Si riporta il testo della relazione di Francesco Farri*, depositata in seguito all’audizione informale in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati del 16 giugno 2020.

 

  1. Lo schema di decreto delegato in esame deve la sua corposità più alla tecnica di redazione utilizzata dal Governo che non agli effettivi contenuti innovativi e correttivi dell’impianto originario del codice.

Come evidenziato dal Consiglio di Stato in sede consultiva, infatti, «le modifiche apportate non rispondono a un disegno nuovo o diverso rispetto alla disciplina posta dal codice del 2019 e si limitano, a seconda dei casi, a rimuovere meri refusi, ad apportare riformulazioni puramente lessicali o formali e, in taluni casi, a cercare di risolvere dubbi interpretativi … L’amministrazione ha preferito ricorrere frequentemente alla soluzione dell’integrale sostituzione di interi articoli o commi anche per aggiunte e inserimenti minimi, con conferma integrale (per il resto) del testo vigente. La rinnovazione integrale della fonte normativa non è, invece, necessaria né corrispondente al carattere meramente integrativo e correttivo del decreto legislativo».

Si pensi, ad esempio alle modifiche apportate dall’articolo 7 dello schema di decreto agli articoli 38, 39, 44 e 54 del codice, che vengono presentati come integralmente sostituiti nonostante che in essi si siano modificate poche parole. Lo stesso dicasi per le modifiche apportate dall’articolo 8 dello schema all’art. 56 del codice e gli esempi potrebbero continuare.

 

  1. Per quanto attiene ai contenuti, sebbene la relazione illustrativa ponga come ultimo punto della finalità del decreto delegato quella di «integrare la disciplina del codice … anche al fine di consentire una migliore funzionalità degli istituti», l’intervento disegnato dal decreto appare rinunciatario. Lo schema di questo decreto appare quindi come un’occasione persa per migliorare un codice, quello della crisi d’impresa, di per sé altamente problematico.

Per quanto attiene al commento dei dettagli dell’articolato, il parere rilasciato dal Consiglio di Stato in sede consultiva, n. 811/2020 è ricco di considerazioni e suggerimenti che meritano senz’altro di essere accolti. Ad esso risulta, quindi, possibile rinviare integralmente per tali dettagli.

In questa sede, invece, appare più opportuno concentrare l’attenzione su alcune considerazioni di metodo e di principio, nell’auspicio di offrire indicazioni utili per una più ampia revisione del testo.

 

  1. Per quanto attiene al metodo, il parere del Consiglio di Stato è davvero impietoso nell’evidenziare criticità linguistiche ed espressive di ogni sorta. Non soltanto la tecnica redazionale per sostituzione anziché per interpolazione, ma anche la punteggiatura e più in generale la forma espressiva vengono segnalati come meritevoli di riformulazione da parte del Consiglio di Stato.

Non si tratta di formalismi inutili o di mero amore per il purismo della lingua italiana. Si tratta di aspetti rilevanti per un aspetto fondamentale cui la legislazione deve rispondere, ossia la certezza del diritto. Tale valore, centrale in ogni branca del diritto, lo è specialmente in ambiti così delicati come quelli legati alla soluzione della crisi dell’impresa; e lo è a maggior ragione nel caso in cui il fine della legislazione stessa sia la codificazione, ossia un’opera di razionalizzazione della normativa preesistente.

Le modalità di soluzione della crisi d’impresa sono uno dei punti nevralgici dell’ordinamento, uno di quegli aspetti che i potenziali interessati a investire nel Paese valutano in via preliminare prima di decidere se investire o meno. Al pari di quanto vale per il sistema tributario, il potenziale investitore ha bisogno di aver chiaro già prima dipartire un quadro semplice e univoco delle conseguenze che si verificano nel caso in cui si trovasse ad avere a che fare con un operatore in crisi d’impresa, o nel caso di esito infelice dell’attività intrapresa.

