Mauro Ronco
Professore Emerito di Diritto penale
Università di Padova

La tutela della vita nell’ordinamento giuridico italiano. Considerazioni sull’aborto *

 

Sommario: 1. Introduzione – 2. Profilo storico – 3. Profilo costituzionale – 4. Aspetti principali della legge n. 194/78 – 5. Prevenzione effettiva dell’aborto – 6. Dignità umana e diritto alla vita.

 

  1. Introduzione

 

Il progresso della ricerca scientifica, negli ultimi decenni del secolo scorso, ha consentito di rilevare, con sempre maggiore chiarezza, che il medesimo essere umano è presente al mondo, in differenti gradi di sviluppo, tanto prima quanto dopo la nascita. Alla limpida visione scientifica in ordine al fatto che l’esistenza di una vita umana sussiste sin dal concepimento nel grembo materno non corrisponde nella grandissima parte delle legislazioni contemporanee una adeguata protezione della vita ancora non nata. Rispondendo all’appello della coscienza, che non cessa di ricordarci l’intangibilità della vita prenatale, i giuristi debbono lavorare, secondo il monito di San Giovanni Paolo II, per un «cambiamento di direzione nelle politiche pubbliche che sanzionano una vera e propria “strage degli innocentisu scala mondiale»[1], ancorando il loro impegno ai supremi valori costituzionali. Il compito del diritto è importante. Esso esercita un’influenza orientatrice della coscienza per la sola ragione di esprimere la riprovazione o l’approvazione sociale di un determinato tipo di fatto. Come ha scritto il criminologo inglese Nigel Walker: «La legislazione di una generazione può divenire la morale nella generazione successiva». La legge è in grado di modificare il contegno pratico dei componenti di una determinata società, non tanto per l’effetto di deterrenza inerente alla minaccia di un’eventuale sanzione, quanto per l’inibizione morale derivante dalla riprovazione sociale per il fatto compiuto. È allora irragionevole trascurare l’esigenza di riformare, dopo ben quaranta anni, la legge n. 194/1978, intervenuta in un momento storico di grande confusione politica e morale, in cui vennero sottovalutate le gravi conseguenze sociali dell’aborto. In ogni caso, l’anniversario della legge offre l’occasione a tutti di confrontarsi, quali siano le posizioni di principio di ciascuno, al fine di riproporre l’interpretazione rigorosa della legge, nel rispetto del dettato dell’art. 31, co. 2 Costituzione, in vista della tutela sociale della maternità per contrastare le cause dell’aborto e prevenirlo socialmente.

 

  1. Profilo storico

 

Legislazioni permissive dell’aborto furono introdotte in occidente nel decennio degli anni ‘70 del secolo scorso. Nel periodo precedente, tra le due guerre mondiali, soltanto l’Unione Sovietica, nel 1920, aveva conosciuto una legislazione permissiva, ispirata al sostegno ideologico dell’aborto, visto come una forma di liberazione della donna, in adesione all’idea di Engels, per cui soltanto la liberazione dal giogo della famiglia e della maternità avrebbe liberato la donna dalla sua schiavitù.

Nelle grandi città come Mosca e Leningrado la pratica dell’aborto diventò, secondo i vecchi membri del partito comunista, “massiccia” e “orribile”, tanto che negli anni ‘30 il governo dei Soviet manifestò allarme perché la sua diffusione aveva provocato una situazione sociale pericolosa, evidenziata dal grandissimo numero di bambini senza famiglia cui le istituzioni pubbliche non erano in grado di provvedere[2]. A questa situazione tentò di mettere un argine la legislazione proibitiva del 1936, emanata soprattutto per motivi demografici e militari. Senonché, attenuatisi tali motivi, l’aborto divenne nuovamente legale nel 1955, con effetti demografici gravissimi, se è vero che, come risulta dalle statistiche pubblicate da K.H. Mehlan nel 1968, il numero di gravidanze interrotte volontariamente superava di gran lunga nei primi anni ‘60 quello dei nati[3].

In occidente la prima liberalizzazione dell’aborto avvenne con la decisione 22 gennaio 1973 Roe e altri v. Wade[4]. La sentenza abbatté in toto lo statuto del Texas, che vietava di procurare o tentare di procurare l’aborto, salvo che si trattasse di fatto compiuto “in seguito a consiglio medico allo scopo di salvare la vita della madre”[5].

La sentenza è imperniata su due distinti princìpi di diritto che si stringono tra loro in una logica incondizionatamente liberatoria: uno di carattere negativo, l’altro positivo. Alla stregua del primo, il feto non rientra nel concetto di “persona” ai sensi del 14° Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (la clausola recita: «nor shall any state deprive any person of life, liberty, or property, without due process of law»); alla stregua del secondo, la donna ha, in base al medesimo Emendamento, e in parte anche al 9° («The enumeration in the Constitution, of certain rights, shall not be construed to deny or disparage others retained by the people») un vastissimo right of privacy, cioè un diritto su di sé che non può essere limitato se non da pressanti interessi statali («compelling state interest»). Nel corso della prima parte della gravidanza non v’è alcun interesse statale che possa limitare il diritto; in un secondo periodo, lo Stato può regolare il procedimento di aborto in modo di tenere conto della salute della madre; soltanto nell’ultimo periodo, quando compaia la vitalità del feto, lo Stato può regolare l’aborto, oltre che per la salute della madre, anche nell’interesse della vita umana potenziale.

