Pubblichiamo a seguire, per l’interesse della materia e per il pregio che ha il documento, la requisitoria che il Sost. Procuratore Generale alla Suprema Corte di Cassazione dott.ssa Luisa De Renzis ha depositato in una controversia riguardante la possibilità di iscrivere come figlio di due persone dello stesso sesso il figlio di una di esse, di sesso femminile, nato a seguito di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.

 

PROCURA GENERALE

della Corte di Cassazione

 

Udienza Pubblica 9.1.2020 – R.G. XXX/2019 – Cons. XXX

Conclusioni scritte del Pubblico Ministero

Il SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE

 

Letti gli atti relativi al ricorso per cassazione proposto da Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro-tempore, e da UTG-Prefettura di X, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato contro Y, Z e J e nei confronti di Procura della Repubblica presso il Tribunale di X e Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Firenze avverso il decreto n. 000;

 

OSSERVA

 

1.Il presente ricorso esige un esame preliminare circa i fatti di causa per la particolarità e la speciale rilevanza degli stessi nella definizione giuridica della controversia.

Nella parte introduttiva del ricorso per cassazione, dedicata al fatto, si premette che Y e Z contraevano unione civile ai sensi della legge n. 76/2016 e che la Y, nel 2016, aveva fatto ricorso alla tecnica della procreazione medicalmente assistita eterologa (di seguito PMA) in Spagna.

Z aveva prestato il proprio consenso informato alla effettuazione della PMA con l’intento di assumere, secondo le norme di quell’ordinamento giuridico, la responsabilità genitoriale del nascituro.

In data 18.11.2017, in seguito alla PMA, nasceva J e le contro ricorrenti, in data 27.11.2017, presentavano dichiarazione di riconoscimento del minore nella qualità di genitori presso l’ufficiale di stato civile del Comune di B in cui era ubicata la loro residenza.

In riscontro alla richiesta, l’ufficiale dello stato civile rifiutava l’istanza ed indicava come madre la sola sig.ra Y perché l’ordinamento italiano (alla luce della legge 40/2004 e del codice civile, non derogate dalle disposizioni sulle unioni civili) non consente il riconoscimento della genitorialità omosessuale e non prevede un atto di nascita, nel quale figurino due figure genitoriali dello stesso sesso.

Le contro-ricorrenti si rivolgevano al Tribunale di X per ottenere la rettifica dell’atto di nascita di J, ai sensi dell’art. 95 del d.p.r. n. 396/2000, chiedendo la formazione di un nuovo atto di nascita con l’attestazione che il minore era nato dai Genitori Y e Z o, in subordine, l’annotazione a margine dell’atto di nascita di Z il suo riconoscimento, in qualità di figlio, da parte di Z.

Il tribunale di X accoglieva il ricorso ed ordinava all’ufficiale di stato civile di formare un nuovo atto di nascita attribuendo sia a Y che a Z lo state di madre di J.

Il suddetto decreto veniva impugnato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di X ed in giudizio interveniva l’amministrazione statale competente a sostegno delle ragioni di impugnazione già proposte dal P.M. reclamante.

La Corte di Appello di Firenze, con decreto del 19.4.2019, respingeva il reclamo e procedeva alla conferma del decreto emesso dal Tribunale di X, disponendo l’immediata esecuzione del decreto e la compensazione delle spese di lite tra le parti.

Propongono ricorso per cassazione il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro-tempore, e UTG-Prefettura di X sulla base dei seguenti tre motivi:

-difetto assoluto di giurisdizione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1 c.p.c.;

-violazione e/o falsa applicazione dell’art. 30 del d.p.r. 396/2000 e dell’art. 299 c.c. e degli artt. 4, 5, 8, 12 della legge 40/2004 ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.;

-violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4, 5, 8, 12 della legge 40/2004 ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.

2.Sull’ammissibilità del ricorso, questo ufficio rileva che – ai sensi dell’art. 111 cost. – anche un provvedimento in materia di volontaria giurisdizione, con attitudine ad incidere su diritti soggettivi, è tale da essere equiparato ad un provvedimento di natura decisoria.

Nel caso di specie, è indiscutibile la rilevanza del provvedimento nell’ambito della sfera giuridica personale delle parti e la natura decisoria e definitiva del provvedimento stesso, contro il quale non è previsto altro rimedio specifico se non il ricorso per cassazione (Cfr. Cass. 14878/2017).

