ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE
ROMA
ATTO DI INTERVENTO
per il Centro Studi “Rosario Livatino”, costituito a Roma il 17 aprile 2015, con atto registrato il 13 gennaio 2017 n. 230 Serie 3, cod. fisc. 97853360580, con sede in Roma via del Teatro Valle n. 51 (info@centrostudilivatino.it), in persona del proprio legale rappresentante p.t. prof. avv. Mauro Ronco (cod. fisc. RNCMRA46B19L219R), rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dallo stesso prof. avv. Mauro Ronco del foro di Torino (pec: mauroronco@pec.ordineavvocatitorino.it; cod. fisc. RNCMRA46B19L219R) e dall’avv. Stefano Nitoglia del foro di Roma (pec: studio.nitoglia@legalmail.it; cod. fisc. NTGSFN53H06H501K), elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma Via Panama 74 (pec: studio.nitoglia@legalmail.it; fax 068555135), come da procura speciale in calce al presente atto,
nel giudizio di legittimità costituzionale
sollevato dalla I Corte d’Assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018, iscritta nel reg. ord. al n. 43 del 2018, pubblicata in G.U. 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale, n. 11 del 14 marzo 2018, nel procedimento penale a carico di Marco Cappato, che ha sospeso il giudizio e disposto l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo e nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 della Costituzione.
* * *
Con il presente atto il Centro Studi “Rosario Livatino”, come sopra rappresentato e difeso, interviene in giudizio per chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.
- Irrilevanza della questione di costituzionalità per impropria limitazione del contributo causale.
Il dubbio sulla costituzionalità dell’art. 580 c.p. riguarda per i Giudici di Milano la parte in cui la norma incrimina le condotte di aiuto al suicidio “a prescindere dal loro contributo alla determinazione e al rafforzamento del proposito suicidario”. Tale disposizione punisce infatti non solo l’istigazione al suicidio, e dunque chi determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito suicidario – contribuendo al processo di formazione della decisione stessa – , ma pure chi “ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”.
Nell’interpretazione giurisprudenziale consolidata tali condotte integrano entrambe, sia sotto la forma di istigazione, sia sotto quella di aiuto al suicidio, la fattispecie incriminatrice, essendo state previste come alternative.
Nelle prime pagine dell’ordinanza la 1° Corte di Assise di Milano limita la rilevanza della questione ai fini del giudizio di costituzionalità alla condotta di agevolazione del suicidio di Fabiano Antoniani, avendolo Marco Cappato aiutato a recarsi in Svizzera alla clinica Dignitas, ma escludendo che ciò abbia rafforzato il primo nell’intento di uccidere sé stesso: ciò sarebbe emerso, secondo la Corte, all’esito della istruttoria. È una valutazione in fatto opinabile, essendo espressa per incidens in una ordinanza, e non già in una sentenza, e contrastando – in assenza di un accertamento giudiziario connotato dalla irrevocabilità – con quanto già evidenziato dal Gip del Tribunale di Milano con l’ordinanza di imputazione coattiva del 10 luglio 2017. E cioè con la circostanza che il proposito suicidario si è trasformato in una possibilità concreta soltanto tramite l’intervento e la consultazione di Marco Cappato, il quale ha «corroborato e guidato nella sua volontà» il desiderio di morire espresso dalla vittima. Il che integra in modo evidente il concorso morale nella forma del “rafforzamento del proposito suicidario”. Lo stesso Gip aveva rettificato l’impostazione della Procura della Repubblica di Milano – nella sostanza fatta propria dal Giudice della rimessione – di impropria restrizione della condotta ai frammenti immediatamente antecedenti il gesto finale: poter contare invece sul contributo fornito dall’imputato ha conferito un apporto causale apprezzabile ai fini della realizzazione del suicidio. Il nesso causale tra la condotta e la morte è evidente alla stregua del principio della condicio sine qua non.
La I Corte di Assise di Milano si diffonde sulla condotta di Cappato, sostenendo che Antoniani aveva già maturato in totale autonomia l’intento autosoppressivo, sì che l’imputato non avrebbe contribuito in alcun modo a tale propria determinazione: l’articolata descrizione in fatto degli eventi che hanno condotto all’exitus, contenuta nell’ordinanza, attesta invece in modo inconfutabile il rilievo del contributo di Cappato. Non è giuridicamente ammissibile che, allo stato attuale del processo, venga anticipato con un’ordinanza l’eventuale contenuto di una sentenza ancora non emessa. L’esclusione che possa parlarsi, nel caso di specie, di contributo morale al suicidio – oltre che in conflitto con alcune risultanze certe del processo – è asserto non ancora giuridicamente consacrato in sentenza, sì che la sua anticipazione impropria si riflette sulla rilevanza della questione costituzionale così come proposta.
