Mauro Ronco

Professore Ordinario di Diritto penale nell’Università di Padova
Presidente del Centro Studi Rosario Livatino

Relazione conclusiva del convegno Coscienza senza diritti?, svoltosi il 21 ottobre 2017 nell’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati per iniziativa del Centro Studi Rosario Livatino

 

  1. Brevi cenni al quadro normativo

L’obiezione di coscienza ha trovato pieno riconoscimento nel quadro costituzionale del diritto italiano del dopoguerra.

Il processo è iniziato con riferimento al rifiuto dell’uso personale delle armi “per imprescindibili motivi di coscienza” (l. 15 dicembre 1972, n. 772), che pure si poneva in contrasto con l’art. 52, co. 1 della Costituzione, per il quale “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.

I momenti successivi più rimarchevoli sono costituiti dalla l. 22 maggio 1978, n. 194, il cui art. 9 prevede che il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non sia tenuto a prendere parte alle procedure abortive quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione, nonché dalla l. 19 febbraio 2004, n. 40, contenente “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”. L’art. 16 contempla il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie, che va esercitato con preventiva dichiarazione, precisando che il personale obiettore “non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’applicazione delle tecniche di fecondazione artificiale”, esonerandolo (con norma analoga a quella prevista dalla l. 194 sull’interruzione di gravidanza) dalle procedure e dalle attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’intervento; non, invece, dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento.

Accanto a queste tre fondamentali disposizioni va altresì ricordata la l. n. 113 del 1993, che detta “Norme sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale”. L’art. 1 proclama il diritto all’obiezione di coscienza per tutti i cittadini che, in obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalle altre Convenzioni internazionali, non intendono compiere un qualsiasi atto “connesso con la sperimentazione animale”. Con la semplice dichiarazione, i soggetti obiettori (medici, ricercatori e personale sanitario, nonché gli studenti universitari interessati) “non sono tenuti a prendere parte direttamente alle attività e agli interventi specificamente e necessariamente diretti alla sperimentazione animale”.

 

  1.  La natura dell’obiezione di coscienza

La natura dell’obiezione di coscienza è stata scolpita dalla sentenza n. 467 del 16 dicembre 1991 della Corte costituzionale, che ne ha precisato la portata in relazione al rifiuto di adempiere al servizio militare. La Consulta ha dichiarato che, a livello costituzionale, “la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 Cost.”.

Esposta questa premessa, di carattere strettamente normativo, da cui emerge con chiarezza che la protezione della coscienza si evince dal predetto art. 2, la Corte svolge alcuni pregnanti rilievi che danno pieno conto del fatto che l’ordine giuridico non è autoreferenziale, chiuso all’influsso dei primi princìpi morali, ma è incardinato nella legge universale impressa nella coscienza di ogni uomo come memoria indelebile della sua essenza spirituale.

Il primo livello ontologico della coscienza “consiste nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme[1].

La coscienza ha origine in una luce naturale e primitiva, presente in ogni uomo, la cui funzione è di distogliere dal male e di spingere al bene[2]. Questa luce che illumina tutti gli uomini è la «scintilla della coscienza», che San Tommaso chiama «sinderesi»: “Come la scintilla è la parte più pura del fuoco e vola al di sopra di tutto il fuoco così la sinderesi è la parte più elevata che si trova nel giudizio della coscienza; e secondo questa metafora la sinderesi è detta scintilla della coscienza[3]. Il fuoco della coscienza, illuminato dalla memoria primigenia del bene e del vero, esprime il dialogo intimo dell’uomo con se stesso, in qualunque momento della vita, quale siano la sua condizione particolare e lo stato della sua anima.

Questo fuoco originario ha rilievo costituzionale “quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione[4]. La protezione costituzionale della coscienza è condizione imprescindibile per la tutela di tutte le libertà e i diritti dell’uomo perché ne costituisce il fondamento. Infatti, sempre secondo la Corte costituzionale: “[…] la sfera intima della coscienza individuale deve essere considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana[5].

 

  1. L’obbligo costituzionale di riconoscere l’obiezione di coscienza

Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza è un obbligo di carattere costituzionale per il legislatore ordinario. La Corte costituzionale ha infatti chiarito che, pur quando spetti al legislatore “[…] bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale[6], tuttavia “la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)[7].

Il dettato della sentenza è assai pregnante nel punto in cui dichiara che il valore costituzionale della coscienza individuale va apprezzato in modo particolare in relazione a “precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale”. Il riferimento non può non riguardare quei contenuti espressivi della coscienza che riguardano gli obblighi di non compiere gli atti che si configurano come «non ordinabili» a Dio, “perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati «intrinsecamente cattivi» (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze[8].

L’aborto volontariamente compiuto è uno degli atti «intrinsecamente cattivi», semper et ad semper, perché il suo oggetto proprio consiste nell’uccisione di un essere umano innocente. L’obiezione della coscienza al compimento di un tale atto è, pertanto, obbligatoria per chi riconosca in questo atto la distruzione di una vita innocente. E, in effetti, in corrispondenza a questa consapevolezza, va constatata l’elevatissima percentuale di medici e di personale ausiliario che in Italia si è avvalsa della dichiarazione di obiezione prevista dalla legge.

