Mauro Ronco
Professore Emerito di Diritto penale
Università di Padova

 

 

Sommario: 1. Sicurezza pubblica: perché è importante coglierne il significato – 2. Le responsabilità dei quadri alti della società – 3. L’ordine pubblico – 4. La droga e la tutela della salute della collettività – 5. La mercificazione della sessualità ‒ 6. L’educazione a livello scolastico ‒ 7. Il valore della sicurezza pubblica

 

  1. Sicurezza pubblica: perché è importante coglierne il significato

 

Nella società libertaria e relativista in cui viviamo l’ordine e la sicurezza pubblica godono di una ben scarsa reputazione. Il potere reale si è smaterializzato, concentrandosi nell’esercizio di una influenza di tipo impersonale sulle persone. Per altro verso, le classi popolari e, progressivamente, anche le classi medie sono private dell’autonomia economica per via dell’indebitamento necessario per la soddisfazione dei desideri indotti dal condizionamento ossessivo per il consumo di beni e di servizi spesso superflui.

La sicurezza pubblica è divenuta soltanto più un’esigenza popolare cui il potere non intende rispondere, vuoi perché, sul piano ideologico, ripristinare la sicurezza costringerebbe a mettere in discussione il libertarismo e il relativismo, vuoi perché imporrebbe l’impiego di risorse in vari settori dall’esperienza sociale e politica – soprattutto sul piano educativo – che il potere finanziario, egemone su quello politico, non consente vengano impiegate. Peraltro, è lo stesso potere finanziario globale, quello che governa ad alto livello i mercati del divertimento, del gioco, della droga, della prostituzione e della pornografia, ad alimentare i fenomeni che scardinano le basi sociologiche della sicurezza pubblica. I media, appartenenti nella quasi totalità agli esponenti del potere finanziario globale, discreditano perciò l’istanza popolare alla sicurezza, o svalutandola nella sua effettiva urgenza, ovvero ‒ ormai sempre più spesso – demonizzandola come espressione di odio fobico verso le manifestazioni più evidenti dei fenomeni che determinano l’insicurezza pubblica.

I movimenti di tipo politico-sociale che si fanno latori dell’istanza relativa alla sicurezza pubblica vengono discreditati dai media mainstream come latori di conflittualità sociale – atteso che per ri-muovere i maggiori pregiudizi alla sicurezza occorrerebbe contrastare con determinazione i fenomeni che più evidentemente la mettono a rischio – o, addirittura, come portatori di istanze razzisti-che – atteso che in frequenti occasioni occorrerebbe intervenire con decisione per combattere le associazioni criminali straniere che hanno il monopolio del traffico della droga a livello di strada, nonché per regolare i flussi migratori provenienti da paesi esteri.

In queste condizioni il problema della sicurezza pubblica sembra divenire irrisolvibile. Le classi agiate, che vivono in quartieri più riservati, patiscono meno gli effetti del collasso della pubblica sicurezza. Le classi popolari, invece, soffrono incomparabilmente di più. Non soltanto perché sono le vittime primarie dell’assenza di sicurezza, ma anche perché divengono esse stesse – soprattutto nelle fasce giovanili che le compongono – parte del problema. È invero drammatico vedere quanti adolescenti e giovani delle periferie urbane si lascino attrarre dallo “sballo” della droga, dal sesso violento e ondivago; dalla prevaricazione “bullistica” e dalla mercificazione di ogni rapporto umano, con la conseguente frantumazione del rapporto tra i genitori e i figli e con tendenziale sparizione dello stesso nucleo familiare.

 

  1. Le responsabilità dei quadri alti della società

 

Sembra inutile risalire alle cause che hanno determinato l’attuale triste condizione, che accomuna la gran parte dei paesi occidentali, tanto esse sono evidenti: il costume libertario; il relativismo morale, il modello edonistico e consumistico, nonché il culto della prevaricazione violenta, diffusi incessantemente dai media e moltiplicati nei loro effetti dai “social”, ossessivamente utilizzati, sì da determinare la violazione di ogni intimità nei rapporti umani e il disprezzo delle relazioni fonda-te sull’amore e sull’amicizia. Sembra invece utile delineare meglio il valore oggettivo della sicurezza pubblica. Ciò perché sfugge a molti, insieme al suo significato profondo, anche l’esigenza che tale valore sia messo al centro di un programma politico di rinnovamento morale e sociale del Paese.

