Sabrina Vannuccini
Dottore di ricerca in Diritto internazionale e dell’Unione Europea
Università degli Studi di Firenze

 

Sommario: 1. «Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello» – 2. Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans. Nati nel “regno delle malattie inguaribili”: sinossi sinottica delle vicende mediche – 3. (Segue) Nati nel “regno del diritto senza etica”: sinossi delle vicende giudiziarie – 4. Dall’accanimento terapeutico all’accanimento tanatologico: genesi in pillole e implicazioni clinico-deontologiche della “deriva eutanasica” – 5. Dal “diritto alla vita” al “dovere della morte”: genesi in pillole e implicazioni etico-giuridiche dell’amoralità del diritto – 6. «La vita è la vita, difendila».

 

 

«Se si apre a questa cultura non c’è più modo di fermarsi […]
sono passati ai bambini. Anche senza il consenso dei genitori.
È l’implacabile forza di gravità degli abissi».
(Wesley J. Smith)

 

  1. «Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello»

 

L’essenza originaria della consistenza antropologica di ciascun individuo è sfidata, con ininterrotta continuità e irriducibile drammaticità, dal duello in termini esistenziali e, parimenti, in termini etici tra due “personaggi”: morte e Vita (male e Bene, menzogna e Verità, tenebra e Luce, e similari immagini dicotomiche riflettenti l’esistenza umana nella sua quotidiana ordinarietà), di cui lo stico «Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello» (traduzione dalla locuzione latina mors et vita duello conflixere mirando) della Sequenza pasquale è un simbolico epitome.

Nel crogiuolo di umanità e di esperienze segnanti l’effettiva vicenda di ogni persona nella sua connotazione storica e spazio-temporale, unitamente a quanto di più profondo vi s’intreccia, non esprimere preferenza per il “trionfo della Vita” equivale ad assumere una posizione di quantomeno innaturale convincimento.

Eppure, l’ideologia mortale (o “cultura della morte”), che si va subdolamente imponendo, sembra aver gradualmente eroso la consapevolezza che l’individuo è dotato di un valore ontologico incondizionato, che ogni esistenza umana costituisce un bene intangibile, ha una preziosità incommensurabile e possiede eguale dignità, e che il dovere di garantire il diritto alla vita di ogni persona è un principio etico universale.

La visione della morte che cerca di soppiantare la Vita, nel suo farsi strada come tirannia imposta per protocollo medico, per sentenza o per legge, e dissimulata come bene giuridico che lo Stato sarebbe tenuto a garantire in determinate situazioni di ritenuta insufficiente qualità dell’esistenza umana, è progredita di grado divenendo oggettivamente e gravemente realistica, qualificandosi come autentico dogma nelle sembianze di un’etica arbitraria creata dal potere statuale: lo Stato arbitro di decidere la “questione ultima” della vita dell’uomo.

Una deleteria deriva antropologica antiumana, secondo la quale medici e giudici (e non solo) si ergono a detentori di una rievocata vitae necisque potestas di romanica memoria[1], canoni medici e giudiziari (e non solo) decretano la prassi da adottare – ossia l’interruzione dei sostegni vitali irrinunciabili, cui è aggiunto il disconoscimento della contraria volontà genitoriale che trova la propria radice nell’esproprio della potestà genitoriale – affinché esistenze segnate temporalmente siano terminate.

È quanto accaduto in breve tempo a tre piccoli pazienti inglesi, Charlie Gard (11 mesi), Isaiah Haastrup (12 mesi) e Alfie Evans (23 mesi), le cui famiglie hanno sperimentato il dramma dell’insostenibile convivenza tra ordinamento giuridico nazionale (britannico), nonché ordinamento giuridico sovranazionale (europeo), e forme con essi divergenti di visioni giuridico-morali, così come dello sviluppo applicativo di una “nuova” deontologia medica e di un “nuovo” senso di responsabilità etica che si sono posti a detrimento del fondamentale diritto alla vita. Un dramma in cui si riconosce una forte impronta moralizzatrice, intensificato dalla contesa giuridica che ha opposto i genitori, sostanzialmente deprivati del diritto primario di avere cura dei propri figli, ai medici dei rispettivi ospedali nei quali questi ultimi sono stati ricoverati, e dall’infausto epilogo che ne è conseguito.

Ricusando la dignità inalienabile e irriducibile dell’esistenza di ogni essere umano in qualsivoglia contingenza esso venga a trovarsi e quali che siano le menomazioni/infermità che possano colpirlo, emblematicamente l’attuale tempo di ermetica ostilità nei riguardi della Vita, in primo luogo dei soggetti più piccoli, si sta rivelando per nulla incline a voler penetrare l’intima essenza di un bellissimo verso di Friedrich Hölderlin – «il più lo può la nascita e il raggio di luce, che al neonato va incontro» –, cosa si celi dietro quel “più” che «la nascita e il raggio di luce» hanno il potere di introdurre nel mondo: la Vita, appunto, nel suo continuo generarsi, il cui mistero sfugge a ogni calcolo, supera ogni umana previsione e richiede, anzitutto, uno sguardo di umiltà.

 

  1. Charlie Gard, Isaiah Haastrup e Alfie Evans. Nati nel “regno delle malattie inguaribili”: sinossi sinottica delle vicende mediche

 

Charlie Gard

È nato il 4 agosto 2016 nel Regno Unito da Constance Yates e Christopher Gard. È affetto da una malattia genetica germinale estremamente rara[2], una forma grave di sindrome da deplezione del DNA mitocondriale (MDS) – classificata come MDS encefalomiopatica, in quanto intacca il funzionamento di vari organi e apparati che presiedono alle funzioni vitali provocandone il progressivo e inarrestabile deterioramento[3]–, per fermare la quale non esistono, a oggi, terapie risolutive documentate e validate.

Nell’ottobre 2016, si sono manifestate evidenti difficoltà respiratorie e Charlie è stato ricoverato al Greet Ormond Street Hospital (GOSH) di Londra, dove è stato supportato da ventilazione meccanica. Poiché le terapie tentate non hanno dato beneficio, i medici del nosocomio inglese sono stati concordi nel sostenere che per il bambino non sussistesse alcuna possibilità di progresso delle sue condizioni già particolarmente compromesse e che, al contrario, la malattia si sarebbe inesorabilmente aggravata, generando ulteriori dolori e sofferenze.

Nel gennaio 2017, prima di arrendersi al sopraggiungere del fatale esito, i genitori di Charlie hanno dato avvio a una campagna di raccolta fondi (crowdfunding)[4] per portare il figlio negli Stati Uniti, in un centro di riconosciuta competenza scientifica ed esperienza clinica nel trattamento delle malattie mitocondriali, al fine di sottoporlo a una terapia sperimentale della quale erano venuti a conoscenza[5].

Nondimeno, il 3 marzo 2017, i medici hanno deciso di «staccare la spina»[6]. Secondo la loro valutazione, il viaggio e il prolungarsi del supporto vitale avrebbero soltanto causato altri peggioramenti, senza portare a realistiche possibilità di raggiungere un miglioramento della situazione clinica[7].

Isaiah Haastrup

È nato il 18 febbraio 2017 nel Regno Unito da Takesha Thomas e Lanre Haastrup. È affetto da una rilevante disabilità cerebrale, a seguito di una prolungata anossia nel cervello durante un parto drammatico, che non permette di muoversi e di respirare in modo fisiologico.

Reputando inesistenti le speranze di miglioramento in ragione dell’asserita assenza di reazioni durante il ciclo sonno-veglia, nonché del livello di coscienza profondamente compromesso unitamente a cecità, sordità e distonia, i medici del King’s College Hospital di Londra, dove il piccolo è stato ricoverato, hanno deciso di spegnere il respiratore cui è stato collegato.

Siffatta determinazione è stata contestata dai genitori di Isaiah a motivo non soltanto dei constatati, seppure lenti, suoi cenni di risposta ai loro stimoli, ma altresì per la scarsa fiducia nutrita nei riguardi della sanità pubblica inglese, scaturita alla sua nascita. La grave paralisi cerebrale che l’ha colpito sarebbe stata originata, com’è risultato da un’indagine interna, da un errore dei medici dell’ospedale che, al momento del parto, nonostante il suo battito cardiaco stesse diminuendo, non avrebbero proceduto al cesareo se non dopo il trascorrere di quaranta minuti, mettendo a rischio anche la vita della madre[8].

Nondimeno, la richiesta dei coniugi Haastrup di non scollegare il respiratore e di ridurre il cocktail di farmaci sedativi – che, a loro avviso, avrebbero impedito al figlio di sviluppare abilità mantenendolo in uno stato di incoscienza e di completa dipendenza da un ventilatore per respirare – non è stata ascoltata e, nel gennaio 2018, la decisione dei medici circa la non prosecuzione dei sostegni vitali (ritenuti inutili) è entrata nella fase operativa.

Alfie Evans

È nato il 9 maggio 2016 nel Regno Unito da Kate James e Tom Evans. È affetto da una rara patologia neurodegenerativa di probabile origine genetica, non ascrivibile precisamente a nessuna malattia sinora descritta nella letteratura medica e, pertanto, non contrastabile con le conoscenze diagnostiche e terapeutiche a disposizione.

A poche settimane dalla nascita, il piccolo ha manifestato i primi problemi ed è stato ricoverato all’Alder Hey Children’s Hospital (AHCH) di Liverpool per un’infezione toracica. Le sopraggiunte gravi crisi epilettiche hanno reso necessaria la respirazione artificiale e i medici, ignari del perché di quella sintomatologia, hanno iniziato a trattarlo con dosi massicce di farmaci. Alfie è entrato in stato comatoso.

A fine dicembre 2016, le sue condizioni sono drasticamente peggiorate, al punto da indurre i medici a sostenere che al bimbino restassero soltanto alcune ore di vita. Sebbene nella notte del 31 dicembre avesse cominciato a mostrare segni di miglioramento, i medici hanno chiesto comunque ai genitori di Alfie di valutare la possibilità di interrompere il supporto ventilatorio, ottenendo la loro ferma opposizione.

Con il trascorrere delle settimane, contro ogni aspettativa del team medico, la situazione clinica è sensibilmente migliorata: pur registrandosi uno stato alquanto compromesso, da una fase di profondo stato di incoscienza, il piccolo è passato a una fase di visibile reazione agli stimoli, di movimenti e di emissioni di suoni in modo indipendente, respirando con un tubicino attaccato al naso.

Nondimeno, i medici non sono riusciti a individuare l’esatta patologia sofferta da Alfie, non sono arrivati a una diagnosi clinica che desse certezza sulle cause di tale patologia e, pertanto, non è stata razionalmente prospettata alcuna opzione terapeutica disponibile in grado di arrestarne o invertirne il decorso[9], pervenendo alla conclusione che il bambino si stesse avviando verso un processo di progressiva e, molto probabilmente, fatale neurodegenerazione – senza sapere, però, quali fossero le sue reali aspettative di vita – e, nel dicembre 2017, alla conseguente decisione di rimuovere i sostegni vitali[10].

 

3. (Segue) Nati nel “regno del diritto senza etica”: sinossi delle vicende giudiziarie

 

Charlie Gard

L’11 aprile 2017, l’Alta Corte britannica ha accolto le ragioni dei medici del GOSH – «the clinical consensus was that his quality of life was so poor that he should not be subject to long term ventilation», «Charlie’s life is therefore limited both in quality and quantity […] it could be argued that Charlie would derive no benefit from continued life»[11] –, stabilendo che non fosse nel «migliore interesse» del piccolo essere portato negli Stati Uniti per essere sottoposto alla c.d. «terapia di bypass nucleosidico» in quanto «it is putting it far too high to say that there is an available treatment with potential materially to improve Charlie’s quality of life»[12], mentre invece lo sarebbe stato sospendere la ventilazione artificiale[13] contro il volere degli stessi genitori[14], valutando che «Charlie’s current quality of life is not one that should be sustained without hope of improvement»[15].

Il 23 maggio 2017, la Corte d’Appello britannica è stata chiamata a esprimersi su un argomento giuridico sviluppato dai ricorrenti, rappresentante un punto di vista completamente nuovo: la possibilità di utilizzare il «significant harm test» in luogo del principio del «best interest of the child»[16]. Tuttavia, la ricostruzione offerta non è stata accolta perché «the proposal for nucleoside therapy was not a viable option before the court»[17], ritenendo inesistenti le prospettive di successo del trattamento sperimentale proposto in America. La Corte d’Appello britannica ha così confermato la sentenza dell’Alta Corte britannica – «there really was only one course for young Charlie, and that was for his life to be brought to a close as a result of the orders that the court made»[18] –reputando non sussistere ragione alcuna per dissentirvi[19].

L’8 giugno 2017, anche la Corte Suprema britannica ha confermato la sentenza dell’Alta Corte britannica, ribadendo che il requisito del «significant harm» non avrebbe potuto applicarsi nel contesto sanitario e che, comunque, il bambino avrebbe subito un danno significativo se la sua (presunta) sofferenza fosse stata prolungata senza alcuna realistica prospettiva di miglioramento. Pertanto, il ricorso dei genitori di Charlie avverso la pronuncia della Corte d’Appello è stato rigettato, consentendo ai medici di interrompere la sua vita prima del decorso naturale della patologia[20].

Il 27 giugno 2017, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte europea) ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai coniugi Gard, argomentando che le autorità mediche e giudiziarie britanniche avessero ragione nel constatare che il «best interest of the child» fosse quello di morire (per asfissia)[21] e che, conseguentemente, costoro stessero dimostrando un’«ostinazione irragionevole» verso il proprio figlio nel tentare di farlo vivere[22]. Non solo: essa ha supposto che, nonostante la sua incapacità naturale, Charlie avesse tuttavia una “volontà” propria – di morire (per asfissia) – e che questa fosse stata “correttamente” espressa attraverso la determinazione putativa del suo guardian, figura assimilabile al tutore per i minori e interlocutore pressoché esclusivo dei giudici[23].

Inoltre, per quanto attiene specificamente alla lamentata inosservanza del diritto alla vita di cui all’art. 2 (Diritto alla vita) della Convenzione europea, i giudici di Strasburgo – com’è accaduto in occasione della sentenza del 5 giugno 2015 sull’affaire Vincent Lambert[24] – si sono nuovamente rifugiati dietro la constatazione dell’assenza di consensus in Europa in materia di c.d. “fine vita”, così da concedere al Regno Unito un ampio margine di apprezzamento quanto alla regolamentazione dell’accesso ai trattamenti sperimentali e, più in generale, alla protezione della vita delle persone malate[25], limitandosi a sottolineare l’importanza di un valido processo decisionale nazionale in cui tutti gli argomenti espressi siano stati presi in considerazione. Riducendo il principio del “child’s best interest” a un requisito meramente formale, la Corte europea ha attestato: i) l’assenza di un diritto al trattamento sperimentale deducibile dal diritto alla vita[26]; ii) la necessità dell’interferenza nel diritto alla vita privata e familiare dei genitori[27].

Un precedente, questo, segnante l’accoglimento di “nuovi” principi: i) il decesso di un bambino è deciso a causa del suo stato di salute, senza riguardo alcuno per la volontà e il discernimento dei genitori (i quali, con riferimento alla specifica vicenda, hanno perso in definitiva la potestà genitoriale)[28]; ii) una “vita di qualità” è l’unica che valga la pena difendere e della quale prendersi cura[29]; iii) se la vita sia meritevole di proseguire o se, per contro, debba essere abbreviata sono dei “tecnici” (scilicet, autorità mediche e giudiziarie) a determinarlo[30].

Il 24 luglio 2017, su richiesta del GOSH, l’Alta Corte britannica ha confermato l’autorizzazione a sospendere i sostegni vitali, ribadendo che «Charlie is beyond any help even from experimental treatment and […] it is in his best interests for him to be allowed to die»[31].

Il 28 luglio 2017, Charlie è morto (per asfissia), dodici minuti dopo il distacco dal respiratore, a una settimana dal suo primo compleanno.

Isaiah Haastrup

Il 29 gennaio 2018, la decisione del team medico del King’s College Hospital di privare il piccolo paziente del supporto ventilatorio così da lasciarlo morire (per asfissia), è stata suffragata dall’Alta Corte britannica: «having as I must Isaiah’s best interests as my paramount consideration – ha asserito il giudice MacDonald –, I am entirely satisfied that it is no longer in Isaiah’s best interests to receive life sustaining treatment»[32]. Il «migliore interesse» di Isaiah è stato identificato nella morte[33].

Come già accaduto ai coniugi Gard, anche i coniugi Haastrup sono stati totalmente estromessi dal processo decisionale (di c.d. “fine vita”) interessante il proprio figlio, in quanto la loro visione riguardo le sue condizioni cliniche e la prognosi e, in particolare, le loro dichiarazioni sul suo livello di responsività, profondamente diverse da quelle dei medici, sono state considerate “inattendibili”[34]. Evidente risultato della rottura del rapporto medico-paziente, nonché dell’invasione dello Stato nella vita familiare[35].

Il 31 gennaio 2018, l’Alta Corte britannica «having refused the father permission to appeal, [was] prepared to grant the father a short stay until 2pm on Friday 2 February 2018 to permit the father time to make an urgent application for permission to appeal to the Court of Appeal»[36]. Anche la Corte d’Appello ha confermato la decisione medica, ossia che fosse nell’interesse superiore del bambino non il mantenimento dei sostegni vitali ma la morte, reputando che i suoi genitori avessero lanciato una sfida fondata non sulla realtà ma sulla speranza e che, pertanto, non vi fossero le basi per capovolgere quanto sentenziato dal giudice MacDonald.

Il 26 febbraio 2018, il padre di Isaiah ha presentato alla Corte europea una domanda di applicazione di misure provvisorie, ai sensi dell’art. 39 (Misure provvisorie) del Regolamento della stessa Corte europea, «to prevent the hospital withdrawing ventilation from his son», che è stata respinta nel medesimo giorno.

Il 6 marzo 2018, la Corte europea ha dichiarato inammissibile il ricorso del padre di Isaiah chiedente il ribaltamento del verdetto dell’Alta Corte britannica secondo cui la ventilazione assistita e gli altri supporti fisiologici vitali avrebbero dovuto essere sospesi, «finding that there was not appearance of a violation of the rights and freedoms set out in the European Convention on Human Rights»[37]. Pertanto, anche ad avviso dei giudici strasburghesi, applicare un protocollo eutanasico prevedente il decesso del bambino, in quanto affetto da gravi disabilità, tramite l’interruzione dei presidi di sostentamento vitale non avrebbe configurato una violazione dei diritti e delle libertà fondamentali[38].