- Manifesta infondatezza: l’art. 580 c.p., tutelando il diritto fondamentale alla vita e proscrivendo l’uccisione intenzionale di una persona, non soltanto è conforme alla Costituzione, ma la sua cancellazione costituirebbe un suo vulnus irrimediabile.
2.1. Il dubbio che l’art. 580 c.p., nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, costituisca una violazione degli artt. 3; 13, co. 2°; 25, co. 2° co.; 27, 3° co. Costituzione, nonché degli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è manifestamente infondata.
L’aiuto al suicidio consiste, infatti, nella condotta intenzionalmente diretta a fornire un contributo necessario per distruggere la vita altrui. Si tratta di un atto, attivo od omissivo, che contribuisce intenzionalmente all’uccisione di una persona.
Una condotta siffatta vìola il diritto alla vita, che va inscritto «tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così privilegiata, in quanto appartengono […] all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» (Corte Cost., sent. 10 febbraio 1997, n. 35, che richiama l’espressione di Corte Cost., sent. 29 dicembre 1988, n. 1146).
Tale diritto è al livello supremo dei diritti fondamentali dell’uomo, come è stato confermato dalla L. Cost. 2 ottobre 2007, n. 1, che, cancellando dall’art. 27, co. 4° Cost. le parole «se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra», ha costituzionalizzato in modo assoluto il divieto della pena di morte. Nello stesso senso suona il dictum della Corte Costituzionale alla cui stregua il «diritto alla vita ed all’integrità fisica […] concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona» (Corte Cost., sent. 9 luglio 1996, n. 238).
L’aiuto al suicidio costituisce altresì una violazione dell’art. 2, co. 1° della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo. Tale disposizione appartiene al novero delle disposizioni che la giurisprudenza della Corte EDU ritiene primordiali, in quanto senza la protezione del diritto alla vita «[…] il godimento di uno qualsiasi degli altri diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sarebbe illusorio» (sentenza 29 aprile 2002 – Caso Pretty c. Regno Unito).
2.2. La tutela assoluta della vita è proclamata anche nei più importanti atti dell’Assemblea del Consiglio d’Europa. Nella Raccomandazione 1418 del 1999 l’Assemblea raccomanda al Comitato dei Ministri di incoraggiare gli Stati membri del Consiglio d’Europa a rispettare e proteggere la dignità dei malati incurabili e dei morenti a tutti i livelli “mantenendo il divieto assoluto di mettere intenzionalmente fine alla vita dei malati incurabili e dei morenti: 1. visto che il diritto alla vita, in particolare per ciò che concerne i malati incurabili ed i morenti è garantito dagli Stati membri conformemente all’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che dispone che la morte non può essere inflitta a chiunque intenzionalmente; 2. visto che il desiderio di morire espresso da un malato incurabile o da un morente non può mai costituire un fondamento giuridico alla sua morte per mano di un terzo; 3. visto che il desiderio di morire espresso da un malato incurabile o da un morente non può in sé servire da giustificazione legale all’esecuzione di azioni destinate a provocare la morte” (Raccomandazione 1418 del 1999, Protection des droits de l’homme et de la dignité des malades incurables et des mourants, § 9, lett. c). Nella Risoluzione 1859 del 2012 l’Assemblea parlamentare ha ribadito che «l’eutanasia nel senso di uccidere intenzionalmente, con un’azione o un’omissione […] deve sempre essere vietata» e ha concluso nel senso che «in caso di dubbio, la decisione deve sempre prendersi in favore della vita e del prolungamento della vita» (Risoluzione 1859 del 2012 Protéger les droits humains et la dignité de la personne en tenant compte des souhaits précédemment exprimés par les patients, § 5, § 7.8).
2.3. Il diritto alla vita non può essere interpretato illogicamente come se ricomprendesse il diritto alla morte.
Ciò risulta dal dictum della Corte Europea nella sentenza 29 aprile 2002 (Pretty c. Regno Unito): «La Corte ritiene, dunque, che non è possibile dedurre dall’articolo 2 della Convenzione un diritto di morire, sia per mano di un terzo o con l’assistenza di una pubblica autorità»).
