Daniela Bianchini
Componente del Consiglio Superiore della Magistratura

 

La maternità surrogata è lesiva dei diritti dei bambini e contrasta con il principio del superiore interesse del minore*

 

 

Sommario: 1. Il principio del superiore interesse del minore − 2. Riflessioni sulla visione adultocentrica che si cela dietro la maternità surrogata − 3. Logica del fatto compiuto e deviazione verso falsi problemi: è questa la strategia dei sostenitori della GPA − 4. Salvaguardia dei diritti fondamentali dei bambini nati da maternità surrogata: le domande necessarie da cui partire − 5. I diritti violati dei bambini: dalla lesione della dignità umana all’impossibilità di conoscere le proprie origini biologiche − 6. L’effettiva tutela dei minori nati da maternità surrogata non può prescindere dalla valutazione della condotta dei committenti: non può ritenersi che corrisponda all’interesse del minore essere cresciuto da chi lo ha considerato alla stregua di un oggetto.

 

 

 

  1. Il principio del superiore interesse del minore

 

L’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza afferma che «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».

Detto interesse è preminente in quanto ha la precedenza su qualsiasi altro interesse e, in concreto, coincide con la promozione e salvaguardia del benessere psicofisico dei bambini e degli adolescenti. Il rispetto del superiore interesse del minore svolge dunque una funzione di garanzia, imponendo che le decisioni relative ai minori siano in concreto orientate a favorire la loro crescita sana ed armoniosa, nonché lo sviluppo equilibrato della loro personalità. In altri termini, muovendo da una diversa prospettiva, il principio sancito dall’art. 3 della Convenzione ONU del 1989 ‒ successivamente enunciato anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[1] ‒ deve essere altresì letto quale criterio di soluzione nel bilanciamento fra i diritti degli adulti e i diritti dei minori, nel senso che, in caso di conflitto, i diritti degli adulti cedono innanzi ai diritti dei minori.

Il superiore interesse del minore si colloca dunque nel sistema giuridico quale principio generale che esige da tutti coloro che sono chiamati a prendere decisioni in ambito minorile l’individuazione di soluzioni ben ponderate, frutto di un attento esame dei diversi elementi che compongono ogni singola fattispecie concreta.

Sotto il profilo metodologico, quindi, devono essere esclusi meccanismi stereotipati o automatici, in favore di un’approfondita valutazione “caso per caso” volta ad individuare la soluzione più adeguata alle esigenze non di un minore astratto ma di quel minore che esige tutela dall’ordinamento: soltanto in questo modo è possibile riconoscere una concreta ed effettiva tutela in ambito minorile.

L’affermazione di questo principio, che trae origine da un lungo cammino, ha determinato una diversa concezione giuridica del minore di età: da oggetto di diritti, in quanto tale sottoposto all’autorità dei genitori, il minore è stato poi riconosciuto quale soggetto di diritti, ossia titolare di una propria soggettività giuridica da tutelare non soltanto nella sfera delle relazioni sociali ma anche in ambito familiare[2].

Al minore, non più concepito come parte passiva delle relazioni familiari, è stata riconosciuta un’autonoma soggettività giuridica, distinta da quella dei genitori e non più confinata nell’ambito dello status filiationis. Attualmente l’ordinamento riconosce i diritti dei minori di età e garantisce loro la protezione di cui hanno bisogno non in quanto figli, ma in quanto persone.

Il riconoscimento della tutela autonoma del minore ha comportato il conseguente passaggio dal concetto di potestà genitoriale al concetto di responsabilità genitoriale. Con la nuova terminologia si è voluto sottolineare, da una parte, il ruolo dei genitori − chiamati a provvedere ai bisogni morali e materiali dei figli al fine di promuovere il sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità − e, dall’altra, la centralità del minore e dei suoi diritti.

Diverse sono state le questioni interpretative circa la portata del “superiore interesse del minore” che hanno destato l’attenzione della dottrina e che sono state ampiamente dibattute, quali, ad esempio, il rapporto fra detto principio e i diritti fondamentali sanciti dalle carte internazionali e dalla stessa Convenzione ONU del 1989[3].

Più precisamente, ci si è chiesti se possa essere configurabile il “sacrificio” di un diritto fondamentale del minore al fine di tutelarne il superiore interesse o se di per sé il rispetto del principio di cui all’art. 3 della Convenzione ONU presupponga sempre e comunque l’applicazione delle norme che riconoscono i diritti fondamentali del minore.

Alla luce del condiviso orientamento giurisprudenziale, si è ritenuto che, proprio per garantire al minore un sano ed equilibrato sviluppo psicofisico, in talune circostanze sia necessario sospendere l’esercizio di alcuni diritti fondamentali.

Fra i diversi esempi, due appaiono maggiormente pertinenti in questa sede: quello concernente il diritto alla bigenitorialità e quello concernente il diritto a vivere con la propria famiglia.

Quanto al primo, come noto, con l’introduzione dell’art. 337 ter cod. civ., il legislatore ha affermato il diritto dei bambini e degli adolescenti, soprattutto nei casi di separazione familiare, a mantenere con entrambi i genitori rapporti stabili e continuativi.

Ebbene, la giurisprudenza nazionale (sulla base di quella europea), coerentemente con lo spirito che anima il principio del superiore interesse del minore, ha ritenuto legittimo limitare la presenza di un genitore nella vita del figlio in caso di possibile pregiudizio derivante dalla condotta del genitore[4].

Quanto al secondo, la Convenzione ONU del 1989 ‒ dopo aver ricordato nel Preambolo che la famiglia è «unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli» e che «il fanciullo ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione» ‒ ha inoltre affermato all’art. 9 comma 1 che «gli Stati parti vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà» precisando tuttavia che le autorità competenti possono decidere «conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo».

Anche l’art. 1 della Legge n. 184 del 1983, come modificato dalla Legge n. 149 del 2001, stabilisce al primo comma che «il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia», tuttavia laddove la permanenza presso il proprio nucleo familiare possa costituire un pregiudizio per il benessere e la crescita del singolo minore coinvolto, l’autorità giudiziaria può disporre l’allontanamento di questi, anche temporaneo, dalla propria famiglia.

