Aldo Rocco Vitale
Docente di biogiuridica presso la Facoltà di Bioetica
Ateneo Pontificio Regina Apostolorum

 

Sommario: 1.  Introduzione – 2.  Trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia – 3. Conseguenze e prospettive – 4. Conclusioni.

 

  1. Introduzione

 

Illustri Presidenti e Onorevoli Deputati,

ringrazio per l’invito e per la possibilità che mi viene concessa di contribuire alla riflessione sul delicato tema del rifiuto dei trattamenti sanitari e sulla liceità dell’eutanasia in speciale riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019.

A tal proposito ritengo opportuno prendere le mosse del mio ragionamento dalla diffusa concezione odierna condensata nelle riflessioni di illustri giuristi come Natalino Irti secondo il quale «ciò che io voglio come diritto, si concentra nell’unità della mia decisione […]. Dinanzi a me non c’è il diritto, ma la pluralità dei diritti possibili. “Diritto senza verità”, sì, nel senso che non c’è una verità, né tecnica, né teologica, né politica capace di vincolare e guidare la mia scelta»[1].

In tal modo Natalino Irti ha perimetrato la portata applicativa del suo caratteristico e radicale “non cognitivismo giuridico” per cui non c’è e non è neppure ipotizzabile una verità di nessun tipo da porre a fondamento della fenomenologia giuridica. Le classiche endiadi “diritto e politica”[2], “politica e morale”[3], “diritto e morale”[4], perdono, in tale prospettiva, ogni legittimità epistemica, venendo relegate – malgrado la loro fecondità teoretica e paideutica per il giurista – all’angolo dell’irrilevanza e, quindi, inappellabilmente condannate al silenzio. In fondo, nell’epoca della cosiddetta “secolarizzazione a tappe forzate”[5], cioè un’epoca in cui si elide la dimensione metafisica quale portatrice di senso, così che tutto – ovviamente compresi la morale e il diritto – diventa irrimediabilmente e sostanzialmente privo di senso, come puntualizza Tristram Engelhardt[6], si deve necessariamente concludere che l’intera realtà – specialmente quella giuridica – non può che essere tristemente “abbandonata” alla pura volizione individuale (del legislatore, del giudice, del singolo cittadino).

E pur tuttavia, tralasciando la costitutiva dimensione aletica del diritto – e perfino la sua stessa pensabilità – si travisa non soltanto il diritto in se stesso considerato, poiché come ha giustamente notato Peter Häberle «lo Stato costituzionale esige la tematizzazione dei problemi di verità»[7], ma si tradisce all’un tempo la ostentata vocazione non-cognitivista assunta quale paradigma caratterizzante della contemporaneità giuridica, in quanto un’ autentica posizione scettica che trascenda nel nichilismo – perfino in un nichilismo giuridico[8] ‒ non può che risolversi in un definitivo mutismo epistemologico poiché la stessa propensione alla parola, sia pur quella parola volta ad affermare la negazione della verità, è essa stessa una opzione aleticamente fondata e quindi antinomica rispetto alla visione scettica circostante all’interno della quale presume di inscriversi, così da dover concordare con Enrico Opocher il quale ha brillantemente e sagacemente osservato che «lo scettico non può che rinunciare a filosofare e, in sostanza, tacere se non vuole che la sua negazione assuma contraddittoriamente un valore assiologico»[9].

 

  1. Trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia

 

«Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia»[10]: così Albert Camus ha condensato in un semplice interrogativo tutto il senso della filosofia in quanto costante ricercare, perenne indagare, incessante interrogarsi intorno al senso del vivere, e, dunque, anche al senso del morire, problema che, tuttavia, non rimane confinato al di là delle altere ed eteree vette del ragionamento filosofico, ma che coinvolge con tutta la sua pregnanza i pensieri e l’affannato animo del giurista contemporaneo vocato a confrontarsi con il tema della cosiddetta “morte assistita”[11], tema che, in ultima analisi, si disvela come il volto celato dell’interrogarsi sul senso del diritto odierno.

In tale contesto si inserisce la pronuncia della Corte Costituzionale cristallizzata nella sentenza n. 242/2019 con cui è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice Penale che punisce l’aiuto e l’istigazione al suicidio. Nonostante il radicamento metafisico ed etico rappresenti l’unico reale e concreto appiglio per un discorso razionale che non naufraghi nell’emotivismo o nel soggettivismo, occorre in questa sede, in ragione della ristrettezza dei tempi e degli spazi, focalizzare l’attenzione sulla dimensione più strettamente (bio) giuridica della suddetta sentenza e, almeno, sotto un duplice profilo, cioè preliminarmente quello più strettamente scientifico e successivamente quello più specificamente giuridico.

Sotto il profilo scientifico, occorre chiarire l’equivoco di fondo, cioè che alimentazione, idratazione e ventilazione siano trattamenti terapeutici e che come tali possano essere interrotti come ogni altro trattamento terapeutico[12]. Sebbene sia la giurisprudenza di legittimità[13], sia la legge n. 219/2017, ben prima del pronunciamento della Corte Costituzionale, abbiano ritenuto che l’alimentazione, l’idratazione e la ventilazione siano da equiparare ai trattamenti terapeutici, non si può non evidenziare che tale equiparazione è sostanzialmente una radicale e irrazionale negazione della realtà scientifica così da non poter essere ritenuta intellettualmente legittima neanche ricorrendo all’eventuale straordinario strumento giuridico della “fictio”, come sembra pare abbiano fatto prima le toghe, tramite una sorta di fictio iudicis, e poi il legislatore tramite una vera e propria fictio verbalis.

