Mauro Ronco
Professore Emerito di Diritto penale
Università di Padova

 

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il distacco del diritto dall’esperienza nell’ideologia del giusnaturalismo laico – 3. Scholion. La fine della nozione formale di validità del diritto non ha favorito il ritorno del diritto all’esperienza – 4. La concretizzazione del diritto naturale per via del riconoscimento e del pareggiamento delle utilità – 5. Il diritto naturale condizione di validità del diritto positivo ‒ 6. La relazione tra il vero e il certo corrisponde alla relazione tra il diritto naturale della ragione e il diritto positivo ‒ 7. La dialettica tra legge universale e legge particolare: non è vero che quest’ultima attinge sempre il concreto in modo migliore. Spesso il diritto è concretizzato più efficacemente dalla legge universale – 8. Aspetti peculiari del diritto penale: il legislatore deve tenersi il più stretto possibile al diritto naturale – 9. Il distacco del diritto penale della modernità dalla legge eterna dell’ordine – 10. La concretizzazione del diritto naturale nel diritto positivo avviene attraverso la prudenza del legislatore – 11. La particolarizzazione eccessiva non sempre si sposa con la concretezza, perché spesso fa perdere di vista la totalità del bene comune – 12. Il rapporto tra validità e vigenza della legge penale – 13. Stabilità e autorevolezza della legge penale: effetti sulla convinzione sociale circa la validità e la vigenza della legge.

 

Presentazione

Alcuni studiosi di Filosofia del Diritto e delle materie fondamentali del diritto positivo – Diritto costituzionale, Diritto civile, Diritto penale – partecipano da molto tempo, fin dai primi anni 2000, sotto la guida del prof. Mauro Ronco, Presidente del Centro Studi Rosario Livatino, ai Seminari di Filosofia del Diritto che si tengono annualmente nell’Università Cattolica Argentina (UCA), con particolare riferimento al Centro de Estudios Ítalo-Argentinos de Dialéctica, Metodología y Filosofía del Derecho, diretto dal cattedratico argentino dr. prof. Felix Adolfo Lamas, autore di testi fondamentali di filosofia del diritto, tra cui vanno menzionati La experiencia juridica e El Hombre y Su Conducta. Lo scopo dei Seminari è riproporre agli studiosi contemporanei la dottrina classica del diritto naturale secondo l’ispirazione filosofica platonico-aristotelico-tomista.

Nel novembre scorso si sono svolte le “XXIII Jornadas abiertas de profundización y discusión” sul tema La Encarnación del espíritu (la naturaleza humana y la unidad sustancial de cuerpo y alma), cui hanno partecipato numerosi giuristi italiani.

Il prof. Mauro Ronco ha partecipato al Convegno proponendo un intervento dal titolo “Il problema della concretizzazione del diritto, soprattutto in ambito penale” che si ritiene presenti motivi di interesse anche per lo studioso italiano.

 

  1. Introduzione

 

Nel capitolo VII della sua recente Opera Dialéctica y concreción del derecho Félix Adolfo Lamas osserva che il problema della concretizzazione del diritto si risolve nel duplice tema della determinazione del diritto naturale tramite il diritto positivo, nonché dell’effettività del diritto come punto terminale della catena causale giuridica; in definitiva, nella questione relativa alle fonti di vigenza del diritto[1].

Svolgerò in questa sede qualche considerazione su entrambi i temi, prendendo a termine di riferimento il diritto penale, che, come branca importante della sfera pubblica del diritto, presenta peculiarità che fanno risaltare la complessità del processo della sua concretizzazione.

 

  1. Il distacco del diritto dall’esperienza nell’ideologia del giusnaturalismo laico

 

A partire dall’imporsi del c.d. giusnaturalismo laico nei secoli XVII e XVIII è avvenuto un progressivo distacco del diritto dalla concreta esperienza giuridica, su cui Felix Lamas ha scritto un testo – La experiencia juridica – divenuto classico nello studio del pensiero giuridico[2].

Mettendo quasi completamente in disparte l’esperienza giuridica, intesa come contatto intenzionale diretto e immediato dell’uomo con la realtà viva delle innumerevoli relazioni giuridiche, si è trovato il fondamento della giuridicità nell’ipotesi dello stato di natura e nel corollario dell’assoluta libertà e uguaglianza di cui fruirebbero in tale stato tutti gli individui. Con riferimento al ramo penale tale ipotesi ha dato corpo alla tesi, completamente in conflitto con l’esperienza, di una umanità sciolta da ogni legame naturale, tenuta insieme soltanto dalla minaccia del potere sovrano di infliggere un male (cioè la pena) nel caso ciascun soggetto provochi danni agli altri o alla società nel suo insieme.

In tale irrealistico e ideologico stato di natura, cui si rinuncerebbe per dare origine allo stato civile, la libertà di arbitrio sarebbe un’apparenza e il bene e il male sarebbero mere qualificazioni convenzionalmente attribuite alle condotte umane dal sovrano per assicurare, tramite l’uso della coercizione, un certo ordine esterno della società. Si è verificata con ciò la radicale separazione della sfera del diritto dalla sfera della morale.