Ogni diritto, invero, consiste nel riconoscimento di una libertà soggettiva per il perseguimento di un bene e, dunque, nella tutela di una facoltà di agire in vista di un fine. Nel diritto è ricompreso naturalmente anche l’aspetto negativo volto a salvaguardare il diritto dalle possibili intromissioni esterne nell’esercizio della libertà personale. L’ordinamento può evidentemente consentire che il soggetto non eserciti il suo diritto, non perseguendo il bene in vista del quale esso è riconosciuto, come accade nel caso in cui il soggetto rifiuti le cure mediche o chirurgiche, ma non può trasformare in “diritto”la mera libertà di fatto di annichilire il bene che ne costituisce l’oggetto. Ciò vale per la vita, per la salute, per la dignità o la libertà personale, diritti fondamentali che non possono logicamente essere interpretati come se contenessero il loro contrario. Interpretare il senso e il contenuto di tali diritti contro il loro oggetto inequivoco significa contraddittoriamente negarli.
L’assoluta autodeterminazione, senza vincoli dettati dal rispetto dei beni in funzione dei quali il diritto è riconosciuto, sfocia nella loro negazione e nella pretesa illegittima che gli altri contribuiscano alla loro distruzione.
Il diritto alla salute ex art. 32 Cost., implica che il soggetto possa rinunciarvi, ma non fonda un assurdo “diritto alla malattia” o un parimenti assurdo “diritto alla morte”. Allo stesso modo il diritto alla libertà personale ex art. 13 Cost. non fonda un assurdo “diritto alla schiavitù” e il diritto al rispetto della dignità personale non fonda un assurdo “diritto a essere trattati indegnamente”. Così il diritto alla vita non fonda alcun inesistente “diritto alla morte”.
2.4. Non soltanto non può riconoscersi nel tessuto costituzionale l’esistenza di un “diritto al suicidio”, ma, più ancora e in conseguenza di ciò, non può riconoscersi un “diritto di pretendere che altri presti aiuto al suicidio”.
Invero: i) anche se il vivere non è coercibile, il suicidio non può ugualmente essere tutelato dal diritto. Il suo carattere è di strutturale avulsione dal diritto, siccome atto che si oppone alla sua intrinseca struttura, che è essenzialmente una struttura relazionale. Di ciò v’è traccia certa nella Costituzione, ove spiccano gli artt. 2 e 32, co.1°. Il primo, contemplando la correlatività tra i diritti fondamentali della persona e l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, presuppone che il suicidio, come condizione che rende impossibile l’adempimento di qualsiasi dovere verso gli altri, è atto non tutelabile e non tutelato dal diritto; l’art. 32, co. 1°, statuendo che il diritto alla salute è un fondamentale diritto dell’individuo, nonché un interesse della collettività, evidenzia che tale bene non costituisce un valore soltanto per il suo titolare, bensì anche per gli altri, onde il singolo, per quanto abbia un diritto inviolabile alla sua salute, non ha il diritto di distruggerla; ii) in ogni caso e comunque non va dimenticato che l’eventuale ammissione della pretesa di essere aiutati nell’esecuzione del suicidio implicherebbe necessariamente l’imposizione a carico di qualcuno di un “dovere di uccidere”. È evidente che la cancellazione del divieto di cui all’art. 580 c.p. costituirebbe una frattura irrimediabile dell’ordinamento: attraverso il varco aperto si introdurrebbe addirittura l’obbligo di uccidere sulla semplice richiesta di chi desidera uccidersi.
2.5. L’opinione espressa dalla I Corte di Assise di Milano, per la quale l’asserita sussistenza di un “diritto al suicidio” renderebbe l’art. 580 contrario alla Costituzione, misconosce le verità elementari del senso comune, rovesciando l’asse dell’ordinamento giuridico.
I presupposti in diritto a fondamento dell’addotta illegittimità (fg. 6 dell’ordinanza) rispondono a un’impostazione ideologica piuttosto che alla stretta adesione al dettato costituzionale, allorché, a proposito del suicidio, fanno prevalere il richiamo alla libertà e all’autodeterminazione sugli intenti solidaristici che attraversano la Costituzione. Per i Giudici di Milano l’interpretazione fin qui prevalsa dell’art. 580 c.p. è stata mossa dalla considerazione del “suicidio come un fatto in sé riprovevole”, coincidendo “La ratio della norma nella tutela del bene supremo della vita”: in questi termini essa si porrebbe in violazione degli artt. 2 e 13, co. 1°, della Carta fondamentale, e quindi contro i principi di libertà e di autodeterminazione del singolo.