La modifica del codice doveva essere, quindi, l’occasione per intervenire su articoli poco chiari e mal formulati, anche dal punto di visto espositivo, ma così non è stato. Si pensi, ad esempio, all’articolo 54 del codice, il quale prevede che, «nel corso del procedimento per l’apertura … della procedura di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione», il giudice possa emettere misure cautelari (inclusa una forma di sequestro dell’azienda o del patrimonio del debitore) «su istanza di parte». Cosa si intende per “procedimento per l’apertura della procedura”? Chi sono le parti legittimate a chiedere la misura cautelare? Se per parti si intende il debitore stesso, la misura prevista non è cautelare, ma protettiva. Se, invece, per parti devono intendersi (anche o soltanto) i creditori o il p.m., le conseguenze in termini di deterrenza per il debitore che intenda proseguire l’attività di avviare la procedura indicata sarebbero evidenti. Nonostante le sollecitazioni della dottrina (cfr., ad es., Ambrosini), nulla dice sul punto lo schema di decreto correttivo.

Anzi, il decreto correttivo ha dato corso anche a interventi che hanno peggiorato il livello di comprensibilità della disciplina. Si consideri l’esempio dell’articolo 39 dello schema di decreto correttivo. Esso dispone l’abrogazione dell’originario comma 3 dell’articolo 382 del codice, il quale a sua volta interveniva sull’ultimo comma dell’articolo 2497 del codice civile nel senso di modificare il riferimento al fallimento in riferimento alla “liquidazione giudiziale”, secondo il termine edulcorato e molto (troppo) politically correct voluto dalla legge delega. È  vero che può valere, sul punto, la clausola generale dell’art. 349 del codice, ma come esattamente notato dal Consiglio di Stato un intervento abrogativo specifico ed espresso di questo genere si presta all’interpretazione per cui, in verità, la peculiare fattispecie contemplata dall’articolo (legittimazione alla proposizione dell’azione di responsabilità in caso di crisi di società soggetta a direzione e coordinamento da parte di altra società) troverebbe applicazione soltanto fino al momento dell’operatività della vecchia legge fallimentare, ma verrebbe meno sotto l’egida applicativa del nuovo codice.

 

  1. Nel merito, l’intervento correttivo è ‒ come si diceva ‒ un’occasione persa per correggere gli aspetti più critici dell’originario codice e, soprattutto, per correggere quegli aspetti che si traducevano e si traducono in uno scostamento dalla legge di delega n. 155/2017.

Si consideri, in particolare, quel punto nevralgico delle innovazioni apportate dal codice che è rappresentato dal sistema della procedura di allerta e composizione assistita della crisi. In proposito, la delega risulta tutt’ora inattuata per molti aspetti cruciali.

 

4.1. L’art. 4, lett. c) della legge delega n. 155/2017 richiedeva di porre a carico degli organi di controllo societari un obbligo di segnalazione e di avvio della procedura d’allerta e la lett. f) richiedeva di “determinare i criteri di responsabilità” in caso di mancata segnalazione.

Invece di concretizzare e modulare tali criteri, l’articolo 14 del codice ha semplicemente escluso la responsabilità degli organi di controllo in caso di segnalazione, con ciò affermando che, al contrario, in caso di mancata segnalazione essi sono responsabili per tutte le «conseguenze pregiudizievoli delle omissioni o azioni poste in essere» dagli amministratori.

Si tratta, all’evidenza, di una forma di responsabilità troppo vasta e indeterminata e il correttivo al codice avrebbe dovuto essere l’occasione per intervenire sul punto. L’attuale formulazione, infatti, si presta a dar vita a una sorta di “medicina difensiva” da parte dell’organo di controllo societario, che al fine di evitare responsabilità personali sarà incentivato a effettuare segnalazioni “precauzionali” e non filtrate dal necessario vaglio di ragionevolezza che invece dovrebbe caratterizzare la materia. Non solo si va ben oltre il criterio della culpa in vigilando dell’organo di controllo ordinariamente prevista dall’art. 2407 c.c. (in base al quale, come noto, la responsabilità sussiste soltanto per il caso in cui la violazione non rilevata fosse “macroscopica” o inerente a un comportamento degli amministratori qualificabile come “di dubbia legittimità e regolarità: cfr., ex multis, Cass., n. 21566/2017), ma si istituisce per legge una forma di solidarietà potenzialmente priva del richiesto sostrato sostanziale e, come tale, al limite di una responsabilità per fatto altrui irrazionale e sproporzionata.