 

  1. Riflessioni sulla visione adultocentrica che si cela dietro la maternità surrogata

 

La maternità surrogata è una pratica che lede profondamente la dignità umana[5], sia dei bambini, che vengono commissionati e fatti oggetto di uno scambio contrattualizzato, sia delle donne, i cui corpi vengono sfruttati o per il prelievo degli ovuli da fecondare o per il concepimento e la gravidanza, con annesse terapie ormonali e tutte le conseguenze che le stesse comportano in termini di salute. Una «tecnica barbarica e spesso strumento di sfruttamento della povertà»[6], come è stato osservato da autorevole dottrina. Anche il Comitato Nazionale di Bioetica, nella mozione “Maternità surrogata a titolo oneroso” del 18 marzo 2016 si è espresso in termini chiarissimi, con il solo dissenso del prof. Carlo Flamigni: «il CNB ricorda che la maternità surrogata è un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione. Il CNB ritiene che tale ipotesi di commercializzazione di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali»[7].

Ma non solo. La maternità surrogata è altresì lesiva a livello sociale perché veicola tendenze estremamente pericolose, prima fra tutte quella secondo cui la vita umana può essere oggetto di acquisto. Non importa che l’acquisto sia a titolo oneroso o gratuito[8] (posto che, nella pratica anche la c.d. “maternità solidale” prevede la dazione di denaro sotto forma di non ben precisati “rimborsi spese”): in entrambi i casi viene lesa la dignità umana in quanto viene comunque determinata una reificazione delle persone.

Il fondamento del divieto di surrogazione si rinviene non già nella incommerciabilità del corpo umano, quanto piuttosto nella indisponibilità dello stesso[9].

La “gestazione per altri” (GPA) – ulteriore terminologia in uso per indicare questa pratica − si basa sulla prevaricazione, sull’idea di poter trattare le altre persone – in genere quelle più deboli ‒ come oggetti, come merce che può essere acquistata per appagare i propri desideri, per colmare i propri vuoti esistenziali, per superare i limiti posti dalla natura.

Nella maternità surrogata vi è inoltre l’accettazione e il ricorso all’eugenetica. Si tratta infatti di una pratica – è bene ricordarlo ‒ su cui imprenditori senza scrupoli hanno fondato un vero e proprio business, intercettando un mercato composto da persone facoltose che non possono avere figli (o per ragioni fisiche, nel caso delle coppie eterosessuali, o per evidenti limiti dettati dalla natura, nel caso delle coppie omosessuali o delle persone singole) e che sono disposte a pagare anche ingenti somme di denaro pur di appagare il proprio desiderio di genitorialità, ragion per cui hanno interesse a che il bambino commissionato abbia determinate caratteristiche fisiche, sia privo di difetti e corrisponda ai propri desiderata.

Non a caso i committenti scelgono le donne da cui prelevare gli ovuli e quelle che porteranno avanti la gravidanza da appositi cataloghi contenenti le foto e le schede personali delle “candidate”, con relativi dati familiari e sanitari.

I contratti di maternità surrogata prevedono poi delle clausole a tutela dei committenti in caso di feti o neonati “difettosi”, clausole molto simili a quelle previste per la compravendita dei beni mobili. I committenti possono esigere che la donna interrompa la gravidanza o si sottoponga ad una riduzione embrionaria o fetale selettiva in caso di anomalie o di gravidanza gemellare dagli stessi non desiderata.

In altri termini, la donna che presta il proprio corpo cede ai committenti la libertà di scegliere se e come portare avanti la gravidanza. Il paradosso è che, a livello politico, i sostenitori della maternità surrogata sono gli stessi che rivendicano il diritto della donna di abortire, fino al punto di escludere il padre del concepito da questa scelta. Tuttavia, quando si tratta di promuovere la maternità surrogata e di sostenere le ragioni delle persone che traggono un vantaggio da questa pratica (committenti, società che erogano il servizio a scopo di lucro e relativi professionisti legali e sanitari coinvolti), quegli stessi sostenitori ammettono che la decisione su un’eventuale interruzione di gravidanza possa essere esercitata da terzi.

Questo dovrebbe far riflettere sull’ipocrisia di fondo e sulla retorica dell’altruismo che celano in realtà una profonda mancanza di rispetto da parte dei sostenitori della maternità surrogata nei confronti delle donne che accettano di mettere a disposizione di terzi il proprio utero a fini procreativi: quelle donne non interessano tanto come persone, quanto piuttosto come corpi necessari per portare avanti una gravidanza.

Malgrado da anni si parli di questa pratica, tuttavia, si registra ancora una scarsa consapevolezza, sia in ordine alle concrete modalità attuative, sia in ordine alle implicazioni che la maternità surrogata può avere tanto nella vita delle persone coinvolte quanto a livello sociale. Lo si capisce, ad esempio, dai tanti messaggi postati sui vari social network da persone che, evidentemente ignare della complessità della questione, manifestano sostegno a chi reclama la legittimazione della maternità surrogata per realizzare il proprio desiderio di genitorialità, ponendo erroneamente la questione sul piano della non discriminazione, soprattutto delle coppie omosessuali. Si tratta, come è evidente, di una lettura superficiale, riduttiva e fuorviante di una questione che presenta un notevole livello di complessità e che, in quanto tale, esige una riflessione più ampia e basata sulla conoscenza delle diverse problematiche sottese (di carattere non solo giuridico, ma anche antropologico, etico, sociologico, medico, pedagogico ecc.).

In realtà, la condanna della maternità surrogata prescinde da qualsiasi considerazione relativa all’orientamento sessuale di chi vi fa ricorso. Pertanto, è profondamente sbagliato affrontare la questione pensando che il rifiuto di questa pratica implichi il rifiuto dei diritti degli omosessuali.

Il contrasto alla maternità surrogata trova la sua ragione – è bene ribadirlo ‒ nel dovere di tutelare i diritti fondamentali delle persone più deboli, nel dovere di estirpare dalla società ogni forma di schiavitù, nel dovere di ripudiare la mercificazione delle persone, nel dovere di impedire che i bambini tornino ad essere oggetto dei diritti degli adulti.

Purtroppo, ascoltando o leggendo i messaggi sparsi sui social, si comprende che non poche adesioni alla maternità surrogata sono in realtà il frutto di una scarsa consapevolezza o della superficiale adesione a posizioni altrui, non preceduta da un’adeguata riflessione.