Il 7 marzo 2018, Isaiah è morto dopo una lunga agonia, ovvero dopo essere stato in grado – smentendo i medici – di respirare autonomamente per circa otto ore consecutive dal distacco dal respiratore artificiale.

Alfie Evans

Il 20 febbraio 2018, il verdetto dell’Alta Corte britannica si è espresso in favore della determinazione dell’équipe medica dell’AHCH di rimuovere la ventilazione meccanica e gli altri sostegni vitali al piccolo paziente, stabilendo/imponendo per via giudiziaria il confine tra la vita e la morte, senza fornire tuttavia la spiegazione delle motivazioni giustificanti una simile decisione, se non l’abusato riferimento a «the lode star which guides the Court’s approach i.e. the best interests of the child»[39].

Il 6 marzo 2018, la Corte d’Appello britannica è pervenuta al medesimo esito, negando la possibilità di un’udienza in appello ai coniugi Evans[40], i quali hanno ribadito, tra l’altro, come il loro figlio avesse diritto a una diagnosi accurata essendosi l’AHCH rifiutato di indagare sulla sua patologia, e come l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (OPBG) di Roma avesse offerto la propria disponibilità ad accoglierlo per prendersene cura e garantirne l’accompagnamento verso la morte naturale.

Il 20 marzo 2018, anche la Corte Suprema britannica ha respinto la possibilità di un ulteriore appello poiché, analogamente a quanto dichiarato nei riguardi di Charlie, non sarebbe stato sollevato «an arguable point of law of general public importance», a voler dire che il potenziale decesso di Alfie per soffocamento, disidratazione e denutrizione a causa della decisione giudiziaria autorizzante l’arresto dei mezzi di supporto vitale non sarebbe stato di «general public importance»[41].

Il 28 marzo 2018, riproponendo il paradigma adottato nel “caso” di Charlie, l’adita Corte europea ha adottato un atteggiamento di self-restraint – basandosi sul considerevole margine di apprezzamento che gli Stati parti hanno nella sfera dell’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni morali ed etiche – e ha rigettato il ricorso presentato dai genitori di Alfie, non avendo acclarato alcuna inosservanza dei diritti e delle libertà convenzionalmente sanciti. Decidendo nuovamente di non decidere, i giudici strasburghesi hanno premiato ancora la libertà valutativa dei giudici inglesi, avallando implicitamente la logica secondo la quale il «migliore interesse» di un bambino malato è di «essere ucciso» attraverso la privazione di acqua, cibo e ossigeno[42].

L’11 aprile 2018, nel suo ulteriore pronunciamento l’Alta Corte britannica, la quale ha dichiarato che «Alfie’s situation to be inconsistent with his best interests», ha autorizzato «the care plan constructed by the Trust, setting out the provisions for the end of Alfie’s life», essendo pervenuta alla conclusione che «Alfie’s brain had been so corroded by neuro-degenerative disease that his life was futile»[43]. Dunque, non sono stati gli eventuali trattamenti sanitari, ma la vita umana a essere stata qualificata con la parola “futile” per la (supposta) assenza di ogni prospettiva di miglioramento.

Il 6 marzo 2018, la Corte d’Appello britannica ha confermato che «it was not in Alfie’s best interests to receive continued ventilator support […] as well as the transfer to another country could not possibly be in Alfie’s best interests»[44]. Le autorità giudiziarie hanno frapposto un secco no al trasferimento del piccolo paziente all’OPBG, adducendo quale motivazione i (supposti) rischi che il viaggio avrebbe comportato per la sua vita, mentre sarebbe stato nel suo superiore interesse essere sottoposto alla pratica eutanasica attuata dall’AHCH. In altre parole, sarebbe stato meglio per Alfie morire per negligenza intenzionale piuttosto che rischiare di morire nel tentativo di essere curato.

Non solo: conformemente a quanto deciso dall’Alta Corte britannica, Kate James e Tom Evans hanno perso la potestà genitoriale in relazione alla specifica vicenda, è stata loro negata l’autonomia decisionale. Ergo, Alfie doveva morire nonostante il “dissenso informato” dei suoi genitori, poiché il loro tentativo di condurlo altrove per ottenere una vera e propria diagnosi della malattia e una possibile cura avrebbe potuto essergli lesivo.

Rendendo palese come il Regno Unito abbia negato l’assistenza sanitaria a un bambino malato e impedito ai suoi genitori di cercarla altrove[45], il prosieguo della battaglia legale ha visto i coniugi Evans soccombere, di nuovo, il 16 aprile 2018 dinanzi alla Corte d’Appello britannica («The decision must be governed by an objective assessment by the court of what is in the child’s best interests […] transfer to another country could not possibly be in Alfie’s best interests»)[46], il 20 aprile 2018 dinanzi alla Corte Suprema britannica («parental rights are not absolute», «the parents have no right to direct Alfie’s future medical treatment»)[47], il 23 aprile 2018 dinanzi alla Corte europea[48], il 24 aprile 2018 dinanzi all’Alta Corte britannica[49], e il 25 aprile 2018 dinanzi alla Corte d’Appello britannica («a judge has concluded that it is not in the best interests of that individual to carry on living»)[50].

Il 28 aprile 2018, Alfie è morto – di là da qualsiasi previsione medica – dopo ben quasi cinque giorni dal distacco del respiratore, e per deprivazione di acqua e cibo.

 

4. Dall’accanimento terapeutico all’accanimento tanatologico: genesi in pillole e implicazioni clinico-deontologiche della “deriva eutanasica”

 

«Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo».

«Giuro […] di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente».

È quanto può leggersi, rispettivamente, nella versione classica e in quella moderna del Giuramento di Ippocrate, il primo testo deontologico nella storia della medicina che fornisce la sintesi dei principi di deontologia professionale su cui basare l’esercizio della professione medica[51], di cui esplicita il senso, le ragioni e gli obblighi, un testo senza età che offre un’etica medica immutabile. Ponendo in luce taluni aspetti decisivi della figura del medico, il Giuramento di Ippocrate rappresenta l’ineludibile preludio a qualunque considerazione in tema di eutanasia[52].

Ebbene, sinotticamente può ricordarsi che la medicina è anzitutto e per definizione un’arte al servizio dei malati, e che la specifica missione che qualifica la professione medica ha i suoi obiettivi fondamentali nella prevenzione delle patologie, nella guarigione o, quantomeno, nel cercare di incidere efficacemente sull’evoluzione delle stesse, nell’alleviare i sintomi dolorosi che vi si accompagnano soprattutto nella fase avanzata, e nella cura dei pazienti in tutte le loro umane aspettative. Al centro della medicina non c’è la malattia da vincere ma il malato da curare, dovere sintetizzato nella regola «guérir parfois, soulager toujours» ricordata secoli fa dal medico e chirurgo francese Ambroise Paré. Il valore incondizionato di ogni paziente (anche inguaribile) rappresenta l’ineludibile fondamento di ogni agire medico. Parimenti incondizionato è il principio espresso nell’aforisma latino primum non nocere (o principio di non maleficità) che, in qualunque ambito umano ma specialmente nella pratica medica, identifica l’assioma centrale. Non è compito del medico giudicare la vita – per il medico ippocratico la vita di ogni paziente è rispettabile non perché costui è bello, giovane o forte, ma perché è un essere umano –, né porsi al servizio di un’ideologia, qualunque essa sia. Il medico sottostà alla legge in quanto cittadino, ma lo Stato non deve sconfinare il proprio ruolo chiedendo allo stesso di condurre a termine azioni contrarie all’etica medica. Essendo affidato agli operatori sanitari l’essere umano nelle sue estreme vulnerabilità endogene, la medicina è «gardienne du seuil d’humanité»[53] e, come tale, ha una peculiare responsabilità etica.

La discussione intorno alla terminazione della vita ha avuto inizio in Inghilterra con il saggio del 1872 di Samuel D. Williams intitolato Euthanasia[54], e con il lavoro del 1873 di Lionel A. Tollemache intitolato The New Cure for Incurables, affrontante la tematica in questione in una prospettiva darwiniano-utilitaristica[55]. Anche la moderna storia dell’eugenetica ha ricevuto il suo primo soffio di vita nel Regno Unito, nella seconda metà del XIX° secolo[56]. Le premesse della pretesa eutanasica sono da rinvenire in una concezione biologicistica praticata per decenni nella scienza e nella tradizione filosofica di derivazione materialistica. Le argomentazioni in favore della pratica eutanasica – quale eliminazione intenzionale e attiva della «vita indegna di essere vissuta» («life not worthy to be lived»)[57] – rivolte a sostegno dell’uccisione di disabili e malati mentali si sono rafforzate a principiare dalla fine del XIX° secolo sino alla Seconda Guerra Mondiale in cui hanno trovato il loro momento applicativo[58].

L’irruzione dell’eutanasia nella prassi medica ha visto la propria genesi – nell’accezione di pensiero che ne ha fondata la sostenibilità o, se si preferisce, la legittimità – nel sottile cambiamento nell’atteggiamento di base dei medici consistente nell’accettazione dell’esistenza, appunto, di «life not worthy to be lived», riguardante inizialmente «the severely and chronically sick», per poi allargare gradualmente la sfera di coloro da includere in tale categoria così da comprendervi, tra gli altri, «the socially unproductive». Nondimeno, il cuneo infinitamente piccolo che ha funzionato da leva affinché questa linea di pensiero ricevesse il proprio slancio è stato l’atteggiamento verso «the nonrehabilitable sick»[59]. È evidente come il criterio «life not worthy to be lived» “convenzionalmente” stabilito – secondo il quale è visto nell’esistenza umana soltanto l’aspetto del decadimento, per cui poter legalmente e deliberatamente sopprimere una «vita limitata» e che è un peso per la società – fosse sufficientemente vago da consentirne una progressiva estensione a casi nuovi e meno chiari[60].

Imponendo una ben precisa concezione dell’uomo e della scienza, l’accettazione della pratica eutanasica – e dell’ideologia mortale che ne costituisce il substrato – è il portato di un’adesione senza riserve a una visione della vita per cui questa è considerata “senza valore” qualora sia gravata da difficoltà, oppure sia privata dell’autonomia (percepita come autosufficienza) o dell’efficienza sotto il profilo produttivistico, ed è presentata come strada da seguire per porre termine a una sofferenza non sopportabile, nella convinzione che il fine giustifica i mezzi (essendo la libertà dal dolore valutata più della vita)[61]. Secondo la prospettiva antropologica empiristica-utilitaristica più radicale, al di fuori di ciò che è in grado di fare o produrre, di come può apparire o mostrarsi nelle relazioni con gli altri, la persona non esiste. L’uomo è deprivato del proprio status di persona, della propria essenza, della propria struttura ontologica. Il termine “persona” implica, pertanto, un’aberrante scissione non tra ciò che è umano e ciò che non lo è, ma tra chi (appartenente alla specie umana) è effettivamente una persona (perché possiede quantomeno una soglia minima di perfezione psico-fisica) e chi non lo è ancora (ad esempio, l’embrione)[62] o non lo è più (ad esempio, chi si trova in stato vegetativo persistente)[63].

Si è introdotta l’idea della selezione, ovvero il concetto selettivo (del paradigma) della “qualità della vita” – modello culturale che dispone a non riconoscere la dignità a talune esistenze umane, interamente identificate con la malattia della quale sono affette e/o con la sofferenza che alla stessa si accompagna – e, con esso, arbitrari criteri di morte della persona. Seguendo l’impostazione utilitaristica ed efficientistica dell’esistenza umana così da assimilare il bene etico all’utile – prendendo, quindi, le mosse dall’osservazione che il paziente non ha “qualità della vita” e non ha prospettiva di averne in futuro per la (presunta) improbabilità che costui ritorni, con il tempo, nelle sue piene dimensioni di funzionalità –, si perviene a comportamenti medici qualificabili come anti-scientifici, cioè alla distruzione della vita esistente, al rigetto della vita fragilissima, alla sottrazione della morte alla propria “naturalità” (affrettandone intenzionalmente il processo naturale) a motivo che la scienza l’ha già mutata in qualcosa di “artificiale”[64]: violenza mascherata da falsa pietà (“uccisione pietosa”, dimentica che la vera pietà si manifesta nell’accoglienza e non nella soppressione)[65], barbarie ammantata di malintesa compassione (che cancella colui del quale non si tollera il dolore o che è divenuto una presenza ingombrante)[66].

In aperta e totale contraddizione con il Giuramento di Ippocrate, i medici assurgono ad arbitri della vita di pazienti strutturalmente deboli, insolubilmente feriti dalla patologia, e in cui la consistenza della relazione è ridotta al minimo, ottenendo la liceità di controllare il momento della morte (o, se si preferisce, di sostituire la morte “incerta” con la morte “determinata”) e la correlata possibilità di porre intenzionalmente termine all’esistenza umana[67]. Ed ecco che si arriva alla demolizione dell’intima essenza, dell’ethos della professione medica (curare e assistere) [68], così come del rapporto fiduciale fra medico e paziente[69]. Ed ecco che l’eutanasia integra il reato di omicidio, in quanto praticata dai medici – benché non sia un atto medico – su persone che non l’hanno richiesta, raggiungendo di tal fatta l’apice dell’arbitrio e dell’ingiustizia[70].

In questo spaventoso scenario, anche il progresso della medicina è messo in gioco, ossia la possibilità di offrire alla ricerca scientifica e clinica di rimediare domani a ciò che non è rimediabile oggi, appurando l’efficacia di un approccio terapeutico innovativo e di potenziale beneficio anche per altri pazienti affetti dalla stessa patologia[71]: se si procura la morte al malato piuttosto che tentare di guarirlo, in un arco temporale relativamente breve non saranno più curati alcuna malattia e alcun disturbo grave[72]. La questione sostanziale è la resa della medicina che, dinanzi a «the nonrehabilitable sick», utilizza la scorciatoia di anticiparne l’esito finale e fatale della vita, restituendo una visione del compito del medico – asservito all’«ideologia mortale» – completamente rovesciata, contraria al cuore della deontologia medica e minante nelle fondamenta il ruolo sociale del medico stesso[73].

Il profluvio di retorica ampiamente aleggiante attorno al dibattito sull’accanimento terapeutico[74] ha fatto di questo concetto il viatico giustificativo e assolutorio per l’intervento del medico che procuri intenzionalmente la prematura soppressione della vita, vale a dire per la sbrigativa violenza della pratica eutanasica vestita da gesto benefico, se non da atto terapeutico[75]. In altri termini, ferma restando la liceità dell’interruzione di un intervento effettivamente configurabile come accanimento terapeutico, detta nozione è stata resa oggetto di un impiego strumentale al fine di agevolare il diffondersi delle logiche eutanasiche, sul presupposto che una «qualità della vita» considerata scadente trasforma la somministrazione di acqua, cibo e ossigeno in una forma, appunto, di suddetto accanimento[76].

Le stesse vicende di Charlie, Isaiah e Alfie hanno mostrato come il vero accanimento non sia stato quello terapeutico, bensì quello per la morte. Quanto proposto, in particolare per Charlie e Alfie, dai rispettivi genitori è stato tacciato di accanimento terapeutico a fronte dell’impellente necessità di dare immediata attuazione alle sentenze emesse nei vari gradi di giudizio e unanimemente concordi nel cancellare delle esistenze appena nate, lasciando intendere di fare loro addirittura un favore.

Tali vicende hanno aperto uno squarcio sui criteri con i quali le autorità mediche inglesi concepiscono il “best interest of the child” all’interno del NHS: i) rinnovare la propria disponibilità a curare questi piccoli pazienti e a fare il possibile per salvaguardarne la vita non era nel loro «migliore interesse»; ii) «lasciarli morire» privandoli dei sostegni fisiologici vitali e negando loro le cure di base era nel loro «migliore interesse»[77]. Inoltre, l’eutanasia: i) su Charlie non ha consentito che fosse somministrata allo stesso la terapia sperimentale, non permettendo parimenti di progredire nella lotta alla malattia rarissima che lo aveva colpito[78]; ii) su Alfie non ha consentito di giungere a una diagnosi precisa della patologia di cui era affetto, non permettendo parimenti di diminuire i rischi di eventuali future gravidanze della madre.

Le ricadute sono state devastanti, a principiare dalla scelta dell’atteggiamento di abbandono terapeutico e assistenziale, deontologicamente e moralmente inaccettabile. In tali casi di gravi condizioni cliniche, immemore che la medicina può e, talvolta, deve rinunciare a guarire ma mai a curare, la prassi sanitaria britannica si è orientata alla totale rinuncia a qualsiasi opzione terapeutica e all’attiva decisione di sospendere i sostegni vitali non terapeutici (acqua, cibo, ossigeno) anche senza il consenso e contro il volere dei genitori dei bambini interessati[79], assumendo di fatto una decisione diretta sulla morte di questi ultimi. Un simile rifiuto dell’impegno clinico e umano, nonché del gesto assistenziale a fianco di persone malate e indifese ha realizzato una sorta di “accanimento tanatologico”[80].

Più analiticamente: i) l’aver equiparato erroneamente l’inguaribilità  all’incurabilità ha comportato il venir meno di un caposaldo essenziale dell’etica della cura, ovvero la pratica clinica del «prendersi cura» dell’esistenza di soggetti quanto mai vulnerabili che, colpiti da una patologia non contrastabile con le conoscenze diagnostiche e terapeutiche disponibili, avrebbero maggiormente necessitato di assistenza continua[81]; ii) l’aver equiparato erroneamente l’idratazione, la nutrizione e la respirazione alle terapie ha comportato il venir meno dell’assistenza ordinaria di base e proporzionata (eticamente e deontologicamente dovuta, essendo indispensabile per garantire le condizioni fisiologiche fondamentali), quale forma particolarmente crudele di abbandono; iii) l’aver confuso erroneamente la “dignità della vita” con la “qualità della vita” e, dunque, con la patologia e/o con la situazione di sofferenza ha comportato il venir meno della consapevolezza della singolare dignità di ogni essere umano e l’accettazione dell’esistenza solo entro una certa soglia di benessere, con conseguente identificazione come scarto da eliminare di chi è stato marginalizzato a causa della propria aspettativa di vita; iv) l’aver precluso la possibilità di accedere al protocollo sperimentale, in ragione della (supposta) inutilità prognostica dello stesso, ha comportato il venir meno della prospettiva di lasciar vivere il paziente (o di prolungarne il tempo di esistenza per mezzo della terapia sperimentale), in ragione della (supposta) sofferenza che avrebbe potuto derivarne e, quindi, della necessità di evitarla, ma non tramite un approccio palliativo completo e sistemico improntato a una visione integrale della malattia e della cura [82], bensì tramite il decesso provocato[83].