 

4.2. Ancora, sempre con riferimento alle procedure d’allerta, la disciplina dell’obbligo di segnalazione da parte dei creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS e ADER), pur essendo stata oggetto di intervento da parte del decreto correttivo, contiene tuttora delle aporie che non possono non essere corrette se davvero si vuole rendere lo strumento dell’allerta un mezzo efficiente per far ripartire le imprese, piuttosto che una tagliola per selezionare le più efficienti e far chiudere le altre.

Se i debiti tributari o previdenziali superano una certa soglia, la disciplina prevede che l’obbligo di segnalazione all’Organismo di composizione della crisi d’impresa sia scongiurato soltanto con il pagamento integrale del debito e non con l’inizio del pagamento rateale dello stesso (salvo il caso specifico del pagamento spontaneo in forma rateale dell’avviso bonario ex art. 3-bis del d.lgs. n. 462/1997). Ciò dà vita per le imprese italiane a un sistema estremamente penalizzante e pericoloso, oltre che incoerente con l’impostazione generale dell’ordinamento tributario che ritiene l’esistenza di una rateizzazione strumento idoneo, ad esempio, a sterilizzare le azioni esecutive e cautelari da parte dell’agente per la riscossione.

Tale pericolosità per le imprese aumenta considerando che la soglia di segnalazione riformulata dal correttivo è particolarmente bassa (in media, intorno al 10% del volume d’affari), in violazione dell’art. 4, c. 1, lett. b) nella parte in cui subordina la segnalazione all’esistenza di un inadempimento “di importo rilevante”. Inoltre, nel meccanismo configurato dal correttivo, la struttura della soglia di segnalazione assume caratteri persino regressivi (in base a essa, infatti, se un contribuente ha volume d’affari di 999.999 euro la segnalazione scatta già se il debito IVA è pari al 10,01% del volume d’affari, mentre se ha volume d’affari di 1.000.001 la segnalazione non scatta finché il debito IVA non raggiunge la soglia del 49,99% del volume d’affari, così svantaggiando irrazionalmente le imprese più piccole).

Il tessuto imprenditoriale italiano è fatto di piccole e medie imprese che vivono al limite della sopravvivenza e che utilizzano ampiamente lo strumento della dilazione per pagare in forma rateizzata i debiti fiscali che non riescono a fronteggiare nell’immediato. Penalizzare questo meccanismo di sopravvivenza, del tutto legittimo e specificamente previsto dall’ordinamento (a cominciare dall’art. 19 del d.P.R. n. 602/1973), equivale, non già a rafforzare il sistema produttivo italiano, ma a spopolarlo. In un momento come il presente, poi, in cui la liquidità per le imprese è un miraggio e lo sarà ancora per lungo tempo, ben oltre i termini previsti per l’entrata in vigore del codice, la logica di austerità cui si impronta il meccanismo della segnalazione da parte dei creditori pubblici qualificati e, in particolare, la modalità con cui essa è stata attuata dal codice e confermata dal correttivo, rischia davvero di ottenere effetti del tutto controproducenti.

