Angelo Contrino
Avvocato in Milano, Professore Ordinario di Diritto Tributario, Università Bocconi di Milano
Francesco Farri
Avvocato in Arezzo, Dottore di ricerca in Diritto dell’Economia e dell’Impresa, Università La Sapienza di Roma
Emergenza coronavirus e crisi economica: quali misure finanziarie e fiscali per ripartire? *
Sommario: 1. Il contesto macroeconomico ‒ 2. Le sfide vinte nel passato e la sfida attuale ‒ 3. Le misure di sostegno dell’offerta ‒ 3.1. Sostegno finanziario ‒ 3.2. Sostegno fiscale ‒ 3.3. Sostegno organizzativo ‒ 4. Le misure di sostegno della domanda ‒ 4.1. Misure fiscali ‒ 4.2. Misure assistenziali ‒ 5. La legittimità delle misure di sostegno nel contesto internazionale ‒ 6. Le esigenze di finanziamento poste dalle misure di sostegno ‒ 7. Le possibili fonti di finanziamento ‒ 7.1. Entrate tributarie e politica monetaria ‒ 7.2. Debito pubblico e prestiti internazionali ‒ 8. Il ruolo dell’Unione Europea ‒ 9. Considerazioni conclusive ‒ 9.1. I limiti dell’intervento europeo ‒ 9.2. Il ruolo centrale della solidarietà nazionale: buoni del tesoro per la ricostruzione e prestiti forzosi ‒ 9.3. Il piano di sostegno statunitense.
- Il contesto macroeconomico
Le economie di mercato si caratterizzano, per loro natura, per un andamento ciclico: i periodi di espansione culminano nel momento di saturazione della domanda; alla saturazione della domanda fa seguito una flessione della curva dell’offerta che, raggiunto un certo livello, viene riattivata dai nuovi bisogni della domanda, dando così vita a una nuova fase espansiva[1]. A sua volta, il vigore dell’offerta genera per la comunità esternalità positive, come l’aumento dell’occupazione o l’incremento del gettito tributario. Può anzi dirsi che, se obiettivo fondamentale delle odierne democrazie occidentali è il mantenimento di una welfare community capace di soddisfare le esigenze di vita che i cittadini non sono in grado di fronteggiare autonomamente, ossia di garantire a tutta la popolazione un certo tenore di vita, sono proprio le esternalità positive connesse alla solidità dell’offerta ad essere il beneficio principale delle fasi espansive nell’ottica del bene comune e dell’economia pubblica.
L’andamento ciclico sopra descritto si verifica tanto nelle fasi di svolgimento ordinario della vita economica, quanto, e a maggior ragione, a seguito di eventi negativi eccezionali: infatti essi determinano, da un lato, una flessione repentina della domanda e dell’offerta e, dall’altro lato, a cessazione dell’evento straordinario, una più vigorosa ripresa della domanda, capace di stimolare l’offerta e le sue esternalità positive.
L’esperienza storica ne ha tradizionalmente dato prova. Per rimanere al caso più eclatante per l’Italia, alla devastazione del Secondo Dopoguerra ha fatto seguito il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta.
È pertanto lecito ritenere, ma anche auspicare, che la cessazione dell’emergenza sanitaria causata dall’epidemia di coronavirus determini l’insorgenza di condizioni assimilabili per una ripresa economica.
- Le sfide vinte nel passato e la sfida attuale
La sfida è, a questo riguardo, quella di interpretare in chiave economico-finanziaria le peculiarità della situazione odierna al fine di individuare gli strumenti economici e giuridici più appropriati per favorire e sostenere la rinascita.
In questa prospettiva, occorre anzitutto prendere atto che l’esperienza storica si presta a offrire indicazioni soltanto di principio. Troppo diversi sono i contesti attuali rispetto a quelli verificatisi in passato per poter trarre spunto in merito al contenuto delle specifiche misure da adottare.
Rispetto, ad esempio, alla situazione del Dopoguerra, si è oggi di fronte a un dramma che presumibilmente non avrà un momento di cesura netto, come fu la fine della guerra, poiché gli strascichi dell’epidemia si prestano a perpetuare i loro effetti anche dopo la cessazione della fase più acuta: ciò renderà la ripresa più lenta e meno decisa. Sempre rispetto alla situazione del Dopoguerra, oggi lo Stato Italiano, da un lato, non si trova da ricostruire un sistema di infrastrutture industriali, come avvenuto dopo la Guerra, ma, dall’altro lato: (i) non può più disporre della politica monetaria, ossia del più potente strumento del governo dell’economia, che dagli anni Ottanta del Novecento (cd. divorzio Tesoro – Banca d’Italia) è stata affidata alla gestione di tecnici e che, nel nuovo Millennio, la Repubblica ha ceduto al sistema Euro; (ii) non può più disporre della politica daziaria, che ha ceduto alla competenza dell’Unione Europea e al sistema del WTO; (iii) subisce un contesto di globalizzazione economica esasperata in cui le imprese sono state nel tempo sostanzialmente incentivate a delocalizzare la produzione all’estero o comunque a compenetrarsi fortemente con realtà estranee alla comunità nazionale e per le quali, quindi, l’incremento dell’offerta (e, quindi, della produzione) non si presta a generare esternalità positive (in termini, ad esempio, di occupazione e partecipazione agli oneri tributari) per la comunità nazionale.
Oggi, dunque, molte delle misure adottate nel Dopoguerra che hanno consentito il boom economico[2] non sarebbero neppure concepibili, sebbene la Costituzione non sia cambiata e i principi fondamentali del nostro ordinamento, su cui si è fondato l’intervento economico per il Dopoguerra, siano rimasti giuridicamente immutati. Dall’esperienza pregressa si può, quindi, trarre essenzialmente l’indicazione generalissima che per favorire la rinascita economica lo Stato deve fare quanto nelle proprie possibilità per sostenere la domanda, in modo che essa traini l’offerta, e per sostenere l’offerta, in modo che essa sia in grado di sostenere l’impeto della rivitalizzata domanda e produca quelle esternalità positive per la comunità (occupazione, gettito tributario ecc.) che sono l’obiettivo fondamentale che l’intervento pubblico nell’economia deve garantire nelle odierne democrazie occidentali per realizzare una comunità del benessere.
Né la situazione si presta a essere replicata immaginando come contesto di riferimento per gli interventi di sostegno all’economia un orizzonte diverso da quello dello Stato.
E infatti, le predette funzioni monetaria e daziaria sono state affidate a sistemi giuridicamente distinti: il sistema Euro non coincide integralmente con l’Unione Europea e tanto meno essi coincidono con il WTO. Ciò rende manchevole il presupposto giuridico per una politica opportunamente coordinata. Inoltre, nessuno dei contesti sovranazionali depositari delle funzioni suddette è dotato di una funzione politica autonoma.
Conseguentemente, continuano a essere essenzialmente gli Stati che ne sono membri a decidere le misure che tali istituzioni possono adottare e, in verità, anche a disporre la destinazione delle risorse economiche che le istituzioni stesse dovessero ridistribuire tra i membri. Il sistema attuale conferisce, dunque, una sorta di potere di veto ai singoli Stati membri dell’organizzazione sovranazionale contro le misure proposte e richieste dagli altri Stati per affrontare la crisi economica, senza tuttavia offrire in cambio garanzie di adeguati strumenti comuni per sostenere l’economia.
In questa prospettiva, i singoli Stati non possono omettere di predisporre anzitutto al proprio interno strumenti diretti ad affrontare la crisi economica e il sostegno alla ripresa: laddove, poi, giungano dalle istituzioni sovranazionali o da altri Stati aiuti per la ripresa (come fu il piano Marshall nel Dopoguerra), tanto meglio, ma in essi non potrà riporsi l’aspettativa di strumenti decisivi per vincere la sfida. Occorre, quindi, iniziare a programmare la ripresa anzitutto rimboccandosi le proprie maniche, senza confidare in un deus ex machina.
Il contesto attuale rende, pertanto, molto più complicato intervenire per favorire e sostenere la rinascita economica del Paese.
Sul piano generale, tale constatazione non può non indurre a riflettere sull’effettiva idoneità dei percorsi intrapresi dallo Stato italiano sul piano internazionale e sovranazionale a tutelare gli interessi nazionali: e tale domanda si pone in modo tanto più impellente in quanto i partner internazionali che agiscono nei medesimi contesti, invece, ai propri interessi nazionali guardano sempre con esasperata attenzione. Sul piano più specifico, risulta che gli strumenti operativi di cui lo Stato Italiano può disporre nell’immediato futuro sono essenzialmente quelli finanziari e di politica del lavoro e fiscale (nella parte in cui rimasta ancora nel dominio della sovranità statale).
Occorre, quindi, studiare come modulare tali leve per sostenere la domanda e l’offerta e non farsi trovare impreparati alla fine della crisi. Dalle considerazioni sopra esposte emerge che si tratterà, per natura, di strumenti volti a sostenere la domanda interna e la produzione interna, non avendo uno Stato come la Repubblica Italiana la forza economica di potere influire sulla domanda estera (come ebbero modo di fare, invece, gli Stati Uniti con il Piano Marshall) né sull’offerta estera (per natura indisponibile alla sovranità di altri Stati).