Siffatti rilievi preserverebbero una traccia di incompiutezza se si sottacesse il fattore economico, senza dubbio dirimente. Si sta, difatti, prepotentemente affermando la mentalità del profitto che mortifica il malato (soprattutto se inguaribile o terminale), il suo stato di infermità e la sua sofferenza, per cui non si risponde in modo universalistico alla richiesta di cure ma solo in base alle risorse disponibili, a dimostrazione che a vigere è il principio dell’utilità, non il principio dell’indispensabilità delle cure, e che a essere accettabile e sostenibile è la morte, non la vita. Nella chiave prospettica dell’utilitarismo sociale, una simile ideologia è il portato di una concezione secondo la quale è opportuno utilizzare risorse unicamente nella cura di malati che, per età e per tipo di patologia, possono avere un recupero in termini di produttività[84].

Charlie, Isaiah e Alfie hanno rappresentato non solo vite non economicamente utili, ma anche vite economicamente gravose nella totale dipendenza del loro deterioramento clinico ingravescente, perché comportanti spese di assistenza insostenibili nell’era della spending review. Gli “inutili” si sono scontrati con la cultura utilitaristica ed economicistica della sanità, con l’intolleranza generalizzata verso quanto non corrisponde allo standard sanitario, divenendo destinatari di politiche eutanasiche.

Allorché i medici e il sistema sanitario sono coinvolti in simili politiche, il soggiacente modello ideologico assume connotati di sostanziale irreversibilità: il tradimento della professione medica e della relativa deontologia è compiuto.

 

5. Dal “diritto alla vita” al “dovere della morte”: genesi in pillole e implicazioni etico-giuridiche dell’amoralità del diritto

 

«Summum ius, summa iniuria». Citato da Cicerone (De officiis, I, 10, 33) quale espressione proverbiale, il noto aforisma giuridico che rimanda al principio dell’umanità ben spiega quando il massimo del diritto può tradursi nel massimo dell’ingiustizia – «amoralità del diritto»[85] – se il diritto stesso è “disumanizzato”[86].

Nell’atmosfera contemporanea, i rapporti fra morale e diritto sono alquanto controversi, e taluni conflitti pratici fra norme morali e norme giuridiche rivestono un notevole rilievo sociale[87]. È definibile come “conflitto pratico” la situazione verificabile nel caso in cui un comportamento assunto in conformità a una ragione giuridica non sia, però, compatibile con il comportamento richiesto da una ragione morale: se il diritto diventa “immorale”, le due pretese si oppongono in maniera insanabile[88]. Ne è un icastico esempio proprio il conflitto originato dalla mancata corrispondenza tra la soluzione etica e quella giuridica alla «questione eutanasia»[89].

Risulta, quindi, necessario richiamare in via preliminare dei punti fermi morali: i) il principio «non uccidere» (o «non cagionare la morte» a) un essere umano è un valore universale, caposaldo di ogni morale e dell’esistenza di ciascuna comunità umana o, diversamente espresso, patrimonio della coscienza morale dell’intera umanità, un principio che appartiene alla legge morale naturale, di cui l’intelligenza dell’uomo ha facoltà di conoscenza in maniera evidente, spontanea e per inclinazione; ii) il «diritto alla vita» è un principio «non negoziabile» (ossia non opinabile in una società democratica che riconosce l’uguaglianza di tutti i propri componenti), radicato nella natura umana quale contenuto del diritto naturale, comune a tutta l’umanità, precede la società[90] ed è il fondamento dei diritti universali[91]; iii) la primigenia espressione della dignità umana è il valore dell’esistenza tradotto, in termini giuridici, nel «diritto alla vita», nell’osservanza del surricordato principio «non uccidere», universalmente ammesso, posto alla base di tutti gli ordinamenti giuridici moderni e democratici, essendo la difesa della vita umana la ragione più profonda per la quale sussistono gli Stati e i rispettivi sistemi giuridici.

Eppure, il compimento di un lungo processo storico ha segnalato un’eclatante antinomia tra l’esplicita affermazione (astratta) dell’intento di presidiare il valore della vita e dell’immanente dignità di ogni essere umano, solennemente proclamato nelle grandi formulazioni giuridiche internazionali in materia di diritti inviolabili dell’uomo, e la fattiva negazione (concreta) di tale nobile proclamazione attraverso un’estesa legittimazione di attentati alla vita stessa[92].

Su deciso impulso del movimento autonomistico, il principio di autonomia è assurto a principio etico dominante, anzitutto nella bioetica anglosassone della seconda metà del XX° secolo, annullando il principio di beneficità. Dopo aver trovato origine sul piano filosofico, tale movimento è passato al piano giuridico rivendicando dapprima il diritto alla rinuncia ai trattamenti proposti dal medico (e altresì all’idratazione e alla nutrizione che non sono intese al contrasto di un processo patologico e, quindi, non hanno carattere terapeutico trattandosi, appunto, di un presupposto necessario all’esistenza di ciascun individuo, anche se sano) così come il diritto di dettare le scelte trattamentali (direttive anticipate), e successivamente la legalizzazione (o la depenalizzazione) dell’eutanasia volontaria e dell’assistenza al suicidio, avendo quale matrice di fondo la concezione della vita come bene disponibile alla stregua di qualsiasi bene materiale, in nome dell’assolutizzazione del principio autonomistico[93].

Dal rifiuto dell’essenziale finitudine dell’uomo e del processo naturale della morte conseguono due comportamenti dagli effetti contrapposti: i) l’idolatria della salute (per garantire la «qualità della vita» determinata in conformità a standards utilitaristici); ii) la liberazione dalla vita (qualora questa non possa essere vissuta secondo detti standards). Allarmanti le implicazioni etico-giuridiche che derivano dal reputare quale vero uomo l’uomo sano[94], mentre ai malati cronici, ai pazienti inguaribili e ai disabili è subdolamente instillata l’idea di non volere vivere in quelle condizioni e di volere personalmente la morte, cosicché si renda necessario garantire loro l’esercizio del “diritto alla morte” per introdurre, in realtà, il “dovere della morte”[95].

La coscienza giuridica è emblematicamente interpellata e scossa, più che mai nell’epoca attuale, da un coacervo di problematiche[96], nella prospettiva biogiuridica, dalle quali conseguono esiti ineludibili e contraddittori[97]. Ne simboleggia l’archetipo la mutazione – rectius, il sovvertimento etico[98] e giuridico – del “diritto di vivere” in «dovere di morire»[99], passando per il «diritto di morire»[100], sospinta dal vento della retorica eutanasica della sovrastimata concezione individualista dell’autodeterminazione assoluta (in nome del diritto alla libertà di scelta)[101] avente come frontiera di conquista il diritto all’annullamento della fonte stessa del proprio esistere, la vita, alimentato dal mito della “morte serena”.

L’intangibilità della legge naturale che precede quella dell’uomo è messa fortemente in pericolo da una “novità”: lo Stato ha invaso lo spazio dell’etica, anzi, ha rovesciato l’etica imponendone imperativamente una nuova, divenendo arbitro (non più custode) dei valori fondanti della società, sino ad arrogarsi un potere potenzialmente illimitato sulla vita altrui, cioè il potere di sopprimere individui innocenti. È stata aperta una falla, non certo impercettibile: la volontà di continuare a riconoscere e a difendere il «diritto alla vita» come conseguenza razionale della dottrina dei diritti umani dei soggetti più vulnerabili, che versano in condizioni di malattie inguaribili e/o di disabilità devastanti, è arbitrariamente soppiantata dalla licenza di ucciderli, della quale lo Stato stesso ritiene di essere titolare[102].

Quanto sta accadendo, nell’attuale frangente storico-culturale, nei sistemi giuridici nazionali della “civilissima” Europa non si appalesa quale estemporanea novità, bensì quale esito consequenziale di un profondo mutamento, verificatosi soprattutto negli ultimi decenni[103]: la progrediente creazione di una nuova gerarchia di valori in cui il primato del favor vitae – che, quale elemento fondamentale di civiltà, ha sempre presieduto ogni ordinamento giuridico, in ossequio al bene della vita e alla dignità di ogni persona (specialmente se debole e sofferente) – è stato affiancato, anzi, soppiantato dal primato del favor mortis, tale da implicare il ribaltamento delle coordinate di tutela della vita e la modifica dei criteri che la qualificano.

Ecco, dunque, che la vita umana non è più considerata come un bene indisponibile[104] ma, addirittura, sopprimibile per atto di imperio delle istituzioni, e la valutazione secondo parametri esclusivamente biologici, psico-sociologici ed economici del valore della vita stessa assurge a criterio decisivo che, con ogni evidenza, non è passibile di armonizzazione con il principio del “non cagionare la morte”, il quale trova il proprio ancoraggio fondativo sul riconoscimento dell’uguale dignità del vivere, principio forgiato da fonti europee e internazionali sui diritti umani[105].

L’intangibilità della vita diviene subordinata alla qualità della vita (ovvero al conseguimento di standards di benessere), il che comporta l’imposizione della pretesa delle autorità giudiziarie di stabilire artificiali graduatorie della dignità umana (giudicata, appunto, secondo uno standard di qualità)[106], e la conseguente riaffermazione di pratiche discriminatorie che distinguono tra “vite di serie A” («vite degne di essere vissute») e “vite di serie B” («vite non degne di essere vissute»)[107], in spregio dei fondamenti dell’etica e del diritto (che è una parte dell’etica, la parte attinente ai rapporti interrelazionali).

Di una simile “deriva antiumana” (o, altrimenti detto, di un simile “anti-umanesimo”) ne sono emblematicamente esemplificative le vicende di Charlie, Isaiah e Alfie[108], così come l’inquadramento giuridico-concettuale che, descrivendo come “futile” la vita caratterizzata da serio handicap – si osservi come la terminologia impiegata per stabilire la futilità di trattamenti sanitari sia stata riservata, nelle fattispecie, all’esistenza umana[109]‒, identifica non il «worst interest of the child» bensì il «best interest of the child»[110] nella fine della vita (cagionata dall’annientamento dei presidi di sostentamento vitale)[111].

L’aver decretato, in sede giudiziaria, la legittimità della dismissione dei supporti fisiologici vitali dei piccoli pazienti – e, quindi, del decesso imposto, quale forma di cancellazione di soggetti ritenuti “difettosi” e delle loro vite ritenute “deteriorate”[112] ‒ è un’inequivocabile attestazione dell’assoluta preminenza dell’ideologia propugnatrice della funzionalità, dell’utilità, della produttività e dell’efficientismo individuali sul diritto soggettivo alla vita (in nome della dignità e del valore di ogni essere umano) [113]. Significa, parimenti, aver decretato la legittimità di un attentato alla vita (perché tale è l’eutanasia)[114].

Il diritto – analogamente alla medicina – è divenuto oggetto di una «torsione al negativo», poiché da strumento per una vita migliore dell’uomo è stato mutato in strumento di morte per lo stesso[115]. Una volta che la morte è considerata, paradossalmente, come un bene giuridico che lo Stato è tenuto a garantire in determinate condizioni di ritenuta insufficiente «qualità della vita» così da rimediare alla ritenuta perdita della «dignità della vita», va da sé che di tale “beneficio” non possono essere privati – in nome di un malinteso principio di uguaglianza e non discriminazione – coloro i quali non sono in grado di richiederlo[116]. Non solo: dalla trasformazione del “diritto alla vita” in “diritto alla dignità della vita”, discende che chiunque – soggetti pubblici e privati – reputi non dignitosa la vita di qualcuno, potrà invocarne la soppressione nel suo «migliore interesse»[117], com’è accaduto a Charlie, Isaiah e Alfie. Il che equivale a rendere ammissibile che l’idea di vita umana sia discrezionale, che il tema del bene vita sia affrontato in una dinamica soggettiva, e che addirittura un arbitrio simile possa essere identificato e codificato da un sistema di norme[118].

Ecco che l’appello all’integrale osservanza del Giuramento di Ippocrate assume valenza anche per i giuristi (e per il legislatore), quale ammonimento a non sciogliere il collante etico della società – «l’annullamento morale conduce allo sterminio fisico»[119] – intaccando, per via giurisdizionale (o legislativa), l’assoluto divieto di uccidere una persona innocente o, altrimenti detto, accettando come un fatto naturale l’uccisione giudiziaria di un essere umano incolpevole[120].

Ergo, la “morte di Stato” di Charlie, Isaiah e Alfie ha sancito la fine di un’epoca (quella del diritto naturale per cui la vita vale a prescindere da tutto) e l’inizio di un’altra epoca (quella in cui la vita vale solo se è produttiva e se ha qualità)[121]. L’apertura, anzi, l’accoglimento (della deriva) dell’ideologia mortale ha subdolamente modificato il paradigma del diritto e dei diritti, ha significato che non esiste più l’orizzonte del favor vitae, impedendo di scorgere con limpidezza, stante la complicità di un lassismo concettuale attentamente esercitato, che ogni violazione della persona – anche se attuata in nome della libertà della stessa – soprattutto se compiuta sotto l’egida della legge[122], prepara la dittatura dei poteri istituzionali, cioè lo Stato totalitario[123].

 

6. «La vita è la vita, difendila»

 

«Scartati per inutilità». Sentenza lapidaria, a prima vista semplicistica, ma che si ammanta di significati eufemisticamente inquietanti e realisticamente inumani, proiettati ben oltre le storie personali e clinico-legali di Charlie, Isaiah e Alfie, che ne sono stati le vittime dirette e delle quali sintetizza tutto il dramma, ponendosi quali “casi” deittici delle attuali tendenze dei moderni ordinamenti giuridici in ambito bioetico, alla luce di quanto deciso dalle Corti inglesi (con il placet della Corte europea)[124].

Il vento culturale, che spira nella direzione di credere che la vita di piccoli pazienti inguaribili sia “non degna di essere vissuta”, anzi – con locuzioni propriamente identificative dell’orientamento di pensiero delle élite mediche e giuridiche (e non solo) poiché dalle stesse utilizzate – che quell’esistenza sia «senza valore», “inutile”, “futile”, diviene sintomo della più che incipiente morte dell’etica del diritto, se questo disconosce le forme di protezione delle aspettative essenziali degli esseri umani deboli e malati che non possiedono ancora il dono della parola, e fa propria la contraddizione logica e morale secondo cui il loro «migliore interesse» è di essere uccisi attraverso la privazione di acqua, cibo e ossigeno, invece di essere aiutati a vivere pur nell’estrema precarietà della loro situazione clinica.

Diviene sintomo altresì del sovvertimento del paradigma della medicina o, se si preferisce, della deontologia medica, e di valori fondamentali e principi etici universali, se non è più la tutela (ossia la difesa e il rispetto) della vita, della salute della persona (intesa, nella sua accezione più estensiva, quale stato di benessere fisico e psichico), e il sollievo dalla sofferenza a costituire il dovere del medico, bensì la sua condotta omissiva che provoca l’evento morte, o il suo intervento attivo volto all’eliminazione della vita.

Il vero cuore della questione risiede, in sostanza, nell’idea che certe condizioni rendano la vita “priva di senso”, in ossequio al criterio della “qualità della vita” che ripudia la dignità individuale di ogni essere umano. Un’idea, questa, che devasta il diritto, che mortifica la medicina nel suo più alto significato e che, soprattutto, oltraggia il valore della vita di esseri umani condannati a morte in quanto colpevoli di essere giudicati irrimediabilmente “inutili”.

La gravissima conseguenza pratica che discende da un simile rigetto dell’esistenza fragile e scientificamente compromessa – dovuta alla progrediente svalutazione del dato biologico per se, in nome della prospettiva utilitaristica – risiede, appunto, nel portare urgentemente la stessa a un epilogo, sospendendo non soltanto le terapie ma anche i supporti vitali, quale accezione di “cure palliative” che presenta un significato etico omologo all’omicidio – nelle fattispecie, infanticidio – legale o scientifico o, diversamente espresso, all’eutanasia dissimulata attraverso la modalità omissiva, la quale non prevede l’attuazione di una procedura che sia direttamente e subitaneamente fatale, bensì porta al decesso anticipato a causa della privazione dell’essenziale per vivere.

Le dolorose vicende che hanno interessato Charlie, Isaiah, Alfie e le rispettive famiglie hanno richiamato in causa, con rinnovata determinazione: i) il diritto, affinché recuperi gli elementi fondativi della propria dimensione ontologica e assiologica così da rendere indubbi ed espliciti i valori inviolabili della persona che devono orientare il comportamento umano nelle scelte morali correlate alle scienze della vita e della salute; ii) la giustizia, affinché maturi un orientamento secondo il quale i «diritti dei deboli» non siano riduttivamente metamorfizzati in «diritti deboli» e, sul piano applicativo, sostanzialmente destituiti di senso; iii) la medicina, affinché dismetta le innaturali vesti rinunciatarie e riscopra la sua primigenia vocazione a servizio della Vita; iv) gli operatori sanitari, affinché cessino di erigersi a giudici della non meritevolezza dell’altrui esistenza; v) le istanze etiche attorno alle quali si basa la vita di un intero Paese, anzi, di un intero continente, l’Europa.

Le dolorose vicende che hanno interessato Charlie, Isaiah, Alfie e le rispettive famiglie hanno anche (e principalmente) portato a emersione un’antropologia della fragilità e della vulnerabilità che insegna a guardare l’essere umano oltre le sue possibili funzionalità e potenzialità, e testimoniato con forza una verità che è sempre più rifiutata: la preziosità di ogni Vita, il cui riconoscimento si salda con scelte operative finalizzate alla tutela della stessa, non risiede nel suo “modo di essere”, bensì nel suo “esserci”. Viverla secondo tutta la profusione di significato che la pervade, ciò che è e ciò che potrebbe divenire se accolta e difesa.

«La vita è la vita, difendila»[125].