La narrazione proposta dai sostenitori della maternità surrogata è incentrata per lo più sul desiderio di genitorialità e sulla sofferenza di una vita priva di figli. Chi ascolta questa narrazione senza porsi ulteriori domande finisce con il manifestare solidarietà, ritenendo che “non ci sia nulla di male” a volere dei figli. Considerazioni come questa derivano tuttavia non soltanto da una miope analisi della questione, ma soprattutto da una più o meno consapevole visione adultocentrica del rapporto genitoriale.

Il ritenere lecito privare un bambino delle proprie origini biologiche pur di appagare il (seppur astrattamente legittimo) desiderio di genitorialità di un uomo o di una donna presuppone il convincimento che, nel rapporto di filiazione, al centro, non ci siano le esigenze del minore ma quelle degli adulti.

Non considerare – per ignoranza o, peggio ancora, per scelta consapevole ‒ il pregiudizio che il bambino subisce quando viene allontanato subito dopo il parto dalla donna che lo ha portato in grembo per nove mesi significa porre in secondo piano il diritto dei minori, in posizione subordinata rispetto all’esigenza dei committenti di tornare a casa con il bambino il prima possibile (anche per evitare, come viene consigliato dalle agenzie operanti nel settore, che la partoriente si affezioni al neonato).

Appartiene senz’altro ad una visione adultocentrica ritenere che il bambino possa essere nutrito con il latte artificiale anziché quello materno, che non abbia bisogno del contatto fisico con la donna che lo ha fatto crescere durante la vita intrauterina: sono tutte considerazioni che pongono in primo piano, e in via esclusiva, le esigenze dei committenti e non già quelle del bambino.

Una lettura più profonda e documentata consente invece di comprendere che dietro la patina rosa con cui viene imbellettata la maternità surrogata si cela un ben più cupo scenario, dove la miseria, l’ignoranza, la povertà, la superficialità o l’avidità (si pensi alle donne che prestano il proprio corpo per guadagnare soldi “facili”) sono terreno fertile per la diffusione dello sfruttamento di donne e bambini, con la conseguente violazione dei loro diritti fondamentali.

È comprensibile e legittimo il desiderio di genitorialità, così come merita il massimo rispetto la sofferenza delle persone che non possono avere figli, indipendentemente da quelle che possono essere le cause ostative. Tuttavia, questa sofferenza non può mai legittimare la reificazione degli esseri umani e la lesione dei loro diritti.

Superare questo limite può avere delle conseguenze gravissime per la società e può comportare un arretramento rispetto alle conquiste fatte negli ultimi secoli, con grandi sacrifici, sul piano della tutela delle donne e dei bambini[10].

 

  1. Logica del fatto compiuto e deviazione verso falsi problemi: è questa la strategia dei sostenitori della GPA

 

Nel caso dei bambini nati da maternità surrogata, a ben vedere, alla luce delle considerazioni sopra formulate, i primi a violare i loro diritti e la loro dignità sono proprio i committenti, gli stessi che poi, al fine di ottenere il riconoscimento della genitorialità, evocano la tutela del superiore interesse del minore.

Lo schema è infatti ormai noto: una volta che i committenti rientrano in Italia con il bambino ne chiedono il riconoscimento come figlio e, innanzi al legittimo diniego dell’autorità amministrativa, presentano ricorso in tribunale, invocando il superiore interesse del minore e quindi il suo diritto al mantenimento dei legami familiari e del suo status.

Si tratta di un’evidente forzatura, volta ad aggirare il divieto previsto dalla legge n. 40/2004, che all’art. 6 prevede la sanzione della reclusione da tre mesi a due anni e la multa da 600.000 a un milione di euro per chiunque «in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità».

Tuttavia, nelle aule di giustizia, vi è la tendenza a ritenere che togliere il bambino alla coppia che lo ha commissionato sarebbe comunque pregiudizievole per il minore e che, pertanto, nel suo preminente interesse, la soluzione migliore consisterebbe nel lasciarlo in quella che è diventata di fatto la sua famiglia.

Ma questa soluzione è veramente rispettosa del superiore interesse dei minori coinvolti? Oppure è una scelta di tipo pilatesco?

La posizione di chi sostiene che sia preferibile lasciare il minore dove si trova per non recargli traumi è una posizione che prima facie potrebbe sembrare corretta sotto il profilo della tutela dei diritti, ma che, ad un attento esame, desta non poche perplessità.

Spesso la questione riguarda coppie omosessuali e pertanto il diniego del riconoscimento della genitorialità viene erroneamente rappresentato come discriminatorio. Da qui le campagne mediatiche che fanno pressione per il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali, fra i quali viene inserito in maniera surrettizia anche il preteso “diritto al figlio”[11], con la conseguenza che nella narrazione diffusa anche sui social network il mancato riconoscimento della filiazione da maternità surrogata viene indicato come violazione dei diritti civili, come atteggiamento omofobo o retrogrado.

In realtà la questione della maternità surrogata, come si è detto, è ben più complessa e condannarla non significa prendere una posizione ostile nei confronti delle coppie omosessuali, posto che vi fanno ricorso anche coppie eterosessuali. La maternità surrogata è una pratica lesiva della dignità umana e viene contrastata a prescindere dall’orientamento sessuale dei committenti.

È dunque opportuno sgomberare il campo dai “falsi problemi” per concentrarsi piuttosto sugli elementi fondamentali della questione, primo fra tutti la tutela dei minori nati da maternità surrogata. Si impone di conseguenza una riflessione su come salvaguardare i diritti di quei  bambini, riflessione che deve necessariamente essere estesa anche alla fase anteriore alla nascita e deve riguardare altresì le modalità attraverso cui si è arrivati al concepimento.

 

  1. Salvaguardia dei diritti fondamentali dei bambini nati da maternità surrogata: le domande necessarie da cui partire

 

Come si è detto, il divieto di maternità surrogata è costantemente violato e i committenti utilizzano lo strumento del superiore interesse del minore – declinato tuttavia secondo un paradigma adultocentrico e accompagnato dall’idea per cui i desideri degli adulti devono ineluttabilmente trovare un positivo riconoscimento giuridico – per ottenere con un’indebita forzatura la legittimazione fattuale di ciò che l’ordinamento disapprova.

L’indagine circa le possibili soluzioni al problema – che al contempo concerne, da una parte, l’individuazione di strumenti volti a contrastare e disincentivare l’accesso alla gestazione per altri e, dall’altra, la protezione dei bambini  ormai nati attraverso il ricorso a questa pratica – come tutte le indagini deve svilupparsi attraverso una diligente e sistematica attività di ricerca e deve pertanto partire dalle domande finalizzate a mettere in luce la verità sui fatti oggetto di  studio.