  1. In via preliminare, in considerazione della rilevanza della questione giuridica che investe tanto la formazione in Italia di un atto di nascita comprendente due madri quanto il correlato regime giuridico della genitorialità condivisa in coppia omosessuale che ha fatto ricorso alla PMA all’estero con parto in Italia, si chiede la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione perché riguardante una questione di particolare importanza.

Sul punto, di recente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza dell’otto maggio 2019, n. 12193, si sono occupate del caso della doppia paternità a seguito di maternità surrogata.

La Corte di Cassazione ha affermato che il provvedimento giurisdizionale straniero, nel quale è stata annotata la doppia paternità, non può avere efficacia nel nostro ordinamento giuridico in quanto non compatibile con i principi di ordine pubblico.

La compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli articoli 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, esige una valutazione ampia e deve essere «valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico».

Con la sentenza in esame la Cassazione ha inteso privilegiare una nozione di ordine pubblico non più limitato «ai soli principi supremi o fondamentali e vincolanti della Carta costituzionale» comuni anche ad altri ordinamenti giuridici.

Così, a differenza di quanto affermato nell’ordinanza del 22 febbraio 2018, n. 4382, le Sezioni Unite della Cassazione hanno delineato un concetto di ordine pubblico interessato delineato anche da altre regole che «rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondamentali dell’intero assetto ordinamentale».

La sintesi di questi elementi normativi consente di trarre la nozione di “ordine pubblico” e di cristallizzarne la sua valenza in un determinato periodo storico.

In conclusione, le sezioni unite della Corte di Cassazione, hanno affermato che il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione, cittadino italiano, trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità, regolato dall’art. 12, sesto comma, della legge n. 40 del 2004.

Tale divieto è qualificabile come principio di ordine pubblico poiché posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione.

Nel bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale non è consentito sostituire una valutazione di tipo interpretativo – creativa ad opera del singolo giudice, il divieto della maternità surrogata assume carattere prevalente, né cede di fronte alla esigenza di conferire rilievo ad un rapporto genitoriale intenzionale che non sia quello già reso possibile dalle norme recepite dall’ordinamento: si pensi all’art. 44, comma prima lett. d) della legge 184 del 1983 che offre spazio all’adozione in “casi particolari”.

Questo ufficio è consapevole che il caso pervenuto all’esame delle sezioni unite presentava significative differenze rispetto al caso di cui si discute, tuttavia i principi di diritto e la nozione di “ordine pubblico” delineata dalla Corte di Cassazione assumono una valenza che va ben oltre la singola vicenda umana e che è applicabile anche nella vicenda relativa alla formazione di un atto di nascita comprendente due madri ed al correlato regime giuridico applicabile alla genitorialità condivisa in coppia omosessuale femminile che ha fatto ricorso alla PMA all’estero con parto in Italia.

In questo contesto, dove la Corte di Cassazione non intenda recepire la nozione di “ordine pubblico” già ben delineata nelle ipotesi di surrogazione di maternità nella coppia di padri omosessuali, si conclude per la rimessione della controversia al nuovo esame della Corte di Cassazione a Sezioni Unite.

La questione oggetto del presente giudizio, lungi dal potersi dire definita sulla base del pronunciamento già reso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 19599/2016 e con la successiva sentenza 14878/2017 (che hanno riconosciuto la trascrivibilità dei certificati di nascita esteri recanti l’indicazione di due madri)[1], evidenzia importanti spunti di riflessione, tutti ancora da esaminare, anche in relazione al variegato quadro giurisprudenziale che impone di effettuare una seria ricognizione delle situazioni eventualmente tutelabili.

A tal proposito, occorre porsi una serie di interrogativi e ragionare sul profilo preminente del riconoscimento giuridico della filiazione nelle coppie omosessuali mediante il ricorso alla fecondazione assistita eterologa e sugli impedimenti addotti dall’ufficiale dello stato civile che non ha proceduto alla formazione di un atto di nascita con due madri (madre e co-madre).

Gli interrogativi aumentano dove si consideri che la PMA in coppia omosessuale non è consentita (Cfr. art. 5 legge  40/2004 «Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi») e la  Corte costituzionale, con sentenza n. 221 del 23 ottobre 2019, ha confermato la tenuta costituzionale del divieto di fecondazione eterologa alle coppie omosessuali.

