TRIBUNALE DI PAVIA
SEZIONE SECONDA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il giudice tutelare dott.ssa Michela Fenucci
Ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Nel procedimento relativo alla amministrazione di sostegno di (…), rappresentato dall’amministratore di sostegno (…).
Il giudice tutelare dott.ssa Michela Fenucci ritiene di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 commi 4 e 5 della legge 219/2017 nella parte in cui stabiliscono che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, ritenendo le suddette disposizioni in violazione degli articoli 2, 3, 13, 32 della Costituzione.
La questione è rilevante per i seguenti motivi.
Con decreto in data 16.10.2008 era nominato in favore di (…) un amministratore di sostegno a cui non era attribuita né la assistenza necessaria né la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario (cfr. doc. 6). Con successivo decreto del 23 luglio 2013 si provvedeva alla sostituzione dell’amministratore di sostegno senza che intervenisse contestuale modifica dei poteri attribuiti (cfr. doc. 11). La relazione clinica in data 21.02.2018 certifica le condizioni di salute di (…) che risulta attualmente “in stato vegetativo in esiti di stato di male epilettico in paziente affetto da ritardo mentale grave da sofferenza cerebrale perinatale in sindrome disformica” e “portatore di PEG” (cfr. doc. 20). Si rende quindi necessario ai sensi dell’art. 407 comma 4 c.c. integrare il decreto di nomina ai fini della individuazione dei poteri sulla salute. Preso atto delle condizioni di salute come risultanti dal certificato medico allegato e personalmente verificate da questo giudice tutelare mediante esame dell’amministrato in data 16 febbraio 2018 (cfr.doc. 15), si profila come indispensabile l’attribuzione della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, non residuando alcuna capacità in capo all’amministrato.
A decorrere dal 31 gennaio 2018, è l’art. 3 comma 4 e 5 della legge 219/2017 che disciplina le modalità di conferimento, all’amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario. Sulla base della interpretazione della norma come di seguito prospettata, l’attribuzione all’amministratore di sostegno dei poteri in ambito sanitario (nella fattispecie sotto forma di rappresentanza esclusiva) ricomprende necessariamente il potere di rifiuto delle cure, ancorché si tratti di cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato quali a titolo esemplificativo la nutrizione artificiale di cui beneficia (…) ; ne deriva come l’amministratore di sostegno ove investito della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario godrebbe, ai sensi della legge citata, del potere di rifiutare le cure necessarie al mantenimento in vita senza che tale potere, una volta attribuito, possa più essere sindacato dall’autorità giudiziaria, così che all’amministratore di sostegno viene attribuito il potere di decidere della vita e della morte dell’amministrato, potendo egli rifiutare le cure in nome e per conto dello stesso, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, ove tale sua decisione fosse condivisa dal medico curante.
Il presente giudice tutelare è chiamato quindi ad applicare l’art. 3 comma 5 legge 219/2017 alla fattispecie concreta dell’individuazione dei poteri conferiti all’amministrazione di sostegno, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento da parte di (…) (cfr. doc. 21).
Ai fini dell’enunciazione delle ragioni della rilevanza si profila come logicamente preliminare un’attenta esegesi del comma 5° dell’art. 3 «Nel caso in cui […] l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’art. 4 […] rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria». Si deve anzitutto procedere all’individuazione del perimetro operativo della citata disposizione e analizzare cosa debba intendersi con l’espressione “rifiuto delle cure”. Dal coordinamento delle locuzioni “in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento” e “rifiuti le cure” si evince come il rifiuto concerna (anche) i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Tale conclusione deve considerarsi inequivoca in ragione, da un lato, della limpidezza del dato linguistico-letterale e, dall’altro, del complessivo spirito sistematico della legge.
Il rifiuto delle cure può interessare tutti i trattamenti sanitari astrattamente oggetto delle DAT.
L’espressione “in assenza di disposizioni anticipate di trattamento” concorre a definire l’ambito applicativo della fattispecie in esame, richiamando, mediante una formulazione indiretta, la generalità dei trattamenti sanitari teoricamente riconducibili alle DAT.
È come se il legislatore dicesse: per quei casi teoricamente definibili con le DAT, proprio a motivo della fattuale assenza delle stesse DAT, opera, in funzione sostitutiva, il presente comma.