Ebbene, la prima domanda da porsi è se davvero corrisponda all’interesse dei minori coinvolti restare affidati a quelle stesse persone che ne hanno commissionato la nascita ed hanno quindi posto in essere una condotta lesiva della dignità umana e dei diritti dei bambini.

Nel rispondere a questo interrogativo – come si vedrà nell’ultimo paragrafo − occorre tuttavia non lasciarsi condizionare dal fatto che il minore abbia ormai acquisito un certo status familiare ed abbia instaurato legami con i committenti perché è proprio l’origine di questo legame che deve essere oggetto di attenzione. A tal proposito, giova osservare che il minore gode di una tutela autonoma e quindi l’individuazione della soluzione più adeguata presuppone che il minore sia considerato come autonomo portatore di diritti, senza essere “imbrigliato” in uno status filiationis che corrisponde a logiche ormai superate, retaggio della concezione del minore come oggetto dei diritti.

In secondo luogo, occorre chiedersi se per un minore sia fonte di pregiudizio nascere da maternità surrogata: è fondamentale porsi questa domanda perché se si riconosce che la maternità surrogata lede i diritti dei minori, allora, di conseguenza, nei relativi giudizi di riconoscimento della genitorialità non si potrà prescindere dal valutare – proprio a tutela dei minori coinvolti ‒ la condotta di coloro che pretendono di essere riconosciuti come genitori[12]. Il tema sarà oggetto in particolare dell’ultimo paragrafo. Qui preme intanto osservare che la salvaguardia del superiore interesse del minore impone l’esame in concreto di tutti gli elementi di una data vicenda e, nei casi di bambini nati da maternità surrogata, quell’esame non può senz’altro prescindere dalla considerazione del fatto che i committenti hanno attivato una procedura che, secondo la Corte costituzionale, «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane»[13].

Vanno pertanto tenuti distinti due diversi aspetti della questione: il primo attiene ai diritti fondamentali del minore che vengono violati attraverso il ricorso alla maternità surrogata e al pregiudizio che questa reca al sano ed equilibrato sviluppo dei bambini coinvolti; il secondo attiene all’idoneità genitoriale dei committenti e all’effettivo interesse del minore ad essere cresciuto da persone che lo hanno reificato fin dal concepimento, alterandone poi l’identità sull’atto di nascita.

 

  1. I diritti violati dei bambini: dalla lesione della dignità umana all’impossibilità di conoscere le proprie origini biologiche

 

Oltre alla violazione della dignità umana, che deriva dalla reificazione di cui si è detto, la maternità surrogata determina ulteriori aggressioni della sfera giuridica del minore e dei suoi diritti fondamentali: il diritto di essere allattato ed accudito dalla donna che lo ha portato in grembo e con cui ha instaurato una relazione scientificamente ritenuta importante per lo sviluppo psicofisico; quello di avere una madre (nel caso di coppia omosessuale maschile o di uomo singolo) o quello di non essere privato della figura paterna (nel caso di coppia omosessuale femminile o di donna singola). Con riferimento a questi diritti, ci si limita ad osservare che sono numerosi gli studi scientifici che confermano l’importanza del rapporto madre/figlio dal momento della nascita ai primi anni di vita: il neonato è in grado di riconoscere la voce della madre, ha bisogno di sentire il rassicurante battito del suo cuore, quello che lo ha accompagnato durante la vita intrauterina. Nella prospettiva della psicanalisi, «le funzioni della madre e del padre non possono essere abolite da un richiamo generico alla genitorialità che annulli la differenza sostanziale tra funzione materna e funzione paterna, magari riducendo queste funzioni, come accade già, alla definizione anonima di un genitore detto 1 e di un genitore detto 2. Se l’esistenza di un desiderio non-anonimo resta la condizione di fondo per la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, la declinazione materna di questo desiderio è diversa da quella paterna»[14].

Vi è poi il diritto di conoscere le proprie origini biologiche[15], di fatto negato ai bambini nati da maternità surrogata, i quali sono pertanto scientemente privati della possibilità di acquisire informazioni utili non soltanto alla costruzione della propria identità, ma anche sotto il profilo sanitario[16]. Questo loro diritto viene sacrificato – è bene ricordare – per assecondare i desideri di genitorialità degli adulti. Mutatis mutandis, giova considerare che in materia di diritto del nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini, la Cassazione (ord. n. 22497/2021), in linea con la pronuncia delle SS.UU n. 1946/2017[17], ha osservato che «il diritto a conoscere l’identità della madre deve essere contemperato con la persistenza della volontà di questa di rimanere anonima e deve essere esercitato secondo modalità che ne proteggano la dignità, tenendo dunque in considerazione la salute della donna e la sua condizione personale e familiare», precisando che il diritto a conoscere le proprie origini «va tenuto distinto da quello ad accedere alle informazioni sanitarie sulla salute della madre, al fine di accertare la sussistenza di eventuali malattie ereditarie trasmissibili, che può essere esercitato indipendentemente dalla volontà della donna e anche prima della sua morte, purché ne sia garantito l’anonimato erga omnes, anche dunque nei confronti del figlio»[18].

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 278/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della Legge n. 184 del 1993 ove non prevede la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata affinché quest’ultima possa valutare la revoca della dichiarazione[19]. La sentenza della Consulta è successiva alla pronuncia della Corte EDU del 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia), con la quale i giudici di Strasburgo hanno rilevato il contrasto della normativa italiana con l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (tutela del diritto alla vita privata e familiare), per la mancata previsione della reversibilità del segreto della partoriente e per il mancato accesso del figlio alle informazioni sulle proprie origini.

Secondo la Corte EDU, il diritto di conoscere le proprie origini biologiche rientra nella sfera di tutela della vita privata: «l’articolo 8 tutela un diritto all’identità e allo sviluppo personale e quello di allacciare e approfondire relazioni con i propri simili e il mondo esterno. A tale sviluppo contribuiscono la scoperta dei dettagli relativi alla propria identità di essere umano e l’interesse vitale, tutelato dalla Convenzione, a ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità riguardante un aspetto importante dell’identità personale, ad esempio l’identità dei propri genitori». La Corte pone in rilievo l’importanza della nascita, precisando che «la nascita, e in particolare le circostanze di quest’ultima, rientra nella vita privata del bambino, e poi dell’adulto, sancita dall’articolo 8 della Convenzione».