- Le misure di sostegno dell’offerta
Sul piano logico, gli strumenti di sostegno dell’offerta appaiono preliminari rispetto a quelli di sostegno della domanda. Occorre, infatti, che le condizioni per la rivitalizzazione della domanda siano preparate in anticipo, in modo tale che il sistema economico non si trovi impreparato di fronte alla fine della crisi e alla rivitalizzazione della domanda. Farsi trovare impreparati sul piano dell’offerta farebbe dirigere le richieste della domanda interna altrove, con la conseguenza che le esternalità positive dell’incremento dell’offerta (aumento dell’occupazione, aumento del gettito tributario) non si produrrebbe per la comunità di riferimento, ma per altre.
Il sostegno dell’offerta deve agire su tre piani: finanziario, fiscale e organizzativo.
3.1 Sostegno finanziario
Il sostegno sul piano finanziario, ossia la diretta garanzia della liquidità per le attività economiche (imprenditoriali e professionali), è fondamentale sia per la fase acuta dell’emergenza sanitaria, sia nella fase successiva fino alla piena ripresa dell’operatività del sistema economico. Se agli operatori economici mancasse la liquidità per remunerare i costi fissi (a cominciare dal personale dipendente), l’intero tessuto produttivo del Paese collasserebbe in tempi rapidi e si ridurrebbe in miseria la gran parte della popolazione.
In questa prospettiva, e oltre alle misure fiscali con funzione di iniezione di liquidità di cui si dirà nel successivo paragrafo, appare corretto il modello, già approvato in altri Paesi come Germania e USA, di richiedere alle banche di offrire a imprese e professionisti prestiti a tasso zero, con garanzia pubblica per le restituzioni.
Sempre in questa fase di ricostruzione, a ciò dovrà accompagnarsi, sotto il profilo normativo, una temporanea revisione della normativa bancaria relativa ai criteri di concessione del credito e una temporanea revisione delle norme sulla verifica della solidità degli istituti di credito e per la gestione della crisi d’impresa. A questo riguardo, gli strumenti predisposti in Italia dal cd. “decreto liquidità” n. 23/2020 appaiono scarsamente idonei a raggiungere il fine ‒ fondamentale – che essi si pongono: troppo farraginosa, e a tratti addirittura illogica, è la procedura cui essi danno vita per consentire alle imprese di presentare al sistema creditizio una garanzia pubblica e ottenere, così, finanziamenti dalle banche; troppo rinunciataria l’azione nei confronti tassi d’interesse di tali prestiti d’emergenza e dei criteri di valutazione e dei tempi che devono adottare le banche per erogare denaro all’impresa a fronte della garanzia pubblica fornita. Più interessanti appaiono, invece, le prospettive: del Fondo Patrimonio PMI, disciplinato dai commi 12 ss. dell’art. 26 del d.l. n. 34/2020, seppure le dotazioni finanziarie di cui esso risulta fornito (4 miliardi di Euro) appaiano profondamente inadeguate rispetto al fine che esso ha di acquistare strumenti di debito emessi dalle piccole e medie imprese poste in crisi dal coronavirus; del Patrimonio Destinato della Cassa Depositi e Prestiti disciplinato dall’art. 27 dello stesso decreto, per le grandi S.p.a. in crisi.
Oltre a ciò, occorre ripensare più alla radice il sistema bancario e borsistico in modo tale da agganciarlo alle esigenze dell’economia reale e porlo al riparo da virtualità e speculazioni[3]. Sul piano bancario, ciò si realizza anzitutto tornando a una divisione di funzioni tra banche d’affari e banche commerciali: già dopo la crisi finanziaria del 2008, del resto, alcuni Stati come USA[4] e Regno Unito[5] si sono mossi sostanzialmente in questa direzione e non è più il tempo di rimandare la divisione delle sorti tra chi intende utilizzare il denaro per scommettere sulla finanza e chi, invece, ha bisogno di finanziamenti per mandare avanti la propria attività economica o vuole assicurare stabilità al proprio risparmio. Correlativamente, sul piano del mercato finanziario, merita di essere regolamentata in modo più stringente la negoziabilità degli strumenti finanziari in cui possono investire le banche commerciali e i risparmiatori che ad esse si affidano, in modo da porli al riparo degli attacchi degli speculatori.
3.2 Sostegno fiscale
Contestuale e intrecciato al piano finanziario è quello propriamente fiscale[6].
Nella fase acuta della crisi, il versante tributario deve essere gestito in maniera tale da dare anzitutto tutto respiro finanziario alle attività economiche, a cominciare dalla sospensione degli obblighi di versamento dei tributi. Nella prospettiva della ripresa, la variabile fiscale deve essere orientata nella direzione di alimentare il tessuto imprenditoriale muovendosi contemporaneamente su almeno tre terreni.
A) In via preliminare, con effetto immediato nella fase acuta della crisi e fino alla piena ripresa, occorre dar corpo a quella funzione di “socio” dell’imprenditore e del professionista che lo Stato svolge nel momento in cui partecipa ai suoi guadagni chiedendo il pagamento di tributi: nel momento in cui, per ragioni straordinarie come quelle attuali, imprese e professionisti entrano in crisi di fatturato, lo Stato “socio” non può non partecipare a questa crisi[7].
Dovrà, conseguentemente, essere garantito in questa fase a imprese e professionisti una copertura statale del calo di fatturato verificatosi. Tale copertura potrà essere articolata come differenziale tra gli utili medi degli ultimi tre esercizi (ciò al fine di sterilizzare eventuali andamenti eccezionali del singolo periodo) e un massimale di tasso di profitto individuato dal legislatore in modo tale da garantire la remunerazione dei fattori della produzione, al netto di eventuali forme di “sussidio” pubblico finalizzate a coprire spese fisse della produzione (come, ad esempio, gli importi ricevuti per la cassa integrazione, i crediti d’imposta per spese di gestione degli immobili o eventuali temporanee esenzioni da imposte gravanti su tali fattori, come l’IRAP o l’IMU)[8]. Nel caso in cui, in questa fase, l’imprenditore o professionista rimanga capace di liquidità e in utile fiscale, tale copertura statale potrà avvenire tramite concessione di un credito d’imposta; nel caso di crisi di liquidità o perdita, dovrà trattarsi di una erogazione di finanza liquida. In entrambi i casi, seppur mediata nel primo tramite un istituto propriamente tributario (il credito d’imposta), la misura assolve quindi una primaria funzione di garanzia della liquidità, aggiungendosi alle iniezioni indicate nel precedente paragrafo e ponendosi al centro del sistema di protezione pubblica di quelle attività economiche (e relativo indotto) i cui introiti sono stati abbattuti e in molti casi azzerati dal coprifuoco sanitario. È naturale, peraltro, che la misura debba essere programmata come destinata ad esaurirsi con il progressivo recupero dell’operatività economica e del mercato. In questa prospettiva, essa dovrà anche favorire eventuali strategie di politica industriale che richiedano il riposizionamento delle forze economiche da certi settori produttivi o commerciali (in particolare, quelli per cui la domanda nella fase successiva alla crisi sia destinata a ridursi in modo non evitabile, rendendo così strutturalmente pletorica nella fase post-crisi l’offerta consolidatasi in tali settori prima dello scoppio dell’epidemia) ad altri. Per fare un esempio, se gli studi accertassero che la propensione degli Italiani a consumare pasti fuori casa fosse ridotta al minimo a causa del cambio di costumi determinato dall’epidemia di coronavirus, la misura fiscale dovrebbe favorire il transito di parte delle forze economiche prima impiegate nel settore ristorazione verso altri settori e non mirare a conservare a ogni costo un apparato (quello della ristorazione pre-crisi) destinato a fronteggiare una domanda che (almeno nel medio periodo) deve ritenersi ormai irrimediabilmente contratta.
B) In secondo luogo, occorre agire per salvaguardare e incentivare quelle esternalità positive, in particolare l’occupazione, che il rafforzamento dell’offerta genera nella comunità di riferimento.
Quanto al profilo della salvaguardia, è chiaro il riferimento alla necessità di garantire la CIG straordinaria per chi abbia lavoratori dipendenti (anche soltanto uno), dovendosi così confermare fino a consolidamento della ripresa l’impostazione prevista per la fase acuta dell’emergenza dagli artt. 19 ss. del decreto “cura Italia” n. 18/2020[9]. Per chi, e in particolare i professionisti, non disponga di lavoratori dipendenti o non sia comunque inserito in strutture (come studi associati) che ne dispongano, dovrà essere consentito l’alleggerimento degli oneri che più direttamente incidono sul cuneo fiscale: dovrà, quindi, essere stabilita un’esclusione (almeno temporanea) dell’applicazione dell’IRAP, laddove dovuta, per queste categorie soggettive[10].
Quanto al profilo dell’incentivo delle esternalità positive in materia di occupazione, la riduzione del cuneo fiscale sarebbe certamente il primo viatico: sebbene la narrazione politica sembri eludere la questione quando periodicamente rievoca il tema del cuneo, va osservato che esso è creato anzitutto dall’IRAP (che escludeva e, tuttora, continua a limitare la scomputabilità dalla sua base imponibile delle spese per lavoro dipendente): ne consegue che la prima misura da adottare per chi voglia ridurre il cuneo fiscale sul lavoro è abolire l’IRAP od omologarne l’imponibile a quello dell’imposta sul reddito, sul modello dell’addizionale regionale.
