Francesco Cavallo 
Avvocato in Lecce e Dottore di ricerca in Diritto Costituzionale Comparato
Università del Salento

 

Sommario: 1. I principi affermati ‒ 2. Il quadro di riferimento ‒ 3. L’incompatibilità comunitaria della disciplina nazionale delle proroghe ‒ 4. Le ragioni del mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ‒ 5. Disapplicare la legge italiana in favore di quella comunitaria ‒ 6. Perché non è stata sollevata questione di legittimità costituzionale ‒ 7. Perché i rinnovi delle proroghe già rilasciati sono inefficaci ‒ 8. La eccentrica proroga “giudiziale” delle concessioni al 31.12.2023 ‒ 9. I principi che dovranno ispirare lo svolgimento delle gare ‒ 10. Conclusioni.

 

  1. I principi affermati

 

Cominciamo dalla fine. Quali principi ha affermato l’Adunanza Plenaria esercitando la sua funzione nomofilattica?

  1. Le leggi che hanno disposto, e che in futuro dovessero ancora disporre, la proroga automatica delle concessioni sono in contrasto con il diritto UE ‒ in particolare con l’art. 49 e 56 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE ‒, pertanto non devono essere applicate né dai giudici né dalla PA.
  2. In conseguenza della disapplicazione di queste leggi, gli atti di proroga già rilasciati dalla PA. devono sempre ritenersi inefficaci, e dunque non attribuire alcun diritto alla prosecuzione del rapporto in capo ai concessionari.
  3. Tuttavia, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023. Tanto, al fine di scongiurare conseguenze socio-economiche pregiudizievoli e tenuto conto dei tempi tecnici necessari alle PA per predisporre gli atti di gara nonché «nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea»[1]. In ogni caso, decorso il 31 dicembre 2023, le concessioni cesseranno di produrre effetti anche se non saranno state espletate le gare, anche se non sarà intervenuta una disciplina legislativa compiuta, o peggio anche se saranno intervenute eventuali ulteriori proroghe legislative le quali andrebbero considerate senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento UE.

In questo modo, l’Ad. Plen. ha risolto ‒ forse ‒ una vicenda tutta italiana.

 

  1. Il quadro di riferimento

 

Nel nostro Paese, da diversi decenni, privati concessionari hanno a disposizione un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono «uno dei patrimoni naturalistici più rinomati e attrattivi (e remunerativi) del mondo»[2]. Quasi il 50% delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari, con picchi che in alcune Regioni arrivano quasi al 70%[3]. Una percentuale di occupazione, quindi, molto elevata, specie se si considera che i tratti di litorale soggetti a erosione sono in costante aumento, e che una parte significativa della costa “libera” risulta non fruibile per finalità turistico-ricreative. A ciò si aggiunga che in molte Regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere oggetto di concessione, e nella maggior parte dei casi essa coincide con la percentuale già assentita.

Il giro d’affari stimato del settore ‒ che, si badi bene, non ha risentito della crisi pandemica, anzi ‒ si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali, però, il proprietario di quelle spiagge, cioè tutti i cittadini italiani attraverso l’erario, si vede riconosciuto per canoni di concessione poco più che 100 milioni di euro, che nemmeno incassa integralmente. Infatti, 21.581 delle 26.689 concessioni demaniali balneari pagano un canone medio di soli € 2.500 annui, e la media totale è di poco superiore, € 3.700 l’anno. La situazione non necessita di commenti[4].

Ora, nonostante i trattati comunitari cui l’Italia ha aderito nel 1957 vietino le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione (art. 49 del Trattato che istituisce la Comunità Europea e art. 56 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) e nonostante nel 2006 ‒ 15 anni fa ‒ sia entrata in vigore la direttiva dell’Unione Europea 2006/123/CE[5], che per le concessioni relative ad attività limitate per via della scarsità delle risorse naturali impone procedure di evidenza pubblica e una durata limitata, vietando espressamente rinnovi automatici e altri vantaggi, il legislatore italiano ha pensato bene di consolidare il regime di oligopolio prima descritto, procedendo di proroga in proroga automatica delle concessioni già esistenti.

Nel corso di queste ripetute proroghe, il legislatore, anche per fare fronte alle procedure di infrazione nel frattempo aperte dalla Commissione europea (la prima risale al 2008, l’ultima a dicembre 2020), ha sempre “annunciato”, non solo politicamente ma anche formalmente, il «riordino della materia in conformità dei principi di derivazione europea»[6]: tuttavia, la nuova normativa volta a garantire compatibilità con l’ordinamento europeo non è mai intervenuta. Ad intervenire, invece, sono state più volte la Corte Costituzionale e anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sempre per dichiarare illegittime le proroghe senza gara e ribadire il principio della necessità di procedure di evidenza pubblica.

Come detto, allora, il legislatore nei 15 anni trascorsi dall’approvazione della Direttiva 123/2006, non è rimasto indifferente e/o inerte, come spesso accade, anzi, è stato molto attivo nell’aggirare la direttiva e i trattati, oltre che i principi di rango costituzionale: la proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali, infatti, viola anche i principi di libera iniziativa economica e di ragionevolezza affermati dalla nostra Carta.

Questo è un aspetto da ribadire subito e tenere fermo: come ha ben detto il Consiglio di Stato nelle sentenza in commento, «pensare che questo settore, così nevralgico per l’economia del Paese, possa essere tenuto al riparo dalle regole delle concorrenza e dell’evidenza pubblica, sottraendo al mercato e alla libera competizione economica risorse naturali in grado di occasionare profitti ragguardevoli in capo ai singoli operatori economici, rappresenta una posizione insostenibile, sul piano costituzionale nazionale ed anche rispetto ai principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione»[7].

Dopo l’ultima proroga automatica e generalizzata è però accaduto che alcuni Comuni hanno accolto, ex art. 1, commi 682 e 683 la L. 145/2018, le istanze di proroga rivolte dai concessionari, altri le hanno respinte; allo stesso modo, alcuni Tribunali amministrativi hanno sanzionato le reiezioni delle istanze di proroga, o giudicato favorevolmente gli atti di proroga rilasciati dalla PA, altri invece hanno respinto i ricorsi proposti dai privati avverso le reiezioni.

In particolare, il TAR di Lecce con la sentenza n. 73/2021 aveva ritenuto che l’amministrazione del Comune capoluogo avesse illegittimamente disapplicato l’art. 1, commi 682 e 683 la L. 145/2018, sostenendo che l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE non sia self-executing, e che comunque anche ove lo fosse, ciò non legittimerebbe l’organo amministrativo a disapplicare la legge interna, essendo l’accertamento della natura self-executing della direttiva riservato solo al giudice e precluso all’Amministrazione.