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

 

[1] Nota locuzione latina che, se nel diritto romano, indicava un potere dispositivo assoluto – diritto di vita e di morte – del pater familias sui figli, nell’utilizzo attuale è riferibile al potere dei medici nei riguardi dei propri pazienti e a quello dei giudici che, attraverso l’esercizio della propria giurisdizione, giungono a detenere nelle proprie mani le sorti della vita e della libertà delle persone. Cfr. S. Vannuccini, «Memento mori» («secundum voluntatem medicorum et sententiam iudicum»). Il caso francese di Vincent Lambert, in diritti-cedu.unipg.it, 23 luglio 2018, pp. 1-22.

[2] Una malattia rara (o malattia orfana) è una condizione che colpisce una piccola percentuale della popolazione. In Europa, una malattia o un disturbo è definito come raro quando ne è affetto meno di 1 su 2000 individui. Ne consegue che una malattia rara può colpire da un esiguo numero di soggetti sino a ben 245.000/250.000 persone nell’Unione Europea. Trattasi, sovente, di patologie di origine genetica, croniche e mortali. Cfr. J. Micallef-O. Blin, Orphan Drug Designation in Europe: A Booster for the Research and Development of Drugs in Rare Diseases, in Therapies, n. 2, 2020, pp. 133-139. L’Organizzazione Europea per le Malattie Rare (EURORDIS-Rare Diseases Europe) raggruppa oltre ottocento associazioni di pazienti e individui attivi nel settore delle malattie rare da più di settanta Paesi, che lavorano insieme per lottare contro l’impatto che le stesse hanno sulla vita di chi ne soffre. Cfr. C.F.B. Rodrigues, Digital Media in Rare Diseases or “Knowledge Is Power”: The Role of EURORDIS in Creating Awareness and Diagnosing Rare Diseases, in L.V. Costa-S. Oliveira (eds.), Communicating Rare Diseases and Disorders in the Digital Age, Hershey, 2020, pp. 154-178.

[3] La MDS comprende un gruppo clinicamente eterogeneo di malattie mitocondriali, caratterizzate da riduzione sensibile del numero delle coppie del DNA mitocondriale (mtDNA) nei tessuti affetti. È una patologia che attacca, dunque, i mitocondri, che non riescono più a produrre l’energia necessaria per lo sviluppo dell’organismo. Cfr. D. Basel, Mitochondrial DNA Depletion Syndromes, in Clinics in Perinatology, n. 1, 2020, pp. 123-141; L. Dard-W. Blanchard-C. Hubert-D. Lacombe-R. Rossignol, Mitochondrial Functions and Rare Diseases, in Molecular Aspects of Medicine, 2020, pp. 1-28. Nella forma che ha colpito Charlie, la causa è stata attribuita alla presenza di una coppia di mutazioni disfunzionali identiche (omozigosi) o diverse (eterozigosi) del gene RRM2B del cromosoma numero 8. Cfr. N. Keshavan- J. Abdenur-G. Anderson, et al., The Natural History of Infantile Mitochondrial DNA Depletion Syndrome Due to RRM2B Deficiency, in Genetics in Medicine, 2020, pp. 199-209; D. Rahman, Mitochondrial Disease in Children, in Journal of Internal Medicine, 2020, pp. 1-25.

[4] Cfr. I. Pifarré Coutrot-R. Smith- L. Cornelsen, Is the Rise of Crowdfunding for Medical Expenses in the UK Symptomatic of Systemic Gaps in Health and Social Care?, in Journal of Health Services Research & Policy, 2020, pp. 1-6.

[5] Trattasi della c.d. «terapia di bypass nucleosidico», che rientra in un repertorio di approcci innovativi alla cura di talune patologie mitocondriali di origine genetica, in corso di sperimentazione da alcuni anni in vari centri clinici, denominato «trattamento con piccole molecole» («small-molecule treatment»). Cfr. W.J.H. Koopman-J.D. Beyrath-C.W. Fung-S. Koene-R.J.T. Rodenburg-P.H.G.M. Willems-J.A.M. Smeitink, Mitochondrial Disorders in Children: Toward Development of Small-Molecule Treatment Strategies, in EMBO Molecular Medicine, 2016, pp. 311-327. La terapia in questione consiste nella somministrazione di nucleosidi (precursori di metaboliti naturali, ordinariamente presenti nelle cellule umane a qualunque età, ma carenti nei mitocondri di chi è colpito dalla MDS), così da “scavalcare” (bypass) il blocco enzimatico creatosi nelle cellule dei soggetti malati, facendovi arrivare dall’esterno il metabolita di cui esse necessitano per funzionare normalmente. Se è vero che questo tipo di cura sperimentale non è convenzionale e neppure avvalorata da solide evidenze di efficacia, è parimenti vero che essa non è priva di fondamento scientifico e neppure biologicamente o clinicamente avventata e pericolosa, considerata la limitata tossicità delle molecole impiegate. Cfr. R. Colombo, Perché negare ai genitori la terapia “compassionevole”?, in ilsussidiario.net, 1 luglio 2017.

[6] Eppure, dei soli diciotto casi di bambini affetti da MDS encefalomiopatica dovuta a mutazioni del gene RRM2B diagnosticati nel mondo, Charlie ha mostrato la particolarità di una sopravvivenza inusitatamente lunga – rappresentando un caso notevolmente resistente o con un’espressione fenotipica meno clinicamente penetrante –, giacché tutti coloro che lo hanno preceduto sono deceduti poco dopo la nascita o, al massimo, entro sei mesi. Gli ultimi due casi hanno riguardato due fratelli israeliani, morti all’età di dieci e dodici settimane. Cfr. N. Kropach- V. Shkalim-Zemer – N. Orenstein – O. Scheuerman- R. Straussberg, Novel RRM2B Mutation and Severe Mitochondrial DNA Depletion: Report of 2 Cases and Review of the Literature, in Neuropediatrics – Journal of Pediatric Neurobiology, Neurology and Neurogenetics, 2017, pp. 456-462. Dato fattuale, questo, tutt’altro che privo di significato, tale da legittimare la non affrettata sospensione della ventilazione meccanica e degli altri sostegni vitali. Cfr. P. Requena Meana, Il principio di prudenza terapeutica. Oltre le distinzioni ordinario-straordinario e proporzionato-sproporzionato, in Medicina e Morale, n. 2, 2019, pp. 125-139; A. Rothstein-A. Lewis, Right Brain: Withholding Treatment from a Child with an Epileptic Encephalomyopathy, in Neurology, 2018, pp. 857-859. A Charlie è stata negata anche la tracheostomia, avendo il comitato etico dell’ospedale ritenuto troppo bassa la sua «qualità della vita» per un rimedio a lunga permanenza. Cfr. D. Wilkinson-J. Savulescu, Ethics, Conflict and Medical Treatment for Children. From Disagreement to Dissensus, Amsterdam, 2018.

[7] Cfr. A. Fleming, Medical Futility & Parental “Rights”: A Glimpse into the Charlie Gard Case, in www.voicesinbioethics.net, 2018; F.E. Vizcarrondo, Medical Futility in Pediatric Care, in The National Catholic Bioethics Quarterly, n. 1, 2019, pp. 105-120.

[8] L’ospedale ha ammesso il ritardo nell’ottenere un cesareo che, se fosse stato praticato dieci minuti prima, avrebbe ridotto il danno cerebrale. Tuttavia, ha anche affermato che la ragione principale per la condizione di Isaiah è stata il raro evento durante il travaglio: la madre ha subito un’emorragia che le ha causato la perdita di metà del proprio sangue e lo stato comatoso per alcuni giorni; il piccolo ha respirato sangue e ha sofferto per mancanza d’ossigeno.

[9] Cfr. V. Larcher-J. Brierley, Second Medical Opinions in Paediatric Practice. Proposals for a Framework for Best Practice, in British Medical Journal, 2019.

[10] Cfr. S. Kling, Deciding for Children at the End of Life – Whose Decision?, in Current Allergy & Clinical Immunology, n. 3, 2018, pp. 166-169. Sul caso Alfie Evans cfr. anche https://bit.ly/34JTsO2 e https://bit.ly/2JjQHeY

[11] V. High Court of Justice, Family Division, Great Ormond Street Hospital v. Constance Yates, Chris Gard and Charles Gard, [2017] EWHC 972 (Fam), 11th April 2017, parr. 59-60.

[12] Ibidem, par. 124. Cfr. E. Cave – E. Nottingham, Who Knows Best (Interests)? The Case of Charlie Gard, in Medical Law Review, n. 3, 2018, pp. 500-513. È chiaro come il punto non fosse la terapia in sé, quanto piuttosto la possibilità che essa consentisse di raggiungere un risultato apprezzabile in termini di qualità della vita. Tuttavia, essendo Charlie considerato troppo gravemente disabile, la sua qualità della vita è stata considerata troppo gravemente minata per essere giudicato “degno di vivere”. Cfr. R.D. TRUOG, The United Kingdom Sets Limits on Experimental Treatments. The Case of Charlie Gard, in Journal of the American Medical Association, 2017, pp. 1001-1002.

[13] Sebbene nelle «end-of-life choices» sia riconosciuta un’importanza fondamentale all’autonomia personale, non avendo Charlie raggiunto un grado di maturità tale da consentirgli di formulare desideri in merito all’interruzione dei supporti indispensabili per vivere, il principio del rispetto del suo libero arbitrio non avrebbe potuto fornire legittimazione alcuna alla terminazione della sua vita, ragione per la quale i giudici inglesi hanno fatto riferimento al principio della «qualità della vita». Ergo, una vita simile è stata reputata non meritevole di continuare, e alla possibilità di preservarla è stata preferita la decisione di terminarla. Cfr. L. De Janon Quevedo, Salud, familia y calidad de vida: ¿quién decide cuando no coinciden el proyecto de los padres sobre la vida del niño y el estado real de salud?, in Kénosis – Revista de Ciencias Sociales y Humanas, n. 8, 2017, pp. 31-48. Paradossalmente, la morte certa è stata ritenuta più “pietosa” del trattamento sperimentale avente quale solo effetto collaterale indesiderato la diarrea. Cfr. A. Morresi, Paradosso e delirio. Charlie e la strana deriva britannica, in www.avvenire.it, 13 luglio 2017.

[14] «[A]lthough the parents have parental responsibility, overriding control is vested in the court exercising its independent and objective judgment in the child’s best interests» (High Court of Justice, Family Division, Great Ormond Street Hospital v. Constance Yates, Chris Gard and Charles Gard, [2017] EWHC 972 (Fam), 11th April 2017, par. 11), che si è concretato nella legittimazione della decisione dei medici del GOSH di procedere al distacco dal respiratore e all’arresto di idratazione e nutrizione assistite. Ai coniugi Gard è stato sottratto qualunque apprezzamento rispetto alla situazione del proprio figlio, nonché l’esercizio del diritto alla vita. Cfr. G. Birchley, Charlie Gard and the Weight of Parental Rights to Seek Experimental Treatment, in Journal of Medical Ethics, 2018, pp. 448-452; R. Gillon, Why Charlie Gard’s Parents Should Have Been the Decision-Makers about Their Son’s Best Interests, in Journal of Medical Ethics, 2018, pp. 462-465.

[15] V. High Court of Justice, Family Division, Great Ormond Street Hospital v. Constance Yates, Chris Gard and Charles Gard, [2017] EWHC 972 (Fam), 11th April 2017, par. 126. «[I]t is lawful and in Charlie’s best interests – ha dichiarato il giudice Francis – for artificial ventilation to be withdrawn» (par. 129). L’affermazione secondo la quale vivere sarebbe stato contro l’interesse di Charlie si è basata sull’affermazione secondo la quale una minima possibilità di un leggero miglioramento sarebbe stata superata dalla (presunta) sofferenza accompagnante la sua condizione e il suo trattamento. Questo, però, non è «an objective fact» ma «a value judgement» (J. Savulescu, Is It in Charlie Gard’s Best Interest to Die?, in Lancet, 2017, pp. 1868-1869). Poiché «the principle of the best interests of the child is inherently abstract and subjective» (R. Jensdòttir, The Concept of the Child’s Best Interests in the Work of the Council of Europe, in Council Of Europe, The Best Interests of the Child – A Dialogue between Theory and Practice, Strasbourg, 2016, p. 81), la sua interpretazione e applicazione concreta da parte dei giudici non può considerarsi libera da condizionamenti soggettivi. Cfr. J. Turnbull, “Facts” and “Feelings” in the Discursive Construction of the “Best Interests of a Child”: The Charlie Gard Case, in Lingue Culture Mediazioni, n. 1, 2019, pp. 45-64.

[16] V. Court of Appeal, Civil Division, [2017] EWCA Civ 410, In the matter of Charles Gard, 23rd May 2017, par. 54. Ad avviso dei ricorrenti, in ambito sanitario il principio dell’interesse superiore del bambino avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso in cui i genitori si fossero opposti al trattamento medico attuato, senza proporre un’opzione terapeutica alternativa praticabile. Desiderando, invece, i genitori sottoporre il figlio a una specifica terapia, la loro scelta avrebbe dovuto essere ignorata soltanto qualora quanto richiesto avesse potuto causare al bambino un «danno significativo». Cfr. I. Goold, Evaluating ‘Best Interests’ as a Threshold for Judicial Intervention in Medical Decision-Making on Behalf of Children, in I. Goold – J. Herring – C. Auckland (eds.), Parental Rights, Best Interests and Significant Harms: Medical Decision-Making on Behalf of Children Post-Great Ormond Street Hospital v. Gard, London, 2019, pp. 29-48. Cfr. anche C.V. Bellieni, The Pain Principle: An Ethical Approach to End-of-Life Decisions, in Ethics & Medicine, 2020, pp. 41-49.

[17] V. Court of Appeal, Civil Division, [2017] EWCA Civ 410, In the matter of Charles Gard, 23rd May 2017, par. 97.

[18] Ibidem, par. 119.

[19] «I can see no reason – ha concluso il giudice McFarlane – for disagreeing with that outcome or for holding that any of the grounds we have considered cause the judge’s order to be set aside» (ibidem). Cfr. A. VITALE, L’eutanasia del piccolo Charlie Gard, in www.tempi.it, 13 aprile 2017.

[20] «[T]he proposed appeal does not raise an arguable point of law of general public importance», a voler dire che la potenziale morte di Charlie per soffocamento, in ragione della decisione giudiziaria di autorizzazione alla rimozione della ventilazione assistita, non sarebbe stata di «general public importance». V. Supreme Court of the United Kingdom, In the matter of Charlie Gard, 8th June 2017. In verità, vivere o morire non è un fatto relegabile in un quadro privatistico, bensì riveste rilievo pubblico, essendo in gioco un interesse generale e pubblico alla difesa della dignità e della vita umana, essendo coinvolto il termine dell’esistenza di una persona. Connotata da evidente pericolosità, la surriferita affermazione della Corte Suprema britannica è indicativa dello stravolgimento dello spirito del diritto, e si colloca al di fuori di un sistema qualificabile come democratico.

[21] La valutazione del «best interest of the child» è stata compiuta in un’ottica unidirezionale, ossia semplicemente sul piano medico-clinico, e non in un’ottica contestualizzante che tenesse conto della multiforme e variegata complessità dei plurimi “interests” del bambino e dell’ambito giuridico nel quale si inseriscono, specialmente nelle vicende relative al «children healthcare decision making». Cfr. F. Venturi, Il principio dei best interests of the child nel caso Gard tra paternalismo, autonomia e indeterminatezza, in Federalismi.it – Focus Human Rights, n. 3, 2017, pp. 1-15.

[22] Stante tale assunto, non sarebbero eventuali trattamenti gravosi o inefficaci a costituire una forma di “ostinazione irragionevole”, quanto piuttosto mantenere in vita un malato grave o un morente, con la conseguenza che i mezzi di sostegno vitale dovrebbero essere evitati nelle malattie croniche e invalidanti o nella fase terminale.

[23] A dimostrazione che i diversi modi di affrontare il problema di una volontà non verificabile sono considerati compatibili con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Convenzione europea), i giudici strasburghesi hanno osservato che «whilst CG could not express his own wishes, the domestic courts ensured that his wishes were expressed though his guardian, an independent professional appointed expressly by the domestic courts for that purpose», benché costui si fosse espresso sulla scorta di mere presunzioni. Ritenendo, invece, che «even though CG has never been able to express his views, […] there is a evident conflict of interest between the applicants», essi hanno insinuato che i genitori di Charlie, contrari che fosse eutanasizzato, non stessero perseguendo il suo «migliore interesse» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Charles Gard and Others v. The United Kingdom, decisione del 27 giugno 2017, ricorso n. 39793/17, parr. 67, 92). Tuttavia, quantunque esistano varie ragioni per le quali i genitori possano non essere d’accordo con i medici, ciò non implica necessariamente che essi siano in conflitto con il proprio figlio, data l’assenza di qualsiasi effetto negativo sui diritti dello stesso.

[24] Cfr. S. Vannuccini, Sull’accanimento medico-giudiziario francese (e il placet della Corte europea dei diritti dell’uomo) per il «non diritto di vivere» del paziente disabile: l’affaire Vincent Lambert, in L. Cassetti-S. Vannuccini (a cura di), Diritti e principi nella pluralità dei livelli di protezione: evoluzioni, dialettica e conflittualità, Perugia, 2019, pp. 69-113.

[25] Cfr. A.C. Hendriks, End-of-Life Decisions. Recent Jurisprudence of the European Court of Human Rights, in ERA Forum, 2019, p. 568. È stata, di tal fatta, autorizzata un’eccezione all’inderogabilità dell’art. 2 (Diritto alla vita) della Convenzione europea – stabilita dall’art. 15 (Deroga in caso di stato d’urgenza), par. 2, della stessa – nei riguardi, tra l’altro, di una persona non mentalmente competente e in assenza di consenso informato, del quale la vicenda di Charlie ha sancito il totale fallimento essendo valevole non per la possibilità di cura ma unicamente per la non cura. Cfr. J. Cornides, Forcible “Euthanasia”: The ECtHR’s Charlie Gard Decision, in EJIL: Talk!, 14 July 2017.

[26] Cfr. A. Lebret, L’épilogue attendu de «l’affaire Charlie Gard»: la confirmation de l’absence de droit à traitement expérimental au titre de l’article 2 de la Convention, in Journal d’Actualité des Droits Européens, 19 septembre 2017.