La finzione giuridica essendo «una ideale modificazione e correzione della realtà concreta diretta a rendere possibile l’applicazione di una norma altrimenti non applicabile»[14], e dovendo salvare transitoriamente le esigenze della pratica e della coerenza logica[15], presuppone una realtà normativa da integrare, e non da “creare” ex nihilo, applicandosi peraltro sempre ad una eventuale lacuna di diritto, cioè intervenendo sulla realtà giuridica, ma senza mai modificare la realtà naturale in quanto tale.

La finzione, infatti, non è né mendacium, cioè consapevole falsificazione della realtà, né arbitrium, cioè assoluta volontà del legislatore, del giudice, dell’interprete[16]. Alimentazione, idratazione e ventilazione, dunque, – anche se artificialmente supportate, a meno che non ci si trovi nell’imminenza del punctum mortis secondo consueta e previa valutazione clinica – non possono essere sospese poiché non sono trattamenti terapeutici dato che ontologicamente e funzionalmente non sono messe in essere per curare una specifica patologia, costituendo piuttosto la ordinaria triade di sostegno vitale dell’esistenza umana in genere e del paziente in particolare. Ciò premesso sotto il profilo scientifico, si può adesso analizzare, seppur sinteticamente, il profilo giuridico focalizzando l’attenzione dapprima su alcuni punti nodali della sentenza n. 242/2019.

Cinque sono, almeno, i punti da considerare.

  1. In primo luogo: sebbene la Corte Costituzionale abbia dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo del Codice penale che sanziona l’aiuto al suicidio, ha ribadito con fermezza che il divieto codicistico in quanto tale non contrasta con la Costituzione, e che anzi è un presidio fondamentale per la tutela dei soggetti più deboli e fragili come i pazienti che versano in determinate gravi condizioni. Dal ragionamento della Corte, quindi, si deduce con palese evidenza che non esiste un “diritto di morire” in quanto tale, affermando la Corte stessa che «dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire».
  2. In secondo luogo: la Corte pur ribadendo l’inconfigurabilità giuridica e costituzionale di un “diritto di morire” ha ritenuto, tuttavia, che un divieto assoluto di suicidio assistito – quale è quello presente nell’ordinamento italiano e condensato dalla disciplina dell’articolo 580 c.p. – rappresenti comunque una irragionevole limitazione del diritto di autodeterminazione che invece deve essere tutelato proprio in ragione del cosiddetto “principio personalistico” su cui si fonda l’intero edificio dei diritti e delle garanzie costituzionali.

In sostanza: per un verso la Corte Costituzionale ha ritenuto che «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio», tanto che «l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione», ma per altro verso ha chiarito che, nel dare tempo al legislatore in vista dell’adozione di una nuova disciplina in merito, si è lasciata in vita «la normativa non conforme a Costituzione».

  1. In terzo luogo: la Corte Costituzionale ha avuto premura di determinare in modo preciso i limiti entro i quali la condotta dell’agente può essere considerata legittima, stabilendo ben quattro criteri di cui dover tenere conto al fine di valutare la suddetta legittimità: «Questa Corte ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi – come nella vicenda oggetto del giudizio a quo – in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile, (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
  2. In quarto luogo: la Corte ha anche effettuato una interpretazione applicativa della legge 219/2017 disciplinante il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, ritenendo da un lato che «la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò, in forza della legge 22 dicembre 2017, n. 219, la cui disciplina recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria – in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di Cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) – nonché le indicazioni di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico (ordinanza n. 207 del 2018): principio qualificabile come vero e proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost.(sentenze n. 253 del 2009 e n. 438 del 2008)», e dall’altro lato che «la legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care».
  3. In quinto luogo: nella predetta sentenza la Corte Costituzionale ha chiarito, infine, che in ogni caso non vi è nessun obbligo per i medici di assistere al suicidio di chi lo volesse o dovesse richiedere in modo autonomo e libero, quasi creando una “clausola di garanzia” per l’obiezione di coscienza dei medici che pur la legge 219/2017 – a cui la Corte espressamente si richiama – non prevede.

La Corte in quest’ultimo caso, insomma, oltre a “smussare” l’assolutezza del divieto ex articolo 580 c.p., colma anche il silenzio della legge 219/2017 in tema di obiezione di coscienza, poiché riconosce che la pratica della morte assistita, anche se effettuata su richiesta del paziente e rispettando tutti i requisiti dalla stessa Corte imposti affinché non si ricada nella fattispecie criminosa della suddetta norma penale, può comportare una conflittualità tra la deontologia della pratica medica e la volontà del paziente, situazioni che entrambe meritano di essere tutelate in quanto costituzionalmente rilevanti.

Ciò chiarito, considerando le due pronunce della Corte Costituzionale, ovvero l’ordinanza n. 207/2018 e la sentenza n. 242/2019, complessivamente, cioè come la protasi e l’apodosi di un unico ragionamento giuridico dilazionato in due fasi temporali distinte, si devono effettuare tre brevi riflessioni: a) di metodo; b) di merito; c) di carattere sistematico.

  1. a) Sul metodo: la modalità operativa seguita dalla Corte lascia trapelare alcune perplessità, per almeno due ordini di ragione. Da un lato, infatti, la Corte Costituzionale sembra aver avallato quell’arbitrario fenomeno, ben al di là di ogni prospettiva internazional-privatistica o comparatistica,[17] di “internazionalizzazione” o “globalismo” dei sistemi giudiziari,[18] che si è ampiamente diffusa da alcuni decenni anche all’interno dell’ordinamento italiano, pur senza che né la Costituzione, né la sua storia, né l’insieme dell’ordinamento italiano contemplino una così larga e acritica permeabilità a favore delle vicende giuridiche in genere e in particolare giurisdizionali straniere[19].