Il collegio salentino aveva dunque annullato il provvedimento con cui il Comune di Lecce aveva respinto l’istanza di proroga ex legge n. 145/2018, rivolgendo al concessionario formale interpello al fine di conoscere se lo stesso intendesse avvalersi della facoltà di prosecuzione dell’attività ai sensi dell’art. 182 d.l. 34/2020 convertito in legge n. 77/2020, con contestuale pagamento del canone per l’anno 2021 ovvero, in via alternativa, di non avvalersi di tale facoltà e di accettare una proroga tecnica della concessione per la durata di anni tre; in questo, invero, va dato atto al Comune di Lecce di aver in qualche modo anticipato quella che poi sarebbe stata la soluzione adottata dall’Adunanza Plenaria. Proposto appello il Comune di Lecce, il Presidente del Consiglio di Stato ha deferito d’ufficio l’affare all’Adunanza plenaria[8].

L’Adunanza Plenaria, con le pronunce del novembre 2021, non ha fatto altro che confermare i precedenti giurisprudenziali, anche risalenti, della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale, oltre che dello stesso massimo organo di giustizia amministrativa interna. I provvedimenti meritano, però, di essere richiamati nei loro passaggi fondamentali, considerato che il loro testo è lungo, articolato e tecnicamente complesso.

 

  1. L’incompatibilità comunitaria della disciplina nazionale delle proroghe

 

In via preliminare il collegio ha risolto la questione-chiave, ovvero quella relativa al contrasto tra l’ennesima legge che ha disposto la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali in essere e le norme UE direttamente applicabili.

I giudici amministrativi hanno rammentato che la questione era stata già affrontata e risolta dalla Corte di giustizia con la sentenza Promoimpresa[9], la quale aveva affermato che:

  1. l’articolo 12 paragrafi 1 e 2 della direttiva 2006/123/CE osta a una misura nazionale che preveda la proroga automatica in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati;
  2. l’articolo 49 (oggi 56) TFUE osta a una normativa nazionale che consenta una proroga automatica quando le concessioni presentano un interesse transfrontaliero.

Quanto all’art. 49 (oggi 56) TFUE, esso indubbiamente trova applicazione in quanto, come già affermato dalla Corte di Giustizia in Telaustria e Telefonadress[10], «qualsiasi atto dello Stato che stabilisce le condizioni alle quali è subordinata la prestazione di un’attività economica è tenuto a rispettare i principi fondamentali del trattato»[11]. Sicché quando un contratto, di concessione o di appalto, presenta un interesse transfrontaliero certo, l’affidamento, in mancanza di qualsiasi trasparenza, di tale contratto a un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento in danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate a tale appalto.

Nè può dubitarsi che «le spiagge italiane per conformazione, ubicazione geografica e attrazione turistica presentino tutte e nel loro insieme un interesse transfrontaliero certo»[12]. Di conseguenza la disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata è anzitutto in contrasto diretto con il Trattato, in quanto limita ingiustificatamente la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi nel mercato interno, a maggior ragione in un contesto nel quale le dinamiche concorrenziali sono già particolarmente affievolite a causa della lunga durata delle concessioni attualmente in essere.

Quanto all’obbligo di evidenza pubblica, esso discende, comunque, dall’applicazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123 che, come già sancito dalla Corte di giustizia[13], prescinde dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo.

La direttiva è infatti, secondo l’Adunanza Plenaria, perfettamente applicabile alle concessioni demaniali turistico-ricreative[14], che rappresentano “autorizzazioni di servizi” ai sensi dell’art. 12 della stessa, come tali sottoposte all’obbligo di gara. Inoltre, si evidenzia che non è sostenibile la tesi che vorrebbe la inapplicabilità dell’art. 12 della direttiva per mancanza del requisito della scarsità della risorsa naturale[15]: stante il quadro descritto al precedente § 3 e richiamato dall’Alto consesso, non vi sono più in Italia «aree disponibili sufficienti a permettere lo svolgimento della prestazione di servizi anche ad operatori economici diversi da quelli attualmente “protetti” dalla proroga ex lege»[16].

Infine, la direttiva Bolkenstein è pacificamente self-executing, ovvero dotata di quel livello di dettaglio e di specificità necessario ai fini della sua diretta applicabilità: pur essendo stato auspicabile che il legislatore avesse dettato una disciplina espressa e puntuale per uniformarsi ai principi espressi dai Trattati ed alle prescrizioni della direttiva, «non vi è dubbio che, nell’inerzia del legislatore, l’art. 12 della direttiva 2006/123 e i principi che essa richiama, tenendo anche conto di come essi sono stati più volti declinati dalla giurisprudenza europea e nazionale, già forniscono tutti gli elementi necessari per consentire alle Amministrazioni di bandire gare per il rilascio delle concessioni demaniali in questione, non applicando il regime di proroga ex lege»[17].

I medesimi profili di incompatibilità comunitaria presenta, poi, anche la moratoria emergenziale prevista dall’art. 182 co. 2 D.L. 34/2020: «Non è, infatti, seriamente sostenibile che la proroga delle concessioni sia funzionale al “contenimento delle conseguenze economiche prodotte dall’emergenza epidemiologica” […] Non vi è alcuna ragionevole connessione tra la proroga delle concessioni e le conseguenze economiche derivanti dalla pandemia», anzi la proroga di fatto garantisce solo posizioni acquisite nel tempo risultando disfunzionale rispetto all’obiettivo di favorire investimenti e modernizzazione[18]. Senza contare che, come emerso dai dati relativi alle stagioni 2020 e 2021, il settore turistico balneare italiano non ha subito alcuna contrazione a causa della pandemia, anzi.

 

  1. Le ragioni del mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia

 

Qualche commentatore ha sostenuto che il Consiglio di Stato avrebbe dovuto rinviare pregiudizialmente la questione alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE affinché fornisse un’interpretazione autentica delle norme dei trattati e della direttiva involte nella fattispecie. L’Adunanza Plenaria spiega però che nel caso in esame si è in presenza delle condizioni[19] che non obbligano il giudice nazionale al rinvio pregiudiziale: la questione controversa, infatti, è già stata oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia e gli argomenti invocati per superare l’interpretazione già resa dal giudice europeo non sono in grado di superarla, come confermato anche dal fatto che i principi espressi dalla sentenza Promoimpresa sono stati recepiti da tutta la giurisprudenza amministrativa nazionale sia di primo che di secondo grado, con l’unica isolata eccezione del TAR Lecce[20].

L’Adunanza Plenaria ha ribadito, dunque, il principio già esistente secondo cui il diritto UE impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica delle concessioni in essere.

 

  1. Disapplicare la legge italiana in favore di quella comunitaria

 

Secondo l’Adunanza Plenaria la sorte della norma nazionale in contrasto con il diritto UE, ovvero di un trattato e una direttiva self-executing, può essere solo una: va disapplicata (in favore della normativa comunitaria), non solo dai giudici ma anche da tutto l’apparato amministrativo e da tutte le articolazioni dello Stato Membro, senza che sia necessario sollevare questione di legittimità costituzionale. Si tratta dell’ennesima sottomissione ai “diktat dei burocrati di Bruxelles” in favore dei “soliti potentati economici” che vogliono annichilire l’impresa italiana?