Di ciò si sono lamentati non pochi parlamentari che, nel corso della corrente legislatura, hanno presentato alcune proposte di legge volte a limitare tale fondamentale diritto tramite una serie di discriminazioni in pregiudizio del personale obiettore[9].

La cosa stupisce. Questi esponenti politici, invero, invece di constatare che l’aborto viene sempre più considerato dai medici e dagli ausiliari sanitari un fatto contrario alla coscienza e di provvedere per via legislativa almeno alla riduzione delle fattispecie permissive, intendono ideologicamente comprimere la coscienza delle persone, limitando un diritto fondamentale, la cui previsione costituisce altresì un obbligo per il legislatore.

Va segnalata anche un’iniziativa di carattere giudiziario contro l’Italia avviata nel 2013 (Complaint no. 01/2013) dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) avanti al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa per la presunta violazione di una serie di articoli della Carta sociale europea concernenti i diritti delle donne lavoratrici e, in particolare, il diritto alla salute, il diritto al lavoro e a condizioni di lavoro salubri, nonché il diritto alla non discriminazione a cagione della ritenuta eccessiva difficoltà di accedere all’aborto per la presenza di un numero elevato di medici obiettori. La questione giudiziaria, che aveva dato luogo a una condanna dell’Italia da parte del Comitato dei diritti sociali, sul rilievo che non sarebbe stato garantito adeguatamente l’aborto a causa dell’alto numero di ginecologi obiettori, attestati intorno al 70% sul totale, è  stata conclusa da una risoluzione del Comitato dei ministri, il quale, a fronte delle  informazioni della delegazione italiana, ha preso atto che l’obiezione non provoca una disfunzione nell’applicazione della legge n. 194 e del 1978.

 

  1.  Lo stemperamento del diritto all’obiezione di coscienza

A favore del riconoscimento dell’obiezione di coscienza si è pronunciato qualche anno addietro il Comitato Nazionale per la Bioetica con un parere approvato in sede plenaria con un solo voto contrario[10].

Il parere si preoccupa in modo particolare di giustificare l’obiezione di coscienza, soprattutto in campo bioetico, ove sono in gioco i beni fondamentali della persona, a fronte dell’istanza di legalità, che postula la regolare conformità alla legge del comportamento dei cittadini.

Il Comitato Nazionale per la Bioetica assume una posizione critica verso un’interpretazione che definisce “semplicistica” e al contempo “deformante” dell’obiezione di coscienza, che si verificherebbe allorché la scelta obiettrice, “pur giustificata moralmente, non fosse per nessun motivo riconducibile alle statuizioni del diritto”. Così opinando, non si sarebbe più di fronte a un’obiezione di coscienza, bensì “a forme di disobbedienza civile o di resistenza al potere[11].

Su questa premessa, il Comitato conclude il suo ragionamento con due asserti, il primo, che l’obiezione di coscienza è “costituzionalmente fondata e va esercitata in modo sostenibile”. Ciò perché “essa costituisce un diritto della persona e un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili”. Il secondo asserto conclusivo suona nel senso che la tutela dell’obiezione di coscienza “non deve limitare né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti per legge né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza al corpo sociale”.

Il parere del Comitato, nello sforzo di giustificare concettualmente l’obiezione di coscienza, stempera in modo non convincente il profilo morale del rifiuto di compiere atti intrinsecamente cattivi e, conseguentemente, non tiene conto del fondamentale primato del diritto naturale sul diritto positivo. Invero, sostenere che si deformerebbe la natura dell’obiezione, come sostiene il Comitato, ove non la si riconducesse alle statuizioni del diritto positivo, significa implicitamente negare il primato della coscienza sul piano giuridico. La legge naturale, infatti, impressa nella coscienza, è vero diritto che prevale sulle norme positive dello Stato che obbligano a comportamenti intrinsecamente cattivi.

Il Comitato vorrebbe con ciò sottrarsi al tema della legge radicalmente ingiusta, collocando l’obiezione di coscienza al di fuori della “ottica dualistica di contrapposizione tra un diritto formale e un diritto giusto”. Intende, invece, inserirlo all’interno di un campo ove sia riconosciuta la legittimità di comportamenti alternativi rispetto a quelli comandati dalla legge, “secondo limiti e modalità adeguate affinché lo spazio di scelte individuali sia compatibile con l’ordinato svolgimento della vita sociale[12].

Senonché il tema della legge radicalmente ingiusta o, detto diversamente, il tema circa la natura di «diritto» o meno di determinati comportamenti che violano il bene della vita pertinente a un essere umano innocente, si ripresenta prepotentemente, come è logico che sia, perché è un tema ineludibile sul piano concettuale e giuridico.