Dall’altro lato, l’effettuato richiamo all’esperienza delle corti estere non pare comunque completo, ma forzatamente selettivo, poiché la Corte Costituzionale che si è appellata al precedente canadese ha deciso di ignorare le più recenti pronunce statunitensi come quella della New York High Court, nel caso Myers v. Schneiderman[20], secondo la quale non esiste un diritto costituzionale al suicidio assistito così che il diritto di scegliere i trattamenti sanitari o di rifiutare quelli di sostegno vitale non include il diritto ad essere aiutati al suicidio, o quella della Supreme Court of New Mexico, nel caso Morris v. Brandenburg[21], in cui si chiarisce senza mezze misure che non esiste un diritto di morire costituzionalmente tutelabile, così come ha trascurato il recentissimo caso britannico Conway v. Secretary of State for Justice deciso nell’ottobre 2017 dalla British High Court la quale ha sancito che il divieto di suicidio assistito dell’ordinamento britannico è proporzionato alla tutela dei più deboli e che vi è un pubblico interesse al mantenimento di tale divieto[22].

  1. b) Sul merito: non si può fare a meno di notare la contraddittorietà della Corte Costituzionale[23], poiché delle due l’una: o il diritto alla vita è il primo e il più importante di tutti i diritti, così che quello non meno importante di autodeterminazione è comunque secondo e al primo subordinato e da questo limitato; oppure il diritto all’autodeterminazione deve essere considerato sostanzialmente assoluto e senza limiti rendendo fuorviante e inutile affermare e pensare il diritto alla vita come primo e superiore rispetto a tutti gli altri[24].

In ogni caso la Corte Costituzionale non ha mai affermato l’esistenza di un “diritto di morire”, o del “diritto al suicidio medicalmente assistito”, diritti inconfigurabili sia sostanzialmente sia proprio in base ai precedenti giurisprudenziali internazionali. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti,  già nel 2002, nel celebre caso Pretty v. United Kingdom[25], ha avuto modo di precisare che un diritto di morire in quanto tale non è ipotizzabile e non può essere legittimato né alla luce dell’art. 2 né alla luce dell’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, tanto da ritenere il divieto di assistenza al suicidio cristallizzato nel Suicide Act del Regno Unito pienamente conforme alla Convenzione suddetta in vista della tutela del diritto alla vita in genere e di quello dei più deboli e vulnerabili, come i malati cronici o terminali, nello specifico.

La stessa CEDU ha più volte ribadito la ampia discrezionalità degli ordinamenti dei singoli Stati nel vietare l’assistenza al suicidio per tutelare il diritto alla vita come affermato, per esempio, nel caso Haas v. Switzerland[26], o Lambert and others v. France[27], in cui, pur tuttavia, si è comunque asserita la possibilità della morte per il ricorrente, seppur ricostruendo tale facoltà per altre vie e mai comunque direttamente come un vero e proprio diritto di morire. Del resto già più di 20 anni or sono, anche la Corte Suprema degli Stati Uniti nel celebre caso Washington v. Glucksberg[28], aveva negato l’esistenza di una tutela costituzionalmente fondata del diritto di morire (sia come suicidio medicalmente assistito sia come eutanasia) in quanto si sarebbe stravolta l’integrità etica della professione medica e in quanto sarebbe grandemente e gravemente diminuita la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti più vulnerabili come i minori, gli anziani, i malati, i disabili, i poveri.

La Corte Costituzionale italiana, in buona sostanza, con la sentenza 242/2019 non ha esplicitamente né radicalmente abolito la fattispecie criminosa cristallizzata dall’articolo 580 del Codice Penale in tema di istigazione o aiuto al suicidio, ma ha aperto una breccia alla solidità del divieto codicistico, ritenendo che si debbano prevedere delle eccezioni che rendano poroso tale divieto la cui impermeabilità assoluta ad alcune situazioni lo renderebbe costituzionalmente illegittimo.

Ad ogni modo, proprio il richiamo espresso che la Corte Costituzionale esprime nella sentenza 242/2019 in riferimento al principio personalistico che informa l’intero organismo della nostra Carta Fondamentale[29], conduce allo sviluppo di ulteriori perplessità intorno alla legittimazione di procedimenti di morte assistita, sia messa in essere sotto la specie del suicidio medicalmente o farmacologicamente assistito, sia essa messa in essere tramite la più “classica” eutanasia.

Se ci si appella al principio personalistico, che senza dubbio costituisce l’orizzonte di senso di tutto il quadro complessivo dei diritti, delle libertà e delle garanzie costituzionali nonché dell’ordinamento giuridico nel suo insieme e della stessa concezione dello Stato di diritto, occorre altresì intenderlo nel modo corretto, cioè in base alla fertile dimensione ontologica, e non in quello distorto, cioè in base ad una sterile prospettiva ideologica. La persona, infatti, non è né una qualifica esteriore, né una categoria transeunte, né un ruolo che si può assumere o desumere dalle concezioni politiche, sociali, economiche o di altra natura.

La dimensione personale indica l’accesso al radicamento metafisico dell’essere umano, poiché, proprio come ha notato Nikolaj Berdjaev, la persona «non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale»[30]. Ciò significa che la persona non può essere manipolata o alterata, non se ne può disporre, poiché, come ha cristallinamente osservato Romano Guardini, è essenzialmente irripetibilità (Einmaligkeit) in quanto «persona significa che non può essere presa in possesso, non può essere usata come mezzo, non può essere subordinata ad uno scopo […]. Non posso afferrare neppure me stesso»[31].