Come si può constatare, la Corte Suprema non pone alcun vincolo costituzionale in funzione della tutela del feto (neanche nel periodo in cui esso è suscettibile di vita autonoma, nel quale lo Stato può, ma non deve prevedere divieti). Per altro verso la Corte ritiene la tutela del feto prima che acquisti la vitalità in conflitto con la Costituzione[6].

La sentenza costruisce un vero e proprio diritto della donna di distruggere il feto negando rilevanza costituzionale al bene del figlio che vive nel suo grembo. I principi contrari alla vita sono dichiarati in modo tanto radicale che Hans Reis, in un libro pubblicato nel 1984 sul problema costituzionale del diritto alla vita, ha sottolineato l’analogia degli argomenti utilizzati dalla Roe v. Wade con quelli utilizzati dalla medesima Corte nel 1857 nel famoso caso Dred Scott v. Sandford: come ora al feto, allora era negata la protezione costituzionale al soggetto di pelle nera; come ora alla donna è riconosciuto il diritto costituzionale di distruggere il feto, così allora al proprietario di schiavi era riconosciuto il diritto costituzionale di proprietà su di essi[7]. Né appare fuori di luogo, in una valutazione critica delle c.d. indicazioni genetica o sociale all’aborto, il richiamo di Reis all’orrenda indicazione politica contenuta nell’ordinanza germanica per la protezione del matrimonio, della famiglia e della maternità del 9 marzo 1943, alla cui stregua: «Personen, die nicht deutsche Staastsangehörige deutscher Volkszugehörigkeit sind, von der Anwendung der Vorschriften über die Bestrafung der Abtreibung ausgenommen werden könnten»[8].

 

  1. Profilo costituzionale

 

Il dibattito giuridico costituzionale sull’aborto in Europa ruota intorno a questo tema centrale: in definitiva, se l’aborto costituisca un diritto della donna ovvero un evento drammatico da evitare, contenere ed eventualmente trattare secondo giustizia e pietà.  Lo scioglimento di questo nodo è indispensabile anche per focalizzare con precisione la disciplina che lo regoli con il senso di responsabilità che la sua gravità etica e sociale comporta. Il dibattito al riguardo non è chiuso, anzi, è opportuno che si riapra, soprattutto sul piano costituzionale, non adeguatamente considerato all’epoca dell’entrata in vigore della legge e neppure successivamente[9].

All’origine della legislazione italiana stava una collocazione gravemente fallace del delitto di aborto, ricompreso non sotto il titolo relativo alla tutela della vita e dell’integrità dell’uomo, bensì sotto il titolo dei “Delitti contro la integrità e la sanita della stirpe”. Inoltre era assente nell’insieme delle norme sull’aborto una disposizione specifica che dichiarasse la non punibilità dei fatti compiuti per tutelare la salute o la vita della madre. Vero che l’art. 54 sullo stato di necessità avrebbe potuto trovare applicazione per questi casi. Tuttavia, un’interpretazione rigida (ed errata) del concetto di “attualità” del pericolo di un danno grave alla persona avrebbe potuto costituire un ostacolo all’equilibrato esercizio della giurisdizione. Infine, tanto la severità delle sanzioni, indifferenziate per la donna e gli esecutori, quanto l’assenza di disposizioni vòlte a tener conto della vulnerabilità e della fragilità della donna, rendevano l’impianto normativo in conflitto con vari parametri costituzionali, in specie quello della colpevolezza.

In questa complessa situazione giuridica la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza 18 febbraio 1975, n. 27[10]. Essa ha avuto il merito di riconoscere “fondamento costituzionale” alla “tutela del concepito”, affermando che fra «i diritti inviolabili delluomo», di cui tratta l’art. 2 della Costituzione, «non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito»[11].

Si tratta di un principio essenziale da cui occorre ripartire nel momento presente, domandandosi se la legge vigente sia coerente nelle sue disposizioni essenziali col dettato costituzionale.

Non manca, peraltro, una sorta di ambiguità concettuale nella motivazione della sentenza del ‘75, laddove, per introdurre la scusante terapeutica, essa ha fornito un giudizio di graduazione di valore tra la salute e la vita della madre e la vita del figlio, sul rilievo che mentre la prima è già persona, l’embrione deve ancora diventarlo[12]. Con questo asserto la Corte si è impegnata in un discorso di tipo filosofico che assolutamente non le competeva. Ciò che conta non è l’opinione sui requisiti del concetto filosofico di “persona”, bensì l’evidenza scientifica dell’appartenenza all’umanità del frutto del concepimento. La scusante terapeutica non trova fondamento in una differente dignità ontologica della madre e del feto, bensì nella rinuncia dello Stato a dirimere tramite la legge conflitti di coscienza che nascono dalla complessità dell’esistenza umana e dal rilievo giuridico-costituzionale di entrambi i beni che si trovano involontariamente in conflitto.