Non va dimenticato, invero, che il collasso della sicurezza pubblica è stato spesso favorito da categorie professionali che avrebbero avuto il compito primario di farsi promotrici di cultura e di educazione civica verso l’intera popolazione, contenendo così i fattori causali della disgregazione sociale. Al primo posto tra le categorie responsabili della dissoluzione attuale del civismo sta sicura-mente la categoria dei giuristi, vuoi nella componente accademica, vuoi nelle componenti della magistratura e dell’avvocatura.

Prenderò in esame quattro aspetti cruciali che attengono in senso lato alla sicurezza pubblica e che ne costituiscono le premesse essenziali: i) l’ordine pubblico; ii) l’integrità della salute fisica e psichica della collettività; iii) il buon costume e iv) la serietà ed efficacia dell’educazione scolasti-ca degli adolescenti. La classe politica, almeno a partire dal 1968, ha consegnato la tutela dei primi tre aspetti al controllo della norma penale, trascurando la cura attenta dell’aspetto educativo, non meno importante dei primi tre. L’accademia universitaria e la magistratura hanno destrutturato il controllo penale con motivazioni spesso capziose. Al venir meno di tale controllo nessuna misura amministrativa ha sostituito il vuoto di tutela che si è spalancato, lasciando libero corso alle tendenze e alle forze eversive.

 

  1. L’ordine pubblico

 

Inizio con il tema dell’ordine pubblico che, nel codice vigente, riceve tutela dagli articoli 414 – 421 del codice penale. Questa categoria è stata implementata nel 1982 con l’introduzione della fattispecie dell’associazione mafiosa, che metto in disparte, non perché non abbia a che fare con la sicurezza pubblica, bensì perché la diffusione della mafiosità è uno tra gli effetti più gravi della cura negligente, per lunghi anni, da parte delle istituzioni, della sicurezza pubblica.

Attraverso un’interpretazione estremamente raffinata, la dottrina dominante negli ultimi decenni del secolo scorso ha sostanzialmente delegittimato le disposizioni di legge codicistiche, favorendone un’interpretazione a tal punto riduttiva da farne un ferro vecchio che la magistratura avrebbe potuto tranquillamente consegnare all’oblio.

Cito per tutti uno studioso penalista di notevole spessore scientifico, Carlo Fiore, che ha redatto la voce “Ordine pubblico (dir. pen)” nel XXX volume dell’Enciclopedia del diritto apparso nel 1980. A suo avviso il codice tutelerebbe: «Sotto la copertura delle esigenze di tutela dell’’ordine pubblico’ […] istanze di controllo sociale e di repressione ideologica». Ciò sarebbe «tanto più rilevante, in quanto il sistema delle incriminazioni esibisce già tutta una serie di disposizioni che colpiscono ipotesi di istigazione, apologia e propaganda politica, ritenute pericolose per la “sicurezza dello Stato”». Verrebbe in questione, dunque, non: «l’ordine pubblico come concetto empirico, cioè come “buon ordine esteriore e sensibile” (pubblica tranquillità), ma appunto quella sua determinazione che fa capo al concetto dell’ordine pubblico “ideale”, o “normativo” e che tende ad elevare ad oggetto di tutela l’intero corpus delle norme giuridiche; o almeno quei princìpi e quelle istituzioni, alla cui continuità e immutabilità si vuole sia affidata la sopravvivenza della comunità organizzata» (Fiore, op. cit., p. 1093).

È evidente che, così impostato il tema giuridico dell’ordine pubblico e ridotto lo stesso a strumento di copertura delle classi politiche ed economiche dominanti, le previsioni normative vengono destituite di ogni legittimità. E, infatti, come più sopra si è accennato, la magistratura avrebbe fatto nel tempo un’applicazione sempre più rara di tali disposizioni, paralizzando fin dall’origine gli eventuali procedimenti penali e scoraggiando la polizia di sicurezza dal presentare denunce di carattere penale.