Anche a volere scindere, con una incomprensibile operazione logico-giuridica, la illiceità della pratica sanitaria dagli effetti consensuali relativi alla successiva attribuzione dello “status” di figlio, non si può ignorare – a livello sistematico – che le norme ordinarie e le norme codicistiche non risultano affatto abrogate e che concorrono comunque a regolare la materia ed a delineare la nozione di “ordine pubblico”, che non lascia spazio ad una genitorialità intenzionale come intesa dalle parti contro-ricorrenti.

La questione centrale del presente ricorso  – oltre ad imporre a questo ufficio (in sede di requisitoria) ed alla Corte di Cassazione (in sede di decisione) una adeguata ricostruzione sistematica del problema giuridico – esige una verifica attenta sulla valenza della legge 40/2004 ed in particolare dell’art. 8 della citata legge, nella parte in cui si afferma che «i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio e riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime».

Si tratta, come correttamente evidenziato dalla difesa delle contro-ricorrenti (Cfr. pag. 20 controricorso), di interrogarsi a fondo sulla questione centrale del giudizio: in caso di realizzazione all’estero di tecniche di PMA vietate in Italia si applica l’art. 8 della legge 40/2004 al bambino che nasca in Italia a seguito della esecuzione di quelle tecniche oppure l’art. 8 richiede indefettibilmente la sussistenza, a monte, dei requisiti di accesso previsti dalla legge italiana?

La portata (espansiva ed alternativa) di tale norma è tale da poterla certamente applicare anche alle tecniche vietate dalla stessa legge nella quale è inserita?

Ancora, a voler interpretare la norma in maniera estensiva, così da codificarne una sorta di “status filiationis” alternativo a quello imposto dal sistema legislativo vigente e dalle norme del codice civile, quali sarebbero i limiti applicativi della norma nell’ambito di un sistema giuridico che non riconosce uno “status filiationis” operante sul piano meramente potestativo?

È compatibile con il sistema giuridico italiano la creazione di uno “status filiationis” rimesso alla volontà delle parti quando invece lo “status filiationis”, al pari di tutti gli “status” che si giovano di garanzie peculiari e dell’intervento del pubblico ministero nelle relative controversie, è sempre stato sottratto alla disponibilità delle parti?

Dilatando l’operatività della norma, oltre i casi ed i modi nella stessa considerati, non si rischia di aprire il varco ad una genitorialità (intenzionale) del tutto avulsa e svincolata da ogni regola biologica nell’assenza peraltro di una regolamentazione giuridica da parte del legislatore?

In conclusione, si impongono una lunga serie di interrogativi giuridici che non possono essere certamente ignorati da questo ufficio nell’ambito di un presidio di legalità e che richiedono, da parte della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, una equilibrata ponderazione nella ricostruzione del quadro normativo sistematico di fondo.

Non si può infatti sottacere che la giurisprudenza italiana ha riconosciuto, in un quadro variegato, disarmonico e lacunoso, la filiazione di due mamme nelle seguenti fattispecie:

-adozione in casi particolari ex art. 44, co. 1, lettera d) legge 184/1983 (Cfr., Cass. 22 giugno 2016, n. 12962 e Cass. SS.UU. 8 maggio 2019 n. 12193) in favore della co-mamma o madre sociale;

-trascrizione dell’adozione c.d. piena pronunciata all’estero in favore di una coppia di due donne italiane (Corte di Appello di Milano, sentenza del 16 ottobre 2015);

-trascrizione integrale dell’atto di nascita di un minore con cittadinanza straniera, con mamma biologica straniera e co-mamma italiana (Corte di Appello di Torino, decreto 29 ottobre 2014 e Cass. sentenza n. 19599/2016);

-trascrizione integrale dell’atto di nascita di un minore con cittadinanza italiana, nato da due donne entrambe italiane, una delle quali non legata giuridicamente al nato (Cfr. Cass. n. 14878/2017).

La varietà delle situazioni giurisprudenziali suggerisce dunque un ulteriore approfondimento da parte delle sezioni unite specie in riferimento ai seguenti due aspetti:

-perdurante validità del concetto di ordine pubblico anche in riferimento alla fecondazione eterologa per le coppie omosessuali;

-valenza da attribuire all’art. 8 legge 40/2004 (natura ed efficacia del consenso).