Nel parere di minoranza, infatti, il prof. Carlo Flamigni ritorna sul tema dell’aborto, dichiarando perentoriamente che la legge 194 è una legge giusta, che non vìola affatto i diritti umani, ma, tutto all’opposto, tutela il diritto umano alla salute. Quindi “l’obiezione di coscienza all’aborto non è un diritto della persona[13]. Flamigni aggiunge a ciò che l’asserto secondo cui l’obiezione di coscienza non è un diritto è “decisivo”, sia perché la negazione del diritto all’obiezione “consente di guardare con favore alle nuove proposte della medicina della riproduzione…sia perché la consapevolezza che la 194 è in linea coi diritti umani è liberatoria per tutti”.

La vera questione, dunque, è accertare dove stia il diritto, se nell’aborto o nell’obiezione di coscienza all’aborto. Ciò è non solo fondamentale sul piano logico, ma anche sul piano pratico, allo scopo di scongiurare restringimenti o, addirittura, l’abolizione del diritto all’obiezione nei futuri sviluppi dei cosiddetti «diritti» riproduttivi. Il processo, infatti, verso l’introduzione nell’ordinamento di norme che obbligano a comportamenti intrinsecamente cattivi sembra oggi in via di estensione. Affermare, pertanto, che l’obiezione di coscienza è un diritto costituzionale fondamentale è cosa realmente decisiva per impedire la costrizione futura nei confronti di chiunque a compiere atti contrari alla verità del diritto.

Questi rilievi critici obbligano concettualmente a fondare l’obiezione di coscienza sul terreno solido del diritto della coscienza a non obbedire al comando della legge ingiusta. Le considerazioni su un diritto di tipo «creonteo» o di tipo non autoritario, contenute nel parere del Comitato, sono estrinseche al tema relativo alla natura dell’obiezione di coscienza. L’obiezione della coscienza è un diritto fondamentale, fondato costituzionalmente sull’art. 2 della Costituzione, da cui si evince con certezza la priorità dei diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica “riconosce e garantisce” come a essa preesistenti, e che essa non costituisce affatto. L’ordinamento, poi, a fronte di una legge che viene respinta come radicalmente ingiusta, in virtù di motivi religiosi, filosofici, morali e giuridici, da una parte largamente maggioritaria di coloro che hanno il compito professionale di applicarla, potrà riconoscere il diritto naturale e primario all’obiezione, ovvero negarlo o limitarlo arbitrariamente. Il primo sarà un ordinamento pluralista, che ammette la convivenza di due principi opposti. Il secondo sarà un ordinamento «creonteo», per attenerci alla metafora letteraria del Comitato. Questa convivenza terrà viva la problematicità a livello sociale delle facoltà e delle libertà delle persone; ma tale problematicità non vale come supporto giustificativo dell’obiezione, bensì è una conseguenza del riconoscimento giuridico della stessa.

È evidente, allora, come l’obiezione di coscienza, sia riconosciuta o non riconosciuta dalla legge, costituisce un segno di contraddizione in quanto è la testimonianza di un principio essenziale attinente al fondamento dell’ordinamento giuridico, se esso stia nella coscienza dell’uomo e, dunque, tragga linfa dal rapporto tra la coscienza e la verità, ovvero stia in una libertà, individuale o collettiva, che non riconosce a se stessa limiti nell’ordinare anche comportamenti non ordinabili alla legge naturale universale e, dunque, al bene comune.

Si comprende, perciò, per quali motivi un ordinamento che non voglia recidere completamente il suo legame con il bene, non possa non essere obbligato al riconoscimento e alla tutela del diritto all’obiezione di coscienza.

[1] Card. J. Ratzinger, Coscienza e verità, in La Coscienza. Conferenza internazionale patrocinata dalla «Wethierssfield Institute» di New York. Orvieto 27-28 maggio 1994, a cura di G. Borgonovo, Città del Vaticano, 1996, p. 33.

[2] Conc. Ecum Vat. II, Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 16: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato”.

[3] San Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 17, a. 2, ad. 3.

[4] Corte cost., sent. 16 dicembre 1991, n. 467, in Giur. Cost., 1991, p. 3813.

[5] Ibidem, p. 3814.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis Splendor, data a Roma il 6 agosto 1993, 80, in Id., Tutte le encicliche di S. Giovanni Paolo II, Milano, 2005, p. 1048.

[9] Vanno segnalate al riguardo le proposte di iniziativa parlamentare presentate in data 7 luglio 2016 (prima firmataria Roberta Agostini); 12 maggio 2014 (prima firmataria Vincenza Labriola); 18 luglio 2014 (prima firmataria Marisa Nicchi); 23 febbraio 2016 (prima firmataria Beatrice Brignone).

[10] Parere approvato il 12 luglio 2012 e pubblicato il 30 luglio 2012.

[11] Comitato Nazionale per la Bioetica, Obiezione di coscienza e bioetica, parere approvato il 12 luglio 2012.

[12] Ibidem.

[13] Postilla del prof. Carlo Flamigni al parere del Comitato Nazionale per la Bioetica.