La ricaduta dell’interpretazione riduttiva dell’ordine pubblico sulla vita sociale, fin quasi a farne una quantité negligeable nell’economia ordinamentale, è di portata incalcolabile. Valga un esempio tra i tanti possibili. Se l’istigazione a delinquere (art. 414 c.p.), o l’istigazione a disobbedire alle leggi (art. 415) – tradizionali reati contro l’ordine pubblico – vengono delegittimati in quanto espressione del potere stabilito a impedire il libero dibattito istituzionale, ne scaturisce come immeditata conseguenza la piena ammissibilità dell’istigazione rivolta indiscriminatamente a tutti di invadere gli stabili pubblici o privati provvisoriamente non occupati. Di fatto, l’invasione di terreni ed edifici, effettuata a seguito dell’istigazione dei gruppi sociali eversivi, è stata per lunghi anni tollerata dalla magistratura inquirente, come logica conseguenza della ritenuta mancanza di dannosità sociale della propaganda istigatrice. Come ritenere punibile un fatto commesso su istigazione di un centro sociale anarcoide, se coloro che se ne sono fatti propagandisti sono ritenuti esenti dalla repressione penale in quanto avrebbero agito per smuovere l’immobilità delle istituzioni pubbliche?

In questo modo, negli ultimi trent’anni, in tutte le grandi città italiane, gruppi di occupanti abusivi, facenti capo alle sigle dell’anarchia o dell’estremismo politico, si sono installati negli edifici siti in varie parti dell’area urbana, ove hanno sviluppato impunemente attività di proselitismo pseudo-politico e compiuto sistematicamente azioni dimostrative, corredate dalla vandalizzazione degli arredi stradali e dal deturpamento dei palazzi. Le forze di polizia sono state obbligate in questo modo all’opera defatigante, gravante sul bilancio dello Stato, di proteggere gli obiettivi prescelti da questi gruppi di facinorosi.

La sicurezza e l’ordine pubblico hanno, poi, patito pregiudizi immensi dalla tolleranza – rectius: dalla connivenza – delle istituzioni cittadine, che non hanno voluto inimicarsi, per quieto vivere, o talora per una vaga consonanza di idee, gli sfaccendati scellerati dei gruppi sociali.

L’input culturale è però di provenienza accademica; la risposta adesiva viene dalla magistratura inquirente; le forze di sicurezza rimangono paralizzate; le amministrazioni comunali sono costrette a divenire accondiscendenti per evitare danni più gravi; la cittadinanza patisce impotente l’occupazione degli spazi pubblici o privati sottratti alle legittime destinazioni. Lo stesso tipo di vicende sono accadute per quanto attiene alla tolleranza dell’immigrazione illegale, su cui non mi soffermo per ragioni di brevità e per non tornare su un tema che è oggi ampiamente trattato.

Non è in questione tanto un problema di condanne penali, quanto un fondamentale aspetto simbolico di comunicazione sociale. Se l’ordine pubblico è lo strumento di copertura del potere e non un bene essenziale della comunità politica nel suo insieme, è ovvio che i rappresentanti dell’ordine pubblico nella società – in particolare le forze di sicurezza – non sono più visti come espressione dell’autorità statale che opera nell’interesse comune, bensì come l’antagonista sociale della protesta e della contestazione, anche violenta, dell’ordine costituito.

Gli effetti di deperimento della pace sociale vanno osservati su due distinti versanti: per un verso, è inevitabile l’offuscamento di identità negli esponenti delle forze dell’ordine; per un altro, si trova implementata la tracotanza con cui i contestatori dell’ordine politico e sociale provocano continui conflitti violenti con le leggi e con l’insieme dell’ordinamento giuridico.

 

  1. La droga e la tutela della salute della collettività

 

Proseguo con il secondo aspetto, concernente l’integrità della salute fisica e psichica della collettività. Viene qui in considerazione la prevenzione dell’uso delle droghe, tanto “pesanti”, quanto “leggere”. V’è un bene essenziale in gioco, la salute, soprattutto delle giovani generazioni. La tutela della salute è un dovere costituzionale dello Stato, previsto dall’art. 32 della Costituzione.