Paragonando la decisione italiana con la Roe v. Wade si coglie la distanza valoriale della pronuncia italiana da quella della Corte statunitense. I giudici americani, non trovando scritto nel 14° Emendamento che il feto è persona e constatando che esso fu approvato nel XIX secolo, quando «le pratiche abortive legali erano di gran lunga più libere di oggi»[13], hanno respinto l’interpretazione teleologica della legge e concluso infondatamente che il feto non gode di alcuna protezione legale. I giudici italiani, invece, consci delle evidenze scientifiche, hanno interpretato correttamente la Costituzione, nell’intreccio tra fatto e valore che ne costituisce essenzialmente la specificità giuridica e hanno riconosciuto conseguentemente che il feto deve godere di tutela costituzionale. La graduazione ontologica, però, è filosoficamente arbitraria e costituisce un’apertura pericolosa per eventuali infondate graduazioni di valore tra condizioni che differiscono in relazione alla presenza o all’assenza di alcune importanti qualità della vita umana. Compiere una graduazione, peraltro, non era affatto indispensabile per escludere la punibilità dei fatti motivati dalle esigenze terapeutiche della madre.

 

  1. Aspetti principali della legge n. 194/78

 

La legge promulgata dal Presidente della Repubblica il 22 maggio 1978 presenta all’art. 1 non solo la dichiarazione che lo Stato «riconosce il valore sociale della maternità», ma altresì che esso «tutela la vita umana dal suo inizio». Tuttavia, il testo contraddice l’asserto iniziale, giacché nei primi novanta giorni della gravidanza l’aborto è libero, come se – analogamente a quel che accade negli Stati Uniti in forza della sentenza Roe v. Wade –  esso costituisse l’esercizio di un diritto. Ciononostante, il dictum del 1° comma dovrebbe essere tenuto in conto nell’interpretazione e in sede applicativa nella parte in cui offre possibilità per l’effettiva tutela della vita[14].

La legge, anche se appare a prima vista ricadere sotto lo schema delle “indicazioni allargate”, accoglie in realtà il criterio dei termini. L’aborto infatti non è sottoposto ad alcuna condizione sostanziale, ma soltanto procedurale nei primi 90 giorni della gravidanza (artt. 4 e 5), mentre disposizioni limitative riguardano soltanto l’aborto praticato dopo i primi novanta giorni (art. 6), in particolare per il caso in cui sussista la possibilità di vita autonoma del feto (art. 7, ult. co.).

La differenza di principio tra lo schema dei termini e quello delle indicazioni è importante. Come si è visto, il modello introdotto dalla Roe v. Wade è del primo tipo, perché ammette l’aborto entro determinati termini, indipendentemente dalle ragioni per cui è richiesto. Il sistema a indicazioni considera ancora l’aborto un fatto ingiusto ed eventualmente punibile; ne esclude, tuttavia, la punibilità quando ricorrano determinate indicazioni individuate dalla legge con criteri di tassatività, la cui sussistenza viene controllata tramite una verifica effettiva.

Il sistema costituisce un tentativo di compromesso tra il principio della tutela della vita umana prenatale e quello opposto del diritto all’aborto, scusando, a determinate condizioni, il contegno abortivo. La differenza tra i due modelli è messa in luce in modo perspicuo dalla sentenza del Tribunale costituzionale germanico del 25 febbraio 1975[15]. Dichiarando l’illegittimità costituzionale della legge del 1974[16] per contrasto con il secondo paragrafo dell’art. 2 Grundgesetz, che suona: “Ognuno ha diritto alla vita e all’integrità fisica”, il Bundesverfassungsgericht con sentenza 25 febbraio 1975, dichiarando incostituzionale il modello dei termini, perché non garantiva una sufficiente tutela giuridica alla vita del nascituro, ha proclamato che l’art. 2, comma 2 alinea 1 Grundgesetz «protegge come bene giuridico autonomo anche la vita che si sviluppa nel grembo materno»[17]. Ha aggiunto che «al valore del bene giuridico minacciato di annientamento, corrisponde la gravità della sanzione minacciata in caso di annientamento»[18] e ha concluso che l’interruzione volontaria della gravidanza può sfuggire alla punizione soltanto quando ricorrano indicazioni previste dal legislatore in modo preciso e tassativo al fine di evitare la possibilità che l’aborto divenga impunito. Anche successivamente, quando si è manifestata, dopo l’unificazione delle due Germanie, l’esigenza di addivenire a un regime che unificasse le due legislazioni, il Tribunale costituzionale è ancora intervenuto, ribadendo che, almeno tramite una procedura di consultazione pro vita da esperirsi obbligatoriamente da chi intende abortire, sia conservato il principio del diritto alla vita del nascituro per l’intera durata della gravidanza. Nell’ultima sentenza in materia, pronunciata il 28 maggio 1993, che impernia sulla consulenza il diritto alla vita del nascituro, è ancora detto: «[…] con riferimento al nascituro ci troviamo di fronte a una vita individuale, già determinata nella sua identità genetica e perciò nella sua unicità ed inconfondibilità, non più separabile, che nel processo della crescita e del dispiegamento di sé non solo si sviluppa in un essere umano, ma anche in quanto essere umano»[19].