Dalla interpretazione di tale ultima norma dipende l’assetto giuridico di questioni centrali in tema di diritto della famiglia.

3.In via subordinata, ove la Corte di Cassazione – nell’esercizio del suo potere discrezionale – valuti di esercitare la propria funzione nomofilattica nell’ambito della sezione semplice, questo Ufficio conclude per l’accoglimento del ricorso, chiedendo il recepimento della nozione di “ordine pubblico” delineata dalla Corte di legittimità sulla base del sistema normativo attualmente vigente e la contemporanea affermazione della inapplicabilità dell’art. 8 legge 40/2004 oltre i casi ed i modi previsti dalla stessa legge.

La prima censura (“difetto assoluto di giurisdizione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1 c.p.c.”) è volta ad evidenziare come la Corte di Appello di Firenze abbia operato con un intervento creativo che eccede i limiti della giurisdizione ed invade la discrezionalità politica del legislatore.

La parte ricorrente rileva «non pare dubbio cheallo stato attuale dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico nazionalenon possa predicarsi l’ammissibilità di una ipotesi di trascrizione negli atti di uno stato civile di una piena bigenitorialità omossessuale giuridicamente valida, di un individuo nato in Italia». (Cfr. p. 4 del ricorso).

In sintesi, la parte ricorrente, dopo avere effettuato una ricognizione accurata delle varie forme di filiazione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano (1.filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso; 2.filiazione adottiva, tramite procedimento giurisdizionale, in assenza di legame biologico; 3. filiazione tramite procreazione medicalmente assistita (PMA), con legame biologico ovvero senza legame biologico dopo la sentenza n. 162/2014 della Corte costituzionale che ha rimosso il divieto per la fecondazione c.d. eterologa, pur nei limiti delineati dalla pronuncia predetta e sempre tra persone dello stesso sesso), ravvisa nella decisione impugnata un eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera delle attribuzioni riservata al legislatore poiché il giudice ha applicato non una norma esistente ma una norma da lui creata, esercitando una produzione/abrogazione normativa estranea alla propria competenza.

Il Ministero ricorrente aggiunge come l’interpretazione operata dalla Corte di Appello di Firenze sarebbe persino “contra legem”, non potendosi ipotizzare un vuoto normativo nella materia in oggetto.

La decisione, sul punto, si presenta immune dalla censura di eccesso di potere giurisdizionale.

Invero, l’oggetto del giudizio ruota intorno alla interpretazione dell’art. 8 della legge 40/2004 ed alla correlata richiesta del riconoscimento di una bigenitorialità omossessuale condivisa che scaturisca proprio dalla peculiare interpretazione che di tale norma si faccia.

In questo contesto, non può dirsi che il giudice si sia mosso al di fuori della propria sfera giurisdizionale, trattandosi di decidere una questione connessa con l’interpretazione di una norma vigente all’interno dell’ordinamento giuridico (art. 8 della legge 40/2004) italiano e sovranazionale nel combinato disposto delle altre norme contenute della stessa legge (art. 5 legge 40/2004).

Invero, si può discutere sulla legittimità o meno del tentativo di dilatare l’operatività dell’art. 8 sino ad aggirare i divieti di accesso alla PMA ma non appare altrettanto discutibile la sfera giurisdizionale, riservata pur sempre al giudice ordinario che ha il potere di valutare e di interpretare la normativa vigente nel quadro sistematico ed ordinamentale di fondo.

Sul secondo e sul terzo motivo di ricorso (2. “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 30 del d.p.r. 396/2000 e dell’art. 299 c.c. e degli artt. 4, 5, 8, 12 della legge 40/2004 ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.”; 3.”violazione e/o falsa applicazione degli artt. 4, 5, 8, 12 della legge 40/2004 ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.”) da trattare congiuntamente per la stretta correlazione delle censure, va osservato quanto segue.

In primo luogo, questo ufficio, richiama i principi di diritto già affermati nella citata decisione a Sezioni Unite secondo i quali la nozione di ordine pubblico interno è ampia, omnicomprensiva delle norme ordinarie e codicistiche, le quali non possono essere tralasciate nella ricostruzione del concetto di ordine pubblico in un dato momento storico.