In questo settore la classe politica ha consegnato ogni compito alla repressione della magistratura. All’evidente impossibilità di contenere il fenomeno per questa via, i governi hanno aperto progressivamente la via all’uso personale degli stupefacenti. Poi, per via di interpretazioni giurisprudenziali ampliative, soprattutto da parte dei giudici di merito, l’uso personale è diventato uso di gruppo; è diventata lecita non la semplice detenzione di qualche dose, ma anche di quantità significative come scorta per l’uso. Insomma, lo scopo è liberare il consumatore dal rischio di recarsi di volta in volta all’acquisito, così anche la scorta mensile è diventata detenzione lecita. Ciò implica evidentemente un favore verso il consumo.

La magistratura ha portato l’attenzione, con inchieste brillanti e impegnative, sui trafficanti di ingenti quantità di stupefacenti. E sicuramente la cosa è stata necessaria e utile. Ma il problema sociale più grave delle droghe è soprattutto il consumo, non tanto il traffico. La sostituzione dei vertici del traffico è rapida. I gregari surrogano immediatamente i capi arrestati in una corsa per il potere e il denaro che è tipica dei predatori seriali. Un’analisi economica elementare spiega che la domanda è decisiva nell’implementare qualsiasi traffico economico. Quasi nulla è stato fatto dai governi e dalle pubbliche istituzioni per combattere a livello preventivo la dilatazione della domanda. Anzi, sul piano simbolico della comunicazione si è diffusa un’ideologia, molto attiva sul piano politico e sostenuta anche da molti appartenenti alla categoria dei giuristi, soprattutto a livello accademico, che invoca con determinazione la depenalizzazione del traffico delle cosiddette droghe leggere.

A livello preventivo è quasi scomparso lo sforzo, tanto sul piano legislativo quanto della polizia amministrativa, di prevenzione. E si è diffusa l’ideologia della diminuzione del danno, praticata nei centri di disintossicazione pubblici, secondo cui ciò che conta non è il recupero integrale della salute e delle normali capacità lavorative del tossicodipendente, quanto la sua convivenza opportunistica con lo stupefacente, regolata secondo criteri che rendono difficile anche solo lo stentato acclimatamento alle esigenze lavorative.

Anche per questo aspetto, l’input alla svalorizzazione del controllo preventivo e repressivo dell’uso degli stupefacenti è di provenienza accademica. Nel 1990 pubblicai un libro sul tema proponendo non la punizione del consumo in quanto tale, bensì l’imposizione al consumatore sistematico e abituale – il cosiddetto tossicodipendente –, dietro minaccia di una sanzione amministrativa di tipo interdittivo, di procedere alla propria cura e alla propria riabilitazione, vuoi in strutture scelte liberamente vuoi in quelle finanziate con investimenti pubblici, purché condotte con serietà e mirate all’abbandono effettivo del vizio. Fui guardato in accademia con grande sospetto. In realtà l’idea soggiacente ai vari progetti liberalizzatori, non disapprovati in ambiente accademico, è che lo Stato non ha titolo per ostacolare il consumo di droghe. La scelta in questo senso sarebbe il contenuto del diritto di autodeterminazione del soggetto, il quale – come avrebbe il diritto di non curarsi – così avrebbe il diritto di rovinare la propria salute.  Ostacolare, anche se indirettamente, la scelta sarebbe lesivo del diritto di libertà della persona; sarebbe un indebito intervento paternalistico sulla sua autodeterminazione. Sarebbe, in definitiva, una violazione illiberale dei diritti dell’uomo!

Su questo input concettuale, diffuso nelle Università e negli ambienti che incidono sul costume dei cittadini – nel cinema, nella televisione, nella letteratura, nelle cronache culturali dei media mainstream – è nata la controcultura della droga, i cui effetti hanno devastato la salute di un numero elevatissimo di giovani. Il danno alla sicurezza pubblica, pur indiretto rispetto al danno diretto alla salute, è stato ingente. Invero, la necessità cogente dell’approvvigionamento di droga implementa il traffico dei pusher nelle strade delle città, creando preoccupazione e timore nella popolazione anziana e inducendo in tutti, soprattutto nei giovani, la convinzione che drogarsi sia una cosa assolutamente normale, in quanto tollerata dal diritto.