In realtà, quanto affermato dall’Adunanza Plenaria non si discosta da quanto viene insegnato alle matricole di ogni facoltà di giurisprudenza da mezzo secolo: la norma interna contrastante con una norma comunitaria provvista di efficacia diretta non può essere applicata, ovvero deve essere disapplicata, con la conseguenza che il rapporto resta disciplinato dalla sola norma comunitaria. É quanto è stato progressivamente affermato dai tempi della Van Gend & Loos vs. Olanda[21], della Costa vs. Enel[22] e della Italia vs. Simmenthal[23], fino a tutta la giurisprudenza della Corte Costituzionale, dalla Granital[24] a oggi, non solo sull’ art. 11 Cost. ma anche sull’art. 117 comma 1 Cost. circa il rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario».

Quanto al principio per il quale non solo i giudici ma tutti gli organi dell’amministrazione sono tenuti ad applicare le fonti UE self-executing disapplicando le norme nazionali[25], anch’esso risale a ben 32 anni fa, ovvero alla Fratelli Costanzo vs. Milano[26] ed alla sentenza n. 389/1989 della Corte Costituzionale[27], alle quali si è poi allineato il Consiglio di Stato sin dalla Sentenza 452/1991[28]. Non è ben chiaro se quello messo in luce dall’Adunanza Plenaria sia il “quarto mondo”: è certamente un mondo avanti con gli anni e tutt’altro che sconosciuto o inesplorato.

 

  1. Perché non è stata sollevata questione di legittimità costituzionale

 

Per tali ragioni, l’Alto consesso non ha ritenuto necessario sollevare questione di legittimità costituzionale, come pure da più parti si è eccepito e si continua ad eccepire. Il Consiglio di Stato, infatti, richiama i principi affermati dalla Corte costituzionale, a partire dalla sentenza Granital n. 170 del 1984, per arrivare alle pronunce più recenti[29], in forza dei quali un sindacato di costituzionalità in via incidentale su una legge nazionale anticomunitaria è oggi possibile solo se tale legge sia in contrasto con una direttiva comunitaria non self-executing oppure, secondo la recente teoria della c.d. doppia pregiudizialità, nei casi in cui la legge nazionale contrasti con i diritti fondamentali della persona tutelati sia dalla Costituzione sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Chi, infatti, sostiene che nella vicenda in esame il Consiglio di Stato avrebbe dovuto sollevare questione di costituzionalità, fa in buona sostanza leva sulla pronuncia della Corte Costituzionale del 14 dicembre 2017 n. 269, nella quale la Corte sembrava aver imposto ai giudici comuni, in presenza di un sospetto di compatibilità di una disciplina nazionale sia con la Costituzione, sia con la CDFUE, di sollevare in via prioritaria una questione di legittimità costituzionale, indipendentemente dall’efficacia diretta o meno delle disposizioni della Carta di Nizza di volta in volta in rilievo[30]. Queste critiche non tengono conto, però, del fatto che la Consulta ha immediatamente temperato quella affermazione, chiarendo che, per quanto nelle fattispecie di cosiddetta “doppia pregiudiziale” sia ammissibile una questione di legittimità costituzionale prospettata anche in relazione a disposizioni UE self-executing, non si tratta di un obbligo posto in capo al giudice comune, ma di una semplice facoltà[31] e che, comunque, vi è ogni caso il «dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta»[32].

Rispetto alla legge italiana in discussione effettivamente non ricorrono queste ipotesi, in quanto ‒ come detto ‒ le norme comunitarie in rilievo sono pacificamente self-executing e non si controverte in materia di diritti fondamentali della persona costituzionalmente protetti.

Sul punto è condivisibile l’affermazione dell’Adunanza Plenaria secondo cui  l’affidamento del concessionario avrebbe dovuto dovrebbe trovare tutela non attraverso le proroghe automatiche, ma al momento di fissare le regole per la procedura di gara[33]: del resto «qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, egli non può invocare il beneficio della tutela del legittimo affidamento nel caso in cui detto provvedimento venga adottato» (Corte di giustizia, 14 ottobre 2010, C-67/09).

Nel caso di specie, è dalla entrata in vigore della direttiva 123/2006/CE che in Italia si discute se sottoporre il rilascio delle concessioni demaniali ai principi dell’evidenza pubblica e della concorrenza; anzi, anche in precedenza il Consiglio di Stato ne aveva affermato la necessità[34], senza contare le numerose procedure di infrazione sul tema aperte dalla Commissione Europea. A tanto vanno aggiunti gli interventi della Corte Costituzionale, che dal 2010 è più volte intervenuta sulla questione, dichiarando costituzionalmente illegittime, per mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento UE[35], alcune disposizioni regionali che prevedevano proroghe delle concessioni demaniali marittime in favore dei titolari delle concessioni[36]. Ad esempio, nella pronuncia 180/2010 la Consulta aveva chiaramente affermato che queste proroghe violano i principi di parità di trattamento e di libertà di stabilimento dei Trattati UE, determinando altresì «un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo e favorendo i vecchi concessionari a scapito degli aspiranti nuovi»[37].

Nonostante si evinca, almeno a partire dal 2010, che nel procedimento di assegnazione dei beni demaniali occorre assicurare il rispetto delle regole della par condicio, tra cui, in primis, l’effettiva equipollenza delle condizioni offerte dal precedente concessionario e dagli altri aspiranti, il Parlamento italiano dal 2006 ha inteso e intendeva procedere a suon di proroghe automatiche e generalizzate sino al 2033. Dunque ‒ è, in buona sostanza, il ragionamento della Adunanza Plenaria ‒ la circostanza che prima o poi la giostra delle proroghe ex lege si sarebbe fermata non rappresenta in alcun modo un incidente imprevisto e imprevedibile.

 

  1. Perché i rinnovi delle proroghe già rilasciati sono inefficaci

 

Acclarato che l’art. 1, commi 682 e 683, L. 145/2018 è in contrasto con il diritto UE direttamente applicabile e va disapplicato non solo dai giudici ma anche da tutti gli organi amministrativi dello Stato membro, occorreva porsi il problema della sorte dei provvedimenti di rinnovo delle proroghe delle concessioni demaniali già emanati (in forza della legge nazionale in contrasto con la normativa UE) e sui quali, talvolta, era pure già intervenuto un giudicato favorevole.

La questione ha molto occupato la dottrina amministrativistica nei mesi che hanno preceduto le pronunce dell’Adunanza Plenaria in commento, le quali, però, l’hanno risolta molto agevolmente. L’atto di proroga, infatti, è un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge ‒ in questo caso l’art. 1, commi 682 e 683, L. 145/2018 ‒ e, quindi, alla stessa, direttamente riconducibile[38]. É la norma legislativa di rango primario che assurge necessariamente a fonte regolatrice del rapporto, senza che vi sia l’intermediazione di alcun potere amministrativo[39].