Non si può ignorare, se non disapplicando la normativa tuttora esistente, che le norme vigenti (art. 30 del d.p.r. 396/2000, art. 269 c.c. e artt. 4, 5, 8, 12 della legge 40/2004) non consentono di ritenere lecita la formazione di un atto di nascita comprendente due madri poiché l’ordinamento italiano riconosce che si è figli di un padre e di una madre e non consente, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dal legislatore, l’attribuzione della genitorialità a soggetti che non abbiano alcun legame biologico con il nato.

Quanto alla posizione giuridica della madre, non possono essere accantonate le disposizioni del codice civile (art. 269, comma 3, c.c.) che partono da un dato oggettivo-genetico, ovvero che la madre è solo colei che partorisce il figlio.

Del resto, l’attribuzione giuridica della maternità, al di fuori delle ipotesi di adozione, è basata sul rapporto genetico di discendenza quale unico fatto oggettivo accertabile in sede giudiziale con regole tutte incentrate sulla esclusività della maternità; da qui la evidente inconciliabilità logico-giuridica di una prospettazione che faccia leva sulla compresenza di due madri legalmente riconosciute e riconoscibili come tali (una madre genetica ed una madre intenzionale).

Inoltre, nel porre rilievo centrale alle norme introdotte dalla legge 40/2004, obliterando completamente le norme del codice civile e dell’ordinamento dello stato civile, non è possibile giungere alle medesime conclusioni alle quali è giunta la Corte di Appello di Firenze.

In primo luogo – ad avviso di questo ufficio – occorre premettere che, anche a voler distinguere la pratica sanitaria della procreazione medicalmente assistita dallo “status” del nascituro e dagli atti successivi (pur sempre attinenti allo “status”), non è comunque possibile pervenire alla affermazione di una genitorialità omossessuale mediante attribuzione della doppia maternità nell’atto di nascita.

L’atto di nascita così formato si porrebbe in contrasto con le stesse disposizioni della legge 40/2004.

La tesi giuridica che, nel caso in esame, possa soccorrere la legge 40/2004 non può essere agevolmente sostenuta se non a pena di evidenti forzature e/o violazioni di legge.

Secondo questa tesi, l’art. 8 diviene la norma cardine ai fini dell’attribuzione dello “status” ed in presenza del requisito del consenso preventivo al ricorso delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (anche di quelle vietate), consente di superare automaticamente tutte le norme di segno contrario, espungendole dal concetto di ordine pubblico.

Si tratterebbe di legittimare un sistema giuridico alternativo, volto a regolamentare in via autonoma, o meglio speciale, lo “status filiationis” con una deroga alle norme dell’ordinamento italiano, le quali conserverebbero intatta la loro valenza giuridica per le sole ipotesi di filiazione naturale, ovvero non assistita medicalmente.

Il ragionamento giuridico effettuato dalle parti contro ricorrenti sull’applicabilità diretta dell’art. 8 legge n. 40/2004 («i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio e riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime») condurrebbe giuridicamente, e ancor prima logicamente, ad estendere la legge 40/2004 oltre i casi dalla stessa considerati, sino ad applicarla, in via estensiva, a casi espressamente vietati dalla medesima legge italiana (per l’appunto alla fecondazione artificiale necessariamente eterologa delle coppie omosessuali).

L’art. 8 della cit. legge, infatti, prende in considerazione le tecniche considerate lecite dalla medesima legge e solo in relazione a dette tecniche vige «lo stato di figli nati nel matrimonio e riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime».

Ne consegue che l’operazione estensiva, condotta senza alcun limite, si pone pur sempre al di fuori del testo di legge.

La difesa delle parti contro-ricorrenti rileva come non sia pertinente il richiamo al divieto legislativo della fecondazione artificiale eterologa codificato negli artt. 5 e 12, comma 2, della legge n. 40/2004; tali norme, secondo la difesa delle contro-ricorrenti, non riguarderebbero direttamente lo stato del nascituro e dunque non avrebbero l’effetto di impedire una applicazione estensiva dell’art. 8 della cit. legge, che opererebbe in posizione di alternatività con le norme civilistiche regolanti la materia del riconoscimento e dell’accertamento dello stato di figlio.