 

  1. La mercificazione della sessualità

 

Il terzo aspetto concerne la mercificazione del sesso, con i correlati fenomeni della pornografia, dello sfruttamento delle persone vulnerabili e con l’incremento dei delitti, anche violenti, a sfondo o per motivazione di carattere sessuale. Il punto di partenza del degrado è la liberalizzazione della pornografia. Essa provoca la mercificazione del sesso; questa la rottura dei rapporti familiari; questa l’introduzione frequente delle violenze nelle relazioni sessuali. I gradini ulteriori sono le pratiche di sesso estremo, sempre legate alla violenza e spesso al pregiudizio per la salute, l’anticipazione all’età preadolescenziale dei rapporti sessuali, il voyerismo, il travestitismo e, infine, la vera e propria pedofilia.

Tutti questi fenomeni non si arrestano alla sfera meramente individuale di chi se ne fa autore; ma invadono via via le varie relazioni sociali e degradano la stessa vita collettiva. La pornografia infatti richiede attori per soddisfare i consumatori. Per reclutare i primi occorrono il denaro o la droga; il mercato si dilata e determina l’estensione dei traffici e il commercio di donne e minori che, come schiavi, vengono portati sui mercati più ricchi per fornire il costante approvvigionamento della “materia prima” umana. Dopo lo sfruttamento intenso, questa viene abbandonata come scarto di lavorazione nell’inferno della droga o negli abissi della prostituzione di strada.

Sul piano giuridico il punto di partenza del processo è stata la completa svalutazione del concetto di buon costume, che pure avrebbe dovuto godere di buona fama, siccome espressamente riconosciuto dall’ultimo comma dell’art. 21 della Costituzione, che suona così: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”. Si tratta forse della norma costituzionale più negletta dalla giurisprudenza.

Anche qui all’avanguardia della destrutturazione normativa sta l’accademia. All’origine del processo sta il lavoro, ritenuto scientifico, elaborato nelle officine universitarie. Il testo che ha provocato l’abbandono del contrasto alla pornografia fu pubblicato nel 1984 da un autore – Giovanni Fiandaca – di non piccolo rilievo nel panorama dei penalisti italiani: “Problematica dell’osceno e tutela del buon costume”. La premessa dell’autore è che l’immoralità, pur quando si esprima in rappresentazioni oscene, non può essere oggetto di repressione in uno Stato democratico (pp. 99-103). Occorre verificarne almeno la dannosità sociale. In questa prospettiva la dannosità non potrebbe essere ravvisata nell’offesa ai sentimenti, come riflessi psicologici delle concezioni etiche, in quanto nella società pluralistica non sarebbe dato riscontrare regole di etica sessuali tali che la “loro violazione sia seriamente capace di mettere in forse le condizioni della coesistenza pacifica” (op.cit. p. 105). Onde la tutela del buon costume andrebbe reinterpretata nella prospettiva della tutela della libertà personale, come complemento del sistema di tutela della libertà della persona (op. cit. p. 107).

A questa stregua le varie condotte contemplate dall’art. 528 c.p. (Pubblicazioni e spettacoli osceni) sarebbero ben lungi dal realizzare una vera e propria aggressione al bene tutelato dalla norma, che sarebbe, così come ricostruito, la libertà personale. Onde il precetto penale sarebbe affetto da un vizio definibile come di eccesso di tutela (op.cit. p. 112). Per eliminarlo, occorrerebbe «escludere tutte le condotte preparatorie [alla rappresentazione pubblica dell’osceno] dall’ambito del penalmente rilevante» e «circoscrivere il controllo penale ai comportamenti capaci di aggredire in concreto il bene protetto». Anche, la sfera di applicazione dovrebbe essere limitata alle condotte che integrano la messa in circolazione o esposizione di scritti e immagini oscene «in assenza di adeguati segnali informativi predisposti ad hoc» (op. cit. p. 112). Senonché, secondo Fiandaca, anche questo step dovrebbe essere superato. Infatti, alla luce della pedagogia psico-analitica sembrerebbe a suo avviso emergere un modulo di «“uomo psicologico” tendenzialmente capace di confrontarsi in maniera più razionale con le stesse proibizioni ancestrali» (op. cit. p. 115). Allora, di fronte al «processo di maturazione emotiva potenzialmente estensibile a tutti gli uomini, sempre più sradicandosi dall’inconscio collettivo» (op. cit., p. 115), apparirebbe l’incongruità di continuare a sopravvalutare il diritto dell’individuo a non essere investito, senza previo consenso, dalla visione di atti o immagini a contenuto erotico. Mantenere il controllo penale a tutela del diritto al riserbo sessuale significherebbe correre il rischio di «trasformare il legislatore in supino osservante di istanze tabuistiche che appartengono, ormai, alla preistoria del nostro retroterra culturale» (op. cit., p. 116).