[27] Cfr. V. Tessier, Fin de vie: une nouvelle décision de la Cour européenne des droits de l’Homme. Droit à la vie et droit au respect de la vie privée (Art. 2 et 8 CEDH), in La Revue des Droits de l’Homme, 3 octobre 2017. Eppure, nella sentenza sul caso Glass, la stessa Corte europea ha stabilito che la decisione delle autorità mediche di ignorare l’obiezione, sollevata dalla madre del paziente, al trattamento proposto in assenza di autorizzazione da parte di un tribunale ha comportato la violazione dell’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea. V. Corte europea dei diritti dell’uomo, Glass v. The United Kingdom, sentenza del 9 marzo 2004, ricorso n. 61827/00.

[28] Cfr. G. Puppinck, Affaire Charlie Gard: la limite du droit des parents au respect de la vie de leur enfant, in www.eclj.org, juillet 2017.

[29] Eppure, nella sentenza sul caso Pretty, la stessa Corte europea ha precisato che l’art. 2 (Diritto alla vita) della Convenzione europea «is unconcerned with issues to do with the quality of living» ma prevede «the obligation of the State to protect life» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Pretty v. The United Kingdom, sentenza del 29 aprile 2002, ricorso n. 2346/02, par. 39).

[30] «It has been and remains the unanimous view of all of those caring for Charlie at Great Ormond Street that withdrawal of ventilation and palliative care are all that the hospital can offer him consistent with his welfare. That is because […] he has no quality of life and no real prospect of any quality of life» (High Court of Justice, Family Division, In the matter of the inherent jurisdiction of the High Court and in the matter of Charles Gard, 13th July 2017, par. 14). Cfr. R. Huxtable, Clinic, Courtroom or (Specialist) Committee: In the Best Interests of the Critically Ill Child?, in Journal of Medical Ethics, 2018, pp. 471-475; C. Introvigne, Charlie Gard, una storia brutta. Passare il segno per lasciare il segno?, in www.centrostudilivatino.it, 7 luglio 2017.

[31] V. High Court of Justice, Family Division, Great Ormond Street Hospital v. Constance Yates, Christopher Gard and Charlie Gard, [2017] EWHC 1909 (Fam), 24th July 2017, par. 14. Cfr. L. De Panfilis, Il caso Charlie Gard tra condivisione delle scelte di cura e processi decisionali etici, in Revista de Bioética y Derecho, 2018, pp. 277-289; S.M. Krason, The Charlie Gard Case, in Catholic Social Science Review, 2018, pp. 367-370. Effetto alcuno sulle determinazioni dei giudici inglesi ha sortito l’approvazione, da parte del Congresso degli Stati Uniti, di un emendamento per accordare a Charlie (e alla sua famiglia) lo status di residenza permanente, quale primo passo per il riconoscimento della cittadinanza americana, così che potesse essere sottoposto a un’assistenza medica innovativa. «Encouraging the courts of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland to allow Christopher William Gard and Constance Rhoda Keely Yates to pursue innovative medical care for their son. Whereas human life is sacred and deserving of care and preservation at all stages of development; whereas a baby is not a statistic to be managed but rather a life, to be supported in every way possible; whereas an experimental treatment exists in the United States that could prolong the life of Charles Matthew William Gard (“Charlie”); whereas a hospital in the United States has offered to admit Charlie for such treatment; whereas President Donald J. Trump, moved by Charlie’s struggle, has extended a hand of help to his parents from the United States; and whereas parents retain an inherent right to protect and provide for their children, and to seek out all resources and services available to secure life-saving treatments, wherever they may be found, for their children: now, therefore, be it resolved that the courts of the United Kingdom of Great Britain and Northern Island and the European Court of Human Rights should allow Christopher William Gard and Constance Rhoda Keely Yates to pursue innovative medical care for their son, Charles Matthew William Gard (“Charlie”), in any country where such care may be available, in order to give Charlie the chance to be cured in accordance with his parents’ wishes» (United States Congress, H.Res.444 – Encouraging the courts of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland to allow Christopher William Gard and Constance Rhoda Keely Yates to pursue innovative medical care for their son, 115th Congress (2017-2018), July 13, 2017).

[32] V. High Court of Justice, Family Division, King’s College Hospital NHS Foundation Trust v. Takesha Thomas, Lanre Haastrup and Isaiah Haastrup, [2018] EWHC 127 (Fam), 29th January 2018, par. 99.

[33] Il principio dell’indisponibilità del «diritto alla vita» è stato scardinato dall’Alta Corte britannica («[t]he presumption that life should be preserved is not irrebuttable») in nome dell’ideologia della «qualità della vita», nella proposta visione preconfezionata e arbitrariamente imposta («to continue life sustaining treatment for Isaiah […] will condemn him to a life of profoundly limited quality»), così da relativizzare il valore di questo diritto supremo («the fundamental, but not immutable principle of the sanctity of life») (ibidem, par. 106, pp. 110-111).

[34] «I am satisfied that the parents evidence on this issue is, both understandably and sadly, heavily influenced by the flattering voice of hope and, as such, does not constitute reliable evidence that Isaiah is more responsive than described by his treating team and Dr Habibi and Professor Whitelaw» (ibidem, par. 92). In altri contesti legislativi come, ad esempio, l’affidamento di minori maltrattati, i genitori sono esclusi qualora costituiscano un rischio per l’incolumità fisica e psicologica del loro figlio. Difatti, il Children’s Act del 1989 prevede che, se il bambino rischia di subire un danno, lo Stato deve intervenire. Pur non essendo questo il caso di specie, tuttavia è su tale base che i giudici inglesi hanno sostituito le proprie opinioni a quelle dei coniugi Haastrup – sebbene, sulla scorta dei principi sanciti dallo stesso Children’s Act, i genitori abbiano il diritto di prendere decisioni in merito alle cure mediche per il loro figlio, qualora costui non abbia discernimento per manifestare la sua volontà –, ritenendo di sapere cosa fosse meglio per Isaiah. Cfr. C. Aauckland-I. Goold, Parental Rights, Best Interests and Significant Harms: Who Should Have the Final Say Over a Child’s Medical Care?, in Cambridge Law Journal, 2019, pp. 287-323.

[35] Il diritto al rispetto della vita privata e familiare è espressamente tutelato dall’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea, ed è soggetto alle restrizioni previste dalla legge, laddove ciò sia necessario, in una società democratica, «alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». Stante il tenore letterale del suddetto articolo, nonché le protezioni garantite dalla Convenzione sui diritti del fanciullo (CDF) del 1989 – v. l’art. 3, par. 2 («Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori»), e l’art. 5 («Gli Stati parti rispettano la responsabilità, il diritto e il dovere dei genitori […] di dare [al fanciullo], in maniera corrispondente allo sviluppo delle sue capacità, l’orientamento e i consigli adeguati all’esercizio dei diritti che gli sono riconosciuti dalla presente Convenzione») –, i genitori, quali principali caregivers, hanno legalmente, prima facie, l’autorità di prendere decisioni mediche per il loro figlio. La stessa Corte europea ha chiarito che l’intervento medico su un bambino senza il consenso dei genitori costituisce violazione dell’art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea. V. Corte europea dei diritti dell’uomo, M.A.K and R.K. v. The United Kingdom, sentenza del 23 marzo 2010, ricorso n. 45901/05.

[36] V. High Court of Justice, Family Division, King’s College Hospital NHS Foundation Trust v. Takesha Thomas, Lanre Haastrup and Isaiah Haastrup (No. 2), [2018] EWHC 147 (Fam), 31st January 2018, par. 26.

[37] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, Haastrup v. The United Kingdom, decisione del 6 marzo 2018, ricorso n. 9865/18.

[38] Eppure, nella già richiamata sentenza sul caso Pretty, la stessa Corte europea ha affermato che «[t]he consistent emphasis in all the cases before the Court has been the obligation of the State to protect life. The Court is not persuaded that “the right to life” guaranteed in Article 2 can be interpreted as involving a negative aspect» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Pretty v. The United Kingdom, cit., par. 39).

[39] V. England and Wales High Court, Alder Hey Children’s NHS Foundation Trust v. Evans & Anor, [2018] EWHC 308 (Fam), 20th February 2018, par. 47. Cfr. A. Gambino, Breve riflessione sul caso di Alfie Evans, in www.personaedanno.it, 21 giugno 2018.

[40] V. England and Wales Court of Appeal, E (A Child), Re [2018] EWCA Civ 550, 6th March 2018.

[41] V. Supreme Court of the United Kingdom, In the matter of Alfie Evans, Appeal Refused, 20th March 2018. Cfr. V. Massotti, Respiro. Considerazioni sul caso di Alfie Evans, Teramo, 2018.

[42] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, Evans v. The United Kingdom, sentenza del 28 marzo 2018, ricorso n. 14238/18. Eppure, per l’importanza che riveste il diritto alla vita – che si colloca come disposizione fondamentale della Convenzione europea quale strumento per la protezione dei singoli esseri umani, sancisce un valore di base delle società democratiche che costituiscono il Consiglio d’Europa, e deve essere interpretato e applicato in modo da rendere le sue garanzie pratiche ed efficaci (v., ad esempio, Corte europea dei diritti dell’uomo, Makaratzis v. Greece, sentenza del 20 dicembre 2004, ricorso n. 50385/99, par. 56) –, avrebbe richiesto una trattazione maggiormente ponderata da parte dei giudici di Strasburgo avendo sottolineato, in più occasioni, la massima tutela di tale diritto. Cfr. E. Larghero-G. Zeppegno (a cura di), Dalla parte della vita. Itinerari di bioetica I, Cantalupa, 2007.

[43] V. England and Wales High Court, Alder Hey Children’s NHS Foundation Trust v. Evans & Ors, [2018] EWHC 818 (Fam), 11th April 2018, parr. 1, 10. Cfr. G. Brambilla, La “non-vita” di Alfie, tra biopolitica e eugenetica, in www.ricognizioni.it, 10 maggio 2018.

[44] V. England and Wales Court of Appeal, E (A Child), Re [2018] EWCA Civ 550, 6th March 2018, par. 56.

[45] Cfr. S. Vannuccini, Sulla (im)mobilità sanitaria transfrontaliera nel contesto della (il)libertà di circolazione e di cura all’interno del territorio europeo: il “caso” inglese del piccolo Alfie Evans, in Freedom, Security and Justice: European Legal Studies, n. 1, 2019, pp. 93-118.

[46] V. England and Wales Court of Appeal, Evans & Anor v. Alder Hey Children’s NHS Foundation Trust & Ors, [2018] EWCA Civ 805, 16th April 2018, par. 67.

[47] V. Supreme Court of the United Kingdom, In the matter of Alfie Evans No. 2, Appeal Refused, 20th April 2018, parr. 8-9.

[48] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, Evans v. the United Kingdom, sentenza del 23 aprile 2018, ricorso n. 18770/18. I coniugi Evans hanno sostenuto che il diniego di trasferimento del proprio figlio dall’AHCH all’OPBG costituisse una privazione della libertà e una violazione dell’art. 5 (Diritto alla libertà e alla sicurezza) della Convenzione europea. I giudici di Strasburgo, tuttavia, hanno rigettato il ricorso e altresì la richiesta di misure provvisorie «for a stay on the withdrawal of life sustaining treatment», ai sensi dell’art. 39 (Misure provvisorie) del Regolamento della Corte europea.

[49] V. England and Wales High Court, Alder Hey Children’s NHS Foundation Trust v. Evans & Anor, [2018] EWHC 953 (Fam), 24th April 2018. Cfr. A. Treloar, Care of Dying Children and Adults. Ethics, Principles and Issues for Law Reform, in Catholic Medical Quarterly, n. 3, 2018, pp. 13-17.

[50] V. England and Wales Court of Appeal, Evans & Anor v. Alder Hey Children’s NHS Foundation Trust & Anor (Rev 1), [2018] EWCA Civ 984, 25th April 2018, par. 32. Effetto alcuno sulle determinazioni dei giudici inglesi ha sortito il conferimento ad Alfie della cittadinanza italiana, deliberato dal Consiglio dei Ministri, «in considerazione dell’eccezionale interesse per la Comunità nazionale ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, nel caso di specie, attengono alla salvaguardia della salute» (D.P.R. del 24 aprile 2018, “Conferimento della cittadinanza italiana al minore Alfie Evans, nato a Liverpool (Gran Bretagna) il 9 maggio 2016, ai sensi dell’art. 9, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 91”), nell’intento di favorire l’immediato trasferimento del bambino all’OPBG così da offrire allo stesso la possibilità di continuare a vivere, di essere assistito sino alla fine, senza accelerare l’esito della sua vita.

[51] Dal greco «δέον-οντος, deon» («ciò che deve essere fatto») e «λογία, loghìa» («discorso, parola, scienza»), il termine “deontologia” («scienza del dovere») è un neologismo coniato nel XIX° secolo dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, con il quale designò la propria dottrina utilitaristica dei doveri. In quanto asserzione morale organica e sistematica, oggi la deontologia si presenta come statuizione etica (o formalizzazione del «fattore etico») posta a monte del libero arbitrio del singolo, situandosi in una posizione intermedia tra l’identità giuridica e la dimensione etica della categoria professionale cui fa riferimento. Essendo prioritariamente affidata alla medicina la tutela dello stato di salute e del benessere psico-fisico dell’uomo, nella deontologia medica sono enucleabili i principi basilari del rispetto della vita e della dignità della persona, nella rigorosa aderenza ai canoni della deontologia ippocratica: i) il principio di beneficità, quale obbligo etico di agire alla ricerca del massimo beneficio possibile; ii) il principio di non maleficità, quale obbligo etico di ridurre gli effetti avversi o indesiderati di azioni diagnostiche e terapeutiche sull’essere umano.

[52] Dal greco «εὐϑανασία, eythanasía» (eutanasia) composto da «εὖ, eu» (bene) e «ϑάνατος, thánatos» (morte) a significare, nel pensiero filosofico antico, la «buona morte» naturale, accettata con spirito sereno, in pace, quale compimento della vita. In termini compendiosi, l’eutanasia degli antichi presupponeva: i) la cognizione dell’ineluttabilità della morte, che si estrinsecava nell’idea dell’indisponibilità della stessa; ii) l’accettazione da parte dell’uomo del suo essere sottoposto alle leggi della natura e la sua impossibilità di sovvertirle disponendo, ad esempio, della sua vita oppure anticipando addirittura la sua morte; iii) la fiduciosa aspettativa di un trapasso non preceduto, possibilmente, da sofferenza e dolore eccessivi e prolungati. Ergo, la «buona morte» non era mai desiderata, mai attivamente causata, bensì sempre evitata e subita, coerentemente con la concezione antropologica che riconosce i limiti esistenziali, etici e giuridici dell’uomo. Per contro, oggi con l’espressione “eutanasia” è inteso il porre deliberatamente fine alla vita del paziente, procurata o accelerata con la somministrazione di farmaci letali («eutanasia attiva»), oppure mediante la sospensione di una terapia efficace e dovuta o, ancora, per sottrazione di intervento atto a sostenere la vita («eutanasia passiva o omissiva»). Dunque, la finalità dell’azione eutanasica è la morte voluta del paziente, a prescindere dall’atto che la genera e dal soggetto della richiesta. Cfr. A.R. Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, Milano, 2017.

[53] Cfr. C. Bruaire, Une éthique pour la médicine: de la responsabilité médicale à l’obligation morale, Paris, 1978, p. 35.

[54] Cfr. S.D. Williams, Euthanasia, in Popular Science Monthly, 1872.

[55] Cfr. L.A. Tollemache, The New Cure for Incurables, in Fortnightly Review, 1873, pp. 218-230. Ad avviso dell’Autore, i soggetti «unhealthy, unhappy, and useless» avrebbero dovuto scegliere la morte che, oltre a rappresentare una soluzione “compassionevole”, avrebbe significato maggiori risorse per i membri produttivi della società.

[56] Con l’espressione “eugenetica” – dal greco «εὐγενής, eugenes» («ben nato»), composta da «εὖ, eu» (“bene”) e «γένος, genos» («stirpe, razza»), termine coniato nel 1883 da Francis Galton, cugino di Charles Robert Darwin – è fatto riferimento alla disciplina che si pone come obiettivo il miglioramento della specie umana giovandosi delle leggi dell’ereditarietà genetica. Sempre in Inghilterra, sul finire del XIX° secolo, cominciarono a proliferare le Società di Eugenetica. Tra i più convinti sostenitori del programma eugenetico vi fu Ernst Heinrich Haeckel il quale, ne Le meraviglie della vita del 1904, scrisse le seguenti parole: «Che vantaggio trae l’umanità dalle migliaia di disgraziati che ogni anno vengono al mondo, dai sordi e dai muti, dagli idioti e dagli affetti da malattie ereditarie incurabili […] quale perdita in termini di risorse private e costi per lo Stato a scapito dei sani! Quante sofferenze e quante di queste perdite potrebbero venire evitate se si decidesse finalmente di liberare i totalmente incurabili dalle loro indescrivibili sofferenze con una dose di morfina». Nella prima metà del XX° secolo, l’eugenetica si è trasformata in un movimento politico-sociale, finalizzato alla riproduzione di soggetti socialmente desiderabili e alla prevenzione della nascita di quelli indesiderabili per mezzo di infanticidio e aborto.

[57] Il conio della definizione «vita indegna di essere vissuta» è attribuito a due studiosi tedeschi, Karl Binding e Alfred Hoche, rispettivamente giurista e psichiatra, e ha spianato la strada all’annientamento della vita di persone seriamente malate o affette da disturbi psichici tali da essere giudicate irrecuperabili, sulla scorta della giustificazione della «morte caritatevole» o «morte per grazia». Cfr. K. Binding-A. Hoche, Die Freigabe der Vernichtung Lebensunwerten Lebens (L’autorizzazione dell’annientamento di vite indegne di vita), Berlin, 1920. Cfr. anche E. Mann, Die Erlösung der Menschheit vom Elend (La liberazione dell’umanità dalla sofferenza), Weimar, 1922.  

[58] Cfr. H.K. Beecher, Ethics and Clinical Research, in The New England Journal of Medicine, n. 24, 1966, pp. 1354-1360.