Le disposizioni anticipate di trattamento sono chiaramente suscettive di riferirsi ai trattamenti necessari al mantenimento in vita (ad esempio l’idratazione e l’alimentazione artificiale, ai sensi dell’art. 1 comma 5, sono qualificati come trattamenti sanitari, oggetto delle DAT ex art. 4 comma 1) ne consegue come il rifiuto possa anche interessare i predetti trattamenti.
Residua, invero, una possibilità per escludere che il rifiuto possa riguardare anche i trattamenti necessari al mantenimento in vita: interpretare l’espressione “cure proposte” in guisa da estromettere i suddetti trattamenti, sostenendo l’inammissibilità di un loro inquadramento in termini di cure.
Tuttavia – tralasciata ogni considerazione in ordine al piano strettamente linguistico di un simile eventuale orientamento – la suddetta, ipotetica, opzione ermeneutica deve reputarsi incompatibile sia con la ratio della legge – funzionale alla valorizzazione della libertà di autodeterminazione segnatamente nell’ipotesi di trattamenti sanitari di fine vita – sia con la l’acquisizione, tra i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., di un diritto a decidere sui trattamenti di fine vita.
La circostanza di trovarsi in uno stato di incapacità non potrebbe, di per sé sola, escludere a priori il diritto a decidere sui trattamenti necessari al mantenimento in vita; non si potrebbe, ex ante, privare un incapace, soltanto per il fatto d’essere incapace, del diritto di decidere sui citati trattamenti, pena la violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Lo stato di incapacità non legittimerebbe in alcun modo un affievolimento dei diritti fondamentali (come la libertà di autodeterminazione), l’incapace è una persona a tutti gli effetti, nessuna limitazione o disconoscimento dei suoi diritti si prospetterebbe come lecita; egli deve essere rispettato e tutelato nei suoi diritti e nella sua individualità, e perciò salvaguardato anche in relazione alla libertà di autodeterminazione e di rifiuto delle cure; e una simile ricostruzione deve considerarsi avvallata dalla legge in esame.
La condizione di incapacità può invece rilevare alla stregua di un ulteriore, differenziato piano, quello concernente le concrete, fattuali modalità di esercizio del diritto, lasciando impregiudicata però la sussistenza del medesimo, ma trattasi di un profilo che verrà successivamente specificato.
Appurato come il rifiuto possa astrattamente inerire i trattamenti necessari al mantenimento in vita, assunto come il rifiuto debba poterli potenzialmente comprendere, analizziamo ora le modalità con cui il diniego viene espresso. La disposizione non disciplina esplicitamente l’ipotesi di rifiuto manifestato e direttamente posto in essere mediante le conseguenti operazioni materiali, ma unicamente quella di rifiuto estrinsecato e non eseguito per via di una valutazione confliggente del medico. In quest’ultimo caso la legge prevede, a seguito di un ricorso, che la decisione sia rimessa al giudice tutelare. Si evince, dalla lettura della disposizione, la sussistenza di due alternative: nella prima, estrapolata indirettamente, a contrario, la manifestazione del rifiuto non è opposta dal medico e viene allora concretamente tradotta; nella seconda vi è l’opposizione del medico, la relativa paralisi del rifiuto delle cure e si prevede il possibile intervento dell’autorità giudiziaria. Dalla disposizione si desume come l’intervento del giudice tutelare sia confinato esclusivamente alla seconda ipotesi, essendo escluso, in maniera sì implicita ma comunque incontrovertibile, con riferimento alla prima ipotesi. E difatti la circostanza che il legislatore abbia espressamente definito la fattispecie nella quale la decisione è rimessa al giudice – ovverosia quando vi è l’opposizione del medico e il ricorso – conduce alla conclusione, indubitabile, che in assenza di opposizione del medico, non vi è alcun intervento dell’autorità giudiziaria.
Si è visto allora come il comma 5° dell’art. 3 legge 219/2017 consenta all’amministratore di sostegno di rifiutare i trattamenti necessari al mantenimento in vita – e deve poterglielo potenzialmente consentire – e come non sia necessario, ai fini della materiale esplicazione del rifiuto, l’intervento dell’autorità giudiziaria. Quindi l’amministratore di sostegno potrebbe presentarsi dinnanzi al medico, manifestare il rifiuto con conseguente fattuale interruzione delle cure, senza alcun coinvolgimento del giudice tutelare.
Esaurita l’illustrazione del significato della disposizione, si osserva come la circostanza che il procedimento in questione abbia natura di volontaria giurisdizione non costituisce elemento preclusivo alla proposizione dell’eccezione; e a tale conclusione pacificamente conduce una rassegna della giurisprudenza costituzionale (ad esempio Corte Cost. 129/1957, Corte Cost. 121/1974, Corte Cost. 258/2017).
