie regole in merito, nel caso di specie si tratta di formare ab initio un atto in Italia, seppure in relazione alla nascita di un minore che gode della cittadinanza della madre biologica.

Quindi, a prescindere dalle considerazioni svolte nel par. II – e, dunque, dalla nozione, estensiva o restrittiva, di ordine pubblico che si ritenga di adottare, in ogni caso nella predetta nozione deve senza dubbio ritenersi compreso il principio in base al quale i genitori devono essere di sesso diverso. Invero, l’identificazione della genitorialità come genitorialità dell’uomo e della donna costituisce un principio inviolabile della Costituzione e, quindi, rientra anche nella nozione più restrittiva di ordine pubblico.

Con la conseguenza che a risultare manifestamente infondate non sono solo le censure mosse dal Giudice a quo nei confronti della norma censurata in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., ma altresì quelle formulate per asserito contrasto con gli artt. 3 e 24, Cost., in quanto «irragionevolmente non consent[irebbe] al figlio di ottenere la prova precostituita della filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile, in assenza di motivi di ordine pubblico internazionale che ostino alla sua applicazione in Italia».

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  1. Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento a tutti i parametri costituzionali invocati, perché basata sull’erroneo presupposto che la norma impugnata determini una irragionevole discriminazione tra la formazione e la trascrizione dell’atto di nascita di un minore nato da una coppia omosessuale, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile ex art. 33, l. n. 218/1995.

 

IV.1. La prospettata questione di legittimità costituzionale appare infondata, altresì, in riferimento a tutti i parametri costituzionali invocati dal rimettente, sotto un ulteriore profilo.

È noto che da sempre l’ordinamento di stato civile si basa su un sistema bipartito che annovera:

  1. da una parte, atti di stato civile formati direttamente dall’ufficiale di stato civile italiano:
  • oggetto di iscrizione, se formati dallo stesso ufficiale che li registra,
  • e di trascrizione, se formati da altro ufficiale;
  1. dall’altra, atti di stato civile consistenti in trascrizioni di atti stranieri:
  • se relativi a italiani o stranieri, con funzione di pubblicità dichiarativa e previo vaglio di non contrarietà all’ordine pubblico ex 18, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396;
  • se relativi a stranieri residenti in Italia, con funzione di pubblicità-notizia ex 19 del medesimo D.P.R. e, a prescindere da tale vaglio, perché destinati unicamente a riprodurre gli atti formati all’estero al fine di agevolare gli stranieri nell’ottenimento delle copie integrali degli stessi (cfr. Cons. St., parere 8 giugno 2011, n. 1732);
  • se relativi a stranieri non residenti in Italia, tali atti non sono trascrivibili.

Mentre gli atti indicati sub b) possono essere stati formati secondo la legge del luogo, oppure secondo la legge italiana quando siano stati compiuti innanzi all’autorità consolare o diplomatica italiana, i primi – ovvero gli atti sub a) – non possono che essere formati secondo il diritto italiano.

IV.2. L’idea di un atto di nascita di un cittadino straniero nato in Italia, formato da un ufficiale di stato civile che applichi il diritto straniero (nel caso di specie, si tratterebbe del diritto vigente nello Stato del Wisconsin), in via diretta o in via indiretta (cioè tramite la norma di conflitto del foro, ossia l’art. 33, co. 1, l. 31 maggio 1995, n. 218, che designa come applicabile al rapporto di filiazione la legge nazionale del figlio), è un vero e proprio assurdo giuridico. Lo riconosce implicitamente lo stesso Tribunale di Pisa, là dove afferma che «a opinione del Collegio, la formazione dell’atto di nascita è regolata da norme che non disciplinano direttamente i rapporti fra privati, ma disciplinano l’attività della pubblica amministrazione, e si debbono ritenere di applicazione necessaria. Com’è noto, ai sensi dell’art. 17 legge d.i.p., “è fatta salva la prevalenza sulle disposizioni che seguono delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera”».

Peraltro, le norme di conflitto stabilite dalla l. n. 218 del 1995 trovano applicazione esclusivamente nel processo e non nel procedimento amministrativo di formazione degli atti di stato civile. Diversamente, la pronuncia additiva richiesta a Codesta Ecc.ma Corte implicherebbe che, ogni volta che si formi un atto di nascita di un minore nato in Italia da almeno un cittadino straniero, l’ufficiale di stato civile debba applicare (tramite l’art. 33, co. 1, l. n. 218/1995) il diritto straniero al fine di non incorrere in un’asserita irragionevole discriminazione tra la fattispecie della trascrizione di un atto formato all’estero e quella della formazione del medesimo atto nel nostro ordinamento, con esiti dirompenti per il sistema e senza dubbio al limite del paradossale.

L’ordinamento italiano, al contrario, si fonda sul “naturale” presupposto che gli atti di stato civile formati in Italia seguano il diritto italiano, mentre quelli formati all’estero possano essere trascritti nei registri di stato civile (come osservato sopra, con modalità e funzioni diverse, a seconda che siano relativi a italiani o a stranieri residenti in Italia), previo vaglio di non contrarietà all’ordine pubblico.

In definitiva, ritenere che la norma che non consente la formazione in Italia dell’atto di nascita di un minore nato da una coppia di persone dello stesso sesso che siano ricorse alla PMA determini una irragionevole discriminazione tra la fattispecie in questione e quella relativa alla trascrizione del medesimo atto di nascita formato, però, in un diverso ordinamento (e secondo le relative regole) significherebbe pervenire all’assurda conclusione che il nostro ordinamento dovrebbe sempre e comunque adeguarsi alle norme degli ordinamenti stranieri, allorquando esse siano applicabili in forza della l. n. 218 del 1995: ciò in quanto, diversamente, si finirebbe per differenziare (irragionevolmente, laddove si seguisse la tesi del rimettente) i casi in cui un determinato atto si sia formato all’estero e debba essere trascritto in Italia, da un lato, e quelli in cui lo stesso atto debba essere formato interamente e ab initio nel nostro ordinamento, dall’altro. È evidente, tuttavia, che una simile conclusione non solo aprirebbe un varco addirittura illimitato (e, forse, anche obiettivamente impossibile) all’applicazione di norme di altri ordinamenti in Italia, ma soprattutto limiterebbe la sovranità statale e la discrezionalità del legislatore italiano in termini del tutto inammissibili.

Da quanto esposto discende la manifesta infondatezza di tutte le censure sollevate dal Tribunale di Pisa, le quali presuppongono l’asserita irragionevolezza della differenziazione tra la mera trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero del minore figlio di una coppia omosessuale che abbia avuto accesso alla PMA dalla vera e propria formazione dello stesso nell’ambito del nostro ordinamento.

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P.Q.M.

Il Centro Studi Livatino, come sopra rappresentato e difeso, conclude affinché Codesta Ecc.ma Corte costituzionale voglia dichiarare manifestamente infondata nel merito la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Pisa con l’ordinanza in epigrafe.

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Si depositano:

  • Atto costitutivo del Centro Studi Rosario Livatino;
  • Statuto del Centro Studi Rosario Livatino;
  • Atto di conferimento dei poteri per la rappresentanza in giudizio al prof. Avv. Mauro Ronco;

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Con ossequio.

Roma, 29 maggio 2018

 

Prof. Avv. Mauro Paladini                     Prof. Avv. Marcello Cecchetti

R.G. 933/2008 V.G.