Si è detto supra che riconoscere il «diritto al suicidio» implicherebbe porsi in contraddizione con le verità del senso comune, rovesciando gli assi dell’ordinamento: tale preteso «diritto» imporrebbe di ritenere, per esempio, che chi trattiene colui che sta per lanciarsi nel vuoto da un ponte commetterebbe violenza punibile ex art. 610 c.p.; che chi strappa di mano con violenza la pistola a colui che sta per spararsi in bocca un colpo d’arma da fuoco, procurandogli lesioni, sarebbe responsabile in concorso formale dei delitti di violenza privata e di lesioni personali. Imporrebbe di ritenere che non scatti l’obbligo di soccorso ex art. 593 c.p., ove si incontri taluno ferito reduce da un tentativo anticonservativo ancora in itinere, ovvero che l’anestesista/rianimatore al cospetto di un soggetto gravemente traumatizzato per essersi lanciato volontariamente da un viadotto non abbia l’obbligo di praticargli le cure rianimative idonee a salvarlo e, ancora, che la crisi respiratoria occorsa a chi abbia tentato il suicidio non possa essere superata con l’apprestamento dei necessari presidi cardiocircolatori. Le conclusioni derivanti dalla tesi dei Giudici milanesi sono palesemente assurde; eppure discendono direttamente dal fallace assunto in ordine alla sussistenza di un «diritto al suicidio»!
2.6. L’ordinanza indica a sostegno della propria argomentazione in ordine all’assenza di limiti alla libera autodeterminazione del singolo la ritenuta “assenza di divieti all’esercizio di attività per sé pericolose”, con conseguente possibilità di limitare il diritto alla libertà del singolo nei soli casi in cui si intenda evitare di creare pericolo per gli altri.
L’affermazione è contraddetta dall’esistenza nell’ordinamento di fondamentali e specifiche disposizioni normative poste a tutela della vita e dell’integrità fisica del singolo, anche con riferimento a condotte autolesive non implicanti alcun pericolo per i terzi.
Sorprendente è l’omesso ricordo dell’art. 5 c.c. alla cui stregua «sono vietati» «gli atti di disposizione del proprio corpo […] quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica […]».
E che dire delle norme poste a presidio della salute in caso di trapianti di organi o di tessuti tra vivi (cfr. L. 26 giugno 1967, n. 458, sul trapianto del rene tra persone viventi; L. 16 dicembre 1999, n. 483, sul trapianto parziale di fegato tra persone viventi; L. 19 settembre 2012, n. 167, sul trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino tra persone viventi) ovvero delle garanzie disposte per accertare che, in caso di trapianto da cadavere, la persona sia effettivamente deceduta (cfr. L. 3 aprile 1957, n. 235, sul prelievo di parte di cadavere a scopo di trapianto terapeutico, ed il relativo regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 20 gennaio 1961, n. 300, nonché L. 2 dicembre 1975, n. 644)? E che dire delle innumerevoli disposizioni in materia di sanità pubblica in ordine al controllo amministrativo e penale sui farmaci e sugli stupefacenti (cfr. per tutte la disciplina di cui al d.p.r 9 ottobre 1990, n. 309)?
Il divieto di esercitare attività per sé pericolosa è presente anche nella disciplina della circolazione stradale, ove l’utente è tenuto a rispettare anche norme di comportamento a sua esclusiva protezione, come nel caso di obbligo dell’uso del casco protettivo per il conducente di veicoli a due ruote (art. 171 cod. strada) o dell’uso delle cinture di sicurezza da parte del conducente e non soltanto dei passeggeri degli autoveicoli (art. 172 cod. strada). Particolare rilievo assume, poi, il riconoscimento normativo del principio di autoresponsabilità del lavoratore nell’ambito della sicurezza sul lavoro ai sensi dell’art. 20 d.lgs. 20 aprile 2008, n. 81 secondo cui «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza […] conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro».
Sostenere, pertanto, che l’ordinamento non si cura di proteggere i soggetti dai rischi provocati a sé stessi per opera propria è cosa contraria allo spirito del diritto contemporaneo, quasi che si fosse tornati a un antistorico assolutismo liberistico.
- Manifesta infondatezza: l’art. 580 c.p., tutelando il diritto fondamentale alla vita e proscrivendo l’uccisione intenzionale di una persona, non soltanto è conforme alla Costituzione, ma anche alla normativa e alla giurisprudenza europea e ai princìpi generali vigenti in gran parte degli Stati europei.
3.1. Sconcerta anzitutto che la I Corte di Assise di Milano abbia ritenuto “superata” la sentenza Pretty c. Regno Unito del 29 aprile 2002. Invero, come ha dimostrato analiticamente il Gip di Milano nell’ordinanza 10 luglio 2017, la giurisprudenza della Corte EDU ha confermato che la Convenzione tutela il bene vita in modo espresso, senza assolutamente superare i princìpi, in quella sentenza affermati, che «[…] la natura generale del divieto di suicidio assistito non è sproporzionata» e che «gli Stati hanno il diritto di controllare, attraverso l’applicazione del diritto penale generale, le attività pregiudizievoli per la vita e la sicurezza dei terzi […]» e che, infine, «Spetta, in primo luogo, agli Stati valutare il rischio di abuso e le probabili conseguenze degli abusi eventualmente commessi che implicherebbe un’attenuazione del divieto generale di suicidio assistito o la creazione di eccezioni al principio. Esistono rischi manifesti di abuso, nonostante le argomentazioni sviluppate in merito alla possibilità di prevedere barriere e procedure di protezione».