Se allora la proroga è direttamente disposta per legge, ma questa non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto UE, ne deriva che l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset, come se non si fosse mai prodotto[40]. Fine della storia: non occorre, dunque, né annullamento in autotutela né riesame degli atti di proroga medio tempore emanati dalle PA: l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale con conseguente sua disapplicazione produce sempre come effetto il venir meno degli effetti della concessione[41].

Tanto, anche laddove fosse intervenuto un giudicato favorevole al concessionario. Infatti, quello che prosegue con il rinnovo della concessione demaniale direttamente disposto per legge è un rapporto di durata. Considerato poi che le sentenze interpretative della Corte di Giustizia hanno la stessa efficacia delle disposizioni interpretate, risultando così equiparabili a una sopravvenienza normativa[42], per la parte del rapporto non coperta da giudicato può tranquillamente trovare applicazione lo jus superveniens di derivazione comunitaria. Ne consegue che deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo agli attuali concessionari.

 

  1. La eccentrica proroga “giudiziale” delle concessioni al 31.12.2023

 

A questo punto, però, viene la parte realmente problematica e discutibile delle pronunce dell’Adunanza Plenaria. Formale e stringente logica giuridica avrebbe voluto che le pronunce finissero lì, il cerchio era perfettamente chiuso: la legge italiana è incompatibile con il diritto UE; va disapplicata da tutti (senza che sia necessario tornare alla Corte di Giustizia o rimetterla innanzi alla Corte Costituzionale) e, di conseguenza, gli atti di proroga già rilasciati sono sempre privi di effetti. Tanto avrebbe determinato ‒ e, ad avviso di chi scrive, avrebbe dovuto determinare ‒ la cessazione di tutti i rapporti concessori in atto.

Invece no. Arriva il colpo di scena. L’Adunanza Plenaria “si mette una mano sul cuore” e con l’altra, quasi contraddicendo tutto quanto argomentato e affermato fino a un attimo prima, statuisce che le concessioni demaniali già in essere continuano a essere efficaci sino al 31 dicembre 2023[43]. Probabilmente consapevole degli enormi rischi che presenta la inusuale scelta di posticipare nel tempo gli effetti della propria decisione, la pronuncia precisa pure che «eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni altra disciplina comunque diretta ad eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto UE e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere»[44].

La decisione di postergare gli effetti della propria pronuncia poggia tutta su valutazioni di tipo diverso da quelle strettamente giuridiche:

  • evitare l’impatto sociale ed economico che conseguirebbe alla immediata decadenza di tutte le concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative in essere. Un impatto che i giudici presumono “notevole” e “significativo”.
  • consentire un intervallo di tempo necessario allo svolgimento delle procedure di gara pubbliche;
  • consentire al legislatore di intervenire per dettare una disciplina per il rilascio delle concessioni demaniali conforme ai principi dell’ordinamento UE.

Anche se la maggior parte delle critiche piovute in questi giorni sulle pronunce si appunta su altri passaggi, soprattutto intorno al ribadito primato del diritto comunitario, a parere di chi scrive il punto realmente censurabile della pronuncia è questo, per più ordini di ragioni.

In primo luogo per la debolezza dell’argomento utilizzato dall’Adunanza Plenaria al fine di consentirsi di modulare gli effetti temporali della propria decisione, più che derogando alla retroattività. A tal fine infatti viene richiamato un solo precedente della Corte di Giustizia[45], secondo la quale se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, la Corte di Giustizia può essere indotta a limitare la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata.

Orbene, va evidenziato che si tratta di un principio espresso sì dalla Corte di Giustizia, ma con esclusivo riferimento all’ordinamento comunitario: il potere di limitare nel tempo gli effetti delle sentenze interpretative spetta, infatti, solo ad essa. La sentenza richiamata, poi, non solo afferiva a tutt’altra materia (tributi), ma utilizzava il principio al contrario, ovvero rendeva invocabili i suoi effetti solo dal giorno della sua emanazione, anziché retroattivamente, al fine di sancire la irripetibilità dei tributi versati prima della pronuncia per evitare gravi ripercussioni economiche (in danno dello Stato membro).

Quella stessa sentenza precisava: «sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni»[46]. In tutta franchezza, nella vicenda italiana relative alle proroghe ex lege delle concessioni demaniali, che si dipana da almeno 15 anni nonostante l’entrata in vigore della direttiva 2006/123/CE, le procedure di infrazione, le pronunce interpretative della Corte di Giustizia e quelle della Corte Costituzionale, oltre a quelle del Consiglio di Stato, pare difficile ritenere che qualcuno sia stato indotto in errore da obiettiva e rilevante incertezza interpretativa. A evidenziarlo, del resto, è stata la stessa Adunanza Plenaria qualche paragrafo prima[47]. Quantomeno dal 2006 in poi, in Italia, sia i concessionari, attraverso le loro associazioni di categoria, che il legislatore hanno sempre saputo che le proroghe ex lege, per giunta sempre lunghe, avevano il precipuo fine di evitare l’applicazione delle norme UE ovvero di sottoporre a gara pubblica il rilascio delle concessioni.

In secondo luogo, non è possibile non rilevare in questo passaggio delle pronunce in commento una contraddizione logica ancor prima che giuridica interna allo stesso giudicato: a fronte della censura di una proroga generalizzata e automatica concessa dal legislatore (e dalla pubblica amministrazione), che è il cuore della sentenza, si dispone con pronuncia giudiziale una proroga automatica e generalizzata al 31 dicembre 2023. Se la legge italiana che ha disposto la proroga delle concessioni oggi in essere è incompatibile con il diritto UE, se va disapplicata tout court, se di conseguenza gli atti di proroga già rilasciati sono sempre privi di effetti, come fanno poi quelle stesse proroghe a spiegare effetti fino al 31 dicembre 2023? La torsione è irrisolta.

In terzo luogo, è censurabile la arbitraria individuazione di questo intervallo temporale di poco più di due anni. Perché due anni e non, per es., uno? La risposta non c’è, perché frutto di una valutazione che è esercizio di discrezionalità politica. Anche a voler seguire la scelta e il ragionamento dell’Alto consesso, due anni appaiono ultronei. Poteva essere messo in conto che la necessità e l’urgenza di una disciplina compiuta legittimerebbero il ricorso allo strumento del decreto legge, sicché, aggiungendo il tempo necessario alla pubblicazione dei bandi e alla scelta dei concessionari, una proroga “giudiziale” alla fine del 2022 (o, al limite, ad aprile 2023) sarebbe apparsa meno abnorme. Ma, lo si ripete, si sarebbe trattato solo di apparenza.