Altamente esemplificativo un passaggio della su ricordata sentenza n. 129 del 1957: «é fondamentale la considerazione che il sistema costruito dalla Costituzione e dalle leggi che per questa parte la integrano o le danno esecuzione, comporta che tutte le volte che l’autorità giurisdizionale chiamata ad attuare la legge nel caso concreto, cioè ad esercitare giurisdizione, dubiti fondatamente della legittimità costituzionale di questa, deve sospendere il procedimento e trasmettere gli atti all’organo costituzionale, che è il solo competente a risolvere il dubbio. Se è vero che il nostro ordinamento ha condizionato la proponibilità della questione di legittimità costituzionale alla esistenza di un procedimento o di un giudizio, è vero altresì che il preminente interesse pubblico della certezza del diritto (che i dubbi di costituzionalità insidierebbero), insieme con l’altro dell’osservanza della Costituzione, vieta che dalla distinzione tra le varie categorie di giudizi e processi (categorie del resto dai confini sovente incerti e contestati), si traggano conseguenze così gravi. Si può dire, anche, che la proponibilità alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale dipenda non dalla qualificazione del procedimento in corso, ma dalla circostanza che il giudice (contenzioso o volontario che sia il processo) ritenga fondato il dubbio della legittimità costituzionale della legge che egli deve attuare».
La questione appare non manifestamente infondata per le seguenti ragioni.
«La libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extra-giuridiche, quindi squisitamente soggettive» (ordinanza Corte di Cassazione 20 aprile 2005, n. 8291).
Ne consegue come in materia di rifiuto delle cure non possa trovare cittadinanza, quale elemento orientativo dal quale attingere, nessun criterio di ordine oggettivo, venendo in rilievo valutazioni personalissime, inscindibili dal soggetto interessato ed indissolubilmente legate alle sue proprie convinzioni religioso-filosofiche ed inclinazioni culturali, e come tali insuscettibili d’essere vagliate alla luce di un giudizio obiettivo o alla stregua del parametro del “best interest” (adottato dalla House of Lords inglese nel 1993 nel caso Bland).
La dichiarazione di rifiuto delle cure può essere scomposta ed analizzata con riguardo ai suoi due momenti essenziali: quello concernente la formazione dell’intimo volere e quello rappresentato dalla manifestazione della volontà formatasi; ebbene, l’essenza personalissima del diritto di rifiutare le cure determina necessariamente l’intrasferibilità in capo a terzi del primo, più pregnante e profondamente soggettivo momento – quello attinente alla formazione della volontà – essendo possibile unicamente una cessione della fase dichiarativa, col limite categorico dell’indisponibilità dell’oggetto, ovverosia della volontà medesima.
«Il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore [nel caso di specie trattasi dell’amministratore di sostegno], il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona» (Corte di Cassazione sentenza n. 21748 del 2007).
Implicazione necessaria dello svolgimento delle suddette premesse è la considerazione che il rifiuto delle cure manifestato dall’amministratore di sostegno deve potersi qualificare come il riflesso, come la rappresentazione, ancorché mediata, della volontà dell’interessato. Il rifiuto, benché materialmente e fattualmente estrinsecato dalla persona dell’amministratore, deve rappresentare il precipitato logico della personalità, del patrimonio filosofico-culturale e delle convinzioni religiose dell’interessato. Il rifiuto delle cure non può derivare dalle soggettive riflessioni e dalle individuali valutazioni dell’amministratore, ma deve trovare la propria inderogabile legittimazione nella volontà dell’interessato e nei suoi orientamenti esistenziali.
Le osservazioni sopra formulate risultano emblematicamente scolpite nell’affermazione secondo la quale l’amministratore non deve decidere né «al posto dell’incapace, né per l’incapace»; postulato della citata proposizione è la concezione della decisione del rifiuto delle cure come una valutazione di pertinenza del solo interessato, in ragione delle sue caratteristiche eminentemente personali, valutazione della quale non può in alcun modo essere espropriato mediante la sua consegna alle determinazioni di un altro soggetto. D’altra parte la cognizione del diritto a rifiutare le cure come personalissimo altro non è che la logica simmetria dalla indisponibilità altrui e dell’intrasferibilità del diritto alla vita.