Oltre a ciò, al fine di incentivare le esternalità positive sono da auspicare superdeduzioni ai fini dell’imposta sul reddito per l’assunzione di lavoratori dipendenti in numero che superi il personale già a servizio ante-crisi: se, adesso, è deducibile ai fini IRES il 100% delle spese di lavoro dipendente, la superdeduzione per incentivare la ripresa potrà prevedere, ad esempio, una deducibilità delle spese per nuovi lavoratori nella misura del 110%. Per i professionisti, dovrà invece essere concessa analoga superdeduzione dall’IRPEF degli oneri per contributi previdenziali[11].
C) In terzo luogo, è opportuno agire per favorire la competitività delle imprese e dei professionisti italiani sul mercato internazionale.
Ciò non deve avvenire soltanto in via indiretta, come negli ultimi anni si è cercato di fare ad esempio accordando incentivi per lo sviluppo tecnologico. Possono essere concepite anche misure dirette, come ad esempio un bonus per le esportazioni: esso potrà essere configurato come credito d’imposta parametrato al fatturato con l’estero, da erogare esclusivamente alle imprese e ai professionisti che offrano un piano per reinvestirlo in beni e servizi costituenti esternalità positive per il Paese (ad esempio, nuova occupazione o nuovi stabilimenti produttivi) e che dimostrino la pratica sul mercato interno di prezzi non superiori a quelli praticati sui mercati esteri. L’auspicio è che si muovano in tale direzione il Comitato per il sostegno finanziario all’esportazione istituito dall’art. 9-septies del d.l. n. 269/2003, come modificato dall’art. 2 del “decreto liquidità”, e le misure previste dall’art. 3 dello stesso “decreto liquidità”.
3.3 Sostegno organizzativo
Sul piano organizzativo, occorre ripristinare un consapevole sistema di politica industriale per il Paese[12].
Smantellato l’intervento pubblico diretto nell’economia, liquidata l’IRI, l’Italia non ha più avuto una politica industriale degna di questo nome, ossia un sistema di valutazione strategiche delle esigenze produttive del Paese e dell’individuazione dei meccanismi mediante i quali garantire che esse siano soddisfatte. Troppo spesso la politica industriale italiana si è ridotta semplicemente a giocare di rimessa, ad esempio cercando di evitare la delocalizzazione dei grandi complessi produttivi e, più in generale, cercando di contrastare gli effetti di una globalizzazione che, per il resto, è stata subita passivamente, e mai, non solo cavalcata, ma neppure governata efficacemente.
Simili valutazioni strategiche, come ovvio, non implicano necessariamente un intervento diretto dello Stato nella produzione economica, ma richiedono l’adozione di una serie di politiche volte in due direzioni.
La prima direzione è preliminare e richiede la predisposizione di un sistema scolastico e universitario idoneo a dirigere i giovani a specializzarsi nelle professioni e nelle attività economiche di cui vi sia effettivo bisogno nel Paese.
La seconda direzione è sostanziale e richiede di delineare strategie di ampio respiro e lungimirante prospettiva temporale volte, da un lato, a incentivare gli imprenditori a intervenire nei settori ritenuti importanti per il Paese e, dall’altro lato, a creare gli spazi per consentire ai beni e servizi prodotti nel Paese di diffondersi in Italia e all’estero.
Per quanto attiene al primo aspetto, è inconcepibile ad esempio che un Paese evoluto come l’Italia non si sia premurato di coltivare un’industria sanitaria a servizio del sistema sanitario nazionale (garantendo spazi di riserva di sbocco nel mercato interno, oltre a eventuali altre misure idonee a garantirne l’equilibrio economico) che fosse in grado, nel momento del bisogno, di convertirsi nella produzione dei beni medici essenziali per fronteggiare l’impennata della domanda connessa all’esplodere dell’epidemia. In prospettiva, inoltre e come già accennato, è necessario programmare l’eventuale esigenza di riposizionare verso altri settori produttivi e commerciali quelle forze economiche operanti in settori che, prima della crisi, erano fronteggiati da un livello di domanda che i cambi di abitudini causati dalla crisi rendono ragionevolmente irrazionale pensare di poter recuperare dopo la crisi: sostenere l’offerta, infatti, non significa conservare a ogni costo lo status quo, ma salvaguardare il complesso delle forze produttive del Paese e favorire un collocamento di esse nei settori che, nel nuovo corso, si presteranno ad essere trainanti. Per quanto attiene al secondo aspetto, senza fantasticare che l’Italia sia in condizione di organizzare aperture commerciali come sta facendo la Cina con la nuova Via della Seta, strategie e accordi di promozione del “made in Italy” più sistematici e meno estemporanei di quelli portati avanti negli ultimi lustri sono certamente ben concepibili.
- Le misure di sostegno della domanda
Se sul piano logico gli strumenti di sostegno dell’offerta appaiono preliminari rispetto a quelli di sostegno della domanda, per le ragioni sopra esposte, sul piano sostanziale gli strumenti a sostegno dell’offerta assumono un ruolo se possibile ancor più centrale.
È l’aumento della domanda, infatti, che richiede un aumento dell’offerta: il movimento contrario ha carattere marginale, poiché la sovrabbondanza dell’offerta è suscettibile di tradursi in un incremento del volume d’affari (e, quindi, in prospettiva aggregata, in un aumento dal PIL) soltanto nella misura in cui sussista una residua elasticità della curva della domanda (da sollecitare tramite pubblicità, sconti e strumenti similari), ma essa, in generale, ha carattere meno significativo, specialmente nei momenti di crisi e post-crisi.
Come si è sopra accennato, un Paese come l’Italia è in condizione incidere sulla curva della domanda soltanto in chiave interna e, conseguentemente, l’esigenza di stimolare la domanda si coordina con l’esigenza di garantire le esternalità positive per la comunità (che si correlano all’aumento della produzione interna), introducendo meccanismi volti a supportare lo sbocco sul mercato interno dei beni e servizi prodotti nel Paese.
4.1 Misure fiscali
Nell’ambito delle imposte sui redditi, ciò può avvenire in particolare articolando un meccanismo di crediti d’imposta per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel Paese (identificabili come tali secondo i criteri dell’art. 4 della l. n. 350/2003 o dell’art. 16 del d.l. n. 135/2009).
Per le imprese e i professionisti, ciò potrà avvenire ancora una volta mediante il sistema della superdeduzione: se i beni e servizi acquistati per l’esercizio dell’attività sono “made in Italy”, le spese potranno essere considerate deducibili, non già nella misura ordinaria del 100%, bensì in quella ad esempio del 110%. Per le persone fisiche, potrà essere stabilita una detrazione generale di una percentuale delle spese sostenute per l’acquisto di beni e servizi “made in Italy”. Nessun tetto massimo dovrà essere previsto per tale detrazione, poiché la funzione di stimolo dell’offerta che essa mira a perseguire cresce quanto più cresce la spesa per beni e servizi. Per converso, siffatta detrazione dovrà essere coordinata con il sistema delle detrazioni vigenti, escludendola per i beni e servizi già oggetto di specifica detrazione e subordinato le detrazioni già esistenti alla provenienza italiana dei beni e servizi che ne costituiscono oggetto.
Per gli incapienti, l’erogazione di sussidi alla spesa (come la carta delle famiglie o il reddito di cittadinanza) dovrà essere vincolata all’acquisto di beni e servizi made in Italy. In questo versante, naturalmente, rimarranno fermi gli importi massimi del sussidio determinati secondo le disposizioni generali in materia di assistenza sociale: non è, del resto, alle categorie economiche destinatarie dei sussidi di povertà che si affida la funzione di aumento della domanda aggregata in chiave di stimolo dell’offerta.
4.2 Misure assistenziali
Per inciso, e spostandosi dal quadro macroeconomico a quello di finanza pubblica dell’assistenza sociale a sostegno del welfare state, è invece essenziale sottolineare che i contenuti di detti ultimi sussidi devono essere resi finalmente idonei a garantire un’esistenza dignitosa a chi non sia nelle condizioni di procurarsi da vivere.
Tale esigenza si manifesta particolarmente pressante nella fase dell’emergenza attuale e richiede la configurazione di un sussidio diverso rispetto agli strumenti assistenziali ordinari (reddito di cittadinanza, assegni familiari, ecc.), che a essi si sostituisca in questo periodo di emergenza[13], offrendo così l’occasione per ripensare – a regime e pur modificandone naturalmente i contenuti rispetto a quelli necessari per questa fase – un panorama attualmente confuso e a tratti irrazionale. Siffatto sussidio straordinario dovrebbe permanere in vigore fino a che l’emergenza non sia cessata sotto il profilo economico (orizzonte temporale certamente diverso e successivo rispetto alla cessazione dell’emergenza sotto il profilo sanitario) e dovrebbe essere parametrato a un indice rappresentativo del bisogno della famiglia in caso di emergenza, correlato alla liquidità necessaria per far fronte alla vita quotidiana.