Al di là delle eventuali sanzioni, che pure vanno previste almeno nei casi più gravi, la preservazione della vita nascente trova il primo e più potente alleato nella percezione dell’umanità del concepito, come dimostrano l’esperienza dei Centri di aiuto alla vita (CAV) che hanno operato in Italia a partire dal 1975. La percezione che «il concepito non è un irrilevante grumo di cellule, una cosa, cioè, non un essere umano, sospinge verso laborto e, prima della gravidanza, indebolisce limpegno per una procreazione responsabile… Le doverose misure economiche e sociali a protezione della maternità e della famiglia sono indispensabili e vanno incrementate, ma – essendo di carattere generale – non esprimono un riconoscimento del valore della vita nascente nella concretezza del singolo caso a rischio di aborto…la conoscenza della verità sul valore della vita nascente è una forza indispensabile di prevenzione sullaborto, sia nella coscienza dei singoli, sia nella mobilitazione delle risorse sociali»[20].

La tutela della vita nascente costituisce in realtà la garanzia remota, ma fondamentale, per il rispetto di ogni vita.

Nell’embrione e nel feto non sono verificabili fenomeni coscienziali. Assumendo come doverosa la tutela normativa della persona soltanto con l’apparire di tali fenomeni, tutti coloro che non sono ancora o non sono più capaci di una vita cosciente rischierebbero di perdere il diritto alla protezione dello Stato e sarebbero esposti all’arbitrio del più forte.

é estremamente significativo che sul piano filosofico l’intangibilità della vita prenatale è stata fortemente combattuta con l’argomento che il diritto alla vita è riconoscibile soltanto a un soggetto dotato di autocoscienza. Conseguenza di tale tesi sul piano giuridico è l’argomento della Roe v. Wade, che il feto non è persona, poiché tale è soltanto il soggetto autocosciente.

Norbert Hoerster, filosofo del diritto di tendenza utilitaristica, che ha esaminato la tematica della tutela giuridica del feto in chiave filosofica, ha sostenuto che essa non troverebbe spiegazione (sarebbe in sostanza qualcosa di frivolo) né con riferimento alla sua appartenenza alla specie umana, né alla sua potenzialità di diventare un uomo, ma esclusivamente nella credenza in Dio. Ma poiché non v’è posto nell’ordinamento giuridico liberale per l’idea della creazione ad opera di Dio, allora sarebbe improponibile ai nostri giorni la stessa idea della tutela giuridica della vita nascente[21]. Infatti secondo Hoerster, l’idea cardine del diritto secolarizzato è l’interesse, il cui criterio di esistenza è la sua azionabilità. Ove non vi è interesse azionabile, in via diretta o indiretta, lì non vi è diritto. Lo Stato non è – a meno che non violasse i limiti dello Stato di diritto – custode o promotore di giustizia, bensì semplice regolatore del coacervo degli interessi azionabili. Integra il concetto di persona soltanto chi possiede in modo cosciente un proprio interesse alla prosecuzione della vita.  Poiché né il feto né l’infante appena nato (come peraltro neanche l’anziano o chiunque abbia perduto la coscienza) posseggono tale interesse, tutti costoro non sono persona e non godono della tutela dello Stato.

Non è tuttavia corretto sul piano giuridico ritenere che lo Stato di diritto sia uno Statuo neutrale verso la verità delle cose e verso la giustizia. La tutela e la promozione della giustizia sono la stella polare dello Stato di diritto.  L’argomento di Hoerster, tradotto sul piano giuridico, è lo stesso della Roe v. Wade. Non è vero che la Corte Suprema americana sia – come espressamente il suo estensore ha scritto in motivazione – neutrale: essa, invece, si è schierata dalla parte filosofica espressa dalla tesi appena menzionata.

 

  1. Prevenzione effettiva dell’aborto

 

La legge n. 194/78 è rimasta invariata per 40 anni. La Corte Costituzionale, pur essendo stata investita in molte occasioni con questioni vertenti su numerosi punti della legge, ha preferito evitare risposte definitive, confidando, per un verso, che, sul piano dei princìpi, non fosse travolto il dictum espresso nel 1975 e, per un altro verso, che, sul piano dei fatti, si mantenesse in vigore nella sua integralità la legge n. 194. Questa, infatti, pur avendo radicalmente travisato nella concreta disciplina gli stretti confini terapeutici individuati dalla pronuncia del 1975, si è presentata tuttavia nel titolo come coerente con l’art. 31, co. 2 della Costituzione, siccome intesa a tutelare la maternità, con ciò non mostrando di volersi allontanare dalla Costituzione. Inoltre ha contemplato nell’art. 2 una serie di disposizioni rivolte all’assistenza della donna in stato di gravidanza, secondo una prospettiva che, in linea con la titolazione della legge e la sua apparente teleologia, dovrebbe prevenire l’interruzione della gravidanza.