Ne consegue come il rifiuto delle cure deve potersi reputare come promanare sostanzialmente dall’interessato incapace; l’intervento dell’amministratore di sostegno deve quindi essere limitato e rigorosamente circoscritto alla individuazione, presidiata da particolari cautele, e alla conseguente trasmissione della volontà dell’interessato.
Ebbene, affinché la decisione sul rifiuto delle cure risulti espressione dell’interessato incapace e non della volontà soggettiva, e perciò irrilevante, dell’amministratore di sostegno, si prospettano due scenari: il ricorso alle disposizioni anticipate di trattamento o, in assenza di quest’ultime, la ricostruzione della volontà del soggetto. Giova ribadire che il solo ed insuperabile parametro di riferimento in ordine alle determinazioni sul rifiuto delle cure deve essere costituito dalla volontà dell’interessato, ora cristallizzata attraverso le disposizioni anticipate di trattamento, ora desunta mediante un’approfondita e puntuale operazione di abduzione.
Nel caso di assenza di disposizioni anticipate di trattamento, difettando una rappresentazione qualificata di una volontà inequivocabilmente ed appositamente espressa, si pone la delicata questione di ricostruire la volontà dell’interessato attraverso il ricorso ad una pluralità di indici sintomatici, di elementi presuntivi, mediante l’audizione di conoscenti dell’interessato o strumenti di altra natura.
Trattasi di quello che, negli ordinamenti di common law, è definito come “substituted judgement test”, accolto nel 1976 dalla Corte Suprema del New Jersey nel caso Quinlan.
La ricerca della «volontà della persona [incapace] – ricostruita alla stregua di chiari, univoci, e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante» (Corte di Cassazione sentenza n. 21748 del 2007).
Attesa la complessità e la serietà di un simile processo di ricerca, si profila come imprescindibile l’intervento di un soggetto terzo e imparziale, quale l’autorità giudiziaria, tesa a salvaguardare la corrispondenza tra il rifiuto e l’autentica volontà dell’incapace interessato. «L’intervento del giudice esprime una forma di controllo della legittimità della scelta nell’interesse dell’incapace; […] e si estrinseca nell’autorizzare o meno la scelta compiuta dal tutore» (Corte di Cassazione sentenza n. 21748 del 2007).
Avendo accennato alla tematica della ricostruzione della volontà dell’incapace, risulta allora opportuno chiarire un aspetto già succintamente affrontato e rinviato ad approfondimento successivo, la distinzione delle dimensioni della sussistenza del diritto di rifiutare le cure che garantiscono il mantenimento in vita e delle concrete modalità dell’esercizio. La sussistenza del diritto non implica né il suo esercizio, né assicura, ancorché esercitato, ch’esso sia, ab externo, riconoscibile o individuabile; ad esemplificazione di tale differenziazione si può analizzare il caso di incapacità originaria incidente sulle capacità intellettive.
Conformemente alla riportata ricostruzione anche in un caso simile deve ritenersi sussistere il diritto di rifiutare le cure, senonché una incapacità del tipo di quella citata assumerà valore, presumibilmente, nel processo di ricostruzione della volontà, fungendo da elemento ostativo alla possibilità di rinvenire una manifestazione di volontà orientata nel senso del rifiuto, con la conseguenza della prevalenza del complementare diritto alla vita, rispetto al quale la norma in esame è derogatoria. Alle medesime conclusioni deve addivenirsi ogni qualvolta il procedimento di ricerca della volontà dell’interessato non conduca ad un quadro espressivo di una determinazione di rifiuto.
Se si consentisse all’amministratore di sostegno di ricercare autonomamente la volontà dell’interessato e di assumere in piena libertà le consequenziali determinazioni sul rifiuto delle cure, si sentenzierebbe il concreto annichilimento della natura personalissima del diritto a decidere sulla propria vita; difatti si configurerebbe surrettiziamente, a vantaggio dell’amministratore, il potere di assumere, a fondamento del rifiuto, la propria volontà, contraddicendo in radice la personalissima essenza del diritto di rifiuto delle cure.
Allora in mancanza di disposizioni anticipate di trattamento si staglia come indefettibile la sussistenza di una verifica e di un vaglio orientati a saggiare la conformità della dichiarazione di rifiuto proveniente dall’amministratore alla volontà del beneficiario, apprezzamento il quale postula preliminarmente la ricostruzione della volontà medesima ove sia possibile. L’intervento dell’autorità giudiziaria, si precisa, è funzionalizzato alla tutela del carattere personalissimo e della speculare indisponibilità altrui del diritto di rifiuto delle cure e del diritto alla vita.