Questa, in fondo, è la lezione di un geometra del pensiero razionale di matrice illuministica quale è stato Immanuel Kant che per l’appunto ha evidenziato come «noi possiamo disporre del nostro corpo in vista della conservazione della nostra persona; chi però si toglie la vita non preserva con ciò la sua persona: egli dispone allora della sua persona e non del suo stato, cioè si priva della sua persona. Ciò è contrario al più alto dei doveri verso sé stessi, perché viene soppressa la condizione di tutti gli altri doveri»[32].

In virtù di ciò, quindi, si può ritenere, con una accorta dottrina, che «il richiamo ai diritti inviolabili dell’uomo ed al rispetto della persona non possono far ritenere legittima alcuna forma di eutanasia attiva che, alla luce del dettato costituzionale, risulta antigiuridica e, quindi, illegittima. Sotto il profilo strettamente costituzionalistico, quindi, il cosiddetto diritto di morire trova il suo ostacolo più forte proprio nel principio personalistico. Diverse, invece, sono le indicazioni che si possono trarre dalla Carta fondamentale circa la configurabilità di un diritto di rifiutare le cure e/o il cosiddetto divieto di accanimento terapeutico»[33].

Recuperata un’autentica concezione del principio personalistico si comprende che non è configurabile un diritto di morire, né un diritto al suicidio medicalmente assistito, né un diritto all’eutanasia, poiché se davvero è la persona il valore centrale dell’ordinamento giuridico di essa non si può disporre in quanto neanche essa può disporre di se stessa, venendo in rilievo così l’insegnamento prettamente giuridico e razionale di uno dei padri della scienza giuridica italiana quale è stato Francesco Santoro-Passarelli che ha giustamente osservato che «non esiste e non è neppure concepibile, malgrado ogni sforzo dialettico, un diritto sulla propria persona o anche su se medesimo, o sul proprio corpo, stante l’unità della persona, per la quale può parlarsi soltanto di libertà, non di potere rispetto a se medesima»[34].

  1. c) Profili sistematici: desta quanto mai stupore che la Corte Costituzionale – con l’ordinanza 207/2018 che ha preceduto di un anno la sentenza – abbia assegnato un “termine di adempimento” al Parlamento per legiferare, poiché in caso contrario sarebbe stata la stessa Corte ad agire in tal senso, come poi di fatto è avvenuto con la sentenza 242/2019. I dubbi si condensano non soltanto sulla circostanza per cui l’inerzia eventuale del Parlamento potrebbe anche essere espressione della legittima volontà del legislatore di non voler legiferare esercitando quella sua propria discrezionalità politica e giuridica che ontologicamente gli pertiene, per di più considerando che comunque una norma esisteva già (cioè per l’appunto l’articolo 580 c.p.) e che quindi non ci si trovava in un vero e proprio regime di vacatio legis[35], ma specialmente perché emerge con tutta evidenza il problema del cosiddetto “attivismo giudiziario”[36], secondo cui sono le corti –che sempre più spesso si sostituiscono al potere legislativo[37] – a creare o modificare l’ordinamento giuridico[38].

La questione, sebbene non possa essere affrontata in questa sede con la meritata ampiezza[39], pone inevitabilmente degli interrogativi urgenti intorno alla effettività del principio della separazione dei poteri[40], intorno all’ampiezza della portata decisoria della giurisprudenza[41], intorno alla legittimità giuridica e politica (rectius democratica) di un simile percorso intrapreso dalla giurisprudenza[42], nonché intorno al fenomeno di quella traslazione dell’intera o anche soltanto di una parte della sovranità da un potere rappresentativo come il Parlamento all’ordine giudiziario che, pur essendo per sua propria natura privo del carattere costitutivo della rappresentatività, avoca a sé altrui competenze come quella del legiferare[43].

 

  1. Conseguenze e prospettive

 

È opportuno adesso, seppur brevemente, effettuare, per rendere onore al principio di realtà, prima ancora che a quello di verità, una sintetica ricognizione sulle conseguenze e sulle prospettive a breve termine che nella sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale e nelle deliberande proposte di legge in tema di fine vita trovano diretta scaturigine.

In primo luogo, viene in risalto la conseguenza diretta, cioè emerge ancora una volta la tendenza della giurisprudenza non solo a forgiare nuove regole in modo del tutto arbitrario, ma anche a disattendere perfino quelle stesse regole dettate dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019. Proprio di recente la Corte di Assise di Massa ha emesso, in data 9 luglio 2020, la sentenza (che si allega alla presente relazione sotto la lettera “A”) con cui ha assolto il medesimo Marco Cappato nella vicenda giudiziaria riguardante la morte di Davide Trentini, estendendo la portata del pronunciamento della Corte Costituzionale e sancendo che «la dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale” non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza da una macchina» riconoscendo per di più «il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale» (par. 15.2, p. 30).

La sentenza della Corte Costituzionale, dunque, come conseguenza inevitabile ha avuto quella di legittimare una prassi giudiziaria in tema di morte assistita che è protesa a travalicare quegli stessi limiti fissati con la sentenza 242/2019, essendo il caso di Davide Trentini non analogo a quello di Fabiano Antoniani poiché quest’ultimo era del tutto impossibilitato a provvedere a se stesso, mentre Trentini necessitava soltanto di un aiuto per alcune delle mansioni quotidiane non essendo né alimentato, né idratato, né ventilato artificialmente.