Infine l’art. 9 ha dato rilievo all’obiezione di coscienza del personale sanitario e degli esercenti le attività ausiliarie, esentandoli dal prendere parte alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 e agli interventi per l’interruzione della gravidanza, quando essi abbiano enunciato il loro intento con una preventiva dichiarazione.

In questo modo tra il Parlamento e le forze politiche, da un lato, e la Consulta, dall’altro, si è determinata de facto una situazione tacitamente vòlta a quieta non movēre, evitando lo scontro politico che si sarebbe aperto nel paese come conseguenza della correzione della l. 194 anche soltanto su alcuni punti specifici.

Il problema dell’aborto, per la sua complessità e incidenza sui valori fondamentali, sia relativi alla vita del concepito e alla salute della donna, che alla stabilità della famiglia e alla continuità delle generazioni, è di primario rilievo. Va ricordato che all’epoca dell’approvazione della legge anche autorevoli esponenti della maggioranza si erano augurati un lavoro comune al fine di «riesaminare, dopo un congruo periodo di applicazione, le esperienze positive e negative» della legge[22]. Pertanto non si vede per quale ragione non sia opportuno ora riaprire un dibattito su di essa scevro da forzature ideologiche e, soprattutto, da anatemi vòlti a stigmatizzare polemicamente gli avversari.

La legge n. 194/78 è stata sottoposta a censure tanto da coloro che desiderano ridare spazio alla vita del concepito, quanto da coloro che intendono ricondurre integralmente la normativa al principio dell’assoluta autodeterminazione della donna, dimenticando l’identità umana del concepito. Iniziative politiche di rilievo, sostenute anche da campagne mediatiche, hanno proposto anche la restrizione del diritto all’obiezione di coscienza, di cui si avvale attualmente un numero elevato di medici e personale ausiliario[23].

Nel corso del tempo, però, e soprattutto negli ultimi quindici anni, il quadro è molto mutato sia a cagione della diffusione della contraccezione di emergenza, che ha ridotto il numero di aborti chirurgici, ma che non può essere considerata causa appropriata di riduzione dell’interruzione della gravidanza, giacché provoca aborti tanto precoci quanto inconoscibili, sia a cagione del crollo delle nascite, “che riduce progressivamente il numero delle donne in età feconda e, conseguentemente, anche il numero degli aborti”[24]. Pertanto, anche se la relazione ministeriale relativa all’anno 2015 segnala la diminuzione del tasso di abortività dal 1983 alla rilevazione nella misura del 61,2%, l’aborto costituisce ancora oggi una grave piaga sociale, che colpisce le donne più vulnerabili, soprattutto giovani e immigrate. Né la sua diminuzione in numero assoluto e relativo può far dimenticare i pregiudizi irrimediabili, che tale fenomeno procura, uccisioni innumerevoli di esseri umani e lacerazioni psichiche delle donne che si sottopongono all’intervento.

Stando così le cose un primo passo concreto per la prevenzione dell’aborto consiste nella modificazione degli artt. 2 e 5 della legge n. 174. La disposizione declina nelle lettere del co. 1 varie funzioni dei consultori familiari, tutte convergenti verso l’obiettivo di tutelare socialmente la maternità in conformità alla prima parte dell’intitolazione. Alla lettera d), in particolare, è detto espressamente che i consultori assistono la donna incinta «contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna allinterruzione della gravidanza». Incontestabile, pertanto, è la doverosa funzione preventiva dei consultori a tutela della maternità, come già era previsto nella legge 29 luglio 1975, n. 45, che li aveva istituiti, incentrata espressamente sulla tutela della donna e del “prodotto del concepimento”.

Senonché la funzione di prevenzione dei consultori, ribadita altresì nel co. 1° dell’art. 5, è stata quasi completamente frustrata dalla stessa legge che, con disposizione contraddittoria, prevede all’art. 5, commi 4 e 5 che lo stesso medico del consultorio partecipi alla procedura prevista per l’interruzione della gravidanza[25].

Ciò è giuridicamente aberrante. Il consultorio, se ha una funzione preventiva, non deve entrare in alcun modo nella procedura diretta all’esecuzione dell’intervento. Sul piano tanto logico che pratico l’accentramento di due funzioni contraddittorie nello stesso organo non può che far prevalere l’aspetto più strettamente legato all’interesse per cui la donna si è recata nel consultorio, cioè di richiedere il certificato per praticare l’interruzione: il che effettivamente è avvenuto nella prassi. Oltre a ciò va ricordato che il ricorso al consultorio è meramente eventuale, in quanto la donna può avvalersi per lo scopo abortivo del medico di fiducia abilitato a rilasciare il certificato attestante la sua intenzione di eseguire l’intervento.

L’abrogazione del meccanismo previsto dagli artt. 2 e 5, che in apparenza dovevano svolgere una funzione preventiva, e la loro sostituzione con disposizioni che assegnano alla consultazione una funzione realmente preventiva è cosa semplice, che potrebbe essere realizzata già in questa prima fase della legislatura. Né si tratterebbe di cosa strana, additabile come frutto di spirito retrogrado o reazionario.