A cagione della divaricazione del diritto naturale dall’esperienza, nonché della separazione del diritto dalla morale, il diritto naturale è stato reso estraneo al diritto positivo, come se non vi fosse alcuna comunicazione tra l’uno e l’altro. Anzi, come inevitabile conseguenza dell’estraneità del diritto naturale all’esperienza, il diritto positivo, grazie soprattutto all’immensa opera di codificazione, tanto del diritto civile quanto di quello penale, compiuta fin dall’inizio dell’epoca liberale con i codici napoleonici, civile del 1804 e penale del 1810, ha teso a rappresentare l’unica voce del diritto, come se la legge si indentificasse con il diritto e lo esaurisse completamente.

La conseguenza di ciò è stata che, per circa due secoli, non si è fatto più riferimento, per la validità del diritto, al suo contenuto, bensì soltanto alla circostanza che la legge fosse conforme alla regola formale prevista per la sua formazione. Come noto, la riduzione della validità del diritto alla forma o alla maniera in cui è posta la norma giuridica, cioè al procedimento di posizione della norma conformemente al dettato di una norma fondamentale, che è tale perché obbedita di fatto, è la tesi centrale formulata da Kelsen nella Teoria pura del diritto, che ha fornito una giustificazione ideologica al positivismo giuridico liberale[3].

In questa prospettiva, una volta ridotto il tema della validità del diritto a forma, la questione della vigenza del diritto è stata ridotta a efficacia, cioè al livello di forza necessario per rendere la legge effettivamente capace di regolare le situazioni che ne costituiscono oggetto.

 

  1. Scholion. La fine della nozione formale di validità del diritto non ha favorito il ritorno del diritto all’esperienza

 

Come noto, l’epoca del kelsenismo è tramontata, insieme con lo Stato liberale, da almeno mezzo secolo. Non per questo, tuttavia, è avvenuto il ritorno del diritto all’esperienza. Tutt’altro: è sorto, ed è diventato sempre più invasivo, il diritto naturale dei cosiddetti diritti fondamentali, basato sulla medesima ipotesi astratta del giusnaturalismo laico, che ogni individuo è una monade indipendente che si scontra con gli altri individui nella più completa incomunicabilità. V’è però un’aggravante rispetto al vecchio giusnaturalismo: nel processo verso lo Stato liberale l’assoluta libertà e uguaglianza vennero contenute, per esigenze elementari di sopravvivenza, tramite l’espediente del patto sociale che conferiva fittiziamente il potere a un’entità superiore, il sovrano. Nel nuovo fallace giusnaturalismo post-positivista è venuto meno anche il sovrano, perché il soggetto che maggiormente gli assomiglia, che si identifica, sempre più frequentemente, con il giudice, viene ridotto in tesi a farsi semplice garante dell’attuazione della volontà anomica degli individui di essere legge esclusiva a se stessi e di attuare la perfetta intercambiabilità tra loro, senza alcuna distinzione di luogo, di tempo, di tradizioni, di storia, di sesso, e, addirittura, di identità personale.

Quindi, il diritto dei diritti dell’uomo ha aperto la strada alla fine del diritto. Il sovrano, infatti, non ha più il potere di fissare una norma di condotta diretta a tutti e che costituisca il titolo per essere valida erga omnes, giacché ciascuno, singolo o gruppo, pretende di farsi legge a se stesso. Avendo perso la nota della validità, il diritto sta progressivamente perdendo anche la nota della vigenza, perché il diritto smarrisce il suo carattere di generalità per rivivere frammentariamente nella pronuncia del giudice che risolve il caso singolo secondo l’utopia del diritto dei diritti dell’uomo.

 

  1. La concretizzazione del diritto naturale per via del riconoscimento e del pareggiamento delle utilità

 

Se torniamo all’esperienza, dobbiamo invece riconoscere, in senso contrario al processo compiuto dal giusnaturalismo laico, che il diritto positivo ha il compito di concretizzare il diritto naturale nella misura in cui la scienza legislativa – che dovrebbe essere patrimonio di ogni legislatore storico – riesce a coniugare le utilità – cioè i bisogni, le necessità, le esigenze di vita buona e di vita prospera – con l’onestà; ossia a riconciliare la materia della vita sociale con la forma del diritto, ove per materia e forma si intendono le due polarità che  costituiscono ogni esperienza giuridica.

Sul presupposto, in vero, che “l’uomo è naturalmente socievole”[4], Giambattista Vico ha insegnato, in un passo cruciale del De uno universi iuris principio et fine uno che: «L’utilità è l’occasione, l’onestà è la causa del diritto e dell’umana società»[5].  L’onestà – prosegue Vico – «[…] segue i passi della verità, siccome la volontà va seguitando le orme della mente; e come la mente giunge a possedere una qualsiasi eterna verità allorquando è la sua nozione conforme coll’ordine eterno delle cose, parimente la volontà giunge all’onestà naturale quando concorda coll’ordine eterno delle cose»[6].