Il divieto di suicidio assistito, infatti, presenta una funzione essenziale allo scopo di evitare i rischi manifesti di abuso ai danni delle persone socialmente e/o psichicamente vulnerabili. La ratio di tutela inerente al divieto non riguarda soltanto la vita, ma anche la libertà di determinazione di coloro che con maggior facilità potrebbero essere tentati dal richiedere, in assenza di un conforto curativo relazionale, di mettere fine alla loro vita con il suicidio.
3.2. La sentenza 20 gennaio 2011 nel caso Haas c. Svizzera, relativa, dunque, a uno Stato in cui il suicidio assistito è, sia pure a certe condizioni, ammesso, ha riguardato i rischi di abuso insiti in un sistema che facilita l’accesso al suicidio assistito, ritenendo che la restrizione nell’accesso al pentobarbital di sodio è legittima in quanto tesa a proteggere la salute e la sicurezza pubblica e a prevenire il crimine. Nulla, dunque, che consenta di ritenere superata la sentenza Pretty c. Regno Unito.
3.3. La sentenza 14 maggio 2013 nel caso Gross c. Svizzera ha stigmatizzato l’insufficiente chiarezza delle linee guida concernenti «la possibilità di ottenere una dose letale di pentobarbital su prescrizione medica», rilevando che l’assenza di chiare e comprensibili linee guida legali vìola il diritto al rispetto della vita privata della ricorrente sotto il profilo dell’art. 8 della Convenzione. Quindi la Corte EDU non ha stigmatizzato la mancata previsione del suicidio assistito, mettendo invece in luce la piaga concernente le incertezze inevitabilmente presenti sui presupposti di ammissibilità del suicidio assistito nei Paesi che ne ammettono la possibilità.
3.4. La sentenza 19 luglio 2012 nel caso Koch c. Germania, relativa a un caso accaduto sotto l’impero dell’art. 216 del Codice penale, che non prevedeva espressamente la punibilità del suicidio assistito, non ha assolutamente preso in considerazione la questione dell’interdizione globale di tale condotta, bensì ha condannato la Germania per violazione dell’art. 8 in quanto non aveva esaminato in modo adeguato e completo la richiesta della moglie del ricorrente volta a ottenere una dose letale di pentobarbital di sodio. Anche in questo caso non vi è stato alcun superamento dei princìpi affermati nella sentenza Pretty c. Regno Unito.
3.5. Piuttosto merita osservare che la Corte Europea ha più volte riconosciuto agli Stati il diritto di regolare la materia senza che sussista alcun vincolo derivante da una determinata interpretazione del concetto di “interferenza nella vita privata” di cui all’art. 8 della Convenzione.
Nella sentenza Haas c. Svizzera (20 gennaio 2011) la Corte, dando atto che gli Stati membri del Consiglio d’Europa «sono ben lungi dall’aver raggiunto un consenso in merito al diritto di un individuo a decidere come e quando la sua vita dovrebbe finire» (punto 55) e che «la grande maggioranza degli Stati membri sembra dare più peso alla protezione della vita dell’individuo che al suo diritto di risolvere il problema» (ibidem), ha concluso che «gli Stati godono di un notevole margine di apprezzamento in questo settore» (ibidem).
Nella sentenza Koch c. Germania (19 luglio 2012) la Corte, dopo avere affermato che il proprio ruolo di controllo deve essere esercitato «nel rispetto del principio di sussidiarietà» (punto 69), ha ribadito che gli Stati in questa materia godono di un margine di apprezzamento considerevole (punto 70). La stessa sentenza dà atto che le ricerche comparatistiche svolte in 42 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno evidenziato che «in 36 paesi […] tutte le forme di assistenza al suicidio sono oggetto di divieto stretto e sono erette in illeciti penali» (p. 26) e che soltanto quattro Stati (Svizzera, Belgio, Paesi-Bassi e Lussemburgo) «autorizzano i loro medici a prescrivere dosi letali di farmaco, sia pure con limiti e garanzie particolari» (ibidem).
3.6. Nei tempi successivi alle sentenze citate le legislazioni dei Paesi membri del Consiglio d’Europa non hanno affatto modificato in senso liberale le rispettive legislazioni.