In quarto luogo, si faticano a intravvedere le paventate conseguenze socio-economiche destabilizzanti derivanti da una applicazione immediata del diritto europeo. O, meglio, se esse vi fossero, sarebbero da considerarsi tutt’altro che imprevedibili, bensì ampiamente prevedibili da lustri. Non si tratterebbe, infatti, di una “applicazione immediata” del diritto europeo, ma di una applicazione di gran lunga consapevolmente ritardata del diritto europeo. Ed è quantomeno discutibile che si cerchi di porre rimedio con una sentenza ai ritardi del legislatore nazionale e alle loro conseguenze. Affermando l’incompatibilità con il diritto UE della legge italiana, disponendo che essa vada disapplicata in favore della normativa comunitaria self-executing e chiarendo che le proroghe in essere sono inefficaci, l’organo giudiziario aveva adempiuto la sua funzione nomofilattica ed esaurito il suo compito.

 

  1. I principi che dovranno ispirare lo svolgimento delle gare

 

Da ultimo, l’Adunanza Plenaria evidenzia che la direttiva servizi fornisce già tutti gli elementi necessari per guidare il legislatore nell’approntare la normativa di settore, o comunque i criteri per consentire alle amministrazioni di bandire gare, anche in assenza di una disciplina compiuta, e li enuncia.

Non pare questo un passaggio biasimevole. Tenuto conto di come il legislatore si è comportato negli ultimi 15 anni ed evidentemente considerando l’ipotesi che non intervenga in conformità al diritto UE, i giudici amministrativi si sono portati avanti con l’eventuale lavoro indicando, soprattutto alla PA comunque chiamata a svolgere le procedure di gara, i principi ricavabili dalla normativa UE self-executing che dovranno ispirarle.

In primo luogo, non saranno considerati ammissibili meccanismi di preferenza automatica per i concessionari uscenti, che di fatto precludono l’effettivo accesso a nuovi operatori. Tra di essi, si badi bene, rientrerebbe anche la valorizzazione in sede di gara degli investimenti effettuati sganciata da altri parametri. In altre parole, i criteri di selezione devono riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori e in questo ambito possono essere valorizzate l’esperienza professionale e il know-how acquisito da chi ha già svolto attività similari ‒ e quindi anche del concessionario uscente ‒, ma sempre a parità di condizioni con gli altri concorrenti.

Inoltre, rammenta l’Adunanza, la durata delle concessioni deve avere un limite, che non precluda l’accesso al mercato. Detto limite deve essere commisurato al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa senza eccedere il periodo ragionevolmente necessario al recupero degli investimenti[48]. Anche i canoni concessori, per i giudici, devono essere oggetto della procedura competitiva in modo da riflettere il reale valore economico e turistico del bene affidato. Alla luce dell’incredibile quadro attuale, descritto al § 2, pare davvero difficile contestare la bontà dell’enunciato: l’aumento e la parametrazione dei canoni ad altri criteri economici ‒ su tutti la remuneratività di queste attività (per quanto buona parte ne resti spesso occulta al fisco) ‒ è a dir poco doveroso e conforme a un supremo principio di giustizia.

Infine, l’Alto consesso afferma che nelle procedure competitive potrà essere previsto il riconoscimento di un indennizzo in favore dei concessionari uscenti, finalizzato a tutelare l’affidamento degli stessi e ammortizzare gli investimenti da loro effettuati. Ora, a parte la circostanza che, come emerge da tutte le rilevazioni (alle quali, come detto pure sfuggono i ricavi occulti) gli investimenti effettuati nella maggior parte dei casi sembrerebbero più che ammortizzati, anche per aver beneficiato per 15 anni di proroghe comunitariamente illegittime, e non risentendo della epidemia, non può non sottolinearsi come di nuovo l’Adunanza Plenaria sia finita per contraddire sé stessa. La previsione di ristori, oltre che essere una misura prettamente politica e non giudiziaria, risulta in contrasto con l’affermata negazione, al punto 38[49], di un affidamento tutelabile in capo ai concessionari uscenti, rinveniente dal meccanismo di ripetute illegittime proroghe ex lege.

 

  1. Conclusioni

 

Alla luce di quanto fin qui illustrato, sul piano strettamente giuridico risulta improprio accusare il massimo organo della giustizia amministrativa di avere svolto una funzione creativa del diritto: i giudici dell’Adunanza Plenaria non hanno “creato diritto”, ma hanno semplicemente ribadito il primato del diritto europeo nelle materie nelle quali esso ha competenza diretta, derivante dall’adesione dello Stato italiano ai Trattati liberamente sottoscritti e richiamato risalenti, noti e consolidati principi espressi dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Costituzionale.

Semmai, essi, dopo di ciò, hanno voluto in qualche modo “strafare”, svolgendo una funzione propriamente politica. Postergare l’efficacia di una pronuncia giudiziale, derogando a quella retroattività che assicura certezza del diritto, con le ragioni di ordine pratico espresse (evitare conseguenze socio-economiche, attendere il legislatore, dare tempo alla PA), è una decisione che si fa fatica a ricondurre al potere giurisdizionale.

A venire in discussione non sono la bontà e la fondatezza o meno delle intenzioni e delle ragioni espresse dal giudice; a venire in discussione è, more solito, la questione se il giudice debba o possa farsi carico delle conseguenze socio-politiche delle sue decisioni entrando nel merito delle stesse.

Nel caso di specie, il giudice ‒ il contrasto con sé stesso ‒ ha di fatto sostituito una proroga ex lege con una proroga ex sententia, illegittima almeno quanto la prima e per le medesime ragioni. Se l’Adunanza Plenaria era convinta, com’è non v’è ragione di dubitare, del proprio iter logico-argomentativo in diritto, avrebbe dovuto limitarsi a quello, lasciando al “politico” la responsabilità e l’onere di affrontare e risolvere i problemi da esso stesso determinati, che non competono all’organo giurisdizionale.

Purtroppo questo meccanismo sta pericolosamente prendendo piede nelle Alte Corti. Si pensi a diverse recenti pronunce della Consulta (l’ultima sull’ergastolo ostativo) nelle quali la Corte pur riconoscendo la incostituzionalità delle norme esaminate, inspiegabilmente non le dichiara subito tali, ma per ragioni di tipo politico assegna al legislatore un tempo per intervenire dicendogli pure come.

Non è questo il ruolo di alcun organo giudiziario, nemmeno della Consulta o dell’Adunanza Plenaria, bensì quello di dichiarare rispettivamente la illegittimità costituzionale o meno di una norma, oppure affermare principi di diritto al fine di garantire l’osservanza della legge, la sua interpretazione uniforme e l’unità del diritto in uno Stato. Se una norma è incostituzionale va dichiarata illegittima, se una legge va disapplicata e le proroghe delle concessioni sono inefficaci, l’inefficacia non può rinviarsi di due anni. Autorevoli giuristi hanno citato, a proposito di questo[50] e di altro[51], il monito del giurista tedesco Franz Gamillscheg, «il diritto creato dai Giudici appartiene al nostro destino»: ebbene no, il destino nostro, come dell’ordinamento, non è ineluttabile.