Una interpretazione così fatta, volta a scindere, e quasi a duplicare, il testo della legge (da una parte, le norme riguardanti esclusivamente i divieti della pratica della fecondazione e, dall’altra, le norme regolanti gli effetti derivanti dalle pratiche di procreazione medicalmente assistita – effetti estesi anche alle pratiche espressamente vietate), non pare sorretta da un adeguato rigore logico –argomentativo, né da solidi principi giuridici evincibili dallo stesso testo di legge, in quanto si tradurrebbe in una impropria sistematizzazione della norma (art. 8) al di fuori dallo stesso contesto di riferimento nel quale la norma è stata inserita e voluta dal legislatore.

Con tale operazione ermeneutica, sollecitata dalle parti contro-ricorrenti, verrebbe attribuito all’art. 8 della legge 40/2004 il valore di una norma dilatata, persino ultra attiva (oltre i modi ed i tempi considerati), che regolerebbe giuridicamente lo stato dei nascituri all’esito di qualsiasi tecnica di fecondazione medicalmente assistita (anche vietata), ponendo la norma in una posizione di assoluta prevalenza su tutte le altre norme codicistiche ed in aperto contrasto con la nozione di “ordine pubblico” quale, da ultimo, delineata anche dalla Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite.

Del resto, anche a voler ragionare in ottica di interpretazione estensiva e fare riferimento alle pratiche in uso presso altri paesi dell’Unione Europea e non, deve osservarsi come il panorama giuridico sulla fecondazione assistita è estremamente variegato, con la conseguente difficoltà di fare uso di una nozione comune di “ordine pubblico internazionale” al fine di valutare e considerare quale sia il giusto limite al riconoscimento di tecniche non consentite in ambito nazionale.

In altre parole, l’interpretazione estensiva dell’art. 8 legge 40/2004 – quale norma attributiva automaticamente di uno “status” anche in relazione a pratiche espressamente vietate – introduce gravi elementi di perplessità creando un pesante disallineamento con le norme ordinarie e codicistiche vigenti e ponendosi in contrasto con il concetto di “ordine pubblico”.

Volendo isolare la norma e riconoscerle una portata autonoma nell’ambito del diritto civile (ovvero una valenza normativa sganciata dal codice civile), va osservato come la norma, al solo scopo di legittimare con il consenso preventivo tutte le ipotesi di PMA vietate dalla legge, non può essere fittiziamente astratta dal sistema normativo nel quale essa stessa è inserita e non può essere disallineata dagli artt. 4 e 5 della legge 40/2004 con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla PMA.

Una simile configurazione varrebbe a riconoscere che il legislatore ha posto dei divieti alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e, al contempo, ha attribuito al consenso preventivo una portata così ampia, persino illimitata, da consentire di superare i divieti di legge dallo stesso previsti.

Sul punto, questo ufficio ribadisce con fermezza quanto già evidenziato a proposito della non applicabilità dell’art. 8 legge 40/2004 al fine di legittimare la pratica della fecondazione assistita post mortem (Cfr. Corte di Cassazione n. 13000/2019), rilevando come già in quelle sede – su una questione così importante – venne formulata – in via prioritaria – la richiesta di remissione alle sezioni unite proprio per consentire una valutazione approfondita e coerente dell’art. 8 e per conferire una certa stabilità alla giurisprudenza successiva.

La Corte Suprema di Cassazione, decidendo a sezione semplice, stabilì di applicare l’art. 8 anche ai casi in cui la PMA fosse stata «realizzata all’estero in violazione dei requisiti soggettivi previsti dall’art. 5, anche al fine di salvaguardare i diritti fondamentali del minore, come quello all’identità personalel’art. 8 della legge n. 40 del 2004 esprime, poi, l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di PMA… La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell’accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all’interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l’accesso a tale modalità procreativa». (Cfr. punto 7.8.5.1. della decisione).

In ogni caso, pur rimarcando ferma contrarietà alla tesi giuridica suddetta che attribuisce all’art. 8 una portata espansiva che va oltre i divieti della legge nella quale è inserita, la decisione sulla fecondazione assistita post mortem non è sovrapponibile al caso in esame, trattandosi di una situazione ben diversa nella quale il nato, concepito dopo la morte del padre con le tecniche di PMA, era il figlio biologico della coppia (seppure nato oltre i trecento giorni dalla morte del padre).