La configurazione di questo parametro appare l’elemento di maggior delicatezza, in quanto i meccanismi solitamente utilizzati dall’ordinamento, in particolare l’ISEE, da un lato, si manifestano per molteplici profili illegittimi (a cominciare dal piano dell’insufficiente rispetto della riserva di legge)[14] e, dall’altro lato, sono comunque inidonei a rappresentare il bisogno di una famiglia in un momento eccezionale come quello attuale. Ciò sia perché l’elemento patrimoniale, valorizzato dall’ISEE, risulta sostanzialmente irrilevante in un momento in cui lo smobilizzo è di fatto impossibile o comunque gravemente antieconomico (con possibili ripercussioni sul sistema economico generale, come quelle che si verificherebbero nel caso in cui tutti i risparmiatori possessori di titoli del debito li monetizzassero per ottenere liquidità per far fronte alle esigenze straordinarie del momento attuale); sia perché va tenuto conto del numero dei componenti della famiglia, ciò che l’ISEE non garantisce a causa della iniqua scala di equivalenza su cui si basa.
In questa prospettiva, un parametro di commisurazione del bisogno nell’emergenza potrebbe essere la determinazione – realistica e non sottostimata, come purtroppo solitamente avviene – della liquidità necessaria per la vita familiare, direttamente proporzionata al numero dei membri, senza l’utilizzo di scale di equivalenza, maggiorato in caso di presenze di handicap e, naturalmente, di casi di coronavirus in famiglia.
Il sussidio spettante per famiglia dovrebbe correlativamente essere calcolato come differenza tra l’importo così determinato e le giacenze liquide di conto corrente dei membri del nucleo familiare stesso, rilevate prima dell’insorgenza sanitaria, aggiornate mensilmente in termini di differenza tra gli eventuali accrediti sopravvenuti e i prelevamenti per importi complessivamente non superiori alla liquidità media necessaria per la vita familiare, come sopra determinata. L’intrusione conoscitiva nei conti correnti, pur spiacevole, sarebbe resa compatibile con i migliori principi di privacy dal carattere volontario della presentazione della domanda di sussidio: non appare disdicevole, e anzi sarebbe meritevole sotto il profilo della trasparenza e della buona fede, che chi chiede aiuti per la liquidità, specie in una situazione di emergenza, dimostri di averne effettivo bisogno.
Il sussidio andrebbe erogato in denaro, concedendo agli impossibilitati a muoversi in sicurezza a causa delle restrizioni alle libertà di circolazione l’opzione per la fruizione in natura mediante organizzazione della consegna di un corrispondente quantitativo di beni da parte dei commercianti (consegna da effettuarsi tramite potenziamento di meccanismi già preconizzati dall’art. 48 co. 1 del decreto “cura Italia” in tema di prestazioni individuali domiciliari ovvero, se necessario, per il tramite di protezione civile o esercito). In questo senso, previe le opportune correzioni a livello legislativo, tra cui l’aumento dell’importo a disposizione del fondo, allo stato attuale davvero esiguo, dovrebbe dirigersi l’attuazione amministrativa del Fondo per il reddito di ultima istanza previsto dall’art. 44 del decreto, strumento che correttamente non distingue tra lavoratori dipendenti e autonomi.
Naturalmente, neppure un sistema e un indice così congegnato saranno in grado di intercettare esattamente i casi di effettivo bisogno in questa fase di emergenza: è un limite intrinseco del diritto quello di non riuscire mai a coprire esattamente la realtà fattuale ma di doverla sempre, in un certo senso, rincorrere. Nella presente drammatica situazione, tuttavia, è preferibile un indice più ampio, idoneo a comprendere nel perimetro del sussidio casi in cui in concreto potrebbe non esservi bisogno, piuttosto che potenzialmente troppo restrittivo, tale da escludere dal sussidio casi di effettiva necessità.
- La legittimità delle misure di sostegno nel contesto internazionale
Diversamente da interventi selettivi sulle aliquote IVA (come potrebbe essere la riduzione di quelle gravanti su beni e servizi italiani rispetto a quelli esteri), le misure sopra prospettate rientrano nel pieno dominio della sovranità nazionale e non richiedono, dunque, alcun placet da parte delle organizzazioni sovranazionali di cui l’Italia è parte.
Si ricorda, in particolare, come l’Unione Europea sia in realtà priva di competenze in materia di imposte sui redditi nazionali, né d’altra parte le misure sopra proposte si pongono in contrasto con altri principi che la prassi della Commissione Europea e la giurisprudenza della Corte di Giustizia hanno affermato come indirettamente rilevanti in materia. All’evidenza, esse infatti non violano alcuna delle libertà fondamentali (circolazioni di persone, merci, servizi e capitali), non costituiscono misure equivalente a dazi doganali (poiché nessun onere pecuniario è imposto alle merci in ingresso, secondo la definizione fornita dalla Corte di Giustizia fin dalla sentenza 25 gennaio 1977, causa 46/76, Bahuis), né costituiscono aiuti di Stato (poiché difetta, chiaramente, il requisito della “selettività” degli aiuti, essendo esse estese a tutti i soggetti residenti in Italia, e, in ogni caso, perché si rientra in una ipotesa classica di operatività della fattispecie di cui all’art. 107, paragrafo 2, lett. b del TFUE, trattandosi all’evidenza di istituti “destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali”).
Fermo restando ciò, è chiaro che in una fase drammatica come quella odierna, in cui addirittura viene sospeso l’esercizio di libertà costituzionali e diritti umani fondamentali, non possono essere lacci e lacciuoli economici europei a intralciare l’intervento dello Stato a salvataggio del Paese.
Di questo, peraltro, sembrano essersi rese conto le stesse istituzioni europee che, nel non decidere le misure a sostegno dei Paesi, secondo quanto meglio si dirà nel successivo par. 7.2., hanno comunque dichiarato che non verrà sanzionato il ricorso all’indebitamento (essendo sospesi gli obblighi del patto di stabilità) e a certe tipologie di aiuti di Stato (cfr. il pur insufficiente quadro temporaneo per gli aiuti di Stato C(2020)1863 approvato dalla Commissione in data 19 marzo, modificato e integrato dalla Comunicazione della Commissione C (2020) 2215 del 3 aprile e recepito per gli enti pubblici diversi dallo Stato nel Capo II del Titolo II del decreto n. 34/2020), confermando da ultimo la piena legittimità delle misure contenute nei decreti “cura Italia” e “liquidità”.
- Le esigenze di finanziamento poste dalle misure di sostegno
Come chiarito fin dall’inizio, il fine ultimo ed essenziale delle misure sopra proposte è far sì che l’Italia, nonostante la crisi generata dal coronavirus, sia in grado di mantenere anche per il futuro un sistema volto a soddisfare le esigenze di vita che i cittadini non sono in grado di fronteggiare autonomamente, ossia a garantire a tutta la popolazione un certo tenore di vita.
Sennonché, come evidente, per mantenere un certo tenore di vita servono risorse. Ciò vale tanto per le famiglie, quanto per lo Stato (locuzione con cui, per semplicità, si intende qui il coacervo di pubbliche amministrazioni statali, regionali, locali e non territoriali di cui si compone la Repubblica) in un sistema, come quello italiano, in cui esso è chiamato a intervenire per compensare i “fallimenti del mercato”, ossia tutti i casi in cui il libero sistema economico non è in grado di garantire il benessere minimo di cui si ritiene che tutti i cittadini debbano godere.
In questa prospettiva, è possibile affermare che il coronavirus ha prodotto per lo Stato un effetto assimilabile a quello che produce in una famiglia la caduta in grave e lunga malattia di chi apporta reddito. Servono più soldi per mantenere il tenore di vita precedente e si ricevono meno entrate. Solo che, per lo Stato, non esistono salvagenti come sono per i privati le assicurazioni sanitarie e lavorative, in Italia fortunatamente obbligatorie, che consentono di curarsi e di integrare il reddito mentre la malattia impedisce di lavorare e, quindi, di guadagnare.
Deve, quindi, essere gestita una situazione in cui lo Stato deve spendere di più, per garantire onerose misure di supporto alla domanda e all’offerta come quelle sopra proposte (essenziali, a loro volta, per garantire le esternalità positive che alimentano il welfare State), ma subisce una contrazione delle entrate, perché le grandezze economiche si riducono e, con esse, il gettito dei tributi a quadro normativo invariato.
In un simile contesto, come avviene per i privati, se si vuole mantenere un certo tenore di vita ma mancano i soldi le alternative sono essenzialmente due: (a) trovare nuove fonte di entrate, oppure (b) rivolgersi a parenti, amici o specialisti del credito per ottenere i soldi necessari. Se in nessun ambito si riescono a trovare i soldi necessari, occorre ridurre le spese e, quindi, il tenore di vita.
- Le possibili fonti di finanziamento
Calandosi nel contesto dello Stato, e in particolare della situazione italiana attuale, riguardo a tali strategie di finanziamento della spesa pubblica straordinaria per sostenere la ripresa economica si può affermare quanto segue.
7.1 Entrate tributarie e politica monetaria
Per trovare nuove entrate, a parte i prestiti di cui si dirà nel successivo paragrafo, lo Stato può innanzitutto imporre nuovi tributi oppure vendere il proprio patrimonio [15].