L’onestà è, dunque, l’adeguamento della volontà alla verità eterna. Le utilità non sono, per se stesse, né oneste né disoneste. Disonesta è la loro disuguaglianza. L’utilità del corpo è cosa che svanisce e non dura, ma è eterna l’onestà, per essere sua essenza l’eterna verità. «Le cose caduche e sfuggevoli non possono generare cosa eterna, né possono produrre ciò che è ad esse superiore; perciò altra cosa è l’occasione, ed altra la cagione […] Dunque l’utilità non fu madre del diritto, e non lo furono nemmeno né la necessità, né il timore né il bisogno, come piacque di dirlo ad Epicuro, al Macchiavelli, all’Hobbes, allo Spinosa ed al Bayle;  l’utilità fu soltanto l’occasione per la quale gli uomini, sociali e compagnevoli per propria lor natura, ma pel peccato originale divisi, deboli e bisognosi, vennero a costituirsi in società ed a soddisfare ai lor compagnevoli e naturali impulsi»[7].

Le utilità sono la materia; l’onestà la forma. Agire secondo giustizia significa indirizzare e pareggiare le utilità secondo verità: «[…] in ciò consistendo l’unico principio e l’unico fine del diritto universale»[8]. Al sovrano spetta pareggiare le utilità riconducendole al vero dell’onestà.

 

  1. Il diritto naturale condizione di validità del diritto positivo

 

Il diritto naturale, dunque, non può stare fuori dal diritto positivo, è dentro il diritto positivo, è la condizione della sua validità. Forse che la norma penale che punisce l’omicidio volontario non appartiene al diritto naturale? Certamente che sì; ma le varie tipologie di fatti, che definiscono le diverse tipologie di condotte che arrecano ingiustamente ad altri la morte, nonché le cornici di pena, previste per ogni tipologia di condotta, determinano e concretizzano la legge universale del non uccidere. L’esempio mostra all’evidenza la necessità che ogni legislatore storico determini con leggi positive il precetto generale e assoluto che scaturisce dalla legge eterna di Dio, anche in relazione al tipo di cultura e al livello di civilizzazione del popolo. Il compito del legislatore storico, già difficile allorquando deve precisare positivamente il precetto universale del non uccidere, diventa ancor più complicato quando deve precisare in norme concrete l’eterno carattere del diritto naturale in relazione ai vari aspetti della vita sociale, laddove il bilanciamento delle utilità si fa più complesso.

Il diritto naturale si articola infatti in precetti di diritto naturale primario, che costituiscono i diritti primitivi di natura; e in diritti naturali posteriori, che sono l’applicazione storica dei primi. Per esempio, il diritto di proprietà privata è un diritto naturale secondario, che precisa come più conveniente, più conforme alla naturale laboriosità e industriosità dell’uomo e più atto ad assicurare il progresso sociale, in via normale e ordinaria, il diritto naturale primario consistente nel diritto di ciascuno alla soddisfazione delle esigenze essenziali della vita propria e della propria famiglia. Perciò spetta alla legislazione positiva stabilire quali siano le situazioni eccezionali in cui il diritto naturale secondario della proprietà privata debba farsi recessivo rispetto al diritto naturale primario della destinazione di tutti i beni materiali a favore dell’intera umanità.

 

  1. La relazione tra il vero e il certo corrisponde alla relazione tra il diritto naturale della ragione e il diritto positivo

 

Nel De uno universi iuris Vico imposta il tema del rapporto tra il diritto naturale e il diritto positivo come rapporto tra il vero e il certo. Il sommo giureconsulto napoletano distingue anzitutto tra la voluntas legis e la ratio legis: la prima corrisponde al volere del legislatore; la seconda corrisponde alla relazione della norma con il fatto oggetto di regolazione. La voluntas legis riguarda le utilità «[…] e ne asseconda le vicende»[9]; dunque, è soggetta al cambiamento; la ratio legis, come conformità della legge alla natura della cosa, riguarda l’onestà, «[…] ch’è cosa eterna»[10]; e non può cambiare.

Ciò perché «[…] la ragione della legge è quella che la fa essere vera. Il vero infatti è lo specifico e perpetuo carattere del diritto necessario»[11]. La legge positiva si impossessa di una parte della verità e la rende certa. I legislatori determinano il vero con il certo, obbligando gli uomini ad osservarla, allorché essi non vi consentano per assenso spontaneo derivante dalla naturale verecondia (il pudor della lingua latina) che è custode del diritto naturale[12].

Onde si comprende la definizione che Ulpiano fornisce del ius civile: «Ius civile est quod neque in totum a naturali vel gentium recedit nec per omnia ei servit: itaque cum aliquid addimus vel detrahimus iuri communi»[13].

Vico conclude con l’asserto che «[…] il certo proviene dall’autorità, come il vero dalla ragione, ma l’autorità non può del tutto alla ragione contrastare, perché le leggi che alla ragione si opponessero, non sarebbero più leggi, ma legali mostruosità»[14].

In ogni legge civile, dunque, dobbiamo ricercare il vero, cioè la sua conformità alla natura della cosa regolata: l’ipsa res iusta. Il legislatore storico vi aggiunge la ragione civile «[…] ossia la comune utilità, la quale è necessario e sostanziale elemento di ogni legge, ed anche di quelle ove i legislatori si sono maggiormente inspirati del diritto naturale»[15]. La ragione civile deve provvedere alla pubblica utilità, e per questo si fa partecipe della ragione naturale.