Per comprendere la portata negativa della compressione di questo diritto fondamentale (talvolta necessitato dagli eventi), basta pensare alla sofferenza e ai continui interrogativi che accompagnano spesso la vita delle persone che sono state adottate, anche quando sono state accolte con amore dagli adottanti ed hanno da questi ricevuto tutte le attenzioni necessarie. Prima o poi tutti i figli adottivi arrivano a porsi la domanda: “di chi sono figlio?”. E, ancora: “perché i miei genitori non mi hanno voluto?”. Coloro che hanno vissuto l’esperienza di diventare genitore adottivo conoscono bene la frustrazione che accompagna i bambini e i ragazzi adottati. Talvolta queste domande vengono represse per non far soffrire i genitori adottivi, per timore che possano sentirsi inadeguati; altre volte quegli interrogativi sfociano in rabbia, insoddisfazione, depressione, difficoltà ad instaurare relazioni interpersonali. In ambito sanitario è noto quanto siano importanti le risposte date a queste domande perché incidono sulla costruzione dell’identità.

Ci sono poi coloro che vanno alla ricerca di qualsiasi indizio per poter risalire ai propri genitori, si aggrappano alla speranza di poterli un giorno incontrare: magari razionalmente non sanno neppure spiegare le ragioni di questo desiderio, ma avvertono il bisogno di risalire alle proprie origini per colmare quel vuoto esistenziale che li opprime.

Se per un bambino adottato può essere difficile fare i conti con la propria storia di abbandono, quanto di più potrà esserlo per un bambino nato da maternità surrogata?

Come si può spiegare ad un bambino o ad un adolescente che è stato concepito su commissione e che è stato portato in grembo da una donna da cui è stato separato subito dopo il parto? E se il minore (immaginiamo ormai adolescente) volesse leggere il contratto che è stato stipulato, sarà giusto farglielo leggere? Contratto – è bene ricordarlo – in cui il bambino è oggetto di clausole lesive della dignità umana, clausole peraltro scritte con una terminologia che rendono palese la concezione del minore non come persona ma come bene da scambiare.

Sarà preferibile dire tutta la verità, che per quanto possa essere edulcorata resta pur sempre una verità che può traumatizzare, o sarà preferibile mentire? In altri termini, meglio turbare il minore raccontandogli come è venuto al mondo o meglio farlo vivere nella menzogna?

Nell’ambito delle campagne pubblicitarie a sostegno della gestazione per altri vengono diffusi, in particolare sul web, video dove bambini o adolescenti nati da surrogazione di maternità raccontano della loro vita felice e della sofferenza che provano nel sapere che la maternità surrogata in alcuni Paesi è vietata perché questo li farebbe sentire discriminati. Si tratta di una rappresentazione della realtà molto parziale ed opinabile, evidentemente strumentale, che non tiene conto della sofferenza provata invece da tanti altri bambini e adolescenti che, sapendo di essere il frutto di una pratica lesiva della dignità umana si sono sentite vittime dell’egoismo degli adulti.

Una rappresentazione, quella propinata dai sostenitori della maternità surrogata, volta a distogliere  l’attenzione dal nucleo centrale del tema, ossia il loro intento di sdoganare e far accettare a livello culturale la possibilità di reificazione degli esseri umani.

A tal ultimo proposito, è interessante ricordare quanto riferito dall’attivista francese Olivia Maurel intervenuta alla Conferenza Internazionale per l’Abolizione Universale della Maternità Surrogata che si è tenuta il 5 e il 6 aprile 2024 a Roma presso l’Università LUMSA: la giovane donna trentaduenne, nata da maternità surrogata, ha condiviso la sua esperienza personale allo scopo di richiamare l’attenzione sui limiti etici della maternità surrogata e per mettere in risalto il giro d’affari che si cela dietro questa pratica, un business che, solo nel 2022, valeva quattordici miliardi di euro nel mondo, secondo le stime degli esperti della Dichiarazione di Casablanca. Dal racconto della Maurel è emerso un quadro ben diverso da quello patinato diffuso sui social dai sostenitori della maternità surrogata. La giovane donna – oggi moglie e madre di due bambini – ha raccontato la sofferenza provata nello scoprire che suo padre e sua madre avevano pagato una donna del Kentucky affinché mettesse a disposizione il suo corpo e i suoi ovociti per dare loro un figlio (il suo certificato di nascita fu poi falsificato per consentire ai “genitori d’intenzione” di portarla, appena nata, in Francia); ha raccontato di non essere stata allattata dalla madre e di essere stata posta subito dopo la nascita in una incubatrice; ha parlato del malessere provato fin dall’infanzia, del trauma da sindrome di abbandono, della sua adolescenza difficile e delle dipendenze: sofferenze profonde provate fin da bambina, delle quali ignorava la causa o l’origine, fino a quando ha scoperto come è stata concepita. Una storia comune a quella di tanti altri bambini nati da maternità surrogata, storie che rimangono troppo spesso inascoltate o che vengono celate perché non sono funzionali a quella narrazione che si vorrebbe imporre, volta a diffondere la maternità surrogata e a presentarla come una “pratica altruistica” per farla accettare a livello sociale.

 

  1. L’effettiva tutela dei minori nati da maternità surrogata non può prescindere dalla valutazione della condotta dei committenti: non può ritenersi che corrisponda all’interesse del minore essere cresciuto da chi lo ha considerato alla stregua di un oggetto

 

La Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite[20], ha finora negato la trascrizione in Italia degli atti di nascita relativi a casi di maternità surrogata, per contrarietà all’ordine pubblico internazionale, limite che − ha precisato la Corte − viene posto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri a protezione della sua coerenza interna e che dunque non può essere ridotta ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, dovendo ricomprendere invece anche i principi e i valori fondamentali propri e in quanto tali irrinunciabili per lo Stato.

Con la sentenza n. 24001/2014, per la prima volta, la Cassazione ha osservato che la maternità surrogata si pone in oggettivo contrasto con «la tutela costituzionalmente garantita alla dignità umana della gestante» e che «nel superiore interesse del minore, l’ordinamento giuridico affida la realizzazione di un progetto di genitorialità privo di legame biologico con il nato solo all’istituto dell’adozione – che gode delle garanzie del procedimento giurisdizionale – e non al mero accordo fra le parti».