La legge vigente in Germania, infatti, utilizza la consultazione non come uno strumento burocratico prodromico all’aborto, bensì come un argine giuridico all’intervento e come strumento di effettiva prevenzione sociale.

Ai molti che hanno lamentato nel corso del tempo, spesso anche con toni risentiti, il rischio che l’introduzione di una siffatta normativa influenzi indebitamente la libertà della donna, vanno opposti quattro rilievi essenziali. Il primo, che l’aborto non è un diritto, perché conduce alla soppressione di un essere umano vivente. Il secondo, che l’antigiuridicità del fatto è radicata nella Costituzione, poiché la sentenza del febbraio 1975 della Consulta mantiene la sua efficacia siccome mai revocata in dubbio e mai superata da pronunciamenti successivi della stessa Corte; è stata ribadita inoltre dal co. 1 della l. 19 febbraio 2004, n. 40, che ha riconosciuto i diritti del concepito. Il terzo, che la comunicazione di una serie di dati scientifici veritativi, come quelli relativi alla formazione e all’identità del feto e alla natura del processo della gravidanza, costituisce un arricchimento effettivo dell’informazione e un fattore prezioso per la formazione di qualsiasi persona. Il quarto, che spetta allo Stato, ai sensi dell’art. 3, co. 2 della Costituzione, rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo, anche nelle conoscenze, della persona umana.

L’ultima sentenza risalente al 28 maggio 1973 del Tribunale costituzionale tedesco, massimo organo giurisdizionale di uno Stato indiscutibilmente di diritto in senso contemporaneo, ha esposto con forza i princìpi di cui sopra. Si leggono infatti nella sentenza, tra gli altri, i seguenti passi a riguardo del significato e del contenuto della consulenza. Sul rilievo che sussiste «il divieto costituzionale di sottovalutare il bene che si deve proteggere, la vita umana» e che non è «possibile fare distinzioni temporali nellambito della gestazione», il Giudice ha precisato che la consulenza ha per scopo di difendere la vita prenatale tramite una sinergia del consulente istituzionale con la madre, il miglior difensore del figlio. La neutralità non è ammissibile di fronte alla vita umana, poiché lo Stato è garante della vita dei cittadini. Deve pertanto svolgere un compito di sostegno della madre e di controllo dell’ambiente in cui essa vive. La procedura assistenziale, di conseguenza, siccome “finalizzata alla salvaguardia della vita”, deve avere un contenuto non soltanto genericamente informativo, bensì offrire aiuti concreti affinché la donna comprenda che il nascituro, anche nel primo stadio della gravidanza, gode di particolare tutela.

Nella prima fase di riforma legislativa in Italia dovranno anche essere previsti degli interventi speciali a favore della donna che, durante la gravidanza, sia afflitta da serie difficoltà ricollegabili alla gestazione.  A seconda del tipo di difficoltà gli interventi potranno essere di natura sanitaria, socio-assistenziale ovvero economica e familiare. Come si è detto, l’aborto è ancora particolarmente diffuso all’interno dei gruppi sociali disgregati o delle convivenze in via di dissoluzione, ovvero tra le giovani italiane, che si prostituiscono per acquistare droga, o le giovani immigrate, che si prostituiscono per soddisfare gli sfruttatori. L’opera di prevenzione dell’aborto, se compiuta con la dovuta serietà dai consultori, sarebbe utile anche per contenere le cause di degrado che affliggono la nostra società. La prevenzione dell’aborto è parte integrante di una politica sociale che, munita di consistenti risorse economiche, dia inizio a un risanamento sociale.

 

  1. Dignità umana e diritto alla vita

 

La riscrittura completa degli artt. 2 e 5 della legge n. 194 dovrebbe costituire un primo passo verso la costruzione di un ordinamento che tuteli la vita umana in modo conforme alla sua inviolabile dignità. Questa non è data da una norma e non consegue a un antecedente empirico, ma spetta all’uomo per la semplice “novità” di essere venuto all’esistenza e costituisce un segno della sua trascendenza al mondo.

La dignità umana implica dei limiti all’autodeterminazione individuale. Questi limiti sono suscettibili di un giudizio, in una certa misura discrezionale, che spetta pronunciare alla prudenza politica delle istituzioni responsabili del governo della società alla luce del principio statuito dall’art. 1 della Costituzione repubblicana. Sussiste però un nucleo essenziale di atti contro gli altri e anche contro di sé in conflitto irrimediabile con la dignità umana che debbono essere stigmatizzati come contrari al diritto e alla giustizia. Tra questi è ricompreso l’aborto, che frantuma il legame più intimo esistente in natura – quello tra la madre e il figlio – e provoca la soppressione di questi.

Testo della relazione svolta dal Prof. Mauro Ronco, Professore Emerito di Diritto penale – Presidente del Centro Studi Livatino, al Convegno La tutela della vita nell’ordinamento giuridico italiano. Sfide, problemi e prospettive poste dai ‘nuovi diritti’, organizzato dal Centro Studi Livatino e tenutosi a Roma il 16 novembre 2018 presso l’Aula Magna della Corte Suprema di Cassazione.