[59] Cfr. L. Alexander, Medical Science under Dictatorship, in The New England Journal of Medicine, n. 2, 1949, pp. 39-47. Sotto una dittatura, anche la scienza è subordinata ai principi-guida filosofici della dittatura stessa. In un tempo notevolmente breve, la propaganda nazista fu molto efficace nel pervertire l’opinione e la coscienza pubblica. Nella professione medica, ciò si espresse in un rapido declino degli standards di etica professionale, a dimostrazione di come la pressione esterna fosse stata capace di influire sui comportamenti anche di medici rinomati. Cfr. L. Alexander, War Crimes and Their Motivation. The Socio-Psychological Structure of the SS and the Criminalization of a Society, in Journal of Criminal Law and Criminology, n. 3, 1948, pp. 298-326.

[60] Cfr. C.L. Erimia, Ethical and Legislative Aspects on the Legalization of Euthanasia from the Patient Rights Perspective, in Journal of Law and Administrative Sciences, n. 5, 2016, pp. 49-62.

[61] Cfr. W.J. Smith, Culture of Death: The Age of “Do Harm” Medicine, New York, 2016.

[62] Le nuove frontiere dell’eutanasia eugenetica vedono, tra gli altri, schierati fra le fila dei bardi della “cultura della morte” il filosofo australiano Peter Albert David Singer e il biologo americano Jerry Allen Coyne, i quali hanno portato l’evoluzionismo darwiniano a conseguenze estreme, sostenendo che i nascituri – nonché i neonati e i disabili – sono da considerare come «non persone» in quanto non hanno coscienza del loro sé. La vita non sarebbe altro che un processo biologico che supporta la coscienza la quale, sola, avrebbe un valore veramente umano, e l’eutanasia non ucciderebbe la persona ma soltanto un corpo e sarebbe, addirittura, un atto moralmente buono perché la continuazione di una tale vita sarebbe assurda, contraria all’evoluzione, e comporterebbe un onere inutile per la società. Cfr. J.V. Kragh, The Final Step: The Issue of Euthanasia of People with Mental Disabilities in Denmark, in Disability & Society, n. 1, 2019, pp. 143-161.

[63] Riecheggiano, in proposito, le scioccanti parole del filosofo tedesco Friedrich Wilheim Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli del 1889, sul tema della «morale per i medici»: «Il malato è un parassita della società. In una determinata condizione è indecoroso continuare a vivere più a lungo. Il continuare a vegetare in vile dipendenza dai medici e dalle loro pratiche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe attirare su di sé, nella società un profondo disprezzo. I medici, dal canto loro, dovrebbero essere i mediatori di questo disprezzo […] Creare una nuova responsabilità, quella del medico, per tutti i casi in cui il supremo interesse della vita, della vita ascendente, esige che si spinga giù e si scosti via senza riguardi la vita che sta degenerando».

[64] Cfr. L.V. Thomas, Mort et pouvoir, Paris, 1978.

[65] Risuonano, anche a questo riguardo, le agghiaccianti frasi di Friedrich Wilheim Nietzsche ne L’anticristo del 1895: «Primo principio del nostro amore per gli uomini: i deboli e i malriusciti devono soccombere. E bisogna anche dar loro una mano in tal senso». In epoca contemporanea, simili considerazioni sono state riprese, tra gli altri, dallo scrittore e futurologo britannico Aldous Leonard Huxley nel Ritorno al Nuovo Mondo del 1958 in cui, in un’ottica rigorosamente darwiniana e a sostegno dell’eutanasia, ha lasciato chiaramente intendere di essere terrorizzato dalla prospettiva di «una maggioranza di umani di qualità biologicamente inferiore». Cfr. R. Alberoni, Il Dio di Michelangelo e la barba di Darwin, Segrate, 2007.

[66] La dottrina della “qualità della vita” – evidenziando gli elementi e le capacità che renderebbero una «vita degna di essere vissuta» e predisponendo i soggetti a uno stato di inesausto appagamento, alla ricerca di ciò che manca, al rifiuto dell’imperfezione, della precarietà e, da ultimo, della vita stessa – si appalesa quale artificio, ammantato di pietismo e di compassionismo, per scaricare la coscienza dei singoli rispetto ai legami di responsabilità che li uniscono reciprocamente in quanto esseri umani (il principio di solidarietà). La vera pietà e la vera compassione rendono partecipi dell’altrui sofferenza e non sopprimono colui del quale tale sofferenza non si riesce a sopportare. Tra l’altro, gli specialisti di anestesiologia hanno osservato che «non esiste oggi dolore che non possa, sia pure parzialmente, giovarsi della terapia antalgica, di farmaci analgesici di eccezionale potenza», e che «si possono impiegare contro il dolore tecniche altamente selettive con buoni e, talvolta, ottimi risultati» (C. Manni, Considerazioni mediche sull’eutanasia, in P. Beretta (a cura di), Morire sì, ma quando?, Cinisello Balsamo, 1977, p. 117), oltre a considerare i prevedibili ulteriori progressi della medicina nella lotta contro il dolore.

[67] Cfr. C.J. Gill, Health Professionals, Disability, and Assisted Suicide: An Examination of Relevant Empirical Evidence and Reply to Batavia, in Psychology, Public Policy and the Law, n. 6, 2000, p. 526; J. Werth, Concerns about Decisions Related to Withholding/Withdrawing Life-Sustaining Treatment and Futility for Persons with Disabilities, in Journal of Disability Policy Studies, n. 1, 2005, pp. 31-33. Giova ricordare, in proposito, una dichiarazione alquanto esplicita adottata in Francia il 14 novembre 1949 dall’Académie des sciences morales et politiques – sottoscritta anche da René Samuel Cassin, uno dei principali promotori e redattori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 –, respingente «formellement toutes les méthodes ayant pour dessein de provoquer la mort de sujets estimés monstrueux, malformés, déficients ou incurables», considerando che «l’euthanasie et, d’une façon générale, toutes les méthodes qui ont pour effet de provoquer par compassion, chez les moribonds, une mort “douce et tranquille”, doivent être également écartées», onde evitare di concedere al medico «une sorte de souveraineté sur la vie et la mort» (Revue des Travaux de l’Académie des Sciences morales et politiques, procès-verbaux, 1949/2, p. 258).

[68] Cfr. D. Bryden- I. Storey, Duty of Care and Medical Negligence, in Continuing Education in Anaesthesia Critical Care & Pain, n. 4, 2011, pp. 124-127; J. Keown, The Beginning and Ending of Life. Medical Law and Ethical Incoherence, in A.M. Phillips-T.C. De Campos-J. Herring (eds.), Philosophical Foundations of Medical Law, Oxford, 2019, pp. 162-171; C.G. Vella, L’etica a servizio della persona malata, Milano, 2007.

[69] Cfr. E. Kubler‑Ross, La morte e il morire, Assisi, 1990. La morale deontologica dell’arte medica impone che il rapporto fra medico e paziente non possa essere diretto verso la morte di quest’ultimo. La pratica eutanasica pregiudica irrimediabilmente l’elemento essenziale di tale rapporto, vale a dire la fiducia, così come l’alleanza terapeutica, innestando in questa relazione situazioni di naturale sospetto e diffidenza. Assegnando al medico un ruolo improprio, mutandolo cioè da “servitore della vita” a “collaboratore della morte”, il significato della professione sanitaria è stravolto. Procurare l’eutanasia al paziente è in assoluta contrarietà agli obblighi deontologici del medico, nonché all’acme dei principi etici nella sanità, ossia il principio di beneficità, che sottende l’intero Giuramento di Ippocrate e implica il fine primario della professione medica. Cfr. L. Israël, Contro l’eutanasia. Un grande medico, laico e non credente, ci spiega perché non possiamo accettare l’eutanasia, Torino, 2007.

[70] Cfr. D.A. Jones, Virtue Theory and the Lawfulness of Withholding or Withdrawing Treatment or Care, in A.M. Phillips-T.C. De Campos-J. Herring (eds.), op. cit., pp. 139-150. Che l’eutanasia sia uno strumento per tutelare l’autodeterminazione del paziente è smentito dall’eterodeterminazione dei medici che decidono sulla sua vita al suo posto. Che l’eutanasia sia un mezzo per non far soffrire inutilmente il paziente è smentito dall’eterodeterminazione dei medici che ne decidono la morte per assetamento, affamamento e asfissia, una fine lenta e crudele. Che l’eutanasia sia applicabile soltanto al soggetto che versa in stato patologico terminale è smentito dall’eterodeterminazione dei medici che decidono di applicarla anche a chi non si trova in fin di vita. Non mancano studi che dimostrano come la spirale mortifera innescata con l’eutanasia non rifletta le reali volontà dei pazienti e come il c.d. «fine vita» sia, dunque, fuori controllo. Cfr. K. Chambaere-R. Vander Stichele-F. Mortier- J. Cohen-L. Deliens, Recent Trends in Euthanasia and Other End-of-Life Practices in Belgium, in The New England Journal of Medicine, n. 12, 2015, pp. 1179-1181; D.G. Miller-S.Y.H. Kim, Euthanasia and Physician-Assisted Suicide Not Meeting Due Care Criteria in the Netherlands: A Qualitative Review of Review Committee Judgements, in BMJ Open, 25 October 2017.

[71] Valga, al riguardo, se non altro la semplice osservazione secondo cui la scienza ci fa assistere a continue scoperte che modificano radicalmente l’esistenza di tanti malati (e delle relative famiglie), cambiando la storia naturale di patologie che causavano forme di disabilità gravissime, se non addirittura il decesso, e allargando l’orizzonte di vita di questi pazienti.

[72] Sovente, una probabile innovazione futura è trascurata in quanto si presenta sotto le sembianze di ciò che è sconosciuto. Tuttavia, tale forma di limitazione indebolisce la medicina arrivando a contaminarne l’indipendenza finalizzata a non lasciare alcunché di intentato. Se spiegare un fenomeno è parte dello sforzo scientifico – e la medicina è parte della scienza –, ignorare un trattamento sperimentale è a esso contrario.

[73] Cfr. L. Israël, La vie jusqu’au bout. Euthanasie et autres dérives, Paris, 1993.

[74] La locuzione “accanimento terapeutico” – il cui conio è attribuito al dottor Jean-Robert Debray – indica il persistere in pratiche mediche particolarmente gravose, non proporzionate alla situazione sanitaria reale del paziente, dalle quali non può fondatamente attendersi un beneficio per la salute dello stesso, e che possono portare a una sopravvivenza dolorosa. Cfr. C. Manni, Accanimento terapeutico: definizione e aspetti scientifici, in Atti del Convegno AMCI-ACOS su “Accanimento terapeutico. Un concetto da precisare”, Crema, 1990; E. Sgreccia, Manuale di bioetica. Fondamenti ed etica biomedica, vol. 1, Milano, 2007.

[75] Cfr. A.M. Karim, De l’acharnement thérapeutique au faire mourir, in Médecine Palliative, n. 5, 2017, pp. 262-268.

[76] Cfr. R. Spola, La tentazione dell’eutanasia neonatale nella gestione del neonato gravemente compromesso, in Medicina e Morale, n. 4, 2017, pp. 439-455. Eppure, il doveroso rifiuto dell’accanimento terapeutico si contrappone all’eutanasia, in quanto assumono un valore etico opposto: il primo accetta la finitezza umana e, conseguentemente, l’ineluttabilità della morte naturale; la seconda implica la deliberata induzione della morte di un essere umano (tramite azione od omissione). Cfr. C. Navarini, Eutanasia e accanimento terapeutico, in Scienza & Vita, Né accanimento né eutanasia, 2006, pp. 35-43.

[77] Cfr. S.K. Shah-A.R. Rosenberg-D.S. Diekema, Charlie Gard and the Limits of Best Interest, in JAMA Pediatrics, 2017, pp. 937-938; R.D. Truog, Is ‘Best Interests’ the Right Standard in Cases like that of Charlie Gard?, in Journal of Medical Ethics, 2020, pp. 16-17. Eppure, nelle Good Practice in Decision Making del General Medical Council (GMC) è previsto che «[a]ll patients are entitled to food and drink of adequate quantity and quality and to the help they need to eat and drink […] If you are concerned that a patient is not receiving adequate nutrition or hydration by mouth, even with support, you must carry out an assessment of their condition and their individual requirements. You must assess their needs for nutrition and hydration separately and consider what forms of clinically assisted nutrition or hydration may be required to meet their needs» (General Medical Council, Treatment and Care towards the End of Life: Good Practice in Decision Making, 2010, parr. 109, 111).

[78] Cfr. J. Savulescu, The Moral of the Case of Charlie Gard: Give Dying Patients Experimental Treatment… Early, in blog.practicalethics.ox.ac.uk, 5 July 2017. Il diniego ai coniugi Gard di esercitare il diritto di far partecipare il figlio a uno studio sperimentale sulla c.d. “terapia di bypass nucleosidico” negli Stati Uniti, non solo non ha consentito loro di usufruire dell’estrema possibilità di salvare Charlie strappandolo dalla morte imposta, ma ha altresì negato qualsivoglia speranza di una svolta positiva da parte della ricerca scientifica e clinica. Cfr. D. Wilkinson-J. Savulescu, Hard Lessons: Learning from the Charlie Gard Case, in Journal of Medical Ethics, 2017, pp. 438-442.

[79] Cfr. M. Pruski-N.K. Gamble, Reasonable Parental and Medical Obligations in Pediatric Extraordinary Therapy, in The Linacre Quarterly, n. 2-3, 2019, pp. 198-206; E. Waldman-J. Frader, Charlie Gard: How Did Things Go Wrong?, in Current Pediatrics Reports, 2018, pp. 173-177. Non avendo Charlie, Isaiah e Alfie il potere autonomo di decidere per loro stessi, in quanto cognitivamente incapaci, ed essendo stato annullato il potere decisionale dei loro genitori, è emerso un conflitto: autonomia (la capacità di gestire la propria volontà, libero dall’influenza di altre persone), e consenso informato (l’esercizio di una scelta dopo aver ricevuto informazioni sul processo e sui rischi di un trattamento medico) versus intervento dei medici (il principio di beneficità) e paternalismo (l’interferenza con la limitazione, o la sospensione, dell’autonomia individuale, giustificata da ragioni riferite al benessere o ai bisogni della persona ignorata). L’autonomia, come valore fondamentale, è stata negata. Non averla bilanciata con il principio di beneficità, anzi, non averla nemmeno inserita nel proprio giudizio è stato uno dei fatali errori commessi dai medici. Cfr. A. Bamijoko-Okungbaye, Does Charlie Gard Deserve to Be Taken off Life Support?, in Postmodern Openings, n. 1, 2018, pp. 7-21.

[80] Cfr. E. Sgreccia, La lezione del piccolo Charlie Gard, in Medicina e Morale, n. 3, 2017, pp. 285-289. Eppure, nelle Good Practice in Decision Making del GMC è previsto che «[f]ollowing established ethical and legal (including human rights) principles, decisions concerning potentially life-prolonging treatment must not be motivated by a desire to bring about the patient’s death, and must start from a presumption in favour of prolonging life. This presumption will normally require you to take all reasonable steps to prolong a patient’s life» (General Medical Council, op. cit., par. 10).

[81] Elaborata dall’OPBG nel 2018 sulla scorta delle precedenti Carte nazionali e internazionali dei diritti dei bambini in ospedale, la Carta dei Diritti del Bambino Inguaribile è nata dal principio secondo cui “curare” non significa solo “guarire”. Vi si afferma, a chiosa dell’art. 8 della stessa («Il bambino ha diritto al rispetto della sua persona anche nella fase finale della vita, senza alcun accanimento terapeutico»), che «[i]l rapporto di accudimento e di accompagnamento genitore/bambino va favorito con tutti gli strumenti necessari e costituisce parte fondamentale della cura, ivi comprese le patologie non guaribili e le situazioni a evoluzione terminale. Guarire, curare, prendersi cura, accompagnare, sono elementi progressivi dello stesso processo terapeutico». Cfr. C.V. Bellieni-G. Buonocore, Linee-guida di Bioetica in Pediatria e Neonatologia, in Studia Bioethica, n. 3, 2017, pp. 50-55.

[82] «[La] scoperta dell’efficacia di un trattamento regolare del dolore, [il] riconoscimento del dolore totale dei morenti, [la] comprensione del potenziale potere curativo delle relazioni nelle cure di fine vita» (G. Miccinesi-A. Caraceni-F. Garetto- G. Zaninetta-M. Maltoni, Il sentiero di Cicely Saunders: la bellezza delle cure palliative, in Rivista Italiana di Cure Palliative, 2017, p. 2) hanno plasmato l’intuizione di Cicely Saunders, infermiera, assistente sociale e medico inglese (cfr. C. Saunders, A Personal Therapeutic Journey, in British Medical Journal, 1996, pp. 1599-1601), alla cui opera pionieristica di concezione moderna – il Saint Christopher Hospice, reso funzionante nel 1967 e divenuto precursore di numerose altre strutture simili nel mondo (cfr. C. Saunders, Vegliate con me. Hospice: un’ispirazione per la cura della vita, Bologna, 2008) – è attribuita la nascita dell’approccio palliativo. Dal latino “pallium” («pallio, velo, mantello»), “palliāre” («coprire di un pallio, di un velo, di un mantello»), le “cure palliative” – attingendo alla definizione fornita dall’Associazione Europea per le Cure Palliative (European Association for Palliative Care-EAPC), organizzazione non governativa riconosciuta dal Consiglio d’Europa – costituiscono la cura attiva e globale prestata al paziente nel caso in cui la malattia non risponda più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Sono, dunque, finalizzate a eliminare o attenuare disagi e sintomi di processi patologici contraddistinti da prognosi infausta. Importanza primaria è assunta dal controllo del dolore e degli altri sintomi. Integrano gli aspetti sanitari e il corpus di cognizioni scientifiche con gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza, nell’ottica di un’attenzione alla vita biografica del paziente in tutta la sua individualità. Presentano un carattere interdisciplinare e coinvolgono il paziente, la sua famiglia e la comunità in generale. Provvedono alla presa in carico del paziente, assicurandone i bisogni più elementari ovunque costui si trovi, a casa oppure in ospedale. Volte all’affermazione e al rispetto della vita, nonché alla considerazione secondo la quale il morire è un processo naturale, il loro obiettivo non è di accelerare o differire la morte (nulla avendo a che vedere con qualsivoglia forma di eutanasia o di accanimento terapeutico), bensì di preservare la migliore qualità possibile della vita sino alla fine. Cfr. C.V. Bellieni, End-of-Life Decisions and the “Pain Principle”, in EC Anaesthesia, 2018, pp. 252-253; A Turriziani, Malattia e buona morte, in Scienza & Vita, op. cit., pp. 63-72.