 

4.3. Oltre che irrazionale e controproducente per gli aspetti segnalati, il meccanismo delle procedure d’allerta così come attualmente configurato rischia di essere totalmente inefficace dal punto di vista pratico. Infatti, esso si impronta alla logica per cui l’imprenditore in situazione di squilibrio economico avrebbe disponibilità “nascoste” che solo a fronte di incentivi sarebbe pronto a mettere a disposizione dei creditori per saldare i propri debiti. Ma nella stragrande maggioranza dei casi non è così: l’imprenditore in crisi è in crisi perché manca liquidità. Allora, più che prevedere meccanismi “premiali” per l’imprenditore che accetti di sottoporsi alla procedura di composizione della crisi secondo il meccanismo dell’allerta, servono meccanismo “premiali” per i creditori che, in tale sede, sono disponibili a rinunciare parzialmente ai propri crediti. Senza l’assenso dei creditori, nessun accordo si trova e il meccanismo della composizione assistita è destinato strutturalmente all’insuccesso. Si pensi che, allo stato attuale, alla falcidia dei crediti consentita in sede di composizione assistita della crisi non si associa neppure la possibilità di emettere una nota di variazione ai fini IVA. Se, per effetto dell’accordo con i creditori raggiunto nell’ambito della composizione della crisi (art. 19 del codice), un creditore che ha emesso fattura si accorda con il debitore per un corrispettivo inferiore rispetto a quello inizialmente pattuito e fatturato, per effetto della tassatività della formulazione dell’art. 26 del d.P.R. n. 633/1972 egli rischia di non poter neppure recuperare l’IVA sulla differenza. Va quindi aggiornato il predetto art. 26 per coordinarlo alle novità del codice della crisi d’impresa e rendere la composizione assistita della crisi appetibile anche e anzitutto per i creditori. Analogo discorso vale per la deducibilità delle perdite su crediti in base all’art. 101, comma 5 del TUIR. Coordinamenti e aggiornamenti del genere sono indispensabili per il funzionamento di un istituto e colpisce che il Governo non vi abbia pensato in sede di rifinitura del codice.

In questa prospettiva, il codice è del tutto manchevole e il correttivo ha perso l’occasione per renderlo efficiente, nonostante il proposito formulato nella relazione illustrativa.

Un sistema di allerta configurato in questo modo rischia di essere più uno spauracchio per le imprese, che non un efficace strumento per dar vita a un fresh start.

 

  1. Non solo per quanto attiene alle procedure d’allerta, ma anche per altri aspetti fondamentali il codice della crisi d’impresa risulta insufficiente nell’attuazione della delega e lo schema di correttivo oggi in discussione non ha colto l’occasione per intervenire.

Uno dei profili di differenza fondamentali del nuovo codice rispetto alla legge fallimentare del 1942 è rappresentato dall’ampliamento del sindacato del giudice sul merito economico e industriale dei piani di riorganizzazione dell’attività necessari per le procedure alternative alla liquidazione giudiziale. Mentre in precedenza vi era un professionista abilitato che era chiamato ad attestare la fattibilità del piano di recupero industriale dell’impresa e al giudice spettava essenzialmente una valutazione formale sul punto, adesso è formalizzato che accanto alla valutazione del professionista abilitato deve esserci anche un sindacato di merito del giudice.

Si considerino, ad esempio, gli articoli 47, 48 e 80 del nuovo codice, con riferimento al concordato preventivo. Sebbene l’articolo 87, comma 2 del codice stabilisca che, con la domanda di concordato preventivo, il debitore debba depositare la relazione di un professionista indipendente, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, ivi inclusa un’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività laddove prevista, gli articoli prima indicati stabiliscono che, ricevuta la domanda, il giudice non valuti soltanto l’ammissibilità giuridica della proposta, ma anche e specificamente “la fattibilità economica del piano” (art. 47 e, per il concordato minore, art. 80). Ciò vale anche nel caso di concordato approvato dai creditori, sebbene in tale ipotesi il giudice stesso sia chiamato a tener “conto dei rilievi del commissario giudiziale” (art. 48, comma 3). Vale quanto dire che, pur a fronte di attestazioni di professionisti specializzati circa il fatto che il debitore sarà in grado di risolvere la propria situazione debitoria mediante lo strumento del concordato preventivo, il giudice deve compiere autonome valutazioni economico-industriali sul punto e ha il potere di impedire l’attuazione del concordato, lasciando come unica alternativa il fallimento (liquidazione giudiziale).