Ancora sul piano delle conseguenze, sarebbe bene fare riferimento a quei contesti, come l’Olanda, in cui la morte assistita è già da tempo ampiamente legalizzata per comprendere la gravità delle scelte compiute arbitrariamente dalla giurisprudenza e da eventuali poco accorti legislatori che tali vie intendessero intraprendere. Non si può evitare di considerare, infatti, il recente studio pubblicato sul prestigioso e noto “British Medical Journal”[44], (che si allega alla presente relazione sotto la lettera “B”) il quale delinea con estrema chiarezza il capovolgimento in corso in Olanda in cui si sta transitando dalla morte assistita volontaria alla morte assistita involontaria; dalla morte assistita ex lege alla morte assistita contra legem; dalla morte assistita regolamentata alla morte assistita “selvaggia”; dalla morte assistita “liberale” alla morte assistita eugenetica.

Lo studio suddetto, infatti, ha preso in considerazione una trentina di casi di morte assistita praticata in Olanda, verificati a posteriori dalla commissione regionale prevista dalla legge olandese, scoprendo non solo che la verifica successiva non offre quelle garanzie e quella precisione che ci si aspettava di trovare, ma che addirittura nel 69% dei casi si sono registrate violazioni dei criteri procedurali previsti dalla legge e nel restante 31% si sono registrare violazioni dei criteri sostanziali. Gli autori dello studio chiariscono, altresì, che i criteri sostanziali, ricavabili dal testo della legge olandese, sono quattro: libero e consapevole consenso del paziente; valutazione e accertamento di una insopportabile sofferenza; informazione del paziente circa la sua situazione e la relativa prognosi; condivisione con il paziente circa l’inesistenza di alcun’ altra soluzione alternativa.

I criteri procedurali, invece, sono due: doppia diagnosi con la valutazione di un medico indipendente che deve visitare il paziente richiedente e rilasciare un parere scritto comprendente la valutazione sulla diligenza nei protocolli seguiti; l’esecuzione e l’adempimento dell’obbligo di cura anche per il paziente terminale che ha richiesto l’eutanasia o il suicidio medicalmente assistito. Più in concreto, gli autori dello studio hanno rilevato che:

– nel 13% dei casi non è stata accertata la volontarietà della richiesta dell’atto eutanasico;

– nel 16% non è stato accertato che la richiesta di eutanasia fosse correttamente valutata dal paziente e dal medico come richiede la legge olandese;

– nel 19% dei casi non è stata accertata l’insopportabilità della sofferenza;

nel 22% dei casi non è stata valutata una ragionevole alternativa.

Vi sono stati, inoltre, numerosi casi di consulenza ai pazienti non offerta da medici indipendenti, come pretende la legge olandese, ma da medici che appartengono o sono sponsorizzati dalle associazioni e organizzazioni che promuovono e difendono l’eutanasia e il suicidio assistito. Non a caso, rileva sempre il suddetto studio, vi sono stati casi che hanno coinvolto pazienti a cui non è stato diagnosticato il cancro o che non si trovavano in stato terminale, come per esempio pazienti affetti da morbo di Huntintgton, da morbo di Parkinson, dal morbo di Alzheimer e anche da patologie psichiatriche o, più “semplicemente”, con un passato di incidenti cerebrovascolari.

Gli autori dello studio, ritengono quindi che «i dati sollevano la questione se un sistema basato sulla revisione retrospettiva provvede ad una tutela adeguata dei pazienti particolarmente vulnerabili (come i pazienti psichiatrici e quelli incapaci), specialmente quando il medico che deve praticare l’eutanasia o il suicidio medicalmente assistito è sponsorizzato da organizzazioni che promuovono e difendono la stessa eutanasia e lo stesso suicidio assistito».

Sotto il profilo delle future prospettive non si può fare a meno di notare, altresì, la nuova tendenza diretta non soltanto alla legalizzazione della morte assistita come presunto diritto individuale, ma anche al suo sfruttamento professionale-commerciale. In questo senso la stessa Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019 ha chiarito che non si può cassare del tutto il divieto ex art. 580 c.p. poiché «in assenza di una specifica disciplina della materia qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti» (par. 2.4), evidenziando implicitamente che le occasioni di sfruttamento economico della morte assistita potrebbero eludere i controlli e soprattutto ledere i diritti dei più fragili.

Tuttavia, l’orientamento generale sembra essere favorevole, come dimostra la provocazione intellettuale e accademica di Roland Ripke il quale, in un articolo pubblicato sulla nota e prestigiosa rivista “Bioethics” nel 2015 (che si allega alla presente relazione sotto la lettera “C”), ha sostenuto non soltanto la legittimità del suicidio medicalmente assistito, ma soprattutto la legittimità dello sfruttamento commerciale del suicidio medicalmente assistito, tanto da concludere che chi sostiene moralmente e giuridicamente il suicidio medicalmente assistito senza condividerne l’utilizzabilità commerciale, dovrebbe rivedere la sua intera e globale posizione in merito[45].

Ciò che sembrava solamente una mera provocazione appena 5 anni or sono, tuttavia, è ben presto divenuto realtà, posto che già con la sentenza del 26 febbraio 2020 (che si allega alla presente relazione sotto la lettera “D”) la Corte Costituzionale tedesca ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto contemplato dal paragrafo 217 del Codice Penale tedesco, introdotto nel 2015, secondo cui è punito con la reclusione fino a tre anni chiunque, con l’intenzione di agevolare il suicidio altrui, professionalmente offra, procuri o medi l’occasione per suicidarsi[46].

La Corte Costituzionale tedesca ha di fatto liberalizzato lo sfruttamento commerciale della morte assistita. Vendere la morte, in una simile prospettiva, dopo l’emporio globale della procreazione artificiale, dopo il mercato dell’utero in affitto, potrebbe diventare il nuovo lucroso business che si svilupperà quanto prima in Occidente per rimpinguare le casse di quelle numerose “agenzie della morte” che ben presto sorgeranno un po’ dovunque. La morte rischia di diventare verosimilmente uno dei molteplici prodotti sui cui si incontreranno l’offerta dell’industria tanatofera e la domanda dei libertari tanatofili, in quell’aureo e “aurifero” laissez-faire etico-giuridico che minerà dalle fondamenta, per abbatterlo, l’edificio delle più basilari garanzie acquisite in secoli di tradizione giuridica occidentale.