Anche Vico si dà carico dell’aporia individuata da Félix Lamas tra regola ed eccezione. La legge civile non può essere conforme in tutto alla ragione, poiché, per quanto il legislatore intenda con la legge estendere a tutti la naturale equità, «[…] non può impedire che occorrano talvolta dei casi pei quali vengano taluni ad essere esclusi dalla generale equità»[16]. Questi casi non corrispondono a lacune della legge, bensì all’emergenza di situazioni di novità cui la legge civile non era in grado di provvedere per cui il certo della legge deve, in questi casi, comunque cedere al vero della ragione.

 

  1. La dialettica tra legge universale e legge particolare: non è vero che quest’ultima attinge sempre il concreto in modo migliore. Spesso il diritto è concretizzato più efficacemente dalla legge universale

 

Nel diritto penale – più che nel diritto civile o nel diritto pubblico costituzionale e amministrativo, in cui la consuetudine o l’interpretazione diretta dei princìpi per opera del giudice consentono di attingere più direttamente al diritto naturale secondario, cioè alle conseguenze logiche dei diritti primitivi e inalienabili – è fondamentale che il certo posto nella legge dall’autorità determini l’ampiezza dei divieti e dei comandi, cioè degli obblighi di fare o di non fare che definiscono le condotte. Ciò per una serie di ragioni che si sono fatte via via più stringenti con il processo della modernità e più ancora nella vicenda contemporanea del diritto penale.

Un rilievo va speso anzitutto sul fondamento dell’interpretazione del diritto positivo secondo i princìpi dell’equità. L’interpretazione riduce la portata del diritto positivo in forza di una ragione universale cui deve subordinarsi la ragione del diritto civile. Accade lo stesso di quanto accade nel caso di una legge speciale che deroga alla legge generale.

Vico rileva che «[…] tutte le restrizioni che vengono introdotte a limitare gli effetti del diritto positivo sono produzioni della ragione naturale»[17], allo stesso modo in cui «[…] tutte le disposizioni che provengono unicamente dalla ragion positiva, […] sono altrettante strettezze che opprimono la ragion naturale, costituendo quel gius rigido che all’equità naturale si contrappone»[18], la qual cosa è evidente nel caso dei privilegi, che restringono il diritto civile, ma costituiscono sviluppi e conseguenze del diritto naturale, «[…] perché non senza un qualche merito viene statuito che debbasi escludere alcuno dalla generale uguaglianza giuridica, sciogliendolo dalle leggi che obbligano gli altri cittadini»[19].

Quindi, l’eccezione, che particolarizza il diritto positivo, è espressione di una ragione più universale; all’incontro, la legge del diritto positivo costituisce una limitazione del diritto universale.

 

  1. Aspetti peculiari del diritto penale: il legislatore deve tenersi il più stretto possibile al diritto naturale

 

Nel diritto penale il certo della legge positiva ha un rilievo più ampio rispetto a quello riconosciutogli negli altri rami del diritto. Ciò deriva dalla funzione correttiva del diritto penale, che si esprime tramite sanzioni che limitano in maniera incisiva i diritti della persona. In questo campo, pertanto, la legislazione positiva ha il dovere di non sbizzarrirsi troppo nella determinazione dei precetti universali del diritto naturale al fine di non correre il rischio di allontanarsi dai suoi princìpi. La giurisprudenza, peraltro, non ha ordinariamente titolo per far riemergere, tramite l’eccezione, il diritto naturale.

Nel diritto penale affiora, poi, in modo prepotente, il tema del rapporto tra validità e vigenza della norma, che evidenzia l’importanza della virtù della prudenza dell’autorità politica nel configurare l’insieme delle fattispecie punitive. Per molti versi, mentre nel diritto civile un ruolo cruciale ha la iuris-prudentia, cioè la prudenza del giudice nel focalizzare la res iusta attribuendo peso all’eccezione, che si riconduce al diritto naturale, rispetto alla regola dello ius civile, nel campo penale ha un rilievo molto maggiore la prudenza del legislatore, in quanto spetta a lui evitare di allontanarsi troppo dal diritto naturale, sia per non violare il giusto universale, sia per non gravare i cittadini con la pena tramite leggi che soltanto molto indirettamente e remotamente possono ricondursi al diritto naturale.

Ciò al fine di evitare l’effetto, in questo secondo caso, che la validità della norma non riesca a coniugarsi con la sua vigenza.

 

  1. Il distacco del diritto penale della modernità dalla legge eterna dell’ordine

 

La storia del diritto penale moderno, la cui origine viene normalmente fatta risalire al giusnaturalismo sensista e materialista, rivela il tentativo della cerchia illuminista riunita intorno al progetto dell’Encyclopédie di staccare il diritto penale dall’esperienza ricavata dalla sua storica concreta vigenza. Lo strumento usato a questo scopo fu il pamphlet di Cesare Beccaria Dei Delitti e delle Pene[20].