La normativa sull’osceno, ultimo antemurale di protezione contro l’invadenza della pornografia, è così stata integralmente destrutturata. La normativa amministrativa e poi la giurisprudenza penale si sono adeguate. Dapprima, le immagini e le proiezioni pornografiche potevano circolare liberamente soltanto se precedute dall’avviso ipocrita: «questa è una rappresentazione pornografica»; successivamente anche questo velo è scomparso e la pornografia ha potuto svolgere l’opera di degradazione del valore cruciale della riservatezza sessuale ‒ valore intimamente e strettamente personale ‒ che è il custode profondo di una sessualità non potestativa e non mercificata, ovvero di una sessualità capace di liberare le più nobili inclinazioni dell’individuo, in specie l’inclinazione al dono di se stesso agli altri, in primis a colui o colei con cui si è legati stabilmente dall’intimo vincolo carnale.

Mi restano due osservazioni. La prima relativa alla descrizione ideologica del modello contemporaneo dell’uomo ormai emotivamente maturo, capace di confrontarsi razionalmente con le proibizioni ancestrali. Se si porta uno sguardo realistico sul mondo circostante e, in particolare, sulla mercificazione della sessualità in Occidente, ci si rende conto che la cosiddetta liberazione dai “tabù” ancestrali ha scatenato gli impulsi più primitivi legati all’uso senza limiti del sesso cosificato. Il connubio sempre più stretto tra il sesso e la violenza, che caratterizza una parte non piccola dell’esperienza contemporanea, è il frutto evidente della lacerazione, anche a livello subcosciente, del concetto fondamentale di limite razionale alle pulsioni incontrollate ed egoistiche, che provoca lo scatenarsi libero dell’autodistruttività dell’umano. L’aspettativa di Fiandaca circa l’apparire di un uomo finalmente maturo, perché si è liberato dai tabù ancestrali, induce oggi a riflettere con amara ironia sulla fallacia di certe pedagogie psico-analitiche, accolte improvvidamente dagli studiosi di diritto!

La seconda osservazione riguarda l’assoluto oblio che la magistratura ha riservato alla tutela del bene della riservatezza sessuale. Trascuro il fatto della disapplicazione degli artt. 527 e 528 del codice. Ma molte volte mi sono domandato perché non siano state svolte inchieste sui centri di produzione della pornografia per i delitti di sfruttamento della prostituzione e di associazione per delinquere, oltre che per le varie violazioni amministrative, previdenziali e tributarie, che sono strettamente e necessariamente legate alla produzione pornografica. Sono scientificamente certo, invero, che il produttore, che vende a proprio profitto la prestazione pornografica degli attori, sia un tipico sfruttatore della prostituzione di questi, i quali, infatti, dietro pagamento, si esibiscono nelle rappresentazioni oggetto di vendita. Sfruttatore non è soltanto colui che prende direttamente il denaro dal prostituito, ma anche chi lo ricava dalla prostituzione altrui, sebbene lo riceva direttamente non dal prostituito bensì da chi abbia fruito della prestazione sessuale.

 

  1. L’educazione a livello scolastico

 

Un quarto settore critico concerne l’annichilimento del profilo propriamente educativo della funzione scolastica, che è residuata soltanto nel profilo dell’istruzione. Anche questo tema meriterebbe un adeguato approfondimento. Mi limito a tre osservazioni: la prima, che purtroppo le generazioni di insegnanti formatesi nel clima pregiudizialmente contrario all’esercizio di una vera autorità raramente sono in grado di contribuire alla formazione di uomini e donne che accolgano con fermezza i valori di sacrificio, di serietà e di solidarietà.