Ne consegue che non può essere ignorata la difficoltà, se non l’impossibilità, di concepire, anche solo a livello teorico, un sistema preventivo fondato sul consenso che sia tale da attribuire uno “status filiationis” sganciato da ogni previsione operativa della legge 40/2004 e da ogni limite inserito nel corpo normativo.

La decisione impugnata, anche sotto tale profilo, incorre nelle violazioni di legge perché la legge 40/2004, come già rilevato, a differenza della tesi sostenuta dalle parti contro-ricorrenti, può rappresentare un valido sistema giuridico alternativo rispetto alla procreazione naturale solo laddove si attuino le tecniche previste e riconosciute come lecite dalla legge.

A tali argomenti giuridici vanno aggiunti quelli di recenti esposti dalla più volte citata decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (8 maggio 2019, n. 12193) e dalla Corte costituzionale nella decisione n. 221 del 23 ottobre 2019.

Si tratta di due decisioni centrali che non possono essere ignorate nel tracciare il principio di diritto a pena di una ricostruzione parziale ed incompleta del quadro giurisprudenziale.

La Corte di Cassazione, come già detto, ha delineato una nozione di ordine pubblico suscettibile di trovare univoca applicazione anche nel caso in esame.

Questo ufficio peraltro, a fronte delle osservazioni critiche svolte dalla difesa delle contro-ricorrenti, ha l’obbligo di rimarcare la situazione di generale confusione giurisprudenziale che si è generata nell’ordinamento poiché, anche a voler differenziare, nell’ambito delle coppie omosessuali, la fecondazione eterologa dalla maternità surrogata e, di conseguenza, non procedere all’applicazione della nozione di “ordine pubblico” delineata dalle sezioni unite in quanto riferibile alle sole ipotesi di maternità surrogata, non mutano affatto i termini del problema perché, differenziando in radice la situazione giuridica delle due madri da quella dei due padri, si introdurrebbe nel sistema una insostenibile e non spiegabile disparità di trattamento tra coppie omosessuali maschili e femminili.

La disparità di trattamento, poi, si verificherebbe non solo con riferimento alla coppia ma specialmente con riferimento ai minori, ai quali verrebbe applicato, incomprensibilmente e contra jus, un regime differenziato di filiazione a seconda che si tratti di coppia omossessuale maschile o di coppia omosessuale femminile.

Da queste riflessioni meglio si comprende come l’art. 8 della legge 40/2004 non è tale da porre nel nulla l’intero sistema giuridico, ivi compreso il sistema della filiazione, con la creazione artificiosa e non recepita dall’ordinamento giuridico di diverse categorie di figli a seconda della coppia maschile o femminile da cui provengano; da qui l’interesse prevalente del minore, che deve costituire il centro della riflessione giuridica e che non necessariamente coincide con l’interesse della coppia, potendo il minore avere un interesse, sia pure potenzialmente, in conflitto con la coppia richiedente.

Ancora, degna di menzione e certamente rilevante nella affermazione dei principi di diritto da applicare al caso in esame è la decisione della Corte costituzionale n. 221 del 2019 che ha riconosciuto la piena compatibilità con la costituzione del sistema legislativo che consente il ricorso alla procreazione medicalmente assistita per le sole coppie formate da due persone di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi.

La Corte costituzionale, nel confermare la tenuta costituzionale del divieto sancito dall’art. 5 della legge 40/2004, ha rilevato come «L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata). Nella specie, non vi è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità “fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità “fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale. In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia). In tali rilievi è evidentemente già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate» ed ancora «Nella specie, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata.

Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato.

In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali.

Nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta “omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto».

In sintesi e sulla base di quanto finora argomentato, il provvedimento impugnato, nel consentire la rettifica di un atto di nascita con la menzione della madre e della co-madre, afferma principi giuridici non condivisibili  poiché il divieto di fecondazione assistita eterologa per le coppie omosessuali – divieto confermato dalla Corte costituzionale – impedisce di avvalorare tali tecniche, sia pure per il tramite del consenso preventivo, e di ritenerle compatibili con il concetto di ordine pubblico.