La questione è senz’altro complessa e necessita la scomposizione delle diverse problematiche giuridiche sottese, al fine di una disamina che tenga conto di tutti gli aspetti necessari ai fini dell’individuazione delle soluzioni più adeguate, sia a livello di disciplina generale, sia con riferimento al singolo caso concreto.

Innanzitutto, va osservato che il divieto di maternità surrogata presente nel nostro ordinamento è funzionale alla tutela dei valori della dignità della gestante e dell’istituto dell’adozione. Ne consegue che, all’esito del bilanciamento a cui è chiamato il giudice, detti valori prevalgono sull’interesse del minore a vedere riconosciuti i rapporti che si sono sviluppati con i soggetti che se ne prendono cura.

A tal proposito, le Sezioni Unite (sent. n. 38162/2022) hanno affermato che il riconoscimento mediante delibazione o trascrizione del provvedimento straniero «finirebbe per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante», aggiungendo che detto automatismo non sarebbe neppure funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, «attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi» (p. 51)

Sotto il profilo della tutela dei diritti del minore, nel rispetto del principio del superiore interesse, le Sezioni Unite hanno poi rilevato che «l’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale».

Sul punto, la Corte costituzionale è intervenuta da ultimo con la sentenza n. 33 del 2021. Nel ribadire che il divieto della maternità surrogata, penalmente sanzionato, costituisce un principio di ordine pubblico posto a tutela dei valori fondamentali, la Consulta ha sottolineato, da una parte, l’urgenza di un intervento legislativo e, dall’altra, che il superiore interesse dei minori coinvolti sia sempre salvaguardato.

Si legge nella sentenza: «Gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore; scopo di cui si fanno carico le sezioni unite civili della Corte di Cassazione, allorché negano la trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti».

In dottrina e in giurisprudenza, vi è la tendenza ad affrontare la questione della tutela dei bambini nati da maternità surrogata, anche laddove si condivida la condanna di questa pratica, muovendo dal presupposto che corrisponda all’interesse del minore conservare i legami familiari instaurati con coloro che ne hanno commissionato il concepimento. Da questa limitata prospettiva, la questione viene ridotta al problema di individuare lo strumento giuridico volto a riconoscere la filiazione e dunque a “sanare” di fatto la violazione del divieto di maternità surrogata di cui all’art. 6 della legge 40/2004.

Detto in altri termini, si parte dal presupposto che per il minore, in linea generale, sia preferibile rimanere presso coloro che lo hanno ottenuto tramite la maternità surrogata piuttosto che essere allontanato da quella che è diventata la sua famiglia.

Tuttavia, a ben vedere, questo ragionamento sembra non tenere conto di alcuni fondamentali aspetti della questione.

In particolare, come si è già osservato sopra, non tiene conto della circostanza che i committenti hanno posto in essere una condotta illecita pur di avere un bambino; hanno favorito, con la loro richiesta, la diffusione di una pratica che − per ricordare le parole della Corte costituzionale − «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane».

Nel caso in cui uno dei due committenti abbia dato il proprio apporto biologico (es. lo sperma o l’ovulo) vi è inoltre la tendenza a concentrarsi unicamente sulla ricerca delle soluzioni giuridiche per garantire il legame del minore con il genitore d’intenzione, dando per scontato che la relazione giuridica fra il genitore biologico e il bambino non richieda alcuna riflessione, quando invece anche il genitore biologico ha posto in essere una condotta meritevole di essere valutata (in quanto anch’egli ha aderito ad una pratica lesiva della dignità umana).

La piena tutela del minore esige una completa disamina della situazione, che tenga conto altresì delle modalità del concepimento e del tipo di disegno “genitoriale” condiviso dalla coppia (o perseguito dal singolo)[21].

Muovendo da questa prospettiva, al fine di salvaguardare l’equilibrato sviluppo psicofisico del minore, la questione andrebbe pertanto affrontata in maniera diversa. Il problema non sta nell’individuare lo strumento giuridico volto ad assicurare il mantenimento del legame dei bambini con i genitori d’intenzione, quanto piuttosto nel salvaguardare il futuro di bambini che già sono stati vittime di mercificazione prima ancora di essere concepiti.

Come è possibile pensare che corrisponda all’interesse di un bambino rimanere affidato a persone che volontariamente lo hanno privato delle proprie radici, condannandolo ad avere un vuoto identitario?

Siamo davvero sicuri che per il minore non sia forse meglio essere allontanato da persone che hanno dimostrato un tale disvalore per la dignità umana ed essere magari affidato alle cure di genitori affidatari o adottivi rispettosi delle procedure previste a tutela dei minori?

Del resto, quando un nucleo familiare manifesta delle criticità tali da far sorgere timori per il sano ed equilibrato sviluppo dei minori coinvolti, lo Stato ha il dovere di intervenire, anche allontanando i minori dalla propria famiglia o sospendendo gli incontri genitore/figlio[22], in attesa di operare il necessario monitoraggio del nucleo.

Questa opzione non risulta essere stata finora contemplata in via sistematica dalla magistratura nei casi di bambini nati da maternità surrogata, in quanto, muovendo dallo stereotipato presupposto che il superiore interesse del minore coincida con la sua permanenza nel nucleo familiare con cui è arrivato in Italia, in giurisprudenza (e anche in dottrina) ci si è per lo più concentrati sull’individuare possibili strumenti giuridici volti a riconoscere la genitorialità dei “genitori d’intenzione”.

Nel dibattito sull’argomento, è invece mancata − o è stata comunque molto blanda − una riflessione sui possibili pregiudizi che il minore può patire, proprio in ragione della permanenza presso quel nucleo.

Tra l’altro, la previsione della messa in sicurezza del minore con il suo allontanamento da coloro che lo hanno acquistato per surrogazione, oltre ad essere coerente con la normativa nazionale ed essere ampiamente giustificata dal dovere dello Stato di tutelare i minori da possibili pregiudizi, potrebbe altresì produrre l’effetto di disincentivare il ricorso alla pratica.

Attualmente, infatti, come noto, malgrado il divieto posto dalla legge, ci sono persone che continuano a stipulare all’estero contratti di maternità surrogata perché hanno la certezza che una volta tornati in Italia potranno comunque tenere i bambini.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 33/2021, ha sottolineato l’urgenza di un intervento legislativo volto ad «adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori», fermo restando, come precisato dalla Corte, che al legislatore «deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco».