La seconda, che il disordine burocratico e il livello modestissimo della retribuzione degli insegnanti hanno provocato in essi un senso di frustrazione, nonché lo smarrimento di un’identità sociale autorevole che sia riconosciuta e riconoscibile dall’intera società.

La terza, che la democratizzazione dell’intera struttura scolastica, invece di favorire un dialogo costruttivo tra gli insegnanti e le famiglie, ha spesso determinato l’invadenza dei soggetti più facinorosi nel rapporto con gli insegnanti, tanto da demoralizzarli e da impedire loro di svolgere il ruolo educativo che costituisce l’ossatura del servizio educativo. Gli effetti sono stati la svalorizzazione del ricco universo della docenza scolastica; l’appiattimento sul piano del merito dei bravi e dei meritevoli con gli immeritevoli, e, infine, nei casi peggiori, l’emergere di quei fenomeni di “bullismo” che contribuiscono all’abbattimento della sicurezza e dell’ordine pubblico.

 

  1. Il valore della sicurezza pubblica

 

Il quadro descritto nelle pagine precedenti è complesso e inquietante. I rimedi ai pregiudizi causati alla collettività dall’oblio o, spesso, dal disprezzo del valore della pubblica sicurezza sono né semplici né di immediata applicazione. Certo, non vanno spregiati interventi anche di modesta portata, che però incidano sulle varie fonti della disgregazione sociale o, almeno, che ostacolino ulteriori aggressioni al bene della salute e della sicurezza pubblica. Arrestare, per esempio, la corsa verso la liberalizzazione totale delle droghe cosiddette leggere, che tali non sono sia perché hanno effetti di destabilizzazione fisio-psichica della persona, sia perché costituiscono il tramite per l’iniziazione all’uso delle droghe cosiddette pesanti, è cosa molto positiva, sia in sé e per sé, sia come segnale di un cambiamento di rotta programmatica dei governanti.

Tuttavia, il problema è eminentemente di carattere culturale. Per questo motivo ho additato la provenienza accademica degli input che negli ultimi trent’anni hanno avviato o accelerato la destrutturazione della sicurezza pubblica. Essa non è un’appendice esteriore, di carattere meramente penale-amministrativo, della comunità statale e sociale, bensì una dimensione intrinsecamente necessaria a qualsiasi società che intenda contribuire a che i propri componenti realizzino appieno i loro fini temporali nella concordia civile.

Il semantema sicurezza sociale designa un ventaglio di situazioni ideali, che hanno un fondamento in re, ricollegabile a tre nuclei concettuali essenziali, predicabili in ordine all’individuo e, per analogia intrinseca, alla società. Essere sicuro rinvia a tre nuclei significativi: i) essere stabile nell’ordine dell’essere, non essere minacciati da turbamenti esogeni alla permanenza dell’io nell’esistenza; ii) essere certo a riguardo dell’ordine sociale, soprattutto con riferimento alla prevedibilità dello svolgersi delle relazioni con le altre persone tanto nella dimensione orizzontale di con-cittadinanza, quanto nella dimensione verticale della relazione del singolo con la comunità politica sub specie iuris, nonché alla certezza delle norme e alla prevedibilità della loro applicazione; iii) essere fiducioso, sia in senso passivo, di poter contare sulla fiducia degli altri, che in senso attivo, di aver fiducia negli altri, nella solidarietà che ci si aspetta dall’ordinamento giuridico  e dal reticolo dei rapporti sociali come corrispettivo dinamico dello spontaneo adeguamento alle regole giuridiche e sociali.

I valori evocati implicano tre ordini di esperienze: i) l’esperienza di un ordine a cui è inerente un potere che gli fornisce stabilità; ii) l’esperienza dei valori comunitari della solidarietà, della cooperazione e della condivisione; iii) l’esigenza dei valori strettamente inerenti alla tranquillità della persona: pace, concordia, alla cui base sta il rispetto della dignità reciproca e dell’uguaglianza essenziale delle persone.