[1] Il Sommo Pontefice San Giovanni Paolo II durante il suo ministero non ha mancato di ammonire con insistenza i pubblici poteri in ordine al dovere di rendere vigente «una legislazione coerente con le esigenze inviolabili della persona umana», che aiuti «i cittadini a riconoscere il valore della vita e a rispettarlo» (Discorso ai partecipanti al Convegno Al servizio della vita umana promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana, del 16-4-1989, n. 6, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XII, 1, p. 836). Da ultimo, nel messaggio inviato al Congresso Mondiale per la Vita, apertosi a Bratislava il 28 maggio 1992, il Papa, tramite una lettera a firma del Cardinale Segretario di Stato Angelo Sodano, ha, tra l’altro, affermato: «La Chiesa, tutti i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà sono chiamati a proclamare in modo convincente il “Vangelo della vita” e a lavorare […] per un cambiamento di direzione nelle politiche pubbliche che sanzionano un vera e propria “strage degli innocenti” su scala mondiale». (Cfr. L’Osservatore Romano, 31-5-1992).

[2] Per queste informazioni, cfr. H. Kent Geiger, The Family in Soviet Russia, Harvard University Press, Cambridge (Massachussets), 1968, 73, il quale descrive altresì i tragici effetti della distruzione della famiglia a seguito delle leggi permissive approvate subito dopo la rivoluzione comunista In particolare, l’incoraggiamento alla libertà individuale nel campo sessuale e le facili leggi di divorzio portarono alla distruzione delle famiglie e al disordine sociale, di cui furono principali vittime le donne e i bambini. Una certa parte degli stessi membri del partito rifiutava di mantenere i propri figli dopo il divorzio. Vladimir Ilyich Lenin, prima della sua morte, richiedeva maggiore disciplina e minore libertà individuale come indice di un corretto atteggiamento rivoluzionario: «La rivoluzione – egli diceva – non può tollerare condizioni orgiastiche» (cit. ibid., 84).

[3] Cfr. András Klinger, Demographic Effects of Abortion Legislation in Some European Socialist Countries, in AA. VV., Proceedings of the World Population Conference. Belgrade 1965, vol. II, United Nations, New York 1967, p. 89.

[4] Corte Suprema degli Stati Uniti, Roe ed altri c. Wade, Procuratore distrettuale della Contea di Dallas, Appello dalla Corte federale per il distretto settentrionale del Texas, n. 70-18. Discusso il 13.12.1971, ridiscusso l’11.10.1972, deciso il 22.1.1973, in L’aborto nelle sentenze delle Corti costituzionali: Usa, Austria, Francia e Repubblica federale tedesca, Milano, 1976, p. 75 ss.

[5] Gli statuti del Texas oggetto dell’intervento della Corte Suprema sono gli articoli 1191-1194 e 1196 del codice penale di quello Stato. Il primo statuto penale emanato dal Texas in materia di aborto è del 1854 (riportato in H. Gammel, Laws of Texas 1502,1898). Le norme interne di aborto erano rimaste immutate fino alla sentenza della Corte Suprema. L’eccezione di cui al testo era prevista all’articolo 1196.

[6] Pare opportuno citare la sintesi svolta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti: «Una legge penale statale sull’aborto del corrente tipo texano, che tolga il carattere di reato soltanto all’operazione intesa a salvare la vita nell’interesse della madre, senza riguardo allo stato della gravidanza e senza riconoscere gli altri interessi in gioco, viola la clausola del dovuto procedimento di cui al Quattordicesimo Emendamento. a) Nel periodo anteriore, all’incirca, alla fine del primo trimestre, la decisione sull’aborto e la sua effettuazione devono essere lasciate al giudizio del medico che assiste la gestante. b) Nel periodo successivo, all’incirca, alla fine del primo trimestre, lo Stato, nel perseguire il proprio interesse alla salute della madre, può, se lo ritiene opportuno, regolare il procedimento di aborto in modi che tengano ragionevolmente conto della salute materna. c) Nel periodo successivo alla comparsa della vitalità, lo Stato, nel perseguire il proprio interesse alla potenzialità della vita umana, può, se lo ritiene opportuno, regolare e anche vietare l’aborto, salvo che questo non sia necessario, secondo l’appropriato giudizio medico, per la preservazione della vita o della salute della madre».

[7] H. Reis, Das Lebensrecht des ungeborenen Kindes als Verfassungsproblem, Tübingen, 1984, 18.

[8] Ibidem, 8.

[9] Il travisamento del fondamento e dello scopo della disciplina emerge dalla differente classificazione dei delitti di aborto. Il progetto del codice penale vigente seguiva il sistema del codice penale del 1889, classificando i delitti di aborto tra quelli contro la persona («sebbene molto si sia disputato in ordine alla classificazione dei delitti di procurato aborto, il progetto, ricollegandosi alla tradizione italiana, ne mantiene la collocazione in questo Titolo, ravvisando la prevalente obiettività giuridica di essi nella tutela della vita del feto, il quale, come spes hominis, trova protezione, nel sistema generale del nostro diritto, ancorché tuttora racchiuso nel ventre materno»: così la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, Roma, 1929, II, 396). I delitti di aborto furono poi ricompresi nel testo definitivo nel Titolo concernente i Delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe («Ho ritenuto  opportuno trasportare nel nuovo titolo altresì i delitti di procurato aborto classificati dal progetto tra i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, e ciò per la considerazione che l’aborto procurato, attentando alla maternità quale fonte perenne degli individui e della specie, costituisce in realtà un’offesa alla vita della razza e così della nazione e dello Stato»: Relazione al Re sul codice penale n. 177). Cfr. V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VII, Torino, 1984, 612, n. 4.