Ebbene, seguendo la strada indicata dalla Consulta, il legislatore dovrà tenere conto di tutti gli aspetti relativi alla maternità surrogata e quindi anche delle violazioni dei diritti fondamentali dei minori che attraverso questa pratica vengono perpetrate.

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

 

[1] Cfr. art. 24 par. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000: «in tutti gli atti relativi ai bambini … l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente».

[2] Sul tema, C.M. Bianca, La riforma della filiazione, Padova, 2015.

[3] Per approfondimenti, fra i tanti, si veda: M. Bianca (a cura di), The best interest of the child, Roma, Sapienza Università Editrice, 2021; M. Sesta, La prospettiva paidocentrica quale fil rouge dell’attuale disciplina giuridica della famiglia, in Fam. dir., 7, 2021, pp. 763-775; V. Scalisi, Il superiore interesse del minore, ovvero il fatto come diritto, in Riv. dir. civ., 2, 2018, pp. 405-434; L. Lenti, L’interesse del minore nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: espansione e trasformismo, in Nuova giur. civ. comm., 2016, vol. 32, n. 1/2016, pp. 148-158.

[4] A tal proposito la Cassazione (cfr. Cass. sent. n. 9691 del 24 marzo 2022) ha affermato che il diritto alla bigenitorialità è sempre subordinato a quello del benessere del minorenne: quando ad esempio, emergono comportamenti di un genitore che potrebbero interpretarsi come tentativi di allontanare moralmente o materialmente il minore dall’altro genitore, è essenziale che il giudice conduca un’approfondita indagine sulla situazione familiare, all’esito della quale ben potrebbe ritenere corrispondente all’interesse del minore  limitare nella sua vita la presenza del genitore che ha tenuto una condotta pregiudizievole, adottando i relativi provvedimenti.

[5] Si veda, fra i tanti, E. Bilotti, Dignità della persona e interesse del minore nel dibattito sul riconoscimento della genitorialità d’intenzione in caso di nascita da madre surrogata, in G. Passagnoli, F. Addis, G. Capaldo, A. Rizzi, S. Orlando (a cura di), Liber amicorum per Giuseppe Vettori, Firenze, 2022; G. Luccioli, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso, 28 ottobre 2022, in https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/129-minori-e-famiglia/2508-la-maternita-surrogata-di-nuovo-all-esame-delle-sezioni-unite-le-ragioni-del-dissenso; Id., La maternità surrogata e l’interesse del minore, in M. Bianca (a cura di), The best interest of the child,  Roma, Sapienza Università Editrice, 2021, pp. 69-84; V. Calderai, Scritto sul corpo. Genealogia della surrogazione di maternità, in Giur. it., 2021, p. 1527 ss.; D. Danna, Fare un figlio per altri è giusto. Falso!, Laterza, Bari-Roma, 2017; L. Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, Brescia, 2016; S. Agacinski, Corps en miettes, Parigi, Edition Flammarion, 2013.

[6] Cfr. M. Bianca, La tanto attesa decisione delle Sezioni Unite. Ordine pubblico versus superiore interesse del minore?, in Familia, 2019, p. 382 ss.

[7] Per consultare il testo della mozione: https://bioetica.governo.it/it/documenti/mozioni/maternita-surrogata-a-titolo-oneroso/.

[8] Come è stato efficacemente osservato in dottrina, «l’esperienza insegna che una surrogazione gratuita allo stato puro è estranea alla realtà. Se già è rarissima una vera e propria donazione di ovociti, perché per donare un ovocita una donna deve sottoporsi a stimolazione ovarica, con quanto ne consegue per la salute, a maggior ragione è praticamente inesistente l’oblazione di tutta sé stessa per nove mesi. Nella prassi, infatti, nei paesi che ammettono o tollerano la surrogazione purché gratuita sono convenuti rimborsi spese palesemente sproporzionati per eccesso rispetto alle spese, che dissimulano un vero e proprio corrispettivo. Nulla poi può impedire che sotto le mentite spoglie di una donazione isolata dai committenti alla “gestatrice” si nasconda un corrispettivo», cfr. A. Renda, Ancora sulla surrogazione di maternità. Ragioni del divieto e tecniche di tutela del nato, in Europa e diritto privato, 2/2023, p. 295. Lo stesso Autore, nell’osservare che la gratuità sembra piuttosto «solo un modo scaltro di posizionarsi nell’atlante del mercato mondiale dei servizi riproduttivi», ricorda che in Canada, dove formalmente la maternità surrogata è gratuita, le donne che prestano il proprio corpo per portare avanti una gravidanza per terzi ricevono circa trentamila dollari a titolo di “rimborso spese”, mentre, sempre a titolo di “rimborso spese”, le donne che cedono i propri ovociti ricevono tra i cinquemila e i quindicimila euro.

[9] L’illegittimità della maternità surrogata, a prescindere dal fatto che sia o meno  gratuita, è stata affermata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione, cfr. Cass. SS.UU. sentenza n. 38162 del 30 dicembre 2022: il legislatore italiano «nel disapprovare ogni forma di maternità surrogata, ha inteso tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito». Per approfondimenti, si veda A. Morace Pinelli, La maternità surrogata lede sempre la dignità della donna. Le ragioni di un divieto che non confligge con la tutela del nato dalla pratica illecita, in Dir. fam. e delle pers., 3, 2023, pp. 1258-1285; V. Calderai, Ordine pubblico internazionale e Drittwirkung dei diritti dell’infanzia, in Riv. dir. civ., 2022, p. 479 ss.

[10] In dottrina, fra le molteplici ragioni a sostegno del divieto di maternità surrogata, è stato altresì osservato che questa pratica si pone in “concorrenza sleale” con l’adozione interna ed internazionale: «se l’ordinamento già conosce un istituto volto ad allacciare una genitorialità sociale, circondandolo di garanzie giurisdizionali nell’interesse del minore, perché si dovrebbe consentire per saltum un’adozione puramente privata tramite accordo di surrogazione di maternità, senza alcuna garanzia di idoneità educativa dei committenti?», Cfr. A. Renda, Ancora sulla surrogazione di maternità. Ragioni del divieto e tecniche di tutela del nato, cit.; Id., La surrogazione di maternità tra principi costituzionali ed interesse del minore, in Corr. Giur., 2015, vol. XXXII, pp. 474-488; C. Benanti, La maternità è della donna che ha partorito: contrarietà all’ordine pubblico della surrogazione di maternità e conseguente adottabilità del minore, in Nuova giur. civ. comm., 2015, vol. XXI, fasc. 3, pp. 241-249. L’argomento è stato affrontato anche dalla Cassazione, cfr. Cass. n. 24001/2014.