In un simile panorama proprio l’autodeterminazione, per anni base etico-giuridica delle pretese legittimatrici della legalizzazione della morte assistita, viene a trovarsi del tutto sacrificata, come, del resto, dimostra il caso dell’Olanda che ha di recente esteso la pratica eutanasica anche ai minori non terminali di età compresa tra 1 e 12 anni[47]. Non a caso il quotidiano statunitense “Washington Post” – di tendenziale ispirazione progressista – ha denunciato già da tempo, in uno specifico reportage (che si allega alla presente relazione sotto la lettera “E”) dedicato all’eutanasia involontaria dei pazienti psichiatrici e dei soggetti incapaci che non possono scegliere autonomamente, in corso di legalizzazione in alcuni Stati del “vecchio continente”, la cosiddetta “crisi morale dell’Europa”[48].

 

  1. Conclusioni

 

Tutto ciò considerato viene alla luce quanto sia oramai radicata una falsa concezione del diritto, secondo la quale il diritto – sia nella sua fonte legislativa, sia nella sua foce giurisprudenziale – altro non è che il vuoto flusso alluvionale e formale di tutte le istanze socialmente e storicamente determinate, coincidendo, sostanzialmente, in una “banale” ratifica legale e pubblica del singolo arbitrio privato del cittadino, tanto individualmente quanto collettivamente considerato.

Eppure, già Immanuel Kant aveva avuto modo di mettere in guardia da una simile prospettiva intorno al diritto che ne penalizza la sostanza, la funzione e la dignità poiché «una dottrina del diritto puramente empirica è (come la testa di legno nella favola di Fedro) una testa che può essere bella, ma che, ahimè, non ha cervello»[49]. Anche più di recente, esponenti autorevoli del pensiero giuridico laico hanno chiarito che non bisogna confondere l’idea della natura del diritto con l’idea che esso debba semplicemente recepire e regolare il puro capriccio soggettivo; in questo senso Piero Calamandrei ha scritto, infatti, che «c’è il caso che l’inesperto e il dilettante (che è anche peggiore) di filosofia, si metta a proclamare che il diritto consiste unicamente nel far tutti quanti il comodo proprio»[50].

In conclusione, allora, non si può non riconoscere che l’ipotesi di configurare un diritto all’eutanasia sulla scorta di una interpretazione meramente formalistica, anti-aletica, del diritto comporta inevitabilmente l’eutanasia del diritto medesimo e della stessa figura e dignità del giurista, dimenticando la preziosa lezione di Flavio Lopez de Oñate per il quale «l’ufficio del giurista consiste non nel tirar fuori le leggi dall’ambiente storico in cui sono nate, per rilustrarle e collocarle in bella mostra, come campioni imbalsamati nelle loro scatoline ovattate[…], ma nel dare agli uomini la tormentosa, ma stimolante consapevolezza che il diritto è perpetuamente in pericolo, e che solo dalla loro volontà di prenderlo sul serio e di difenderlo a tutti i costi dipende la loro sorte terrena, ed anche la sorte della civiltà»[51].

 

* Testo dell’audizione informale di Aldo Rocco Vitale (docente di biogiuridica presso la Facoltà di bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum) che, nella seduta del 20 ottobre 2020 innanzi alle Commissioni riunite II e XII-Giustizia e Affari sociali della Camera dei Deputati, si è svolta, fra le altre, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge C. 2 d’iniziativa popolare, C. 1418 Zan, C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan, C. 1875 Sarli e C. 1888 Alessandro Pagano, in materia di rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia. Qui si riporta la relazione depositata, sintetizzata nel corso dell’audizione.

[1] N. Irti, Diritto senza verità, Bari, 2011, p. 11.

[2] J. Freund, Diritto e politica, Napoli, 1994.

[3] M. Scheler, Politica e morale, Brescia, 2011.

[4] S. Cotta, Il diritto come sistema di valori, Cinisello Balsamo, 2006.

[5] H. Lübbe, La secolarizzazione, Bologna, 1970.

[6] «Poiché la cultura laica dominante del nostro tempo si colloca dopo Dio, la riflessione morale laica non può che occuparsi di ogni cosa come se essa non venisse da nessuna parte, non andasse da nessuna parte e non avesse alcuno sbocco finale. Deve trattarsi, cioè, di una morale e di una struttura politica costruite come se moralità, vita morale, strutture politiche e stati fossero in ultima analisi privi di significato […]. Tutto è in definitiva privo di senso»: T. Engelhardt, Dopo Dio. Morale e bioetica in un mondo laico, Torino, 2014, p. 48.

[7] P. Häberle, Diritto e verità, Torino, 2000, p. 110.

[8] N. Irti, Nichilismo giuridico, Bari, 2005.

[9] E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1993, p. 27.

[10] A. Camus, Il mito di Sisifo, Milano, 2009, p. 7.