La prima strada appare inopportuna. In un Paese che già si contraddistingue per una delle pressioni fiscali più elevate al mondo e che si trova oggi in una condizione di prostrazione economica e morale a causa del coronavirus, l’aumento della pressione tributaria sarebbe soluzione, per un verso, di dubbia utilità (poiché ciò di cui oggi vi è bisogno è incentivare la produttività e la capacità di consumo, non farle oggetto di nuovi tributi che producono di natura un effetto disincentivante e di riduzione della liquidità disponibile), e per altro verso controproducente sotto tutti i profili.
La seconda strada appare in parte improponibile, in altra parte scarsamente idonea a fronteggiare l’emergenza nell’immediato[16]. Essa è improponibile nella misura in cui andasse a incidere su quella parte di patrimonio che riveste un significato per il Paese. Ma, se ancora si trovasse patrimonio pubblico ridondante pur dopo le tante campagne di dismissione realizzate negli ultimi anni, i tempi che la cessione o cartolarizzazione richiederebbe sarebbero lunghi e le procedure complesse.
L’unica eccezione a quanto detto è rappresentata dalle riserve auree, che per l’Italia valgono circa 100 miliardi di euro, custoditi in naftalina: è oggi, forse, il momento di mettervi mano, anche solo in parte, ma con grande oculatezza e prudenza.
Se è vero, infatti, che l’Italia ha una riserva aurea tra le più cospicue del mondo e che essa a oggi non risponde più alla funzione tradizionale di garantire la convertibilità in oro di una moneta nazionale, donde la possibilità di un utilizzo razionale ad altri fini; è anche vero che l’intervento sulle riserve auree – se operato in maniera disordinata e senza spiegare adeguatamente prima i motivi del ricorso a questa particolare risorsa, che può risultare ragionevole solo in una prospettiva di mero tamponamento delle esigenze più immediate di liquidità provocate dalla crisi attuale (poiché anche l’intero ammontare delle riserve non sarebbe sufficiente per risolvere il problema nel medio-lungo termine) – potrebbe essere percepito dai mercati come ultima mossa di uno stato bancarottiero, provocando un drammatico effetto di ulteriore contrazione del credito, levitazione dello spread e danni economici consequenziali.
Oltre a ciò gli Stati possono, in generale, avere un’arma in più rispetto ai privati per trovare nuove risorse, ossia emettere moneta. Come si è detto, l’Italia ha ceduto tale potestà all’Eurozona, per cui non può disporre direttamente di tale potere.
All’emissione di moneta equivale, da un punto di vista dell’effetto economico immediato, cioè dell’immissione di nuova liquidità nel sistema economico, l’acquisto di debito pubblico da parte della banca centrale depositaria del potere di batter moneta[17]: così, infatti, la banca centrale finanzia più o meno direttamente l’amministrazione dello Stato, concedendo a essa il denaro di cui ha bisogno e, quindi, immettendo in circolazione nuova liquidità. Ciò è quanto sta facendo la BCE acquistando buoni del tesoro italiani grazie al Quantitative Easing. La principale – e non certo trascurabile – differenza tra il collocamento del debito presso la banca centrale e la pura stampa di moneta è che il debito prevede una restituzione, mentre l’emissione di moneta no. La discrasia tra i due sistemi di finanziamento può avvenire soltanto laddove lo Stato eserciti il potere di consolidare o ristrutturare il debito verso la banca centrale, fino ad annullarlo unilateralmente. In tutti i casi, si tratta di operazioni particolarmente delicate.
L’utilizzo della politica monetaria per finanziare la spesa pubblica deve essere attento, poiché genera per sua natura una svalutazione della moneta e, quindi, un fenomeno d’inflazione.
L’inflazione non è un male in sé, ma va mantenuta entro certi limiti per non perderne il controllo, con i conseguenti effetti che ciò produce (anzitutto, la perdita di potere della moneta sui mercati internazionali, con conseguente difficoltà a importare dall’estero, perché più costosi, i beni non disponibili nel mercato interno). In questo, ha senso porre un limite all’acquisto di debito da parte della BCE, sebbene il limite attualmente praticato (e prospettato) appaia eccessivamente restrittivo e, come tale, meriti di essere allentato mostrando una maggiore disponibilità ad acquistare il debito degli Stati in difficoltà[18].
L’intervento sulla restituzione del debito, poi, genera un evidente effetto dissuasivo nel concedere prestiti per il futuro, con la conseguenza che potrà essere ragionevolmente praticato soltanto quando lo Stato abbia raggiunto un equilibrio di bilancio tale da generare una situazione di costante accreditamento netto (ossia un saldo di conto economico stabilmente positivo, a sua volta derivante da una differenza stabilmente positiva tra entrate pubbliche, da un lato, e spese pubbliche incluse quelle per servizio del debito pubblico da restituire, dall’altro lato) e, quindi, da non aver più bisogno d’indebitarsi.
7.2 Debito pubblico e prestiti internazionali
Ciò che per una famiglia è rivolgersi a parenti, amici o specialisti del credito per ottenere i soldi necessari, per uno Stato è rivolgersi agli investitori (interni o stranieri) o ai partner internazionali. Ed è qui che sta il cuore del discorso relativo al rapporto tra l’Italia e l’Unione Europea[19].
L’Italia si è oggi rivolta all’Unione Europea e agli Stati membri come ci si potrebbe rivolgere a dei fratelli: l’Italia, fondatrice del progetto europeo, entusiasta sostenitrice anche nei momenti più difficili, generosa e costante finanziatrice di esso e dei suoi membri in difficoltà, a cominciare dalla Germania[20], nel momento del bisogno ha giustamente atteso di essere trattata reciprocamente dall’Unione e dai suoi Stati Membri e di ottenere, così, sovvenzioni per fronteggiare le difficoltà del dramma attuale. Tali sovvenzioni, in particolare, possono avere carattere diretto o indiretto. Le sovvenzioni dirette sono gli aiuti in denaro, da non restituire: come richiedere una donazione al fratello, oggi ricco, che tanto si è sostenuto e aiutato in passato per uscire dalle proprie difficoltà e realizzarsi. Le sovvenzioni indirette sono l’assunzione di obbligazioni comuni, finalizzate a ottenere credito sul mercato a tassi di restituzione più bassi di quelli che si otterrebbero presentandosi da soli: come richiedere al fratello ricco di presentarsi insieme in banca per chiedere il mutuo. Strada, questa, che a sua volta può essere realizzata secondo diverse modalità.
Gli Stati membri e l’Unione Europea, al contrario, si sono rivolti all’Italia, non già come fratelli riconoscenti, ma come specialisti del credito. E infatti, dal comunicato stampa rilasciato all’esito del Consiglio Europeo del 9 aprile emerge che:
- gli aggiustamenti del bilancio UE per tener conto dell’emergenza coronavirus dovrebbero consentire a “the hardest hit Member States” di accedere a un supporto finanziario che, per il 2020, non supererà 800 milioni di Euro (punto 9 del comunicato stampa): le modalità non vengono specificate, ma si tratta in ogni caso di somma estremamente ridotta rispetto alle esigenze dal momento, se appena si considera che la Germania ha messo a budget, per superare l’emergenza sanitaria e la conseguente crisi economica al proprio interno, circa 1 miliardo e 100 milioni di Euro;
- i prestiti e le garanzie della BEI sono strumenti ordinari a disposizione delle imprese degli Stati membri e consistono tecnicamente in prestiti o garanzie bancari. Al riguardo, inoltre, va osservato che il monte di prestiti inserito nel pacchetto di misure per il coronavirus (che risulta a oggi circoscritto a 20 miliardi di euro per tutta l’Unione) e la possibilità di erogare garanzie fino a 25 miliardi totali (punto 15 del comunicato stampa) corrispondono per ogni Stato membro a meno di un miliardo di euro per prestiti e meno di un miliardo per garanzie. Somme, queste, manifestamente insufficienti, non soltanto a risolvere il problema della liquidità delle imprese, ma anche soltanto a dare una prima boccata d’ossigeno al Paese;
- il SURE è un meccanismo temporaneo che prevede la concessione agli Stati membri di prestiti a tasso agevolato per il finanziamento della cassa integrazione nazionale. Sennonché, allo stato attuale delle elaborazioni, la proposta di regolamento elaborata dalla Commissione (COM/2020/139 del 2 aprile 2020) prevede che: l’importo complessivo ammonti a 100 miliardi, di cui massimo il 10% erogabile in un anno, da dividersi tra tutti i Paesi europei, con un massimo di complessivi 60 miliardi destinati ai tre Paesi maggiormente bisognosi; i criteri e il tasso d’interesse del prestito non vengono definiti in via generale ed ex ante, ma verranno fissati volta per volta per ciascuno Stato richiedente da una decisione ad hoc del Consiglio; per accedere ai fondi, gli Stati che ne beneficiano debbano rilasciare una importante garanzia. In questo contesto, i meccanismi del SURE richiederebbero all’Italia di rilasciare una consistente garanzia (25 miliardi di euro, ossia una somma pari a quella stanziata dal decreto “cura Italia” e presumibilmente superiore a quella ottenibile dal SURE stesso), che di fatto difficilmente potrebbe essere conseguita se non emettendo altro debito pubblico. Il tutto per conseguire, semplicemente, un prestito di massimo 20 miliardi (di cui non più di 2 miliardi all’anno), ossia cifre minime e obiettivamente trascurabili rispetto al fabbisogno, a tasso d’interesse (presumibilmente) più basso a quello di mercato. Tasso d’interesse che, sia detto per inciso, finirebbe in questo caso da ultimo probabilmente nelle casse degli Stati membri con il PIL più elevato, ossia in primo luogo la Germania;
- il MES è un meccanismo collaterale all’Unione Europea che prevede la concessione di fondi agli Stati aderenti che siano in crisi in cambio dell’adozione di drastiche misure di austerità, sul modello greco. Se si rivolgesse ad esso, l’Italia finirebbe per porre pressoché integralmente la propria sovranità nelle mani dei creditori stranieri, perché, di fatto, verrebbe commissariata. La circostanza che, per quanto necessario a finanziare le spese sanitarie sostenute per fronteggiare l’emergenza[21], sia creato entro il MES un Pandemic Crisis Support che consente l’accesso ai fondi del MES temporaneamente subordinato a condizioni più elastiche[22] è un passo utile, sebbene l’importo a ciò destinato sia molto limitato (per l’Italia, si parla di un massimo di circa 36 miliardi di Euro, ossia – è bene sottolinearlo – importi ben inferiori a quanto l’Italia ha già versato e si è impegnata a versare per costituire il MES stesso), ma evidentemente insufficiente: inoltre, si tratta pur sempre di soldi da restituire (entro dieci anni e con un tasso d’interesse conveniente rispetto al reperimento delle risorse sul mercato del debito, come specificato dal comunicato stampa dell’8 maggio 2020) e, comunque, di un intervento diretto ad aspetti diversi dal sostegno alla ripresa economica; il Recovery Fund, prospettato dalle poche righe del punto 17 del comunicato del 9 aprile, non vede ancora neppure un accordo di massima degli Stati membri, ma soltanto un proposito di “work on [it]”. Esso dovrebbe comunque essere «temporary, targeted and commensurate with the extraordinary costs of the current crisis». Nessuna evoluzione ufficiale si registra nel momento in cui si scrive, se non una conferma della divergenza delle posizioni tra Stati “rigoristi” e altri Stati (con la significatività novità di un parziale riposizionamento della Germania dal fronte dei primi al fronte dei secondi). Fermo restando che la diplomazia italiana dovrà dare il massimo affinché tale fondo sia strutturato e finanziato in modalità e misura adeguate, non appare quindi possibile allo stato esprimere considerazioni in merito, stante l’assoluta genericità e vaghezza del proposito contenuto nel comunicato stampa.