L’obiettivo fu di costruire una sorta di diritto penale utopico, basato sull’ipotesi controfattuale del contratto sociale, nel quale la distanza tra il bene e il male era cancellata, siccome bene e male sarebbero semplici nomina convenzionalmente adottati dal sovrano per tenere sotto controllo i cittadini.

La condotta umana criminale venne sradicata dal nucleo essenziale della libertà dell’arbitrio di ogni singola persona. Conseguentemente fu sottratto alla pena il suo intrinseco valore morale di strumento volto a garantire il bene comune della società.

Questa visione utopistica del diritto esercitò, per un verso, una funzione distruttrice dell’esistente, per certi aspetti utile (perché il diritto dell’Ancien Régime degli Stati assolutisti conteneva molte aberrazioni), in quanto contribuì al superamento di forme spietate e crudeli di esercizio della penalità; per un altro verso, tuttavia, aprì una crisi endemica del diritto penale, in quanto l’utopismo inerente intrinsecamente all’individualismo contrattualista ha allentato il rapporto tra il diritto naturale e il diritto penale, determinando l’effetto di piegare quest’ultimo a svolgere funzioni improprie di politica sociale, di servizio alla politica del governo e non alla legge eterna dell’ordine.

 

  1. La concretizzazione del diritto naturale nel diritto positivo avviene attraverso la prudenza del legislatore

 

Non mancarono all’origine del diritto penale moderno Autori, soprattutto in Italia, che colsero perfettamente il carattere essenziale che ha la dipendenza della legge positiva dalla legge eterna dell’ordine affinché la legge sia giusta e giusta sia la sentenza. Questi Autori compresero anche l’importanza del rapporto tra i tipi di fatto del diritto positivo e i fatti oggetto di giudizio; un rapporto virtuoso impone che i tipi di fatto siano costruiti con le note di ingiustizia ricavate dai fatti concreti percepiti dall’esperienza comune come intrisi di ostilità pervicace al bene comune.

La lezione di questi Autori, di grande valore scientifico, è stata quasi dimenticata. Togliendo dal piedistallo Beccaria, questi Autori dovrebbero essere posti, tanto in Italia quanto a livello internazionale, a fondamento di un ricominciamento del diritto penale contemporaneo. Mi riferisco a Giovanni Carmignani[21], a Francesco Carrara[22], che si formarono in area toscana, e a Niccola Nicolini[23], che si formò in area napoletana. Non posso soffermarmi su di loro in questa sede. Mi limito a osservare che essi colsero bene l’essenza della concretizzazione della legislazione penale nella forza di previsione propria dell’autorità politica, che deve dispiegarsi in modo tale che la giustizia, «[…] impotente a proteggersi, non sia sovvertita»[24].

Nelle parole di Carmignani il concetto è formulato in modo assai limpido: «La forza di previsione dell’autorità politica non può desumere la sua indole, e le proprie combinazioni dagli speculativi princìpi del gius di natura, i quali si contentano l’esser le basi della giustizia, ma deve desumere l’una, e le altre dalla prudenza, che la pratica indole delle umane passioni, e dei bisogni dell’ordine sociale consiglia»[25].

Più avanti nello stesso testo Carmignani, prendendo le difese di ciò che egli chiama il diritto politico – ovvero il diritto tramite il quale la prudenza dello statista intende procurare il bene comune della società – rileva che la scienza di un tale diritto è la teoria di una ragione pubblica «[…] esplicatrice, ed applicatrice delle regole della naturale giustizia ai bisogni sociali degli uomini»[26]. La prudenza politica della ragione pubblica si esprime tanto negli oggetti di sicurezza quanto negli oggetti di prosperità. Solo ai primi oggetti afferisce il diritto penale, il cui criterio di intervento «[…] è la necessità di difendere l’opera della natura nei diritti, che da lei sola derivano, e di difendere l’aggregazione sociale in quanto ella è pure un’opera della natura»[27].

Questo criterio contiene anche in se stesso il suo limite, costituito dalla necessità di difendere quei diritti di carattere essenziale, vuoi individuali vuoi sociali; necessità, pertanto, che «non può eccedere lo scopo, che il diritto stesso della natura le segna, vale a dire il bisogno di proteggere dalle invasioni illecite quel che esso nelle proprietà dell’uomo ha creato»[28].  In definitiva Carmignani si fa eco dell’assioma di Giambattista Vico: l’utilità è l’occasione; l’onestà è la causa del diritto penale.

 

  1. La particolarizzazione eccessiva non sempre si sposa con la concretezza, perché spesso fa perdere di vista la totalità del bene comune

 

Viene in considerazione a questo punto una aporia empirica del diritto, messa in luce da Félix Lamas[29], tra totalità e particolarità. Il diritto penale contemporaneo, che, per quanto disordinatamente, è erede del diritto penale liberale, ha intensificato in maniera quasi onnipervadente la tutela degli interessi particolari, prevedendo norme punitive intese ad apprestare tutela tramite la pena a una miriade di interessi, individuali e soprattutto diffusi, che affiorano nella società. Questa particolarizzazione della tutela, con la precisazione del quadro circostanziale che distingue il fatto ingiusto da quello giusto, sembra in apparenza seguire un itinerario di progressiva concretizzazione.