[83] Cfr. L. Dadalto-C. DE Araújo Affonseca, Consideraciones médicas, éticas y jurídicas sobre decisiones de fin de la vida en pacientes pediátricos, in Revista Bioética, n. 1, 2018, pp. 12-21; P.J. Shanker, Alfie Evans and the Medical Ethics of Suffering, in www.thehealthcareblog.com, 13 May 2018.

[84] Cfr. T. Devos (coord.), Euthanasie, l’envers du décor. Réflexions et expériences de soignants, Wavre, 2019. Non vi è modo migliore di risparmiare per un sistema sanitario se non quello di persuadere le persone dipendenti da trattamenti costosi a scegliere di morire piuttosto che lottare per rimanere in vita, cosicché il “bene” vita diviene un “fatto” economico-sociale. Cfr. D. Shaw-A. Morton, Counting the Cost of Denying Assisted Dying, in Clinical Ethics, 2020, pp. 1-6. Le pratiche eutanasiche assurgono, quindi, a strumento di abbattimento dei costi della sanità pubblica anche sotto forma di inquinamento della libertà di scelta e di pressioni psicologiche rivolte ai malati non recuperabili e alle rispettive famiglie in modo tale che optino per il ricorso alla morte indotta, così da non far riversare i costi sanitari dei trattamenti di cui abbisognano sull’intera collettività. Cfr. L. Perfori, Rischi e abusi nei Paesi che hanno legalizzato l’eutanasia e/o il suicidio assistito, in www.libertaepersona.org, 8 luglio 2017. Esemplificativo ed emblematico è il caso di uno spot che promuove attivamente l’eutanasia (“medical assistance in dying”, quale eufemismo dietro il quale si cela l’omicidio attraverso un’iniezione letale), comparso nella sala d’aspetto del pronto soccorso di un ospedale canadese. Cfr. L. Grotti, Il Canada pubblicizza l’eutanasia negli ospedali, in www.tempi.it, 16 novembre 2018. Riferimento alcuno, però, è fatto a cure palliative o consulenze psicologiche al fine di evitare suicidi.

[85] Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 1966.

[86] Cfr. C. Zuccaro, Fondamenti etici del diritto dello Stato, in Dirittifondamentali.it, n. 1, 2018, pp. 1-26.

[87] Cfr. D. Canale, Conflitti pratici. Quando il diritto diventa immorale, Roma-Bari, 2017.

[88] Cfr. A. Scalera, “Conflitti pratici. Quando il diritto diventa immorale”, in www.questionegiustizia.it, 7 aprile 2018.

[89] Cfr. F. Viola, Quando il diritto diventa morale, in Etica &Politica, n. 1, 2018, pp. 437-449.

[90] Il principio della “sacralità della vita”, che non è necessariamente inteso nel quadro definito di una fede religiosa, è una metafisica primordiale (o proto-metafisica). Suonano pertinenti, al riguardo, le parole pronunciate in occasione di una conferenza su Fede e diritto tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì dal magistrato Rosario Angelo Livatino, in merito all’introduzione di una legge legittimante l’eutanasia: «se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana, quali che siano le forme e le connotazioni dolorose che può assumere, è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare od interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire».

[91] Cfr. R. Fratini, Diritto naturale e fattispecie concreta, in www.pensareildiritto.it, 2016.

[92] «[P]ossiamo riscontrare [le radici di una contraddizione tanto paradossale] in complessive valutazioni di ordine culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che, esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. […] Ad un altro livello, le radici della contraddizione […] risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell’altro. […] C’è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità» (Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica “Evangelium Vitae” sul valore e l’inviolabilità della vita umana, 25 marzo 1995, n. 19).

[93] Cfr. M. Ronco, L’indisponibilità della vita: assolutizzazione del principio autonomistico e svuotamento della tutela penale della vita, in Cristianità, 2007, p. 11 ss. Che non sia possibile concedere alla libertà di trovare espressione nell’eutanasia e nel suicidio assistito è, tuttavia, di agevole intendimento se si riflette che la propria libertà non può essere disgiunta dalla realtà del proprio essere perché se la prima va contro la seconda non può che annientare sé stessa: l’autonomia della persona non può arrivare ad annullare la fonte della propria ragion d’essere. Cfr. L. Kass, Life, Liberty and the Defense of Dignity: The Challenge for Bioethics, San Francisco, 2002. A ciò si aggiunga che, se la vita è considerata come un bene disponibile – di cui, cioè, il titolare può spossessarsi e consentire l’esercizio ad altri soggetti, quale principio che non solo non appartiene alla tradizione giuridica dei sistemi continentali europei ma ripugna altresì alla stessa logica del diritto –, di conseguenza anche le autorità pubbliche possono agire sostituendo il proprio arbitrio alla volontà dello stesso titolare del bene vita, il quale da pieno soggetto di diritto è declassato a mero oggetto di diritto, il che determina paradossalmente l’annichilimento del principio autonomistico innalzato a grimaldello per permettere di interrompere la propria esistenza (tra l’altro, incoerentemente obliterato laddove vi sia, invece, la volontà di proseguire la propria esistenza). Cfr. D. Negro, El ser humano es la única especie que se mata a sí misma con el aborto y con la eutanasia, in www.actuall.com, 23 julio de 2018.

[94] Cfr. M. Lütz, La religione della salute e la nuova visione dell’essere umano, in E. Sgreccia-I. Carrasco De Paula (a cura di), Qualità della vita ed etica della salute. Atti dell’undicesima Assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita, Città del Vaticano, 2006, pp. 126-133. Dall’inglese “ableism”, il c.d. “paradigma abilista” (o “deologia abilista”) ha reso lo standard corporeo perfetto – quello della persona normodotata, autosufficiente, indipendente nonché produttiva – il punto di partenza da cui prendere le mosse per assumere iniziative legislative e politiche. Per converso, il deficit e la disabilità – quali segni di vulnerabilità, dipendenza e non-produttività – sono proiettati come stati ridotti dell’essere umano, come dimensioni carenziali dell’individuo intrinsecamente negative. Il pernicioso influsso dell’“abilismo” si attua, quindi, nella tendenza a dare per scontata l’abilità come criterio legittimo per operare un trattamento differenziale o, altrimenti detto, nell’uso acritico dell’abilità come criterio sulla cui base decidere il merito di una persona. Cfr. T.P. Dirth-N.R. Branscombe, Recognizing Ableism: A Social Identity Analysis of Disabled People Perceiving Discrimination as Illegitimate, in Journal of Social Issues, n. 3, 2019, pp. 786-813; G. Vadalà, Il DNA della disabilità: Dipendenza, Normalizzazione e Abilismo come categorie disabilitanti, in Italian Journal of Disability Studies, n. 1, 2011, pp. 47-55.

[95] Cfr. W.J. Smith, Forced Exit: Euthanasia, Assisted Suicide, and the New Duty to Die, New York, 2006.

[96] Progresso tecnologico e conoscenza scientifica, prospettive sociologiche del diritto, erosione del fondamento ontologico e assiologico del diritto, modifica dell’immagine antropologica dell’uomo e della vita umana, rivendicazione della libertà che intende asservire il diritto, soggettivismo etico, assolutizzazione dei diritti, richiesta di adeguamento legislativo ai desiderata personali di quanto è tecnicamente possibile, pretesa di tutela dei c.d. “nuovi diritti” quali fattispecie originate dalle possibilità scientifiche che, talvolta, si realizzano in comportamenti che richiederebbero, invece, di essere sanzionati. Cfr. A. Ruggeri, La “federalizzazione” dei diritti fondamentali, all’incrocio tra etica, scienza e diritto, in www.medialaws.eu, n. 2, 2018, p. 20.

[97] Che i presunti “diritti della libertà” avanzino, anche in modo molto sottile, soprattutto sul versante dei temi c.d. eticamente sensibili, aprendo sovente dei varchi a colpi di sentenze che precedono la legge, a livello sia nazionale sia sovranazionale, non è più solamente un rischio ipotetico, bensì un dato reale di constatazione oggettiva. Da tempo, la magistratura si è assunta il ruolo di accelerare l’avanzamento di determinati diritti, assecondando quei desideri individuali che non sono rapidamente soddisfatti dalla legislazione, atteggiamento questo che ha originato un problema quanto mai attuale, quello del giudice-legislatore, sebbene le sentenze non siano incaricate di scolpire la legge. Cfr. F.J. Borrego Borrego, Il Tribunale europeo dei diritti dell’uomo e l’interpretazione “creativa” della Convenzione EDU, in L-JUS, n. 1, 2019, pp. 6-13; A. Borg Barthet, Il giudice e i suoi limiti, pp. 14-18, in L-JUS, n. 1, 2019.

[98] Dal greco «ἔθος (o ἦθος), èthos» («abitudine, uso, consuetudine, costume, carattere, comportamento»), l’etica è una branca della filosofia che studia i fondamenti razionali che consentono di attribuire alla condotta umana uno status deontologico, ed è elaborata in funzione sia del triplice bene della persona, del gruppo cui appartiene e delle istituzioni, sia dei limiti oltre i quali un’azione può definirsi dannosa, dichiarati come divieti fondativi della civiltà.

[99] Cfr. G. Puppinck, Les droits de l’homme dénaturé, Paris, 2018. In ossequio al nuovo paradigma secondo cui il “bene” di un individuo è etero-stabilito sulla base della “qualità della vita”, il fondamentale e inviolabile «diritto alla vita» – senza il quale nessun altro diritto avrebbe la propria raison d’être – è trasformato, nell’accezione di degradazione, in “dovere alla non-vita”, non poggiante su alcun principio di diritto o su alcuna tutela, e concretantesi in un’antinaturale separazione della specie umana. Cfr. A.R. Vitale, Dal diritto di morire al dovere di morire: chiaroscuri e prospettive, in www.centrostudilivatino.it, 11 aprile 2017. Una simile aberrante deformazione del diritto – per la quale il bene giuridico persona non è più legato al principio di uguaglianza sostanziale – rievoca, in chiave storica, la differenziazione tra gli esseri umani operata prima e durante il secondo conflitto mondiale. Cfr. L. Mai, L’invisibilità dei diritti: riflessioni a proposito del “dovere di morire”, in Law and Economics Euro-Balkan Review, n. 1, 2019, pp. 204-218.

[100] Cfr. G. Razzano, Il diritto di morire come diritto umano? Brevi riflessioni sul potere di individuazione del best interest, sull’aiuto alla dignità di chi ha deciso di uccidersi e sulle discriminazioni nell’ottenere la morte, in Archivio Penale, 2018, n. 3, pp. 1-16. Dato che la sfera dei diritti tutela valori di cui si può fruire, morire non è un diritto perché la morte è un fatto. Si osservi, inoltre, che nell’ottica in cui si concepisca che il «diritto alla vita» comporti il «diritto alla morte» – che, sotto il profilo pratico, si traduce nel «diritto di essere uccisi» (cfr. M. Ronco (a cura di), Il «diritto» di essere uccisi: verso la morte del diritto?, Torino, 2019) –, ne discende che quest’ultimo, coerentemente alla dinamica giuridica della correlativa responsabilità legata a ciascun diritto, comporti il «dovere di uccidere». Cfr. A. García, La giurisprudenza europea in materia di eutanasia, in Studia Bioethica, n. 1-2, 2010, pp. 70-75. Ergo, chiunque sarebbe autorizzato o, addirittura, costretto a trasformarsi in un assassino (o esecutore di morte). Va da sé che dietro una simile ideologia non vi è la logica dei “diritti”, bensì l’intento di distruggere totalmente il concetto di “etica” e l’esistenza di principi morali inviolabili – in primis il principio «non uccidere» – giungendo ad abolire, appunto, qualsivoglia limite etico e a coonestare l’omicidio. Cfr. G. Guzzo, Dall’eutanasia all’omicidio il passo è breve, il Belgio insegna, in www.lanuovabq.it, 27 novembre 2019. L’uccisione finisce per essere ritenuta la risposta alla sofferenza umana – non definibile, peraltro, con parametri oggettivi – e, di conseguenza, quale atto compassionevole. In realtà, il «diritto di morire» può ben qualificarsi come un’invenzione strumentale alla considerazione del paziente come una “ex persona”, degradato a “vegetale” in ragione della patologia di cui è affetto. Cfr. A.R. Vitale, Dal diritto di morire al morire del diritto, in L-JUS, 2018, pp. 148-167. Riconoscere legalmente il diritto/dovere di sopprimere un uomo quando si ritiene che abbia perduto la propria dignità a causa della non perfettibilità psico-fisica è ammettere che nella propria vita costui possa diventare una “cosa”. Resta, pertanto, attuale quanto affermato da Cesare Beccaria ne Dei delitti e delle pene del 1764: «[n]on vi è libertà ogni qual volta le Leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa».

[101] Non dovrebbe, tuttavia, sfuggire all’attenzione dei convinti assertori dell’illimitata libertà individuale (ideologia libertaria) che, riguardando un essere umano in relazione, la libertà non è mai puramente individuale, non può prescindere dal rapporto con gli altri. Parimenti, considerando che è alla società che l’individuo chiede di soddisfare i propri desiderata, questi non sono mai puramente individuali, poiché interessano la società nel suo insieme. Ciò stante, un’«etica della libertà» potrebbe ritenersi configurabile, ma a principiare da un’«etica del limite e della responsabilità» perché «[l]a libertà senza limiti è il contrario della libertà. Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti […]. Ma se si vuole esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una vecchia storia, la libertà degli altri. […] Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. Il resto, la libertà senza limiti, non viene vissuta e ha come prezzo la morte degli altri. La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata» (A. Camus, Il futuro della civiltà europea, Roma, 2012, p. 39).

[102] Cfr. G. Rocchi, Licenza di uccidere. La legalizzazione dell’eutanasia in Italia, Bologna, 2019. Se il principio della “sacralità della vita” non è accettato integralmente è annientato, e il radicale cambiamento culturale che ne consegue segna l’inevitabile affermazione di una prospettiva etica diversa: il passaggio dall’«etica della sacralità della vita» all’«etica della qualità della vita».

[103] Cfr. A. Morresi, Charlie, Alfie, Isaiah, Inés: il dramma di una mutazione profonda che attraversa l’Occidente, in www.siallavitaweb.it, n. 2, 12 febbraio 2018.

[104] Cfr. M. Casini, L’indisponibilità della vita umana nella prospettiva del Biodiritto, in Medicina e Morale, n. 2, 2010, pp. 209-225

[105] È il concetto universale ed egualitario della dignità – non della qualità – della vita nella sua interezza a costituire il fondamento su cui è stata eretta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (v. il Preambolo e l’art. 1) quale base comune che informa tutto il sistema giuridico europeo, così come i successivi documenti internazionali in subiecta materia quando proclamano la «dignità intrinseca» dell’essere umano, posseduta per il fatto stesso di esistere (v. la Dichiarazione di Punta del Este sulla dignità umana per chiunque e ovunque del 2018), e vietano la discriminazione a causa della disabilità o dello stato di salute. Ciò vale anche per il diritto alla vita, l’unico a essere qualificato come «inerente alla persona umana» dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (v. l’art. 6, par. 1). Cfr. European Centre For Law & Justice, Contribution de l’ECLJ à la révision de l’observation générale n° 36 relative à l’article 6 du Pacte international relatif aux droits civils et politiques sur «le droit à la vie», in www.eclj.org, 6 octobre 2017.

[106] La dignità della persona è, invero, inscindibilmente connessa alla propria unicità e al proprio inalienabile diritto alla vita poiché sussiste per il semplice fatto dell’esistenza in vita, essendo tutt’uno con la persona e, come tale, non ammette una scala di valori. E, proprio in quanto non separabile dal soggetto perché inerente alla natura umana, la dignità ontologica si dà simpliciter, per se stessa. La dignità della vita è un concetto oggettivo: la vita vale per quello che essa è come singolare, particolare, specifica vita di ciascun individuo, qualunque siano le circostanze concrete della sua esistenza. Vivere (e morire) in modo dignitoso è un diritto che, tuttavia, non può essere invocato per attuare pratiche che vi si contrappongono: «lasciar morire» una persona di sete, di fame, di asfissia, o «far morire» una persona tramite la somministrazione di un preparato che determina direttamente la morte, non è mai un atto di civiltà. Cfr. A. Ruggeri, Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusiva vicenda (a margine di C. Cost. n. 207/2018), in Consulta Online, n. 1, 2019, pp. 100-102.

[107] La distinzione/classificazione tra “degno” e “indegno” con riferimento alla nozione qualitativa dell’esistenza umana annienta il fondamento dei diritti dell’uomo, vale a dire il principio secondo il quale ogni esistenza umana deve essere rispettata, da cui consegue che essa è valutata in conformità a una gerarchia di valore che annulla il principio di uguaglianza. Diversamente espresso, trasporre il riconoscimento della dignità intrinseca della persona alle condizioni estrinseche della stessa comporta, de facto, una progrediente discriminazione. L’adozione del paradigma della «vita senza senso» implica che, nei confronti del «diritto alla vita», alcuni non siano giuridicamente uguali agli altri, non fruendo di una piena protezione per il solo motivo di trovarsi in una situazione di estrema fragilità e che, nei confronti della libertà di cura, si escludano dall’assistenza e dalle cure proprio i soggetti che ne hanno maggiore necessità. Ne discende un serio pregiudizio verso il «diritto alla vita», tale per cui questo può essere legittimamente invocato soltanto da coloro i quali non sono stati colpiti da gravi disabilità psico-fisiche e/o da patologie a prognosi infausta, in patente contrasto con il principio di uguaglianza. Cfr. P. Kurti, Why Dignity Is a Poor Reason to Legalise Assisted Suicide, in Griffith Journal of Law & Human Dignity, n. 2, 2018, pp. 54-69; G. Razzano, Sulla sostenibilità della dignità come autodeterminazione, in BioLaw Journal, n. 2, 2019, pp. 95-111. Non solo: poiché la vita umana coincide con la persona, ridurre il livello di tutela della vita umana equivale a ridurre il livello di tutela della persona, quando invece il presupposto della democrazia è di attribuire valore incondizionato a ogni persona, il compito della società è di salvaguardare la vita di ogni cittadino. Da rilevare, in proposito, come il problema se una vita sia degna o no di essere vissuta non si ponga in una società fondata su un’antropologia dell’“eteronomia”, che si riferisce cioè a norme esteriori a sé (ad esempio, la legge naturale). Per converso, in una società “autonoma”, che riconosce cioè come legge soltanto sé stessa e nella quale tutto (vita, morte, essere umano, ecc.) riveste un significato diverso, il problema si pone in maniera inquietante.