Anzi, la Repubblica Federale tedesca, che non prevedeva il delitto di aiuto al suicidio, lo ha espressamente introdotto nello Strafgesetzbuch al § 217 sotto la rubrica “Geschäftsmäßige Förderung der Selbsttötung” allo scopo di punire coloro che, nello svolgimento dell’attività professionale, forniscono aiuto al suicidio altrui («(1) Wer in der Absicht, die Selbsttötung eines anderen zu fördern, diesem hierzu geschäftsmäßig die Gelegenheit gewährt, verschafft oder vermittelt, wird mit Freiheitsstrafe bis zu drei Jahren oder mit Geldstrafe bestraft. (2) Als Teilnehmer bleibt straffrei, wer selbst nicht geschäftsmäßig handelt und entweder Angehöriger des in Absatz 1 genannten anderen ist oder diesem nahesteht»).
La Francia, regolando con la Legge n. 2016-87 del 2 febbraio 2016 la materia relativa alle modalità di “espressione della volontà dei malati che rifiutano un trattamento e dei malati in fin di vita”, ha statuito all’art. R 4127-38 che il medico non ha il diritto di provocare deliberatamente la morte («il n’a pas le droit de provoquer délibérément la mort»), vietando in questo modo qualsiasi forma di aiuto al suicidio.
La Spagna punisce all’art. 143 del codice penale l’induzione e la cooperazione al suicidio. Il 4° comma della disposizione punisce espressamente la condotta di chi causi o cooperi attivamente con atti necessari e diretti alla morte di una persona, su richiesta espressa, seria e inequivoca di questo, nel caso in cui la vittima soffra di una malattia grave che la condurrà necessariamente alla morte o che produca gravi sofferenze permanenti e difficili da sopportare («El que causare o cooperare activamente con actos necesarios y directos a la muerte de otro, por la petición expresa, seria e inequívoca de éste, en el caso de que la víctima sufriera una enfermedad grave que conduciría necesariamente a su muerte, o que produjera graves padecimientos permanentes y difíciles de soportar, será castigado […])».
3.7. Una ulteriore considerazione di diritto comparato non può non riguardare il Regno Unito e, in particolare, la vicenda del cittadino inglese Tony Nicklinson, il quale lamentava la violazione dell’art. 8 CEDU per non essergli consentito dalla legge inglese di suicidarsi con l’aiuto di una terza persona, essendo egli impedito fisicamente di compiere l’atto (Nicklinson, R v. Ministry of Justice [2012] EWHC 2381 (Admin); Nicklinson and Anor, R v. A Primary Care Trust [2013] EWCA civ 961; R v. Ministry of Justice [2014] UKSC 38).
La Section 2 del Suicide Act del 1961, emendato nel 2009, prevede che:
« (1) A person (“D”) commits an offence if –
- a) D does an act capable of encouraging or assisting the suicide or attempted suicide of another person, and
- b) D’s act was intended to encourage or assist suicide or an attempt at suicide».
In prima istanza la Corte aveva respinto la domanda fondando il rigetto sul principio dell’inviolabilità della vita. Sul ricorso, che si appellava specificamente all’art. 8 della Convenzione, la Corte d’Appello dichiarava che la pretesa a farsi riconoscere il diritto al suicidio tramite l’aiuto di un terzo avrebbe esigito un’azione positiva dello Stato volta a scriminare i terzi che prestano l’aiuto. Ammettere ciò avrebbe condotto a violare la legge senza il dibattito democratico postulato da una modifica della legge per via parlamentare. Una riforma della Section 2 non potrebbe che provenire dal Parlamento. La Corte Suprema confermava definitivamente la decisione.
Con estrema chiarezza la Corte inglese ha osservato che, oltre al desiderio del richiedente, occorre tenere in considerazione aspetti che vanno molto al di là della questione dedotta dai singoli casi. Accondiscendere al desiderio di Nicklinson avrebbe significato introdurre un notevole cambiamento della legge, non consentito all’Autorità giudiziaria: «It is not for the court to decide whether the law about assisted dying should be changed and, if so, what safeguards should be put in place. Under our system of government these are matters for Parliament to decide, representing society as a whole, after Parliamentary scrutiny, and not for the court on the facts of an individual case or cases». [«Non spetta alla Corte decidere se debba essere cambiata la legge sul suicidio assistito e, se così fosse, quali garanzie dovrebbero essere poste in essere. Nel nostro sistema costituzionale ci sono materie che spettano esclusivamente al Parlamento, che rappresenta la società come un tutto, dopo un vaglio parlamentare, e non all’autorità giudiziaria che emette pronunce su casi individuali»].