[11] A tal proposito sono interessanti le riflessioni che si trovano in P. Donati, Il diritto di famiglia come diritto relazionale, in Dir. Fam. e delle Pers., 4, 2022, pp. 1652-1681 e spec. pp. 1670-1673, ove, in merito alla pretesa di vedersi riconosciuto il “diritto al figlio”, l’A. osserva che «la libertà di autodeterminazione, intesa come libertà dalle costrizioni esterne, si traduce in assenza di legami e liberazione da ogni forma di condizionamento fattuale e relazionale, ed esprime l’immagine della persona umana come un individuo astratto che intende essere padrone di sé stesso […] Di fatto il puro moltiplicarsi dei diritti non avvicina alla meta desiderata ma, al contrario, può far naufragare l’intero viaggio, nel senso che la moltiplicazione delle norme che definiscono i diritti non riduce, ma di fatto aumenta i rischi di violazione degli stessi […] si sta diffondendo una nuova minaccia per i diritti delle persone: “la negazione dei loro diritti in nome dei diritti stessi”, cioè nuovi abusi» (pp. 1672-1673).

[12] Occorre quindi rispondere all’ulteriore quesito se assuma o meno rilievo la condotta dei “genitori d’intenzione”  – vale a dire l’atto di commissionare un bambino per soddisfare il proprio desiderio di genitorialità – e se debba essere necessariamente valutata dall’autorità giudiziaria, al fine di garantire ai minori una tutela piena ed effettiva.

[13] Cfr. Corte cost. sent. n. 272/2017 e n. 33/2021.

[14] Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Milano, 2015, p. 75.

[15] A tal proposito è utile ricordare che in genere, al fine di ostacolare eventuali rivendicazioni dei bambini da parte delle donne che hanno partorito, viene consigliato ai committenti di non usare gli ovuli della donna che porterà avanti la gravidanza, ma di impiantare nel suo corpo ovuli di un’altra donna.

[16] Deve a tal proposito osservarsi che la pratica di GPA può comportare l’uso di materiale biologico appartenente a più persone diverse, alcune delle quali possono anche decidere di restare anonime. Si pensi, ad esempio, ai “donatori” di sperma.

[17] Cass. SS.UU., 25 gennaio 2017, n. 1946, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 1041 ss., con commento di S. Stefanelli, Anonimato materno e genitorialità dopo Cass., sez. un., n. 1946 del 2017; in Corr. giur., 2017, p. 624 ss., con commento di M.N. Bugetti, Sul difficile equilibrio tra anonimato materno e diritto alla conoscenza delle proprie origini: l’intervento delle Sezioni Unite; in Minorigiustizia, 2017, p. 151 ss., con commento di A. Arecchia, E. Rosati, M. Rossi, Diritto alle origini e identità: una chiave di lettura da parte dei figli adottivi non riconosciuti alla nascita; in Eur. dir. priv., 2017, p. 901 ss., con commento di F. Gigliotti, Parto anonimo e accesso alle informazioni identitarie (tra soluzioni praticate e prospettive di riforma); in Fam. dir., 2017, p. 748 ss., con commento di P. Di Marzio, Parto anonimo e diritto alla conoscenza delle origini. Si veda anche Cass. ord. n. 3004 del 7 febbraio 2018.

[18] Cfr. Cass. ord. n. 22497 del 9 agosto 2021, in Giust. civ. Mass., 2021.

[19] Per approfondimenti sul tema, si veda, fra i tanti: S. Cacace, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e la volontà della madre di non essere nominata, in Osservatorio costituzionale, 3, 2022, pp. 1-9; A. Morace Pinelli, Il diritto di conoscere le proprie origini e i recenti interventi della Corte costituzionale. Il caso dell’ospedale Sandro Pertini, in Riv. dir. civ., 2016, p. 242 ss.; Id., Il diritto alla conoscenza delle proprie origini, in M. Bianca (a cura di), The best interest of the child, Roma, 2021, p.

1011-1034; S. Stefanelli, Reversibilità del segreto della partoriente e accertamento della filiazione, in Giur. Cost., 2013, p. 4031 ss.; A. Nicolussi, A. Renda, Fecondazione eterologa: il pendolo fra Corte costituzionale e Corte EDU, in Eur. dir. priv., 2013, p. 212 ss.

[20] Cfr. Cass. SS.UU. civili, sent. n. 12193/2019; Cass. SS.UU. civili sent. n. 38162/2022.

[21] Per approfondimenti sul tema, si veda A. Morace Pinelli, Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata ed il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, in Fam. e dir., 2022, p. 1175 ss.; E. Bilotti, La tutela dei nati a seguito di violazione dei divieti previsti dalla L. n. 40/2004. Il compito del legislatore dopo il giudizio della Corte costituzionale, in Nuova giur. civ., 2021, p. 923 ss.; A. Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, in Eur. Dir. priv., 2019, p. 713 ss.

[22] Sul punto, si veda la recentissima ordinanza della Corte di Cassazione n. 21969 pubblicata il 5 agosto 2024 in tema di interruzione legittima dei rapporti del genitore con il figlio minore in affidamento familiare. Si legge nell’ordinanza: «in base ai principi sanciti dalla Convenzione di New York  del 20 novembre 1989, ratificata con legge n. 176 del 1991, la circostanza che un figlio minore divenuto ormai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o addirittura di ripulsa […] costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri del minore stesso ed il coniuge non affidatario […]  Tale sospensione può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio e indipendentemente anche della fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa». La Cassazione – per quanto interessa in questa sede − ha dunque ribadito che la sospensione dei rapporti genitori/figli può essere disposta dall’autorità giudiziaria al fine di dare compiuta attuazione al principio del superiore interesse del minore. Nelle ipotesi di maternità surrogata, pertanto, il giudice ben potrebbe disporre l’allontanamento dei bambini da coloro che ne hanno commissionato la nascita (anche nel caso in cui uno dei due sia genitore biologico), dando il giusto peso alla gravissima condotta di coloro che reclamano di essere riconosciuti come genitori ma che ab inizio hanno fondato il progetto di genitorialità sull’idea che un bambino possa essere acquistato per soddisfare un proprio desiderio o colmare un proprio vuoto esistenziale.