Tale divieto, come affermato dalla Corte costituzionale, non può considerarsi irrazionale ed ingiustificato posto che il principio di genitorialità maschile e femminile è implicitamente ricavabile dalla costituzione e, quindi, rientra anche nella nozione più restrittiva di ordine pubblico; da qui deriva la conseguente impossibilità, sulla base dell’ordinamento giuridico italiano vigente, di formare direttamente in Italia un atto di nascita nel quale siano menzionati due genitori dello stesso sesso.

Il ragionamento logico-giuridico dunque non può essere differente da quello seguito nella decisione della Cassazione a Sezioni Unite (8.5.2019, n. 12193) perché la non liceità della tecnica riproduttiva (come confermato dalla Corte costituzionale) non lascia spazio ad opzioni giuridiche che, al contrario, la ritengano, quanto agli effetti, suscettibile di delineare lo “status” di figlio di due madri con la conseguente formazione di un atto di nascita direttamente in Italia, che recepisca lo “status” e che faccia menzione di due mamme (mamma e co-madre).

Altro aspetto da approfondire riguarda il preminente interesse del minore addotto quale elemento da considerare per non privare il piccolo nato della bigenitorialità condivisa in coppia omosessuale femminile.

Secondo la tesi sostenuta dalle contro-ricorrenti, la tutela dell’interesse del minore deve essere considerata primaria rispetto alla realizzazione di pratiche fecondative non lecite all’interno del nostro ordinamento giuridico.

Va osservato che aderendo a questa impostazione, in realtà, si finisce con l’attribuire riconoscimento giuridico pieno a pratiche di fecondazione non consentite nel nostro ordinamento e di confondere il reale interesse del minore con quello dei soggetti che hanno fatto ricorso a tali pratiche, con il risultato di confermare le situazioni di fatto (non consentite) e di neutralizzare i divieti imposti dalla legge 40/2004 addirittura giungendo ad una artificiosa creazione di un duplice regime giuridico applicabile ai figli (figli di due madri si, figli di due padri no).

Nel caso in esame, il principio “the best interest of child” appare comunque tutelato dall’ordinamento interno sia perché l’atto di nascita è stato formato con l’attribuzione del cognome materno e con la relativa attribuzione dello “status” di figlio della madre biologica, sia perché nessun interesse del minore viene leso nella misura in cui non gli venga menzionata la co-madre.

Nella valutazione del reale interesse del minore si possono condividere le argomentazioni giuridiche svolte dall’Avvocatura dello Stato «va considerato nella valutazione del reale interesse del minore che costui costituisce non già soggetto, ma oggetto dell’altrui volontà, laddove l’aspetto volitivo della nascita (c.d. progetto condiviso di procreazione) è sceverato totalmente dall’interesse del minore ed anzi costituisce solo elemento di realizzazione della coppia. In altri termini nessuna qualità deteriore vuole imporsi a chi “nasce” da coppia omosessuale, ma solo affermarsi la constatazione che non si può nascere da coppia omosessuale e che ciò costituisce mera “fictio iuris”, consentita, attraverso la fecondazione eterologa, solo da altri ordinamenti».

In conclusione, si chiede alla Corte di Cassazione di procedere, in via preliminare e laddove non ritenga di accogliere i principi di diritto già esplicitati nella sentenza n. 12193/2019, alla rimessione del presente procedimento all’esame delle Sezioni Riunite e, in via subordinata, di accogliere il secondo ed il terzo motivo di ricorso con le conseguenze previste dalla legge.

 

P.Q.M.

Chiede che la Corte di Cassazione:

– in via preliminare, laddove non ritenga di accogliere i principi di diritto già esplicitati nella sentenza n. 12193/2019, di procedere alla rimessione del presente procedimento all’esame delle Sezioni Riunite della Corte di Cassazione;

– in via subordinata, accolga il secondo ed il terzo motivo di ricorso con le conseguenze previste dalla legge.

 

Roma il 3 gennaio 2020

                                                                       Il Sostituto Procuratore Generale

                                                                            Luisa De Renzis

 

[1] La procedura di maternità assistita tra due donne legate da un rapporto di coppia, con donazione dell’ovocita da parte della prima e conduzione a termine della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, integra un’ipotesi di genitorialità realizzata all’interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne. Il riconoscimento e la trascrizione nei registro dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa per aver la prima donato l’ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, non contrasta con l’ordine pubblico dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, del superiore interesse del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla conservazione del suo status filiationis, validamente acquisito all’estero.