[11] Categoria ampia quella della “morte assistita” all’interno della quale in senso generale possono rientrare sia il fenomeno dell’eutanasia che quello parzialmente diverso del suicidio assistito: per approfondimenti tra l’immensa letteratura sul tema: Aa.Vv., Il diritto di essere uccisi: verso la morte del diritto?, a cura di M. Ronco, Torino, 2019; Aa.Vv., Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di F.S. Marini-C. Cupelli, Napoli, 2019; S. Amato, Eutanasie. Il diritto di fronte alla fine della vita, Torino, 2011; A. Bompiani, Dichiarazioni anticipate di trattamento ed eutanasia. Rassegna del dibattito bioetico, Bologna, 2008; G. Brambilla-P. Pavone, Prolegomeni al potere sovrano sulla vita: il diritto al suicidio, in Aa.Vv., Riscoprire la bioetica. Capire, formarsi, insegnare, a cura di G. Brambilla, Soveria Mannelli, 2020; F. D’Agostino, Bioetica e biopolitica. Ventuno voci fondamentali, Torino, 2011; M. P. Faggioni, La vita nelle nostre mani, Bologna, 2016; G. Fornero, Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, Torino, 2020; C. Lalli, Secondo le mie forze e il mio giudizio. Chi decide sul fine vita. Morire nel mondo contemporaneo, Milano, 2014; A. Pessina, Eutanasia, Siena, 2007; E. Roccella, Eluana deve morire, Soveria Mannelli, 2019; G. Rocchi, Licenza di uccidere, Bologna, 2019; A. R. Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, Milano, 2017.

[12] Ho già ampiamente approfondito la questione in A. R. Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, Milano, 2017, pp. 88-94.

[13] Cass. n. 21748/2007.

[14] V. Colacino, voce “Fictio iuris”, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1961, Vol. VII, p. 270.

[15] S. Pugliatti, voce “Finzione”, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1968, Vol. XVII, p. 673.

[16] F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio iuris, Padova, 1979, pp. 201-207.

[17] L. Marini, Il diritto internazionale e comunitario della bioetica, Torino, 2006.

[18] Da intendersi come standardizzazione globale delle pronunce giudiziarie su taluni temi, per esempio quelli bioetici, favorendo una rete globale dell’uniformità giuridica e giurisdizionale. Favorevole a questo orientamento ex plurimis cfr. A-M. Slaughter, Toward a Theory of Effective Supranational Adjudication, in “The Yale Law Journal”, Vol. 107, No. 2 (Nov., 1997), pp. 273-391; Anne-Marie Slaughter, A new world order, Princeton, 2004; contra, ex plurimis cfr.: Aa.Vv., The global expansion of judicial power, New York University Press, 1997; R. Hirschl, Towards juristocracy: the origins and consequences of the new constitutionalism, Harvard University Press, 2007.

[19] Come è stato autorevolmente evidenziato, si tratta di «situazioni in cui i giudici prendono l’iniziativa di consultare decisioni giudiziarie straniere quando nulla li costringerebbe a farlo; ovvero elaborano una sorta di tradizione giudiziaria per supplire ai silenzi del diritto positivo […]. La mondializzazione della giustizia funziona quindi come un principio di messa in rapporto, stando al quale nessuna corte può restare indifferente alle sue omologhe»: J. Allard-A. Garapon, La mondializzazione dei giudici. Nuova rivoluzione del diritto, Macerata, 2006, pp. 14-15, 28.

[20] https://bit.ly/38zNUXG

[21] https://bit.ly/2KFwFfJ

[22] https://bit.ly/2WN5nqk

[23] E. Furno, Il “caso Cappato”: le aporie del diritto a morire nell’ordinanza n. 207/2018 della corte costituzionale, in “AIC”, 2/2019, pp. 138-154.

[24] Cfr. L. Chieffi, Il diritto all’autodeterminazione terapeutica. Origine ed evoluzione di un valore costituzionale, Torino, 2019.

[25] https://bit.ly/2WJeUyB

[26] https://bit.ly/3hmc6B2

[27] https://bit.ly/2JkDSB6

[28] https://bit.ly/34LCf75

[29] «La disposizione denunciata violerebbe, per questo verso, gli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, i quali, sancendo rispettivamente il “principio personalistico” – che pone l’uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale – e quello di inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo»: Par. 1.1.

[30] N. Berdjaev, Schiavitù e libertà dell’uomo, Milano, 2010, p. 105.

[31] R. Guardini, Persona e personalità, Brescia, 2006, pp. 46-48.

[32] I. Kant, Lezioni di etica, Bari, 2004, pp. 170-171.

[33] I. Lagrotta, L’eutanasia nei profili costituzionali, Bari, 2005, p. 53.

[34] F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, p. 51.

[35] Bisogna ricorda in proposito la preziosa lezione di Norberto Bobbio sul tema delle lacune del diritto, per cui bisogna sempre essere molto cauti nel ritenere che la legge non sia completa e che possa essere integrata o disintegrata a piacere ope iudicis, poiché il dogma della completezza della legge, tipico di una concezione autenticamente liberale dello Stato e dell’ordinamento giuridico, è parte integrante del principio della separazione dei poteri: «Dogma della completezza e teoria della separazione dei poteri sono strettamente congiunti; infatti, soltanto là dove la produzione del diritto da parte del potere legislativo provvede una soluzione per tutti i casi possibili, il potere giudiziario può restare nei limiti della funzione che gli è assegnata di mera applicazione di regole precostituite; al contrario, una legislazione lacunosa è un argine aperto alla creazione del diritto da parte del giudice. Il valore liberale della completezza sta nel fatto che una legislazione, la quale non offra ai singoli giudici il pretesto di decidere caso per caso, garantisce il bene della certezza del diritto, e il bene della certezza è uno dei massimi pregi dello Stato di diritto»: N. Bobbio, Contributi ad un dizionario giuridico, Torino, 1994, pp. 92-93.