Assunto l’incontrovertibile legame tra identità esistenziale – da intendersi quale sintesi degli orientamenti filosofici, delle convinzioni religiose, delle inclinazioni culturali, delle abitudini di vita e dei comportamenti dotati di significanza – e decisione di rifiuto delle cure, si delinea come incostituzionale l’attribuzione all’amministratore di sostegno, realizzata dalle disposizioni incriminate, di un potere di natura potenzialmente incondizionata e assoluta attinente la vita e la morte, di un dominio ipoteticamente totale, di un’autentica facoltà di etero-determinazione.
E l’insanabile contrasto con i precetti costituzionali emerge plasticamente, anzitutto, dalla considerazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost. In virtù della valorizzazione del principio personalistico e del rifiuto dell’idea, di ascendenza autoritaria, di uno Stato eticizzante, si ricava dai citati referenti costituzionali, il diritto del singolo a rifiutare le cure, al quale diritto deve quindi conferirsi il rango di diritto inviolabile. Sancire il riconoscimento dell’inviolabilità di un diritto equivale a negare la possibilità che altri possano violare il diritto in questione, implica il divieto, perlomeno nei confronti degli altri, di ledere tale diritto. Si è visto come la peculiare natura del diritto a rifiutare le cure, assieme all’eccezionalità del suo oggetto, qualifichi il diritto de quo come intrinsecamente correlato al singolo interessato, e perciò esclude che il momento della formazione della volontà possa essere delegato a soggetti terzi: la disponibilità altrui del processo di formazione della volontà confligge irrimediabilmente con il carattere soggettivo del diritto, comportandone, inesorabilmente, il disconoscimento; si concreterebbe una dissoluzione, dall’esito lesivo, del legame sussistente tra il diritto in parola e l’identità esistenziale dell’interessato.
Il diritto a rifiutare le cure è un diritto personalissimo; l’amministratore di sostegno dovrebbe limitarsi a trasmettere la volontà già formata dell’amministrato.
Ciò ribadito, le modalità d’esercizio di rifiuto delle cure stabilite dalla disposizione censurata per l’Amministratore di sostegno appaiono radicalmente inidonee a salvaguardare compiutamente la natura eminentemente soggettiva del diritto in questione e quindi tali da conferire all’Amministratore un potere potenzialmente autonomo di rifiuto delle cure. Conseguenze immediate di tale stato di cose la negazione dell’essenza personalissima del diritto de quo e la sua correlativa violazione.
È pur vero che la disposizione censurata prevede l’intervento dell’autorità giudiziaria nell’eventualità del rifiuto opposto dal medico, ma è altresì innegabile come il carattere meramente ipotetico ed accidentale del suddetto intervento giudiziale non valga a scardinare la censura, limitandosi ad operare come criterio risolutore subordinato alla ipotetica sussistenza di un dissidio tra rappresentante e medico, e come tale confinato all’insufficiente dimensione dell’eventualità, un correttivo dunque eventuale, ma radicalmente inadeguato perché appunto solo eventuale e non indefettibile.
A ben vedere la disposizione oggetto di contestazione parrebbe aver aderito all’orientamento teso ad assegnare al medico la valutazione finale relativa al rifiuto delle cure; sulla base di tale considerazione si potrebbe obiettare che non è rispondente al vero sostenere il conferimento, all’amministratore di sostegno, di un potere potenzialmente autonomo e perciò contraddittorio con lo spirito personalissimo del rifiuto, dal momento che un controllo, sebbene non giurisdizionale, pur sempre è previsto e si sostanzia nel giudizio del medico. A tale ipotetica argomentazione si controbatte rilevando la ripetuta essenza personalissima del rifiuto delle cure; da tale inequivoca osservazione deriva l’insufficienza di una valutazione medica imperniata su canoni obiettivi di appropriatezza e necessità, criteri i quali parrebbero evocare quello del best interest enucleato nel caso Bland. Ma si è già evidenziato come un siffatto parametro confligga e disconosca la natura soggettiva e personalissima del rifiuto delle cure necessarie al mantenimento in vita, (come potrebbe un’asettica valutazione medica cogliere le intime e profonde riflessioni personali in ordine alla vita, alla morte e alla dignità? Si vorrebbe forse surrogare l’autodeterminazione con un giudizio medico?); consegue come la valutazione del medico si dimostri assolutamente inconferente. Ci si domanda inoltre come potrebbe il medico verificare ed accertare la conformità del rifiuto alla volontà ricostruita dell’incapace e come potrebbe, prima ancora, ricostruire tale volontà.