[10] Corte Cost., 18 febbraio 1975, n. 27, in Giur. cost., 1975, 117, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 c.p., nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.

[11] Già Corte Cost., 10 marzo 1971, n. 49, in Giur. cost., 1971, p. 525, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 553 c.p. e dell’art. 112, 1° comma t.u.l.p.s. sul divieto di incitamento a pratiche contro la procreazione, riconosceva che l’aborto è in contrasto con il diritto alla vita.

[12] Corte Cost., 18 febbraio 1975, n. 27, cit., secondo cui «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».

[13] Corte Suprema degli Stati Uniti, Roe ed altri c. Wade, cit., 95 (par. IX, A).

[14] Carlo Casini ha sottolineato lo scopo “apologetico” delle enunciazioni contenute nel primo articolo della legge rilevando: «L’art. 1 pare infatti voler attestare, a chi potrebbe aver dei dubbi, le buone intenzioni del legislatore. La norma sembra voler fare una scelta di campo, non a favore del “diritto d’aborto” ma a favore dei valori della maternità, della vita, della procreazione responsabile. Senonché il fatto stesso che sia stata avvertita l’esigenza di dire queste cose, fa dubitare – di per sé – che dalla seguente disciplina esse sarebbero state sufficientemente chiare». Cfr. C. Casini-F. Cieri, La nuova disciplina dell’aborto, Padova, 1978, p. 42.

[15] Bundesverfassungsgericht, Sez. I, 25 febbraio 1975, in L’aborto nelle sentenze delle corti costituzionali, cit., p. 248.

[16] Quinta legge di riforma del diritto penale (Das Fünfte Gesets zur Reform des Strafrechts – 5. StrRG) del 18 giugno 1974 (BGBI. I, 1297).

[17] Bundesverfassungsgericht, Sez. I, 25 febbraio 1975, cit., 272.

[18] Ibidem, p. 280.

[19] Bundesverfassungsgericht, Sez. I, 28 maggio 1993 (BVerfGE, 88, 203).

[20] Movimento per la vita, Commissione Biodiritto, (Testo a cura di C. Casini), X Rapporto sull’attuazione della legge 194/78.

[21] Cfr. Norbert Hoerster, Die unbegründete Unverfügbarkeit ungeborenen menschlichen Lebens [La mancanza di fondamento della tesi circa l’indisponibilità della vita umana prenatale], in Juristen Zeitung (JZ), 1991, pp. 503-505; e Id., Haben Föten ein Lebensinteresse? [I feti hanno un interesse alla vita?], in Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie, 1991, pp. 385-395.

[22] Così G. Berlinguer, X Rapporto, cit., Introduzione, p. 3.

[23] Significativa è stata in proposito l’iniziativa di carattere giudiziario avviata nel 2013 contro l’Italia (Complaint no. 91/2013) dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) avanti al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa per la presunta violazione di una serie di articoli della Carta sociale europea concernenti sui diritti delle donne lavoratrici a cagione della ritenuta eccessiva difficoltà per le stesse di accedere all’aborto per la presenza di un numero elevato di medici obiettori. La questione, che aveva dato luogo a una condanna dell’Italia da parte del Comitato dei diritti sociali, sul rilievo che non sarebbe stato garantito adeguatamente l’aborto a causa dell’alto numero di ginecologi obiettori, attestati intorno al 70% sul totale (Decisions on admissibility and the merits del 12 ottobre 2015, pubblicata l’11 aprile 2016), è stata conclusa da una risoluzione del Comitato dei ministri, che, a fronte delle informazioni date dalla delegazione italiana, ha preso atto che l’obiezione di coscienza non provoca una disfunzione nell’applicazione della legge n. 194 del 1978 (Risoluzione del 6 luglio 2016). Sul piano delle iniziative parlamentari volte a limitare il diritto all’obiezione di coscienza, vanno segnalate le proposte di legge presentate in data 7 luglio 2016 (prima firmataria Roberta Agostini); 12 maggio 2014 (prima firmataria Vincenza Labriola); 18 luglio 2014 (prima firmataria Marisa Nicchi); 23 febbraio 2016 (prima firmataria Beatrice Brignone).

[24] Cfr. Movimento per la vita, Commissione Biodiritto, X Rapporto, cit., p. 9.

[25] Il medico, infatti, se riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, è abilitato a rilasciare il titolo per praticarlo in via d’urgenza (art. 5, co. 4), ovvero a rilasciare il certificato attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta di intervento (art. 5, co. 5), necessario per procedere, trascorso il periodo di dilatorio, all’intervento.