[108] Cfr. E. Capozzi, Charlie Gard o la fine dell’umanesimo occidentale, in www.loccidentale.it, 29 giugno 2017. Si noti come, in ciascuno di tali “casi”, non sia stato dichiarato con un lessico esplicito che il soggetto gravemente disabile non fosse più “persona” ma, in una modalità sfumata, che la sua esistenza non fosse più “personale”, ossia che costui stesse conducendo una vita che non possedeva più i tratti dell’“umanità”.

[109] Cfr. E.D. Pellegrino, Decisions at the End of Life: The Use and Abuse of the Concept of Futility, in J. De Dios Vial Correa-E. Sgreccia (eds.), The Dignity of the Dying Person. Proceedings of the Fifth Assembly of the Pontifical Academy for Life, Città del Vaticano, 2000, pp. 219-241.

[110] Cfr. S. Ali, Terminal Illness, Socialized Medicine and the Question of Individual’s “Best Interest”, in Review of Human Rights, n. 1, 2018, pp. 87-101. Si noti altresì come i giudici inglesi non siano intervenuti per garantire il “bene” di Charlie, Isaiah e Alfie, quanto piuttosto il loro «migliore interesse», espressione tratta dal lessico economico-giuridico e applicata, nella sua freddezza, al diritto di sopravvivere di questi bambini. Difatti, il termine “interesse” è proprio dell’etica utilitaristica, e il principio utilitaristico rappresenta una colonna portante delle dottrine etico-giuridiche inglesi, o meglio, il fondamento della morale e del diritto.

[111] Cfr. C. Snead, The Alfie Evans Case Is Straight Out of a Dystopia, in www.eppc.org, 29 April 2018. L’antitesi tra morale e diritto si è espressa principalmente con riferimento al bene vita, che per la prima assume valore preminente, mentre per il secondo (scilicet, per la giurisprudenza britannica) è stato collocato in subordine rispetto al «migliore interesse» identificato, appunto, con la morte. Cfr. A. Scoppettuolo, Contraddizioni nel caso Charlie Gard: sul rapporto tra diritto e morale, in Rivista di Studi Politici “S. Pio V”, 2017, pp. 216-219. Il principio, apparentemente benevolo, del «best interest of the child» si è trasformato in un’arma contro la vita dei piccoli pazienti e in uno strumento per espropriare i rispettivi genitori dei loro diritti naturali. Il potere assoluto dello Stato sui corpi dei propri cittadini, specificamente l’autoritarismo del sistema inglese sulla vita di Charlie, Isaiah e Alfie si è manifestato, difatti, anche nel disconoscimento del diritto fondamentale dei rispettivi genitori a una positiva libertà di cura, così come al trasferimento del loro figlio a un altro ospedale o alla possibilità di ricondurlo a casa. Cfr. L. Cherkassky, Do Parents Have a Right to Determine Where a Child Patient Dies?, in K.A. Choong (ed.), Medical Futility in Paediatrics: Interdisciplinary and International Perspectives, Budapest, 2019, pp. 1-19; E.G. Stern, Parens Patriae and Parental Rights: When Should the State Override Parental Medical Decisions?, in Journal of Law and Health, n. 1, 2019, pp. 79-106. Valga ricordare, in proposito, che l’art. 23, par. 2, CDF riconosce il diritto dei minori handicappati di «beneficiare di cure speciali», lasciando intuire un favor per l’assistenza intra-familiare, per la cura prestata in un contesto di tipo domestico. Da rilevare, inoltre, che il paragrafo 3 del predetto articolo prevede che ai minori handicappati sia garantito l’effettivo accesso alle cure sanitarie, coerentemente con il diritto «di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione» (art. 24, par. 1, CDF), la tutela contro ogni forma di discriminazione (art. 2 CDF), e il «diritto inerente alla vita […] la sopravvivenza e lo sviluppo» (art. 6 CDF), da leggersi anche alla luce dell’art. 25 (Salute), lett. f), della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CDPD) del 2006, il quale richiede agli Stati Parti di «prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità». Cfr. B. Byrne, Article 23. Children with Disabilities, in J. Tobin (ed.), The UN Convention on the Rights of the Child. A Commentary, Oxford, 2019, pp. 887-888. Dunque, davanti a una situazione di incertezza o a un contrasto di vedute tra familiari e medici, sposare unicamente la tesi dell’équipe medica a favore dell’attuazione della «pratica mortifera», con conseguente totale vanificazione dell’antitetica volontà genitoriale, non è la strada ottimale da percorrere da parte dei giudici. È necessario applicare il «principio di precauzione», la soluzione più rigorosa a tutela del bene giuridico in discussione: la vita umana. Cfr. S. Schettino, Il diritto di autodeterminazione e la rappresentanza dell’interesse del minore. Brevi note sul (triste…) caso di Charlie Gard, in Dirittifondamentali.it, n. 2, 2017, pp. 1-15.

[112] Nell’opinione dei relativi sostenitori, il ricorso all’eutanasia è giustificato dal bene primario della «libertà di scelta» e dell’autodeterminazione del soggetto interessato il quale, in (presunta) piena consapevolezza, assume la decisione di porre uno stop definitivo alla propria esistenza, reputata non ulteriormente sopportabile in ragione della sofferenza fisica e/o morale, nonché della ritenuta perdita di significato della stessa. E se «il diritto è ormai consegnato alla solitudine della volontà umana» (N. Irti, Nichilismo giuridico, Bari, 2004, p. 23), scegliere di vivere o di morire assume il medesimo valore. È, nondimeno, di incontrovertibile constatazione che nessuna delle predette condizioni può dirsi sia sussistita nei “casi” in questione, in cui le morti sono assimilabili all’infanticidio. La pratica eutanasica, soprattutto infantile, è sostanzialmente antigiuridica in ragione della lesione del principio cardine – il principio di autonomia – invocato come suo elemento legittimante, lesione operata dalla stessa pratica eutanasica essendo applicata secondo una logica di eteronomia ai minori nei quali lo sviluppo delle caratteristiche necessarie per il processo decisionale non è presente e che, addirittura, non hanno ancora acquisito la capacità di parlare o comunicare. Cfr. A. Vitale, Eutanasia infantile, eutanasia del diritto, in www.tempi.it, 18 settembre 2016. Ciò implica il rinnegamento della fondazione ontologica della persona, in conformità alla concezione secondo la quale non è l’essere persona a costituire la relazione, bensì è la relazione a costituire l’essere persona. L’eutanasia non consensuale (o involontaria) dei tre bambini ha portato a emersione come siano stati intenzionalmente confusi i caratteri distintivi della persona (razionalità, coscienza) con il loro esercizio, in modo tale da considerare non più esistente il soggetto da tutelare laddove non sussista più (o sia alquanto compromessa) la vita di relazione con il mondo esterno. Cfr. A.G. Spagnolo, Perché non condivido l’eutanasia, Le scienze, n. 88, 2006, pp. 52-53. Sotto il pretesto di un avanzamento dell’autonomia individuale, l’affermazione della «libertà di morire» e del correlativo «diritto/dovere di uccidere» rappresenta una regressione dei diritti umani, derivante da una concezione disuguale dell’uomo secondo cui il rispetto per la vita umana sarebbe garantito unicamente a chi è in salute, ammettendo e incoraggiando il sacrificio dei più deboli le cui vite sarebbero abbandonate al potere dei più forti, spalancando così la strada all’eugenetica e al transumanesimo. Cfr. A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano, 2006.

[113] A fronte dell’impostazione secondo la quale se la vita del paziente è limitata nella sua qualità, i sostegni indispensabili per vivere possono essere rimossi, si solleva quantomeno un interrogativo: qual è la base scientifica della qualità della vita? Esiste, cioè, un metodo scientifico pratico per quantificare oggettivamente la qualità della vita esistente in una persona? La risposta è negativa (cfr. M. Charlesworth, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una società liberale, Roma, 1996, p. 35 ss.), tant’è che i giudici inglesi hanno fondato la propria decisione sulle proprie convinzioni personali, in netta contraddizione con il dichiarato esercizio del loro «independent and objective judgment in the child’s best interests» (v., supra, la nota n. 14). Come a dire che i “capricci” dei giudici basati sul proprio codice morale flessibile, ritenuto superiore a quello dei genitori, possono sempre sostituirsi al processo decisionale di questi ultimi.

[114] Si rammenti che l’eutanasia è illegale in tutto il territorio del Regno Unito, è assimilata al reato di omicidio e la massima pena prevista è l’ergastolo. Pertanto, ordinando l’eutanasia di Charlie, Isaiah e Alfie, i giudici hanno imposto di commettere un reato. Non essendo stati indicati, in quanto inesistenti, appigli giuridico-normativi per legittimare la soppressione di questi bambini, ecco spiegato il ricorso all’escamotage giuridico dell’occultamento di tale reato sotto le sembianze del riferimento, peraltro inconferente, al rifiuto dell’«accanimento terapeutico». Assume un valore paradigmatico la sentenza del 30 luglio 2018, con la quale la Corte Suprema britannica ha stabilito che, senza la previa autorizzazione della Court of Protection – il tribunale che decide nel caso in cui una persona non abbia la capacità mentale di pensare e di agire – possono essere sottratti ai pazienti fluidi e cibo somministrati via tubo per vivere e che, conseguentemente, costoro possono essere «lasciati morire» di sete e di fame (un’agonia per inedia che può protrarsi anche per settimane), essendo sufficiente a tale fine l’accordo tra i loro familiari e i medici. La sentenza – nella quale si legge che «no life is to be relinquished easily» e che, tuttavia, «there may come a time when life has to be relinquished because that is in the best interests of the patient» (Supreme Court of the United Kingdom, An NHS Trust and Others (Respondents) v. Y (by his litigation friend, the Official Solicitor) and Another (Appellants), [2018] UKSC 46, 30th July 2018, par. 91) – è applicabile ai pazienti che presentano danni cerebrali ma sono svegli (seppure non consapevoli, oppure solo parzialmente consapevoli) e non abbisognano della ventilazione assistita (ossia respirano autonomamente), privando queste persone che non hanno voce di una tutela importante. È stimato che una simile decisione, presa dal massimo organo giurisdizionale del Regno Unito, interessi fino a 24.000 pazienti in stato vegetativo persistente (SVP) e in stato di minima coscienza (SMC) che, nel loro (presunto) «migliore interesse», possono essere intenzionalmente abbandonati a una morte dovuta alla disidratazione e all’inanizione, anche se non sono a rischio imminente di morire, anche se potrebbero vivere per anni e, in taluni casi, recuperare coscienza qualora fossero assistiti. Non solo: accanto a motivi “ideologici”, sussistono altresì ragioni di natura finanziaria giacché il potenziale risparmio annuo per il NHS, può arrivare a 2,4 miliardi di sterline, considerando che l’assistenza per una persona in SVP o SMC costa ogni anno circa 100.000 sterline.

[115] Cfr. L. Violini, Sul caso di Charlie Gard e sul compito arduo del giudice, in Quaderni Costituzionali, 2017, pp. 944-946.

[116] Cfr. W.J. Eijk, Eutanasia su dementi, una sentenza da piano inclinato, in www.lanuovabq.it, 25 aprile 2020.

[117] Cfr. G. Rocchi, La tutela della vita nell’ordinamento giuridico italiano. La questione del fine vita, in L-JUS, n. 2, 2019, pp. 22-29.

[118] «Il diritto non può violare il principio della inviolabilità dell’innocente senza negare la propria essenza di regola giusta per trasformarsi in violenza. Là dove per legge […] diventa lecito uccidere un innocente, s’instaura infatti l’arbitrio, ossia la licenza di compiere o di non compiere a proprio piacimento un atto dannoso per altri» (S. Cotta, Perché il diritto, Brescia, 1979, p. 100). Anche se una legge ne sancisce la possibilità, l’eutanasia è sostanzialmente illecita sotto il profilo sia etico sia giuridico. Non tutto ciò che è concesso ope legis può ritenersi giusto: «non è da considerarsi legge una norma non giusta. Perciò una norma ha vigore di legge nella misura che è giusta. Ora, tra le cose umane un fatto si denomina giusto quando è retto secondo la regola della ragione. Ma la prima regola della ragione è la legge naturale […]. Quindi una legge umana positiva in tanto ha natura di legge, in quanto deriva dalla legge naturale. Ché se in qualche cosa è contraria alla legge naturale, non è più legge ma corruzione della legge» (T. D’Aquino, La somma teologica, Bologna, 1991, p. 114).

[119] Cfr. A.J. Heschel, Chi è l’uomo?, Milano, 2005, p. 41.

[120] Calzanti, al riguardo, le parole dei cinque giudici strasburghesi che si sono opposti all’avallo della Corte europea all’esecuzione del protocollo eutanasico nei confronti del paziente francese Vincent Lambert. «In 2010, to mark its fiftieth anniversary, the Court accepted the title of The Conscience of Europe when publishing a book with that very title. Assuming, for the sake of argument, that an institution, as opposed to the individuals who make up that institution, can have a conscience, such a conscience must not only be well informed but must also be underpinned by high moral or ethical values. These values should always be the guiding light, irrespective of all the legal chaff that may be tossed about in the course of analysing a case. […] it is of the very essence of a conscience, based on recta ratio, that ethical matters should be allowed to shape and guide the legal reasoning to its proper final destination. That is what conscience is all about. We regret that the Court has, with this judgment, forfeited the above-mentioned title» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Lambert and Others v. France, sentenza del 5 giugno 2015, ricorso n. 46043/14, Joint Partly Dissenting Opinion of Judges Hajiyev, Šikuta, Tsotsoria, De Gaetano and Griҭco, par. 11). Cfr. G. Razzano, La sentenza CEDU sul caso Lambert: la Corte di Strasburgo merita ancora il titolo di The Conscience of Europe?, in Forum di Quaderni costituzionali, 17 luglio 2015, pp. 1-4.

[121] Cfr. A. Morresi, Charlie Gard. Eutanasia di Stato, Roma, 2017.

[122] Dopo la morte di Charlie, i suoi genitori hanno lavorato a lungo insieme a specialisti di patologie neonatali, politici ed esperti di etica e diritto, alla stesura del testo di una proposta, «Charlie’s law», di modifica della legge (presentata sotto la formula del «private member’s bill», ovvero come proposta di un parlamentare non facente parte dell’esecutivo), al fine di: i) prevedere «a shift to significant harm threshold», cosicché i giudici non possano intervenire a meno che la decisione dei genitori presenti un serio rischio che il figlio subisca un danno significativo; ii) garantire ai genitori un migliore accesso ai comitati etici, in modo da evitare che eventuali conflitti con i medici giungano in tribunale; iii) favorire l’acquisizione di un secondo parere medico; iv) accedere alla consulenza legale. Parimenti, in risposta all’esperienza vissuta dai genitori di Alfie, Steven Woolfe, avvocato e deputato inglese indipendente, ha proposto l’introduzione della «Alfie’s law» al fine di «restore the rights of parents in such decisions» nei confronti dello strapotere di medici e giudici, ossia per assicurare i c.d. «moral rights» dei genitori riguardo alla cura dei propri bambini malati, ristabilendo un equilibrio tra le parti. Nello specifico, si tratterebbe di: i) prevedere la figura di un difensore imparziale che possa agire in nome dei genitori per supportarli nel corso dell’iter giudiziario; ii) garantire ai genitori il diritto a un finanziamento proporzionato, per sostenere le spese processuali; iii) dare voce a un medico scelto dai genitori, indipendente rispetto al NHS, cui i giudici siano tenuti ad attribuire un peso equivalente. Cfr. C. Dyer, Alfie Evans Case: Proposed Law Aims to Prevent Conflicts between Parents and Doctors, in British Medical Journal, 2018; D. Wilkinson-J. Savulescu, Alfie Evans and Charlie Gard – Should the Law Change?, in British Medical Journal, 2018.

[123] Cfr. R. Guardini, Il diritto alla vita prima della nascita, Brescia, 2005. Le vicende di Charlie, Isaiah, Alfie e delle rispettive famiglie hanno posto paradigmaticamente degli interrogativi sui limiti alla libertà personale – in primis alla più fondamentale delle libertà, cioè quella di vivere – fissati dallo Stato in ossequio a un presunto «migliore interesse» che, nelle fattispecie, altro non è stato se non una nobile etichetta applicata su una forma di autentica tirannia. Se il favor vitae è sostituito dal primato della “scelta”, e questa è posta nelle mani dello Stato considerato quale interprete dell’interesse del paziente, lo Stato esplicherà il proprio ruolo illimitatamente, decidendo luogo e ora in cui il paziente dovrà morire, in alcun modo distinguendosi da quanto accade con la pena di morte. È agevole constatare come ciò apra la strada all’abolizione della libertà per tutti. Cfr. G. Agamben, Homo sacer: il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 2005.

[124] Cfr. S.M. Krason, The Charlie Gard Case: A Coming Together of Current Troublesome Realities, in Catholic Social Science Review, 2018, pp. 367-370. Cfr. anche G. Brambilla (a cura di), Riscoprire la Bioetica. Capire, formarsi, insegnare, Soveria Mannelli, 2020.

[125] «La vita è bellezza, ammirala. / La vita è un’opportunità, coglila. / La vita è beatitudine, assaporala. / La vita è un sogno, fanne una realtà. / La vita è una sfida, affrontala. / La vita è un dovere, compilo. / La vita è un gioco, giocalo. / La vita è preziosa, abbine cura. / La vita è una ricchezza, conservala. / La vita è amore, donala. / La vita è un mistero, scoprilo. / La vita è promessa, adempila. / La vita è tristezza, superala. / La vita è un inno, cantalo. / La vita è una lotta, accettala. / La vita è un’avventura, rischiala. / La vita è felicità, meritala. / La vita è la vita, difendila» (Madre Teresa Di Calcutta, Inno alla vita).