- Il ruolo dell’Unione Europea
Se i dettagli sono ancora estremamente vaghi su molti dei fronti decisivi, il quadro sembra tuttavia ormai delineato per ciò che attiene all’impostazione di fondo che l’Unione Europea e gli Stati membri hanno voluto dare ai rapporti con l’Italia nella vicenda coronavirus. Pur nell’auspicio che quanto meno nel fondo di solidarietà si riversino strumenti finalmente efficaci, possono quindi già formularsi alcune prime considerazioni.
L’Unione Europea ha e mantiene la matrice di un mercato comune: come tale, le è sostanzialmente estranea la dimensione della solidarietà, della generosità, della gratuità[23]. Continuare a parlare di casa comune europea, di prospettiva federale dell’Unione e simili, equivale a sperare che, invocando un concetto, esso si materializzi.
Allo stato attuale, non ve ne sono le condizioni ed è difficile che esse si realizzino un domani se non vi sarà un salto di qualità sul piano dei valori su cui si fonda l’Unione.
Conseguentemente, comportarsi verso l’Unione e verso gli Stati membri con la generosità con cui l’Italia lo ha fatto in passato, smantellando troppo superficialmente la propria sovranità, non è sempre saggio: gli interlocutori europei non sono fratelli di sangue, sono realtà economiche che, come tali, possono comportarsi da partner o competitor a seconda degli interessi in gioco. I trattati, i regolamenti e le direttive europee sono ricchi di riserve poste volta per volta dagli Stati membri per tutelare adeguatamente i propri interessi nazionali: soltanto la casella italiana delle riserve e delle precisazioni è quasi sempre stata vuota. Ciò non è frutto soltanto della scarsa lungimiranza di una classa dirigente incapace di comprendere i rischi della cessione di sovranità e quindi di delimitarla con accortezza; è frutto anche di una visione dell’Europa ideologica e mitizzata, secondo cui tutto ciò che viene da essa è buono. Non è così ed è l’ora di rendersene conto.
Il mercato comune europeo va valutato come tale.
In questa prospettiva, l’Unione Europea funziona troppo e male.
Funziona troppo, perché dal Trattato di Maastricht in poi l’Europa è stata caricata di competenze para-politiche e para-solidaristiche che strutturalmente non le si confanno, tanto che l’attuazione delle iniziative che intorno a esse ruotano devono sempre passare per il tramite decisionale e applicativo degli Stati membri e delle amministrazioni nazionali. Nell’illusione che gli Stati Europei fossero pronti a superarsi, si rischia così di compromettere anche un progetto economico razionale.
Funziona male perché, quando si tratta di limitare la sovranità degli Stati, l’Europa fa di tutto per forzare le proprie competenze, aumentandole ben al di là di quanto consentito dai trattati. Si pensi alla spasmodica dilatazione delle competenze in materia di aiuti di Stato, strumento ormai abitualmente utilizzato per imporre illegittimi vincoli europei a settori (come imposte dirette e tributi locali) estranei alle competenze che gli Stati hanno affidato all’Unione tramite i Trattati istitutivi[24]. Oppure si pensi alle scorribande del Parlamento di Strasburgo in materie eticamente sensibili, quanto di più estraneo vi è alle competenze dell’Unione. Quando, invece, si tratta di forzare le competenze per aiutare gli Stati, essa alza le mani appigliandosi ai limiti dei Trattati. Si tratta di un approccio “schizofrenico”, che mina la credibilità delle istituzioni europee e del progetto che esse dovrebbero realizzare.
Inoltre, l’Unione Europea funziona male nel promuovere il mercato comune anche perché si concentra con gran pignoleria sui dettagli (regolamentare le quote latte, la dimensione delle uova, il divieto di giochi gonfiabili in spiaggia per bambini e accendini colorati)[25], ma non si attiva per affrontare gli squilibri di sistema come, ad esempio, gli sbilanciamenti commerciali tra Stati che vivono una situazione di costante surplus della Germania nei conti con gli altri Stati membri.
- Considerazioni conclusive
Da quanto sopra possono trarsi alcune conclusioni.
9.1 I limiti dell’intervento europeo
La prima è che l’Italia deve valutare l’opportunità di avvalersi degli strumenti posti a disposizione dall’Unione Europea, e sopra sinteticamente elencati nel par. 7.2., libera da condizionamenti ideologici, ma sulla base degli interessi della comunità nazionale, che non sono egoismi, ma tessere di bene comune troppo spesso dimenticate.
L’Europa chiede molto agli Italiani, sia in termini finanziari, sia in termini di limitazioni della sovranità, ossia della possibilità di dettare norme liberamente decise per adeguarsi al meglio alla comunità nazionale. Nel momento in cui ciò che essa chiede è superiore a ciò che essa è capace di dare, specialmente quando si è nel bisogno, l’apertura a riflessioni più ampie non è un’eresia, ma può essere anzi un’occasione di crescita per tutti. Ed è naturale che, in tali riflessioni, tutte le variabili siano da soppesare con ragionevolezza, tenendo conto, pertanto, anche che agli insufficienti strumenti per fronteggiare l’emergenza sopra ricordati devono essere idealmente sommati i benefici sistematici che l’appartenenza all’Eurozona permette in termini di accesso a un mercato ampio (e, quindi, di potenziale sbocco per i beni e servizi prodotti nel Paese, con conseguente funzione di stimolo della crescita economica) senza necessità di svalutazione della moneta (e, quindi, in un contesto capace di tutelare il potere d’acquisto dei risparmi senza incorrere in spirali inflattive).
9.2 Il ruolo centrale della solidarietà nazionale: buoni del tesoro per la ricostruzione e prestiti forzosi
La seconda conclusione è che bisogna tornare a confidare di più sulle forze che provengono dall’interno del Paese, fino ad oggi troppo trascurate e sottovalutate: in questa emergenza coronavirus, gli Italiani hanno dimostrato una solidarietà straordinaria, anche sotto il profilo economico; lo Stato deve razionalizzarla, anzitutto facendo appello agli Italiani affinché finanzino spontaneamente lo Stato stesso in questo momento di bisogno e, a giudicare da quanto avvenuto in questi giorni, non vi è dubbio che gli Italiani lo faranno.
È quindi davvero auspicabile l’emissione di titoli di debito pubblico ad hoc, come potrebbero essere dei Buoni del Tesoro di Solidarietà Nazionale: (a) vincolati nella destinazione allo specifico fine di fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica causata dal coronavirus; (b) a scadenza pluridecennale (si potrebbe partire con titoli ventennali, per soddisfare le esigenze di risorse più immediate, per giungere anche a una scadenza cinquantennale, per soddisfare le esigenze di medio-lungo termine, soprattutto post-coronavirus); (c) sottoscrivibili, previa adeguata informativa pubblica e bancaria, in deroga agli ordinari schemi bancari di profilatura di propensione al rischio basati sulle direttive “MIFID”; (d) liberamente trasferibili, così da permettere, se si crea un mercato in ragione dei tassi di interesse offerti, l’eventuale smobilizzo in tutto o in parte; (e) con un tasso di interesse calmierato ed esente da imposizioni, circostanza, quest’ultima, che permette già di essere competitivi sul fronte del rendimento effettivo.