A indurre il giudiziario a occuparsi delle conseguenze socio-politiche delle proprie decisioni, ovvero di un ambito che non gli compete, è proprio il “politico”. “Politico” che, anziché recuperare, con coraggio e responsabilità, il proprio e ruolo e i propri doveri, tralasciando l’obiettivo delle “prossime elezioni” per concentrarsi sul bene delle “future generazioni”, da lungo tempo pare ormai solo capace di dolersi, senza alcun costrutto, degli sconfinamenti altrui.

Se il legislatore italiano si fosse comportato diversamente, oggi non vi sarebbero state conseguenze socio-economiche destabilizzanti cui far fronte in conseguenza di una inesorabile pronuncia sulla illegittimità e conseguente inefficacia delle proroghe. Di più, questo impatto economico e sociale dell’applicazione del diritto UE è tanto più notevole e significativo, per usare gli aggettivi usati dall’Alto consesso, quanto più il legislatore nazionale ha cercato di allontanarlo, per di più con un congegno legislativo prevedibilmente precario, destinato prima o poi a soccombere. Detta ancora diversamente: se dopo l’entrata in vigore della direttiva 2006/123/CE il legislatore, anziché le comprensibili rivendicazioni particolari di una parte (invero piccolissima, ma evidentemente ben rappresentata) del proprio bacino elettorale, avesse ascoltato i moniti della Corte Costituzionale (a tacere di quelli della Commissione Europea, della Corte di Giustizia, ecc.), oggi si sarebbe da tempo in presenza di rapporti concessori stabili, con investimenti correttamente pianificati e certamente ammortizzati.

Del resto è quanto accaduto in altri Stati membri, come la Spagna, la Francia e persino la Grecia, che hanno per tempo adeguato le loro discipline interne, rendendole conformi alle disposizioni dei Trattati e della Direttiva Servizi, ovvero prevedendo procedure di selezione che garantiscono imparzialità e trasparenza, con la conseguenza che oggi i loro concessionari godono di un quadro stabile e consolidato. Se in Italia non è così, la colpa non è del diritto UE (né dell’Adunanza Plenaria), ma di quella parte del mondo dell’impresa balneare e della politica italiana che per 15 anni si è rifiutata autolesionisticamente di guardare l’ordinamento complessivo, pensando di aggirare l’ostacolo con la sola della forza legge italiana, usata come grimaldello per forzare le porte chiuse dal diritto comunitario.

Per garantire ai cittadini una gestione del patrimonio nazionale costiero e un’offerta di servizi più efficiente e di migliore qualità, che contribuisca alla crescita economica, e soprattutto alla ripresa degli investimenti di cui il Paese necessita[52], per perseguire cioè realmente l’interesse nazionale, il settore va aperto al mercato, alle regole della concorrenza, ai principi dell’evidenza pubblica. Allo stato attuale è questo il migliore mezzo, non solo per il diritto UE, ma anche per l’evoluzione dell’ordinamento interno e per la declinazione dei suoi principi costituzionali, per garantire trasparenza alle scelte amministrative e apertura del settore, garantire una gestione maggiormente efficiente di tutte le concessioni balneari e maggiori introiti per le casse pubbliche[53].

A confutare questa prospettiva non paiono sufficienti gli argomenti che paventano che quanto affermato dall’Adunanza Plenaria spianerebbe la strada alle multinazionali straniere e alle mafie (le une e le altre ormai immancabilmente scomodate a prescindere nel discorso pubblico). Con riferimento alle prime, non si ravvisa il problema, essendo anche gli attori stranieri protagonisti di un mercato inevitabilmente aperto, portatori al pari di altri di capacità finanziarie ed economiche, tecniche e professionali. Il tema è, semmai, valutare queste capacità ovvero la ricerca di un equilibrio, in sede legislativa e di lex specialis, che da una parte non consenta che il patrimonio costiero italiano rimanga nelle mani di pochi e in condizioni di privilegio (in danno della collettività), e dall’altra non ne faccia oggetto di svendita. Ma non è ammissibile sostenere che per evitare l’ingresso di investitori stranieri sgraditi debba perpetuarsi lo status quo.

Con riferimento al paventato rischio di infiltrazioni criminali nelle gare da svolgersi vanno fatte due considerazioni. La prima è che il settore, purtroppo, al pari di altri, non ne è già certo esente. È un dato acquisito da tempo l’interesse della criminalità organizzata per spiagge e per i litorali, dovuto al ricchissimo business che esse generano e alla facilità di riciclare denaro di provenienza illecita, anche grazie agli irrisori costi delle concessioni demaniali. Lo confermano numerose indagini, diverse pronunce giudiziarie, oltre ai lavori della Commissione Parlamentare antimafia e alle informative della Direzione Distrettuale Antimafia. Dal litorale laziale alla Calabria, dalla provincia di Genova al Veneto, dalla Campania alla Puglia passando per la Basilicata, sono numerosissimi gli stabilimenti balneari (e le relative attività connesse) di proprietà di società o singoli legati alla criminalità organizzata. Applicando le regole del mercato, della concorrenza e dell’evidenza pubblica non si aggiunge certo nulla sotto questo profilo.

Anzi, potrebbe essere il contrario. La seconda osservazione da farsi, infatti, concerne la efficacia di tutto l’armamentario legislativo e amministrativo di verifiche e interdittive antimafia, protocolli di legalità e via discorrendo: chi sostiene che svolgere gare pubbliche favorirebbe la criminalità organizzata vuol forse confessare l’inefficacia di questa strumentazione amministrativa che, come si rileva da più parti, è finita per diventare una sorta di Crono divoratore che sovente genera conseguenze paradossali e kafkiane[54]? O dimentica l’esistenza di questi strumenti nell’intenzione del legislatore posti a presidio della legalità e della lotta al crimine?

Oggi, grazie a questa pronuncia è ancora più facile, oltre che necessario ed urgente, predisporre agevolmente una disciplina compatibile con le fonti UE, anche con decreto legge. La sfera politica si riapproprierebbe del suo ruolo sanando anche questa eccentrica proroga giudiziale stabilita dal Cons. Stato. Se davvero essa ha a cuore le sorti dei concessionari e del relativo indotto, dovrebbe occuparsi di questo piuttosto che di abbaiare alla luna. I commenti critici che sono piovuti addosso alle pronunce dell’Adunanza Plenaria, sommati all’incertezza del quadro politico non lasciano intravedere nulla di buono[55].

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 51.3).

[2] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 16).