Si censura inoltre, ai sensi dell’art. 3 Cost., la manifesta irragionevolezza della disposizione, la quale, se applicata, darebbe luogo all’appalesarsi di un’incoerenza di ingiustificabile significanza all’interno dell’architettura di sistema delineata dall’istituto dell’amministrazione di sostegno. Infatti gli articoli 374 c.c. e 375 c.c. richiamati dall’art. 411 c.c. per la disciplina dell’amministrazione di sostegno prescrivono come necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare ai fini del compimento degli atti ivi indicati. Prevedere l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per l’esplicazione di una serie di atti attinenti alla sfera patrimoniale e al contempo non prevederla per l’atto di rifiuto delle cure, sintesi ed espressione dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, si profila come irrazionale; l’ordinamento appresterebbe a un interesse di ordine patrimoniale salvaguardia e presidi tutelativi superiori rispetto a quelli stabiliti per i richiamati diritti alla vita, alla salute, all’autodeterminazione e alla dignità della persona. Si deve poi osservare, ai fini di una completa cognizione del quadro di incongruenze che deriverebbe dall’attuazione delle disposizioni, come, in ordine alla domanda di separazione avanzata dall’amministratore in nome e per conto del beneficiario dell’amministrazione, la giurisprudenza, dalla qualificazione della suddetta domanda come atto personalissimo, faccia discendere la necessità dell’autorizzazione del giudice, calibrata sulla «ricostruzione del vissuto dell’incapace» (Trib. Cagliari 15.6.2010). Dunque per l’atto personalissimo della domanda di separazione si richiederebbe il vaglio necessario dell’autorità giudiziaria, per l’atto personalissimo del rifiuto delle cure, coinvolgente valori egualmente rilevanti e dalle implicazioni certamente superiori, l’intervento del giudice sarebbe esiliato nella dimensione dell’eventuale.
Si evidenzia, infine, come aggiuntivo indice sintomatico di una complessiva irragionevolezza, la presenza di una trama normativa contraddittoria tutta interna alla legge 219 del 2017; difatti se da una parte le disposizioni del citato testo normativo risultano fondate sull’intento di valorizzare ed accordare centralità alla manifestazioni di volontà dei singoli, prescrivendo, ai fini del loro rilievo, determinate formalità e procedure, non si comprende allora perché nella circostanza di soggetti incapaci difetti la più elementare attenzione per il citato, decisivo, elemento volontaristico, venendo contestualmente a cadere qualsiasi meccanismo di tutela o di controllo.
Sulla base di tutte le esposte argomentazioni questo giudice tutelare ritiene pertanto che la decisione sulla attribuzione all’amministratore di sostegno di (…) della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario non possa essere assunta indipendentemente dalla risoluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale.
Ai sensi dell’art. 27 seconda parte legge 87/53, come estensivamente interpretato dalla Corte, si chiede inoltre, ove accolta la questione di legittimità costituzionale sollevata, che sia consequenzialmente dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 commi 4 e 5 della legge 219/2017 nella parte in cui prevedono che il rappresentante legale della persona interdetta oppure inabilitata, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento di cui all’art. 4, o il rappresentante legale del minore possano rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato.
Questo provvedimento è stato redatto con la collaborazione del dott. Dario Minafra tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013.
P.Q.M.
Visti gli artt. 134 e 137 Cost. , 1 legge cost. 9 febbraio 1948 n. 1, 23 legge 11 marzo 1953 n. 87.
Dichiara rilevante nel presente procedimento e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 comma 4 e 5 della legge 219/2017 nella parte in cui stabiliscono che l’amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, ritenendo le suddette disposizioni in violazione degli articoli 2, 3, 13, 32 della Costituzione nei termini di cui in motivazione.
Ordina che il presente provvedimento, a cura della Cancelleria sia notificato a (…) in qualità di amministratore di sostegno di (…), al Pubblico Ministero e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicato al Presidente del Senato e al Presidente della Camera dei Deputati e, all’esito, sia trasmesso alla Corte Costituzionale insieme al fascicolo processuale con la prova delle avvenute regolari predette notificazioni e comunicazioni.
Dichiara sospesa la decisione sulla attribuzione all’amministratore di sostegno di (…) della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario.
Pavia 24 marzo 2018 il Giudice tutelare
Dott.ssa Michela Fenucci