Al rigoroso rispetto di condizioni di tal fatta è legato il successo dell’iniziativa, che è stata prospettata dall’aggiornamento alle linee guida della gestione del debito pubblico divulgato dal Dipartimento del Tesoro per l’Aprile 2020, di emettere un «nuovo strumento di tipo nominale (…) specificatamente dedicato agli investitori retail».
In questa chiave, per motivare gli Italiani (o chiunque abbia a cuore la ripresa del Paese) a convogliare nei titoli la propria generosità, non appare sufficiente annunciare che «esplicito obiettivo sarà quello di contribuire alla copertura dei provvedimenti già varati e ancora da varare da parte del Governo per fronteggiare la crisi sanitaria ed economico-finanziaria prodotta dalla diffusione del virus Covid-19», ma occorre vincolare giuridicamente le somme raccolte tramite i buoni di solidarietà all’utilizzo per tali finalità. Ciò che dovrà esser fatto, derogando al principio di unità del bilancio[26], mediante creazione di appositi vincoli di destinazione delle entrate derivanti dai prestiti ai capitoli di spesa maggiormente interessati dall’emergenza coronavirus: solo così gli Italiani potranno avere la certezza giuridica che le somme prestate non finiscano nel calderone di una spesa pubblica spesso improduttiva e potranno senza remore incaricare lo Stato di raccogliere e gestire le espressioni di generosità, nella prospettiva di toccare con mano (e verificare, anche in prospettiva di responsabilità politica) il beneficio che da esse la comunità nazionale potrà godere.
Nel caso in cui fossero richieste risorse aggiuntive rispetto a quelle ritratte dalla contribuzione spontanea, anziché consegnarsi a un commissariamento internazionale, la soluzione migliore è quella di imporre la sottoscrizione di tali titoli, a condizioni analoghe, in una certa percentuale (per ipotesi, compresa tra il 2 e il 5 per cento) per giacenze finanziarie in Italia e all’estero che superino una soglia considerabile di vera ricchezza (ossia nell’ordine di almeno un milione di euro, al netto dell’importo dei buoni di solidarietà già sottoscritti spontaneamente e delle imposte patrimoniali sul risparmio già pagate in Italia negli ultimi anni).
Si tratterebbe, sì, di un intervento coattivo, assumendo le vesti di un “prestito forzoso”, ma evidentemente più “morbido” e accettabile dall’opinione pubblica rispetto all’introduzione di nuove imposte patrimoniali, anche una tantum, o all’inasprimento di quelle esistenti, già percepite come eccessivamente gravose, oltre che caratterizzato per sua natura da prospettive di remunerazione (che limitano gli effetti depressivi sulla propensione al consumo e al risparmio) e di rientro delle somme versate (se del caso, scaglionabile nel tempo, ad esempio in tranche decennali di quote progressivamente crescenti) che, invece, sono assenti per i prelievi propriamente impositivi. Il meccanismo del prestito forzoso, inoltre, si presta a stimolare ciascuno dei sottoscrittori a impegnarsi al massimo affinché i prestiti possano essere restituiti (senza trasformarsi in un prelievo patrimoniale a tempo differito) e, quindi, affinché l’economia nazionale possa ripartire: così, magari, ottenendo anche l’effetto di invogliare a far rientrare in Italia eventuali attività finanziarie o produttive attualmente dislocate all’estero.
9.3 Il piano di sostegno statunitense
In terzo luogo, la permanenza nell’Unione Europea non deve rallentare l’attività del Governo nel cercare partner internazionali anche al di fuori dell’Unione stessa.
In questa prospettiva, il memorandum firmato dal Presidente degli Stati Uniti il 10 aprile “Providing COVID-19 Assistance to the Italian Republic” e che prevede, nella sezione 6, aiuti finanziari all’Italia in questa fase d’emergenza «to support the recovery of the Italian economy» deve essere coltivato con la massima serietà da parte dell’Italia, per molti motivi. Esso proviene da un Paese che, diversamente da molti Stati membri dell’Unione, si è dimostrato capace di vera solidarietà verso gli Europei grazie al piano Marshall. La contropartita per la solidarietà USA non richiede azzardati ricollocamenti geopolitici, che pur all’Italia vengono più o meno esplicitamente proposti in queste settimane, ma il rafforzamento di un’alleanza storica e ben radicata. Il sostegno proveniente da fuori Bruxelles ha anche, come effetto indiretto, quello di aumentare concretamente il potere negoziale dell’Italia in Europa, evitando ad essa il ruolo sterile di innamorata sedotta, abbandonata e impermalita.
Per l’Italia, le possibilità di uscire dalla crisi e far rinascere l’economia esistono e sono molteplici. Basta guardarsi dentro, guardarsi intorno e agire con intelligenza avendo sempre di fronte l’interesse della comunità nazionale, senza indulgere a visioni idealistiche della realtà internazionale. L’Unione Europea è un possibile tassello di tali soluzioni, ma le sorti dell’Italia non dipendono integralmente da essa.
* Contributo sottoposto a valutazione.
[1] Sul tema cfr., per tutti, J.A. Schumpeter, Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, München-Leipzig 1912, trad. it. Teoria dello sviluppo economico, Milano 2002; Id., Business cycles: a theoretical, historical and statistical analysis of the capitalist process, New York 1939, trad. it. parziale Il processo capitalistico. Cicli economici, Torino, 1977; S.S. Kuznets, Cyclical Fluctuations: Retail and Wholesale Trade, New York 1926; G. Pella, Cicli economici e previsioni di crisi, Milano, 1938; M. Kalecki, Essays in the theory of economic fluctuations, London 1939, trad. it. Saggi sulla teoria delle fluttuazioni economiche, Torino, 1985; W.C. Mitchell – A.F. Burns, Measuring business cycles, New York, 1946; P. Sylos Labini, Problemi dello sviluppo economico, Bari, 1970; R.E. jr. Lucas, Studies in business-cycle theory, Cambridge USA, 1981, trad. it. Studi sulla teoria del ciclo economico, Milano, 1986; J.R. Hicks, Are there economic cycles?, in Money, interest and wages, Oxford, 1982.
[2] Si vedano in particolare le opere di L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, Torino, 1949; Id., Il buongoverno, Roma-Bari, 1954; E. Vanoni, Lezioni di scienza delle finanze e diritto finanziario. Parte I. Principi di economia e politica finanziaria, Padova, 1937; Id., La nostra via. Criteri politici dell’organizzazione economica, in Quaderni di Roma, luglio 1947, 4, p. 340 ss., ora in A. Magliulo (a cura di), Ezio Vanoni. La giustizia sociale nell’economia di mercato, Roma, 1991, p. 129 ss.; Id., Lo sviluppo economico italiano e la cooperazione internazionale, in La comunità internazionale, 1955, pp. 3-12 ss., ora in P. Barucci P. (a cura di), La politica economica degli anni degasperiani. Scritti e discorsi politici ed economici, Firenze, 1977, p. 377 ss.; G. Pella, Tre documenti della rinascita, Bologna, 1953; G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Roma-Bari, 1977; Id. (a cura di), Sviluppo economico e strutture finanziarie in Italia, Bologna, 1977; Id., Economia, società, istituzioni, Milano, 1989; Id., Le due anime di Faust. Scritti di economia politica, Roma-Bari, 1996. Per una lettura in chiave storica cfr., tra i moltissimi, P. Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno: la politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Bologna, 1982; A. Cardini (a cura di), Il miracolo economico italiano (1958-1963), Bologna, 2007; V. Castronovo, L’Italia del miracolo economico, Roma-Bari, 2010.
[3] In questa prospettiva, da noi evidenziata sul sito www.centrostudilivatino.it in data 30 marzo 2020, il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 ha introdotto all’art. 136 alcuni, pur insufficienti, “incentivi per gli investimenti nell’economia reale”.
[4] Cfr. la cd. “Volcker Rule” del Dodd-Franck Act del 2010.
[5] Cfr. la cd. “Vickers Rule” del Financial Services Act del 2013.
[6] Sulle agevolazioni fiscali concesse nell’immediato, e in particolare fino ad aprile 2020, si veda S. Boffano, Brevi riflessioni sulle agevolazioni fiscali alle donazioni effettuate nel contesto della “emergenza coronavirus”, in Riv. telem. dir. trib., 20 aprile 2020, L. Carpentieri, La cessione gratuita di farmaci ad uso compassionevole: ovvero quando le norme fiscali rispondono a finalità extrafiscali, in Riv. telem. dir. trib., 28 aprile 2020.