In un parere adesivo il giudice Royce, rilevava che talora si presentano casi che potrebbero indurre il giudice ad accedere alle richieste delle parti; tuttavia ciò condurrebbe a usurpare la funzione del Parlamento in un’area particolarmente sensibile sul piano etico e giuridico: «Any change would need the most carefully structured safeguards which only Parliament can deliver» [«Ogni cambiamento necessita di essere compiuto adottando criteri di salvaguardia strutturati molto attentamente, che soltanto il Parlamento può fornire»]. (Nicklinson, R v. Ministry of Justice [2012] EWHC 2381 Admin).
Il caso Nicklinson è storicamente importante in quanto è successivo alla decisione in cui la Corte EDU (Pretty c. United Kingdom – 2002) aveva riconosciuto la conformità alla Convenzione della legislazione inglese. La motivazione CEDU è ripresa integralmente al punto 74 della decisione Nicklinson, ove è detto che, pur essendo assai varie le condizioni individuali dei malati terminali, tuttavia «[…] many will be vulnerable and it is the vulnerability of the class which provides the rationale for the law in question. It is primarily for States to assess the risk and the likely incidence of abuse if the general prohibition on assisted suicides were relaxed or if exceptions were to be created. Clear risks of abuse do exist, notwithstanding arguments as to the possibility of safeguards and protective procedures» [«molti saranno vulnerabili. È la vulnerabilità ciò che fornisce il fondamento della legge in questione. Spetta in modo primario agli Stati valutare il rischio, nonché l’incidenza dell’abuso se il divieto generale del suicidio assistito fosse mitigato, ovvero se fossero introdotte eccezioni. Esistono evidenti rischi di abuso, nonostante gli argomenti circa la possibilità di procedure protettive di salvaguardia»].
Va infine ricordato che, poco dopo la decisione nel caso Nicklinson, è stato discusso nel Parlamento britannico un progetto di legge sull’aiuto al suicidio in casi limitati. Il Parlamento l’ha respinto a grande maggioranza (Assisted Dying Bill [HL], 2014-1015. Le informazioni sono disponibili al seguente indirizzo: http://services.parliament.uk/bills/2014-15/assisteddying.html). Va peraltro ricordato che il progetto non sarebbe servito a scriminare il terzo né nella vicenda Nicklinson, né nella vicenda Antoniani, in quanto la scusante era proposta soltanto con riferimento all’aiuto di una persona sofferente per una malattia terminale, diagnosticata medicalmente e la cui morte fosse probabile nei sei mesi successivi).
- 4. Manifesta infondatezza: l’art. 580 c.p., tutelando il diritto fondamentale alla vita e proscrivendo l’uccisione intenzionale di una persona, non vìola in alcun modo il diritto del paziente a rinunciare alle cure e, ancor meno, il suo diritto a rifiutare qualsiasi forma di futile insistenza terapeutica, nonché qualsiasi intervento diagnostico o curativo che gli procuri sofferenze confliggenti con il suo desiderio di morire con dignità.
4.1. L’ordinanza della Corte deduce illogicamente l’illegittimità costituzionale del divieto dell’aiuto al suicidio dal diritto di ciascuno di rifiutare o di interrompere le cure ex art. 32 Cost., richiamandosi alle sentenze emesse nel caso Welby (GUP Roma, 23 luglio 2007) e nella vicenda Englaro (Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007. n. 21748).
4.2. In verità, tanto la prima quanto la seconda sentenza, come risulta dal testo riportato nella stessa ordinanza, concernono situazioni profondamente diverse da quella oggetto di esame da parte della I Corte di Assise di Milano: i) La differenza rispetto al caso Welby è che in quest’ultimo l’interessato ha chiesto e ottenuto la rimozione del dispositivo di ventilazione artificiale. In esso era in questione la rinuncia a trattamenti sanitari. Nella vicenda Antoniani vi è stata la consegna da parte di terzi e la successiva assunzione da parte di costui di una sostanza letale che ha provocato immediatamente la morte; ii) la differenza rispetto alla vicenda Englaro è che la signora Eluana non era in grado di manifestare una volontà attuale e se ne è ricostruito un consenso ora per allora e in virtù di esso si sono sospese alimentazione e idratazione, parificandole a trattamenti sanitari.
4.3. La sentenza emessa nel caso Welby (GUP Roma 23 luglio 2007) dice espressamente che il diritto a rifiutare o a interrompere le cure «non può voler significare l’implicito riconoscimento di un diritto al suicidio».
La seconda, emessa nella vicenda Englaro (Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748) ribadisce che «il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale».