Senonché, questa particolarizzazione rischia di non tener conto del fatto che la parte va inserita nel tutto. Il tutto attiene al bene comune della società politica. E allora, la particolarizzazione concorre a un processo di derealizzazione, perché non considera che, per attingere una vera concretezza, il diritto – soprattutto quello penale – deve tener conto che il particolare va inserito nel tutto. La valutazione sub specie penale delle condotte deve tener conto, invero, degli antecedenti temporali di ogni tipo di condotta e prevedere le conseguenze sociali di una valutazione penale della medesima nel quadro del bene comune dell’intera società.

Faccio un esempio, che attiene alla penalizzazione, estremamente diffusa in Europa, delle condotte riconducibili lato sensu alla colpa medica. Non si nega evidentemente che gravi imprudenze o negligenze nell’esercizio della medicina o della chirurgia debbano essere ricondotte sotto l’impero della legge penale. Vero è, però, che la qualificazione come colpose di condotte cliniche compiute in condizioni prognostiche di estrema incertezza, ovvero di condotte chirurgiche spese nell’ambito di quadri patologici pressoché inarrestabili rischia di provocare – ed effettivamente provoca – conseguenze collaterali di grave pregiudizio per il bene comune, tanto in relazione alla creazione di un’attitudine incongruamente difensiva nei medici, quanto in relazione alla produzione nella collettività di una sorta di rivendicazionismo a un preteso diritto alla guarigione. I due effetti negativi sono la conseguenza di una particolarizzazione esagerata della tutela penale del paziente in ambito medico. Il legislatore, propendendo per una nozione minuziosa e specifica della colpa, inseguendola in condotte estremamente complesse, sempre ai confini tra la perfezione e l’imperfezione, finisce per trascurare l’interesse del tutto, che vuole il medico salvo dalla colpevolizzazione per la semplice imperfezione del suo operato. Né il rivendicazionismo esasperato di un diritto alla cura perfetta si sposa con il bene comune, che postula che ciascuno riconosca la propria finitudine e la limitatezza delle forze umane rispetto alla cura della malattia.

 

  1. Il rapporto tra validità e vigenza della legge penale

 

Un tema ulteriore riguarda, come già si è accennato, il rapporto tra validità e vigenza della legge penale. Quanto più la legge penale si particolarizza – intendendo con ciò acquistare una maggiore concretezza – tanto più perde il contatto con la giustizia del diritto naturale. Questa perdita di contatto ‒ anche se non fa divenire di per sé ingiusta la legge – ingenera due fenomeni correlativi, entrambi tendenti a un medesimo effetto, consistente nella perdita di vigenza della legge. Per un verso, infatti, il cittadino, non intravvedendo in modo palese la ratio di giustizia della legge, non si fa scrupolo di disattenderla. Per altro verso, il giudice, di fronte alla quantità massiccia di violazioni, non si fa scrupolo di disapplicare la legge.

Può al riguardo formularsi una correlazione tratta dall’esperienza: quanto più si moltiplicano le leggi punitive tanto più aumentano la loro violazione e la loro disapplicazione. La spiegazione di ciò non è soltanto di ordine quantitativo, del tipo: il giudice non riesce a reggere con il suo lavoro il ritmo sempre crescente degli accadimenti devianti dalla norma. La spiegazione è di ordine qualitativo: la pena è un costo enorme tanto per il singolo quanto per la collettività. E la società è disposta a pagare questo costo soltanto quando la condotta illecita abbia una carica eversiva del bene comune, ponendo in pericolo la pace nella vita associata, ossia, allorquando la norma punitiva sia prossima ai princìpi essenziali della giustizia.

 

  1. Stabilità e autorevolezza della legge penale: effetti sulla convinzione sociale circa la validità e la vigenza della legge

 

Un tema ulteriore riguarda il rapporto tra la stabilità e la mutazione della legge penale[30].

Il diritto penale contemporaneo è caratterizzato da un forte indice di cambiamento. Non soltanto si assiste all’introduzione di sempre nuove tipologie di reato – si dice: per adeguare il diritto al mutamento della realtà ‒ ma anche al continuo cambiamento degli elementi costitutivi di numerosi reati o alla variazione delle cornici di pena. Un esempio italiano recente relativo alla modifica delle cornici di pena: la corruzione è stata punita per molto tempo con la pena della reclusione da due a cinque anni. Nel 2012 la cornice sanzionatoria è stata innalzata da quattro a otto anni. Nel 2015 la cornice è stata portata da sei a dieci anni[31]. È possibile che la pena originaria fosse troppo tenue. Certo la triplicazione nel minimo e il raddoppio nel massimo in pochi anni costituisce il segno di uno squilibrio del legislatore che non depone nel senso di un adeguato bilanciamento tra gli interessi oggetto di tutela e le ragioni di giustizia che stanno a fondamento della penalità. Mutazioni delle cornici di pena sono intervenute, peraltro, con riferimento a una serie numerosa di reati; segno evidente di una tendenza smodata e arbitraria al cambiamento da parte del legislatore.