[3] 90% nella sola Versilia, dove si contano 683 stabilimenti su solo 29,8 km di coste. Nei Comuni di Pietrasanta (LU), Camaiore (LU), Montignoso (MS), Laigueglia (SV) e Diano Marina (IM) è in concessione oltre il 90% della costa. Nel Comune di Gatteo (FC), il 100% del demanio marittimo è in concessione. I dati sono estratti dal Rapporto Spiagge 2021 di Legambiente, al link https://bit.ly/3nm07HM.

[4] Esempi di canoni dovuti dagli stabilimenti più noti d’Italia dove il costo di lettini e ombrelloni raggiunge cifre stratosferiche? I 5 mila mq del Twiga di Marina di Pietrasanta (LU) versano un canone annuo di soli € 17.000 mentre i i 5 mila mq del Bagno Felice di Forte dei Marmi (LU) corrispondono € 6.500 annui. A Santa Margherita Ligure (GE), il Punta Pedale € 7.500 annui, il Metropole € 3.600 annui, il Continental solo € 1.900 annui. A Punta Ala (GR), l’Alleluja paga € 5.200 annui (per 2.400 mq) e il Gymnasium € 1.200 (per 2.100 mq). A Capalbio (GR) l’Ultima Spiaggia versa un canone annuo di € 6.100 per 4.100 mq. Il Bagno Azzurro di Rimini corrisponde € 6.700 l’anno. Il Papeete Beach di Milano Marittima (RA) paga solo € 10.000 l’anno di canone. Il canone complessivo delle 59 concessioni demaniali di Arzachena (SS) in Sardegna ammonta a € 19.000. I dati sono estratti dal Rapporto Spiagge 2021 di Legambiente, cit.

[5] Altrimenti denominata “direttiva servizi” o “direttiva Bolkenstein”.

[6] Così l’art. 24, comma 3-septies D.L. 113/2016, convertito in L. 60/2016.

[7] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 16).

[8] «Rilevato che la questione oggetto del ricorso riveste una particolare rilevanza economico-sociale che rende opportuna una pronuncia della Adunanza plenaria, onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali». Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 5).

[9] Corte di Giustizia, Sentenza 14 luglio 2016, nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15.

[10] Corte di Giustizia, Sentenza 7 dicembre 2000, causa C-324/98.

[11] «E, in particolare, i principi di non discriminazione in base alla nazionalità e di parità di trattamento, nonché lobbligo di trasparenza che ne deriva», Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 15).

[12] Definito come «la capacità di una commessa pubblica di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri», Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 16).

[13] Corte di Giustizia, Grande Sezione, Sentenza 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punti 103 e ss.

[14] Sul punto sono richiamati gli argomenti già affermati da Corte di giustizia, Grande Sezione, 22 settembre 2020, C-724/2018 e C-727/2018, punto 34 e 35.

[15] Affermato dall’art. 12 della direttiva 2006/123/CE e demandato, dalla richiamata sentenza Promimpresa, al giudice nazionale.

[16] «Attualmente le aree demaniali marittime a disposizione di nuovi operatori economici sono caratterizzate da una notevole scarsità, ancor più pronunciata se si considera lambito territoriale del comune concedente o comunque se si prendono a riferimento porzioni di costa ridotte rispetto alla complessiva estensione delle coste italiane, a maggior ragione alla luce della già evidenziata capacità attrattiva delle coste nazionali e lelevatissimo livello della domanda in tutto il periodo estivo (che caratterizza lintero territorio nazionale, al di là della variabilità dei picchi massimi che possono differenziare le singole zone). Pertanto, nel settore delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, le risorse naturali a disposizione di nuovi potenziali operatori economici sono scarse, in alcuni casi addirittura inesistenti, perché è stato già raggiunto il – o si è molto vicini al – tetto massimo di aree suscettibile di essere date in concessione. Anche da questo punto di vista, quindi, sussistono i presupposti per applicare lart. 12 della direttiva 2006/123». Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 25).

[17] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 26).

[18] Infatti, come evidenziato dalla Commissione nell’ultima lettera di costituzione in mora (che riguarda anche l’art. 182, co. 2, d.l. 34/2020), che «la reiterata proroga della durata delle concessioni balneari prevista dalla legislazione italiana scoraggia […] gli investimenti in un settore chiave per leconomia italiana e che sta già risentendo in maniera acuta dellimpatto della pandemia da COVID-19. Scoraggiando gli investimenti nei servizi ricreativi e di turismo balneare, lattuale legislazione italiana impedisce, piuttosto che incoraggiare, la modernizzazione di questa parte importante del settore turistico italiano. La modernizzazione è ulteriormente ostacolata dal fatto che la legislazione italiana rende di fatto impossibile lingresso sul mercato di nuovi ed innovatori fornitori di servizi». Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 28).

[19] Si tratta della c.d. “giurisprudenza CILFIT”, di recente, ribadita, sia pure con alcuni correttivi volti a renderla più flessibile, dalla Corte di giustizia, Grande Camera, nella sentenza 6 ottobre 2021, C-569/19. Nella risalente causa C-283/81, CILFIT c. Ministero della Sanità, la Corte di giustizia ha enunciato le tre circostanze che, ancora oggi, sollevano il giudice «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno» da un adempimento altrimenti obbligatorio (punti 12-16 della sentenza). Tali circostanze si possono riassumere come segue: l’identità materiale della fattispecie ad altra su cui la Corte di giustizia si sia già espressa; la presenza di una giurisprudenza consolidata della Corte stessa sul medesimo punto di diritto all’esame del giudice nazionale, anche in assenza di identità materiale della fattispecie (c.d. teoria dell’acte éclairé); la mancanza di ogni ragionevole dubbio sull’applicazione delle norme rilevanti di diritto dell’Unione (c.d. teoria dell’acte clair).

[20] «Il quale, peraltro, più che mettere in discussione lesistenza di un regime di evidenza pubblica comunitariamente imposto cui sottoporre il rilascio o il rinnovo della concessioni demaniali, ha negato (come si vedrà nel prosieguo con maggiore dettaglio) la sussistenza di un potere di non applicazione in capo agli organi della P.A., toccando, quindi, una questione sulla quale esistono orientamenti giurisprudenziali (elaborati dai giudici europei e nazionali) ancor più consolidati e granitici». Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 28).

[21] Corte di Giustizia, Sentenza 5 febbraio 1963, causa C-26/62.

[22] Corte di Giustizia, Sentenza 15 Luglio 1964, C-6/64.

[23] Corte di Giustizia, Sentenza 9 marzo 1978, C-106/77.

[24] Corte Costituzionale, Sentenza 5 giugno 1984, n. 170.

[25] Tanto poiché, diversamente opinando (come invece proprio fatto dal TAR Lecce con la Sentenza 73/2021), da una parte si costringerebbe l’amministrazione ad adottare atti illegittimi per violazione del diritto UE destinati ad essere annullati in sede giurisdizionale, dall’altra si affiderebbe alla fase dell’eventuale contenzioso giudiziale la primazia del diritto UE, con la conseguenza che in caso di mancata impugnazione si consoliderebbe una sua violazione. E, come osserva acutamente l’Ad. Plen. al punto 35 delle pronunce in commento, «con riferimento al presente contenzioso va sottolineato che rispetto alle proroghe assentite nella maggior parte dei casi non ci sono controinteressati attuali che propongono ricorso» (Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 35).