[7] Il tema, particolare ma estremamente concreto, dell’incidenza della crisi di liquidità sugli illeciti amministrativi e penali di omesso versamento dei tributi è stato vagliato da G. Ingrao, Crisi di liquidità da coronavirus e omesso versamento di tributi: quali conseguenze sanzionatorie amministrative e penali? in Riv. telem. dir. trib., 29 aprile 2020, secondo cui è da escludere che i provvedimenti di lockdown e la sottostante emergenza sanitaria pandemica possano costituire una causa di forza maggiore che determina di per sé la non punibilità amministrativa e penale, ritenendo, per contro, possibile la sussistenza di un’impossibilità assoluta di adempiere che farebbe venir meno la colpevolezza e quindi sia l’illecito amministrativo che quello penale.
[8] La proposta, da noi avanzata sul sito www.centrostudilivatino.it in data 30 marzo 2020, è stata parzialmente recepita, ancorché con modalità e limiti non del tutto razionali, nell’art. 25 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34. Oltre a ciò ed ulteriori sussidi forfetari (che, come tali, non corrispondono alla logica indicata nel testo, ma a una logica più propriamente assistenziale) e forme di coperture dei costi, il d.l. n. 34/2020 ha introdotto misure di compensazione per i cali di fatturato delle imprese dei settori trasporti (artt. 196 ss.), delle filiere agricole (art. 222), delle piccole e medie imprese che operano in Zone Economiche Ambientali (art. 227).
[9] Cfr., in tal senso, anche gli artt. 68 ss. del d.l. n. 34/2020, oltre al Fondo per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività d’impresa di cui all’art. 43 del medesimo decreto.
[10] La proposta, da noi avanzata sul sito del Centro Studi Livatino (www.centrostudilivatino.it) in data 30 marzo 2020, è stata parzialmente recepita nell’art. 24 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34.
[11] La proposta di sterilizzare l’onere dei contributi previdenziali, da noi avanzata con riferimento ai professionisti sul sito www.centrostudilivatino.it in data 30 marzo 2020, è stata parzialmente recepita negli artt. 40 e 193 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, seppure con riferimento a contesti soggettivi diversi e, all’evidenza, troppo circoscritti.
[12] Alla proposta, da noi avanzata sul sito www.centrostudilivatino.it in data 30 marzo 2020, ha fatto seguito un tentativo di recepimento negli artt. 39 e 42 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 che, tuttavia, non appare all’evidenza sufficiente a rinvigorire in modo efficace il quadro di organizzazione della politica industriale in Italia.
[13] La proposta di un sussidio ad hoc per il periodo dell’emergenza, da noi avanzata sul sito www.centrostudilivatino.it in data 25 marzo 2020, è stata parzialmente recepita nell’art. 82 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, rubricato appunto “reddito di emergenza”: il legame di esso all’ISEE, tuttavia, rende la misura scarsamente idonea a raggiungere gli obiettivi che si pone, per le ragioni già indicate nel testo.
[14] Per ulteriori approfondimenti, si veda F. Farri, Un fisco sostenibile per la famiglia in Italia, Padova, 2018, p. 124 ss. e p. 153 ss.
[15] Per approfondimenti sul punto sia consentito il rinvio a A. Contrino – F. Farri, Emergenza coronavirus e finanziamento della spesa pubblica: è possibile trarre indicazioni per la futura politica fiscale italiana?, in Riv. telem. dir. trib., 28 marzo 2020. Una terza via è prospettata da S. M. Ronco, Scenari di politica fiscale nell’emergenza Coronavirus: brevi riflessioni, in Riv. telem. dir. trib., 25 aprile 2020, valorizzando la relazione che insiste tra tassi negativi praticata dalla BCE e funzionalizzazione del risparmio privato alla ripresa economica: secondo l’A., gli oneri derivanti dall’applicazione dei tassi negativi potrebbero essere traslati e assorbiti dai titolari ultimi della liquidità inutilizzata, cioè i correntisti (soluzione, questa, che si stava già verificando prima della crisi sanitaria in diversi Paesi del nord Europa), creando lo stesso meccanismo di disincentivo creato dalla BCE per le banche; si tratterebbe – sempre secondo l’A. – di uno strumento di un certo interesse anche nella dimensione tributaria, che – se non può, da solo, garantire il soddisfacimento del fabbisogno effettivo della cassa statale – si differenzierebbe concettualmente da prelievi forzosi sui conti correnti o da altre tipologie di imposizione straordinaria di tipo patrimoniale, già ben noti ai contribuenti italiani. Per la prospettiva costituzionale, A. Perrone, Emergenza coronavirus e prelievo fiscale, tra diritti “scontati”, obbligo contributivo, solidarietà ed Europa: riflessioni a caldo, in Riv. telem. dir. trib., 21 aprile 2020.
[16] Cerca, comunque, di muoversi in questa direzione, da noi richiamata sul sito www.centrostudilivatino.it in data 18 aprile 2020, l’art. 164 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34.
[17] Sul tema cfr., da ultimo, O. Blanchard – J. Pisani Ferry, Monetisation do not panic, in Vox, 10 April 2020; R. Baldwin – B. Weder di Mauro, Mitigating the COVID Economic Crisis: Act Fast and Do Whatever It Takes, Londra, 2020; J. Galí, Helicopter money: The time is now, in Vox, 17 marzo 2020.
[18] In questa prospettiva, nient’affatto incoraggianti appaiono le prospettive aperte dalla sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 5 maggio n. 2020, BvR 859/15, 2 BvR 980/16, 2 BvR 2006/15, 2 BvR 1651/15. Se essa, come evidente, non dispone della forza giuridica per imporsi alle istituzioni europee, può tuttavia vincolare le istituzioni tedesche ad agire in sede europea secondo determinati principi giuridici. Ciò con la conseguenza che, laddove le istituzioni europee non si adeguino alla linea tedesca, le istituzioni tedesche stesse potrebbero trovarsi nella condizione di dover decidere se agire in contrasto con la loro costituzione nazionale (così come interpretata dai giudici di Karlsruhe), oppure denunciare in parte qua i trattati europei, fuoriuscendo dalle istituzioni europee che pongano problemi di compatibilità con la costituzione tedesca (nel caso di specie, la BCE, ossia il sistema Euro).
[19] Cfr., per una prospettiva ottimistica, F. Pepe, L’emergenza Covid-19 nell’Unione europea: verso una solidarietà tributaria “strategica”?, in Riv. telem. dir. trib., 29 aprile 2020, secondo cui l’eventuale implementazione delle misure di contrasto agli effetti economici dell’epidemia Covid-19 finora proposte a livello eurounitario potrebbe spingere, per ragioni “strategiche”, verso una solidarietà degli Stati membri proprio sul versante dell’imposizione. Sul tema, v., inoltre, A. Perrone, Emergenza coronavirus e prelievo fiscale, tra diritti “scontati”, obbligo contributivo, solidarietà ed Europa: riflessioni a caldo, in Riv. telem. dir. trib., 21 aprile 2020, cit.
[20] L’Italia ha, infatti, consentito all’Accordo di Londra con cui si condonava amplissima parte del debito di guerra tedesco e dei futuri debiti incorsi per la riunificazione delle Germanie.
[21] «A very specific and limited scope», recitano gli allegati tecnici al comunicato stampa del successivo Eurogruppo dell’8 maggio.
[22] La prima parte del punto 16 del comunicato stampa del 9 aprile parla, in proposito, di «standardised terms agreed in advance by the ESM Governing Bodies, reflecting the current challenges». Il comunicato stampa del successivo Eurogruppo dell’8 maggio 2020, che ha approvato la proposta formulata dalla Commissione il 7 maggio 2020, conferma che «The provisions of the ESM Treaty will be followed». Nel dettaglio, la lettera inviata dalla Commissione all’Eurogruppo in data 7 maggio e accolta nella seduta dell’8 maggio, che a essa rinvia, propone che soltanto alcune delle misure di sorveglianza rafforzata previste dal MES possano essere derogate nel caso di accesso ai fondi per finalità sanitarie connesse al coronavirus. Da ciò discende che, per il resto, si applica il regolamento n. 472/2013 sulla “sorveglianza rafforzata” del MES. In specie, rimane applicabile l’art. 3, comma 1 del regolamento, il quale stabilisce che lo Stato soggetto a “sorveglianza rafforzata” è tenuto ad accogliere «ogni raccomandazione indirizzatagli ai sensi del regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio, per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche (1), del regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 1997, per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi (2), o del regolamento (UE) n. 1176/2011 relative, tra l’altro, ai suoi programmi di riforma e piani di stabilità nazionali». Viene inoltre precisato dal comunicato stampa dell’Eurogruppo dell’8 maggio che «afterwards, euro area Member States would remain committed to strengthen economic and financial fundamentals».
[23] Icastiche le parole di B. Anderson, Imagined communities. Reflections on the origin and spread of nationalism, Londra, 1983, p. 53: «market-zones, ‘natural’-geographic or politico-administrative, do not create attachments. Who will willingly die for Comecon or the EEC?».
[24] Per ulteriori considerazioni, cfr. F. Farri, Tax Sovereignty and the Law in Digital and Global Economy, Oxford -New York -Torino, 2020, p. 96 ss.
[25] Si veda in tal senso già G. Tremonti, Rischi fatali, Milano, 2005; Id., La paura e la speranza, Milano, 2009.
[26] Sul punto cfr. già A. Contrino – Farri, Emergenza coronavirus e finanziamento della spesa pubblica: è possibile trarre indicazioni per la futura politica fiscale italiana?, cit.