La sicurezza è predicata direttamente con riguardo alla persona e in via analogica alla società. Questi valori sono oggetto di esperienza nell’ambito di una struttura sociale in cui l’individuo conduce l’esistenza sentendosi come parte di un tutto e non concependosi come una monade isolata. Questi valori sono ripudiati in via teorica da quegli studiosi, da quei poteri politici e da quei magistrati che hanno una visione individualista e contrattualista della società; sono valorizzati, invece, da coloro che considerano la socialità e la giuridicità proprietà essenziali della persona umana.

La naturale socialità dell’uomo e l’unificazione della società in un centro comune di autorità, cui è inerente il potere di proibire certe azioni e di reprimere chi le commette, in funzione della conservazione della legge dell’ordine e della garanzia della sicurezza di tutti i consociati, costituiscono le premesse indispensabili della sicurezza sociale. Essa nella sua struttura entitativa è la qualità che afferisce a un tipo di esistenza sociale in cui i cittadini sono relativamente sicuri di preservare il proprio essere e di perseguire i loro fini senza costrizione; in cui è presente una certa stabilità dell’ordine giuridico che consenta di prevedere gli effetti delle regole dettate per la vita comune; in cui i cittadini sono disponibili alla collaborazione con gli altri, confidando in una certa solidarietà in caso di necessità e offrendo reciprocamente agli altri una certa garanzia di solidarietà.

Per garantire il valore della sicurezza sociale occorre che la società politica tenda ad acquisire, in analogia con la sicurezza relativa alla singola persona, un abito perfettivo che dinamicamente si protenda verso il conseguimento del bene comune, allo stesso modo in cui l’individuo deve protendersi verso il proprio autoperfezionamento. La sicurezza pubblica non è uno stato di cose statico, esistente una volta per tutte, in una o in un’altra maniera, bensì è la tensione dinamica di tutta la società, in primis dei suoi governanti, verso la promozione dei tre elementi basilari del bene comune, che sono i) la concordia tra i cittadini e la pace sociale; ii) un certo grado di benessere materiale diffuso con equità in tutti i gradi e le classi sociali e iii) la condivisione di una serie di valori culturali da parte dell’intera popolazione, che implicano la diffusione – sostenuta dalle istituzioni pubbliche, ma lasciata alla libera iniziativa delle forme di aggregazione private – delle scienze, delle arti, della letteratura, delle conoscenze storiche e geografiche al fine di arricchire con valori fecondi la vita sociale.

Alla sicurezza sociale – vista come abito perfettivo della società dinamicamente protesa al bene comune – le leggi penali e di polizia apportano certamente un contributo. Ma è un grave errore ritenere che la sicurezza sociale si esaurisca in tale tipo di leggi. Più importanti delle leggi e delle sentenze sono l’adempimento costante e prudente, da parte dell’autorità politica e delle autorità sociali, dei doveri inerenti alle loro competenze, nonché la ferrea volontà degli agenti politici di portare a termine i programmi prefissati e di garantire l’effettiva vigenza dell’ordine giuridico che la società si è dato. A nulla servono i continui annunci di riforma delle leggi se le leggi vigenti non sono rispettate, perché le leggi che non si applicano e non si osservano – in attesa delle ipotizzate riforme – determinano la corruzione della stessa possibilità che la legge eventualmente futura venga rispettata.

Senza la garanzia della sicurezza sociale la società è più apparente che effettiva; non è altro che una forma di anarchia disordinata fomentatrice di conflitti inesauribili, sia orizzontali tra le diverse aggregazioni sociali, che verticali tra gli individui e le istituzioni.

Il primo passo della rinascita si potrà verificare quando le leggi positive aderiranno alla legge naturale e tuteleranno, secondo le innumerevoli esigenze pratiche, i diritti fondamentali della persona, a cominciare dalla vita umana, anche quella che si trova ancora nel grembo materno. Se i governanti sentiranno il dovere di promuovere gli abiti sociali che perfezionano la comunità; se gli agenti politici terranno in vista il bene comune ed eleggeranno i mezzi necessari per realizzarlo, abbandonando il corto orizzonte del mantenimento del proprio potere a tutti i costi, allora si potrà dare un nuovo cominciamento. Quelle forze politiche – anche se prive oggi di potere – che non intendono concorrere all’ulteriore disfacimento del Paese, dovranno con umiltà formulare un programma articolato atto a promuovere la vera sicurezza pubblica.