Il mutamento della legge penale dovrebbe corrispondere a un mutamento significativo delle contingenze della vita sociale. Se questa corrispondenza non esiste o, almeno, non è percepibile, il cittadino non può non mettere in dubbio la ragione di giustizia che sta alla base della norma penale. Il dubbio su questo aspetto distacca la norma dal suo fondamento e inficia la vigenza del precetto. La norma giuridica e ‒ in specie ‒ la norma penale deve caratterizzarsi per la sua stabilità – segno evidente della permanenza nel tempo del valore dei beni tutelati e, soprattutto, del primato del bene comune cui deve ispirarsi l’intero ordinamento penale. La mutazione frequente, non in relazione al cambiamento significativo delle condizioni sociali, ma per semplice decisione del legislatore, inficia la convinzione nei cittadini della validità della legge e indebolisce il suo vigore nel contenimento della devianza penale. Ha, pertanto, conseguenze pregiudizievoli per la stessa vigenza della legge.

L’affievolita vigenza delle leggi penali, peraltro, trova la sua causa principale nel pervertimento dei costumi. Una fonte importante della vigenza del diritto penale è la stabilità dei costumi, ispirati alla pietas, alla religione, all’onore, alla fedeltà, alla laboriosità, alla solidarietà – costumi tutti che rinviano a una certa serietà e austerità di vita. Tali costumi sono la fonte indispensabile della vigenza della legge penale. Quando ai costumi ispirati alla pietà e alla religione si sostituiscono abitudini che estenuano la società, anche il diritto penale smarrisce la sua vigenza, nonostante che i legislatori si sforzino di approvare leggi punitive e le giurisdizioni infliggano condanne severe.

In verità, a due secoli e mezzo di distanza, si può constatare la fallacia del dictum di Beccaria nel noto pamphlet. Secondo il milanese: «Chi conosce la storia di due o tre secoli fa e la nostra, potrà vedere come dal seno del lusso e della mollezza nacquero le più dolci virtù, l’umanità, la beneficienza, la tolleranza degli errori umani»[32]: dal lusso e dalla mollezza sono nati invero vizi gravissimi e delitti innumerevoli, che stanno annichilendo la vigenza del diritto penale, che mai come nella contemporaneità subisce violazioni così tanto numerose che le carceri dei paesi occidentali non sono più in grado di contenere i condannati per quella parte minima di delitti che vengono giudicati. Venuta meno la fonte del costume tradizionale, vilipeso dal processo di empietà, la legge penale sta perdendo via via la sua vigenza sociale.

Nella terza edizione della Scienza Nuova, pubblicata postuma nel 1744, Vico osserva che: «[…] tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, [custodiscono] questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture»[33].

Tutte le nazioni hanno una qualche religione. Vico proclama con forza l’assoluta incompatibilità tra l’ateismo e il diritto, ricordando che Cicerone dichiara impossibile ragionare di leggi con chi non conceda almeno vi sia provvidenza divina[34]. Nei popoli che furono cristiani il laicismo ha vinto la sua battaglia multisecolare, realizzando con l’Unione Europea la società ideale dei mercanti descritta da Benedetto Spinoza nel Tractatus theologico-politicus del 1670, tutta mirante al profitto e all’interesse, in cui dio è mammona. Le nozze più non sono sante e solenni. Le convivenze, anche di persone dello stesso sesso, erodono il matrimonio, istituto basilare del diritto naturale delle genti. Le sepolture più non sono solenni. Nell’onnipervadente vilipendio dell’onore, neanche al defunto più dovrebbero essere prestate le onoranze. La mentalità laicista, inoltre, si dà cura affinché dalla cerimonia della sepoltura non traspaia la realtà invisibile del passaggio dell’anima alla dimensione sopra terrena, nella speranza della resurrezione del corpo.

Per ripristinare la vigenza del diritto penale occorre anzitutto ridare vigore a costumi austeri di vita, che ne sono fonte indispensabile.

[1] F.A. Lamas, Dialéctica y concreción del derecho, Colección Circa Humana Philosophia, Instituto de Estudios Filosóficos “Santo Tomás de Aquino”, Buenos Aires, 2020; in particolare, capìtulo VII El problema del la concreción del derecho, pp. 105-121.

[2] F.A. Lamas, La experiencia juridica, Instituto de Estudios Filosóficos “Santo Tomás de Aquino”, Buenos Aires, 1991.

[3] H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien, 1960; tr. it. La dottrina pura del diritto, Torino, 1966, sulla prima edizione, uscita a Vienna nel 1934 (Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik).

[4] G.B. Vico, De Uno Universi Iuris Principio et fine Uno, in Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, 1974, cap. XLV, p. 58.

[5] Ibidem, Cap. XLVI, p. 61.

[6] Ibidem, Cap. XVIII, p. 48.

[7] Ibidem, Cap. XLVI, p. 61.

[8] Ibidem, Cap. XLIII, p. 56.

[9] Ibidem, Cap. LXXXI, p. 98.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem, Cap. LXXXII, p. 100.

[12] Ibidem, Cap. LI, p. 66.

[13] Ulpiano, Dig. I, 1, 6 De iustitia et iure: Il diritto civile non si ritrova tutto nel diritto naturale o nel diritto delle genti, né è in tutto al loro servizio; ma talora vi aggiunge qualcosa, tal’altra gli toglie qualcosa.