[36] La letteratura sul punto è quanto mai vasta come ampio è il tema; ex plurimis cfr. Aa.Vv., Judicial activism in comparative perspective, St. Martin’s Press, New York, 1991; P. Carrese, The cloaking of power. Montesquieu, Blackstone, and the rise of judicial activism, University of Chicago Press, 2003; J. Finnis, Judicial power: past, present and future, in “Oxford Legal Studies Research Paper”, 2/2016; K. Kmiec, The origin and current meanings of “Judicial Activism”, in “California Law Review”, Vol. 92, no. 5 (Oct., 2004), pp. 1441-1477; R. Leishman, Against judicial activism: the decline of freedom and democracy in Canada, McGill-Queen’s University Press, Montreal, 2006; K. Roosevelt, The myth of judicial activism: making sense of supreme court decisions, Yale University Press , Yale, 2008; C. Wolfe, Judicial activism: bulwark of freedom or precarious security?, Rowman & Littlefield, Lanham, 1997.

[37] Perfino la parte della dottrina che ha accolto con favore generale la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale non ha potuto nascondere l’imbarazzo e le perplessità delle modalità seguite, poiché “l’interventismo suppletivo” della Corte comporta «rischi per l’equilibrio fra i poteri e per la possibile strumentalizzazione del “ricorso al giudice” che queste azioni portano inevitabilmente con sé»: M. D’Amico, Il “fine vita” davanti alla Corte Costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242/2019), in “AIC”, 2/2020, pp. 286-302.

[38] G. Razzano, La Corte costituzionale sul caso Cappato: può un’ordinanza chiedere al Parlamento di legalizzare il suicidio assistito?, in Dirittifondamentali.it, 1/2019, pp. 1-25.

[39] E. Falletti, Suicidio assistito e principio di separazione dei poteri dello stato. Alcune osservazioni a margine della ordinanza 207/2018 sul “caso Cappato”, in www.europeanrights.eu, 1 gennaio 2019; A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in Consulta Online, III/2018, pp. 571-575; M. E. Ruggiano, La “leale collaborazione tra i poteri” ha ultimato la sua parabola. Brevi considerazioni a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 14/2020, pp. 132-149; C. Tripodina, Il “potere politico” della corte costituzionale e i suoi limiti, in Aa.Vv., La Corte Costituzionale vent’anni dopo la svolta, Torino, 2011, p. 134 ss.; C. Tripodina, Incertezze generate da giudici che disconoscono i vincoli della testualità, in Aa.Vv., a cura di M. Dogliani, Il libro delle leggi strapazzato e la sua manutenzione, Torino, 2012, p. 134 ss.

[40] «Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore»: C. De Secondat Barone di Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, Torino, 2005, II, XI, Vol. 1, pp. 276-277; per una più estesa trattazione del tema cfr.: G. Silvestri, La separazione dei poteri, Milano, 1979.

[41] «Il giudice neppure costituzionale può farsi legislatore e assumere decisioni politiche, che a lui non competono, né il legislatore può immaginare di oscillare tra l’essere latitante, come nel fine vita, e poi quando invece interviene, come nella procreazione assistita, tutto ricomprendere per stringere al proprio volere lo spazio di necessaria interpretazione giudiziaria. La formazione di un vasto diritto giurisprudenziale in materia bioetica è un fenomeno evidente ed è anche espressione, come rilevato, di un processo di costituzionalizzazione dei diritti della persona a livello europeo, nel quale l’apporto del diritto di creazione giurisprudenziale è decisivo»: A. Patroni Griffi, Le regole della bioetica tra legislatore e giudici, Napoli, 2016, p. 51.

[42] «è troppo frequente oggigiorno il caso di controversie giudiziarie su problemi di tale importanza sociale, e talmente esposti al severo giudizio critico della collettività, da non poter essere risolte, né poter apparire di esserlo, mediante sottili esercizi di semantica o abili giochi di speculazione astratta; troppo frequentemente le scelte del giudice sono divenute evidenti non soltanto all’esperto, ma anche all’uomo della strada. È proprio per impedire che tali scelte siano puramente soggettive, e per renderle più responsabili e quindi anche più democratiche, che esse non debbono essere occultate per mezzo di contorsioni logiche e verbali. In una società aperta e democratica le ragioni reali di ogni scelta giudiziaria debbono essere palesi […]. Come scrisse Alessandro Pekelis circa quarant’anni or sono, tutto ciò che richiede un moderno sistema di giurisprudenza – quella che egli chiamò “welfare jurisprudence” – è che laddove il processo di creazione del diritto è di fatto completato dalle corti, queste agiscano secondo il loro vero ruolo, e non già secondo una falsa favola che ci darebbe, anziché un effettivo Stato di diritto, un governo mascherato e irresponsabile»: M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Milano, 1984, pp. 118-119.

[43] «I giudici attivisti sono quei giudici che emettono sentenze senza alcuna connessione plausibile con la legge che dichiarano di applicare, o che deformano e perfino contraddicono il significato di tale legge giungendo a conclusioni basate su principi neanche lontanamente contemplati da coloro che l’hanno scritta e votata. Ciò avviene generalmente quando tale legge è una Costituzione, probabilmente perché, dal momento che il suo linguaggio tende ad essere generico, un’interpretazione giudiziaria manipolativa resta immune da ogni rettifica del legislatore o del popolo»: R. Bork, Il giudice sovrano, Macerata, 2007, pp. 18-19.

[44] Cfr. A. R. Vitale, Introduzione alla bioetica, Fano, 2019, pp. 51-54.

[45] R. Ripke, Why not commercial assistance for suicide?, in Bioethics, 7/2015.

[46] https://bit.ly/3aHYwq2

[47] https://bit.ly/3pictzc

[48] https://wapo.st/3mMahy5

[49] I. Kant, La metafisica dei costumi, Bari, 1973, p. 34.

[50] P. Calamandrei, Fede nel diritto, Bari, 2008, p. 69.

[51] F. Lopez de Oñate, La certezza del diritto, Milano, 1968, p. 190.