[26] Corte di Giustizia, Sentenza 22 giugno 1989, C 103/88.

[27]«Tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) – tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme» comunitarie nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea. Corte Costituzionale, Sentenza 4 luglio 1989, n. 389.

[28] La quale ha chiarito che tutti i soggetti dell’ordinamento, compresi gli organi amministrativi, devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante le norme comunitarie, non applicando le norme nazionali contrastanti.

[29] Cfr., in particolare, Corte Cost., sentenze n. 289/2017, n. 20/2019, n. 63/2019, n. 112/2019, n. 117/2019, n. 11/2020, n. 182/2020, n. 254/2020, n. 84/2021. Invero, anche con la Sentenza del 4.7.2007, n. 284, la Corte aveva ribadito che il giudice comune non deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna contrastante con il diritto europeo, essendo tenuto ad applicare in via prevalente quest’ultimo. Interpretazione confermata dalla progressiva apertura della giurisprudenza costituzionale alla considerazione degli orientamenti della Corte di giustizia, al momento di configurare il parametro ex art. 117, comma 1 (v., ad es., Corte Costituzionale, Sentenza 10.3.2008, n. 62 e Corte Costituzionale, Sentenza 15.12.2008, n. 439).

[30] Il carattere dirompente di tale passaggio della decisione non è passato di certo inosservato, tanto da essere divenuto «il più commentato in 70 anni di giurisprudenza costituzionale» (C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di Giustizia e Corte costituzionale dopo lobiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, 2019, n. 2, p. 3).

[31] Corte Costituzionale, 21 febbraio 2019, n. 20. Detto altrimenti, l’elemento portante di tale nuovo assetto si può cogliere nella piena discrezionalità lasciata ai giudici nazionali circa la scelta in ordine a quale rimedio attivare: se interpellare per prima la Corte costituzionale o, viceversa, la Corte giustizia, o, ancora, percorrere le due vie contemporaneamente, come si è verificato in relazione alla questione decisa da Corte cost., 26 novembre 2020, n. 254, nella quale giudice a quo aveva, infatti, contemporaneamente sollevato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, la quale aveva, a sua volta, dichiarato, in data anteriore alla decisione della Consulta, manifestamente irricevibili le questioni proposte (Corte giust., 4 giugno 2020, C-32/20, Balga).

[32] Corte costituzionale, ordinanza 10 maggio 2019, n. 117.

[33] In forza del par. 3 dell’art. 12 della direttiva Bolkenstein e della sentenza Promoimpresa, par. 52-56. Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 38).

[34] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25 gennaio 2005, n. 168, Id., sez. V, 31 maggio 2007, n. 2825.

[35] Ex art. 117, primo comma, Cost.

[36] L’Adunanza Plenaria segnala, in particolare, Corte cost. n. 180/2010, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, l.r. Emilia-Romagna 23 luglio 2009, n. 8, il quale prevedeva la possibilità, per i titolari di concessioni demaniali, di chiedere la proroga della concessione, fino ad un massimo di 20 anni dalla data del rilascio, subordinatamente alla presentazione di un programma di investimenti per la valorizzazione del bene. Analoga vicenda ha riguardato l’art. 16, comma 2, l.r. Toscana n. 23 dicembre 2009, n. 77, che è stata dichiarata illegittima dalla Corte con sentenza n. 340/2010. Tale disposizione prevedeva la possibilità di una proroga, fino ad un massimo di 20 anni, delle concessioni in essere, in ragione dell’entità degli investimenti realizzati e dei relativi ammortamenti: in tale occasione la Corte si è richiamata alla sua precedente decisione n. 180/2010, sopra citata. Stessa sorte hanno subito l’art. 4, comma 1, l.r. Marche 11 febbraio 2010, n. 7; l’art. 5, l.r. Veneto 16 febbraio 2010, n. 13; gli artt. 1 e 2, l.r. Abruzzo18 febbraio 2010, n. 3, dichiarati illegittimi con sentenza n. 213/2011. Cfr. Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 38.2).

[37] Corte Costituzionale, Sentenza 20 maggio 2010, n. 180.

[38] Cons. Stato, Sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874.

[39] «Si tratta, in buona sostanza, di una legge-provvedimento che non dispone in via generale e astratta, ma, intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete, recepisce e legifica”, prorogandone il termine, le concessioni demaniali già rilasciate». Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 42).

[40] «Sono le dinamiche (di non applicazione) della fonte primaria che regolamenta il rapporto di diritto pubblico che determinano leffetto di mancata proroga delle concessioni. Di talché lAmministrazione non esercita alcun potere di autotutela (con i vincoli che la caratterizzano): se latto eventualmente adottato dallamministrazione svolge la sola funzione ricognitiva (e nei termini appunto in cui svolga questa sola funzione), mentre leffetto autoritativo è prodotto direttamente dalla legge, la non applicabilità di questultima impedisce il prodursi dell’effetto autoritativo della proroga». Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 43).

[41] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 45).

[42] Come affermato da Cons. Stato, Ad. Plen. 11 del 2016.

[43] Rectius, che gli atti di proroga e i giudicati favorevoli al concessionario formatisi sulla normativa da disapplicarsi cessano di disciplinare il rapporto concessorio a far data dalla scadenza di un periodo di circa un biennio.

[44] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 48).

[45] Corte di Giustizia, Sentenza 15 marzo 2005, in C-209/03.

[46] Ibidem.

[47] Segnatamente al punto 38. Supra §7.

[48] In tal senso, ove questo risultasse eccessivo andranno previsti dei meccanismi di scadenza anticipata, ponendosi all’asta, al momento della successiva gara, il valore residuo degli investimenti già effettuati dal precedente concessionario.

[49] V. supra §7 e §9, sub nota 43.

[50] P.L. Portaluri, Concessioni balneari:giudizio netto, ora tocca al legislatore, Quotidiano di Puglia, 17.11.2021, consultabile al link https://bit.ly/3K5YJTm.

[51] P.L. Portaluri, I pericoli (futuri) dellemergenza, Corriere della Sera, 21.10.2020, consultabile al link https://bit.ly/33e6Ht0.

[52] V. supra §4 nonchè note 12, 13 e 14.

[53] Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 16).

[54] Il tema è estremamente interessante ma, per la sua complessità, non può nemmeno essere accennato in questa sede.

[55] Forse è per questo che l’Adunanza Plenaria, consapevole dei limiti strutturali, ma come detto non ineluttabili, del legislatore, gli ha rivolto anche un monito, disponendo che «eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni disciplina comunque diretta a eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere». Cons. Stato (Ad. Plen.), Sent. 09-11-2021, nn. 17 e 18 (punto 48).