[14] Vico, op. cit., Cap. LXXXIII, p. 100.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem, Cap. LXXXV, p. 102.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, testo italiano stabilito da Gianni Francioni e pubblicato in Des délits et des peines – Dei delitti e delle pene, introduction, traduction et notes de Philippe Audegean, texte italien établi par Gianni Francioni, Lyon, 2009, pp. 136-296. Il nuovo testo si discosta in parte da quello pubblicato sempre da Francioni nel volume I dell’Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, a cura di L. Firpo, G. Francioni [C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di G. Francioni, Milano, 1984, 13-214], che era basato sulla quinta edizione del 1766 dell’opera (per le differenze tra i due testi v. G. Francioni, Note sur l’établissement du texte italien, in Des délits et des peines, cit., pp. 125-133). Il testo da ultimo stabilito è il risultato degli studi critici e filologici di Gianni Francioni sul processo di trasformazione dell’opera di Beccaria: il primo manoscritto, redatto tra il marzo 1763 e il gennaio 1764, subì una prima profonda revisione, nella struttura e nel contenuto, ad opera di Pietro Verri nello stesso 1764 e fu pubblicato anonimo, senza indicazione di luogo e di editore, nel luglio 1764; a fine novembre 1764 fu pubblicata una edizione pirata con la falsa indicazione di Monaco come luogo di edizione, ma stampata a Firenze e presentata come la seconda edizione riveduta e corretta; la terza edizione, rivista, corretta e implementata, approvata da Beccaria, fu quindi pubblicata con la falsa indicazione di Losanna nel marzo 1765; la quarta edizione, pirata e stampata nel 1765, che riprendeva il contenuto della seconda edizione, fu pubblicata con la falsa indicazione di Monaco 1764; infine, la quinta e ultima edizione italiana dell’opera fu pubblicata nel marzo 1766.

[21] Per l’approfondimento delle opere e del pensiero di Giovanni Carmignani si rinvia agli scritti pubblicati in Giovanni Carmignani (1768-1847). Maestro di scienze criminali e pratico del foro, sulle soglie del Diritto Penale Contemporaneo, a cura di Mario Montorzi, Pisa, 2003. Per la biografia v. A. Mazzacane, Giovanni Carmignani: un profilo intellettuale, in Giovanni Carmignani (1768-1847), cit., pp. 1-10, che riprende, salvo brevi ritocchi, la voce Carmignani redatta per il Dizionario biografico degli Italiani (vol. 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977).

[22] Sulle opere e il pensiero di Francesco Carrara si rinvia agli scritti contenuti in Francesco Carrara nel primo centenario della morte. Atti del Convegno internazionale, Lucca-Pisa 2/5 giugno 1988, Milano, 1991. Per le notizie biografiche v. A. Mazzacane, Dizionario Biografico degli italiani, Volume 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977.

[23] Niccola Nicolini (1772-1857), fu primo presidente della Corte di cassazione del Regno di Napoli, professore di diritto e procedura penale nell’Università di Napoli e ministro senza portafogli da 1841 al 1848. Della sua grandezza scientifica riferì Enrico Pessina (E. Pessina, Enciclopedia del diritto penale italiano, vol. II, Milano, 1902, p. 597), nonché M. Ortolan (M. Ortolan, Criminalistes italiens: Niccola Nicolini, in Revue de législation et jurisprudence, 1845, p. 322). Eugène Flotard espresse la sua ammirazione per Nicolini in E. Flotard, Principes philosophiques et pratiques de droit pénal. Extraits et traduits des oeuvres de Niccola Nicolini, Paris, 1851. Tra le opere principali si ricorda N. Nicolini, Della procedura penale del Regno delle Due Sicilie, voll. 1-3, Napoli, 1828-1832; Id., Le questioni di diritto, vol. I-II, Napoli, 1870.

[24] G. Carmignani, Teoria delle leggi della sicurezza sociale, I, Pisa, 1831, p. 66.

[25] Ibidem.

[26]Ibidem, p. 82.

[27] Ibidem, p. 83.

[28] Ibidem, p. 84.

[29] F. Lamas, La experiencia juridica, cit., pp. 398-415.

[30] F. Lamas, La experiencia juridica, cit., pp. 415-422.

[31] La pena prevista per il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), fissata dalla L. 26.4.1990, n. 86 nella misura compresa «da due a cinque anni» di reclusione, è stata aumentata dapprima dall’art. 1, co. 75, lett. g) L. 6.11.2012, n. 190 «da quattro a otto anni» e, successivamente, dall’art. 1, co. 1, lett. f) L. 27.5.2015, n. 69 nella misura compresa «da sei a dieci anni» di reclusione.

[32] C. Beccaria, Dei Delitti, cit., § V, p. 158.

[33] G. Vico, Principi di scienza nuova d’intorno la natura delle nazioni, Napoli, 1744, ora in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Milano, 2005, Degli elementi, VII, p. 542.

[34] Id., Principi di scienza nuova, cit., 544. Il rinvio è a M.T. Cicerone, De Leg. I, 7, p. 21.