Sebbene la legislazione precedente fosse ben lungi dall’introdurre interferenze del giudice in valutazioni di questo genere (cfr. i corrispondenti articoli 61, 179 e 180 l.fall.), si era già affermato prima del codice un orientamento giurisprudenziale nel senso di spingere il sindacato del giudice nel merito della proposta e, proprio al fine di irreggimentare questo aspetto, la legge delega stabiliva che il decreto delegato dovesse “determinare i poteri del tribunale in materia” (art. 6, c. 1, lett. e della l. n. 155/2017).

Sennonché, il decreto delegato si è limitato a canonizzare tout court il potere di sindacato del giudice sul punto, senza minimamente regolarne ambiti e profili, con la conseguenza di creare una figura di giudice economista-imprenditore che appare, non soltanto pletorica, ma anche e potenzialmente controproducente rispetto alla stessa finalità di fondo della riforma del diritto dell’insolvenza di limitare al minimo i casi di fallimento (liquidazione giudiziale).

Perché negare a un debitore la possibilità di ripartire grazie a un piano, approvato da esperti economisti e aziendalisti, solo perché un giurista – che presumibilmente mai ha vissuto in prima persona la realtà imprenditoriale ed economica – ritiene il piano stesso troppo ambizioso e ottimistico? Soltanto attribuendo le giuste funzioni, e le correlative giuste responsabilità, ai vari attori della procedura, un sistema di soluzione della crisi d’impresa può funzionare in modo efficiente. Non è accentrando tutto nelle mani dell’organo giudiziario che si garantisce il risultato migliore, quando le materie coinvolte e le competenze richieste vanno al di là di quelle giuridiche.

Il decreto correttivo doveva risolvere queste criticità lasciate aperte dalla prima stesura del codice, ma ciò non è avvenuto. Anzi, esso ha ulteriormente aggravato le criticità eliminando l’aggettivo “giuridica” che caratterizzava la valutazione di ammissibilità della domanda richiesta dagli articoli 47 e 48 del codice. In questo modo, anziché disciplinarlo e limitarlo, si è aumentato ulteriormente il margine di sconfinamento del giudice in valutazioni aziendalistiche che non dovrebbero essergli accollate.

 

  1. Oltre al recepimento delle indicazioni del Consiglio di Stato, appare quindi opportuno cogliere l’occasione del correttivo per un intervento di revisione più ampio e soddisfacente sull’originario impianto del codice, che tenga meno quanto meno dei punti sopra evidenziati:
  2. riformulazione delle norme incerte (come, ad es., l’attuale art. 54, c. 1 del codice);
  3. riformulazione in termini più ragionevoli della responsabilità per omessa segnalazione da parte degli organi di controllo;
  • riformulazione dei criteri di segnalazione da parte dei creditori pubblici qualificati, quanto meno innalzando in modo significativo le soglie di rischio e sterilizzando la segnalazione in caso di avvio dei pagamenti anche in forma rateale;
  1. inserimento di misure premiali per i creditori che accettino riduzioni del credito in sede di accordi di composizione assistita della crisi, a cominciare dal coordinamento con gli istituti tributari rilevanti per vicende del genere;
  2. riconduzione a ragionevolezza del ruolo valutativo del giudice sui termini economico-industriali degli accordi.

Un intervento di più ampio respiro è necessario, inoltre, anche nella prospettiva, correttamente evidenziata dal Consiglio di Stato, dell’opportunità di introduzione di un meccanismo specifico per gestire le crisi d’impresa legate al lockdown per emergenza covid-19. Applicare tout court già dal 2021 un codice del tipo di quello attualmente configurato per la gestione della crisi si presta infatti a generare, più che un rilancio, una vera e propria moria delle imprese italiane.

 

* Avvocato in Firenze e Professore a contratto di Diritto tributario all’Università Bocconi di Milano