4.4. L’aiuto al suicidio e il rifiuto delle cure disegnano quadri etico-giuridici completamente diversi tra loro.
La prima fattispecie implica che il soggetto abbia l’intenzione di uccidersi e che un terzo partecipi volontariamente a tale intenzione fornendogli i mezzi per raggiungere lo scopo. Il rifiuto delle cure, al contrario, non implica affatto che la persona abbia l’intenzione di uccidersi, anche se può prevedere con certezza che tale rifiuto affretti il processo verso la morte naturale. Colui che lo assiste nel corso di tale processo non partecipa in alcun modo a un intento di morte, ma interviene per uno scopo tutt’affatto diverso, vòlto ad alleviare le sofferenze connesse alle fasi più dolorose della malattia.
La diversa intenzionalità della condotta spesa dalle due persone coinvolte nei vari stadi acuti e/o finali della malattia si riflette anche sul profilo causale. Nell’aiuto al suicidio viene introdotto dal terzo un mezzo avulso dal naturale sviluppo biologico, che interferisce sul processo causale anticipando la morte. Nel rifiuto delle cure il processo causale segue il suo corso naturale e la morte è la conseguenza della malattia, senza che il quadro concettuale venga mutato in alcun modo allorché, per mitigare le sofferenze, vengano somministrati farmaci che eventualmente anticipino la morte. La loro somministrazione, infatti, è esclusivamente intenzionata dallo scopo di perseguire il maggior bene del paziente, quello di morire naturalmente nel contesto della minore sofferenza.
4.5. Completamente fuori luogo è il richiamo della I Corte di Assise di Milano alla Legge n. 219/2017 che contempla l’istituto delle Disposizioni Anticipate di Trattamento. Infatti, come ha messo bene in luce il Gip di Milano nell’ordinanza per l’imputazione coattiva, la disciplina delle DAT, se esclude la punibilità del medico per condotte del tipo di quelle spese nel caso Welby, non è applicabile al caso oggetto del presente procedimento. Come dà conto con precisione l’ordinanza del Gip del 10 luglio 2017, Cappato avrebbe fatto presente ad Antoniani che, per dare esecuzione all’intendimento di morire, si poteva ricorrere alla «strada svizzera, ma c’era anche la strada italiana, che avrebbe potuto consistere nell’interruzione di qualsiasi trattamento accompagnato dalla sedazione profonda» (ord. cit. pag. 3).
La strada italiana, invero, sarebbe stata la medesima praticata da Welby, convalidata dal Gup di Roma ed ora riconosciuta nelle DAT. La “strada svizzera”, invece, consisteva e consiste in una condotta di suicidio assistito, ove il terzo consegna al paziente la dose di veleno necessaria per uccidersi. Il richiamo alle DAT, pertanto, nulla ha a che fare con la strada seguita da Antoniani coadiuvato da Cappato.
* * *
Alla luce di quanto dedotto,
i sottoscritti difensori insistono nel chiedere che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. sollevate dalla I Corte d’Assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018 iscritta nel reg. ord. al n. 43 del 2018, pubblicata in G.U. 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale, n. 11 del 14 marzo 2018, vengano dichiarate inammissibili o, in subordine, manifestamente infondate, riservando ad eventuali e successivi atti ogni ulteriore opportuna illustrazione delle proprie difese ed il deposito di ogni eventuale documentazione.
Si allegano i seguenti documenti:
- Atto costitutivo del Centro Studi Rosario Livatino;
- Statuto del Centro Studi Rosario Livatino.
Con osservanza.
Roma, lì 30 marzo 2018
prof. avv. Mauro Ronco
avv. Stefano Nitoglia
PROCURA SPECIALE
Il Centro Studi “Rosario Livatino”, costituito a Roma il 17.4.2015, con atto registrato il 13.1.2017 n. 230 Serie 3, c.f. 97853360580, con sede in Roma via del Teatro Valle 51 (info@centrostudilivatino.it), in persona del proprio legale rappresentante p.t. prof. avv. Mauro Ronco (c.f. RNCMRA46B19L219R), dichiara di conferire, come in effetti conferisce,
procura speciale
al prof. avv. Mauro Ronco del foro di Torino (pec: mauroronco@pec.ordineavvocatitorino.it; c.f. RNCMRA46B19L219R) e all’avv. Stefano Nitoglia del foro di Roma (pec: studio.nitoglia@legalmail.it; c.f. NTGSFN53H06H501K), affinché gli stessi, anche disgiuntamente tra loro, intervengano nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sollevato dalla I Corte d’Assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018, iscritta nel reg. ord. al n. 43 del 2018, pubblicata in G.U. I Serie Speciale – Corte Costituzionale, n. 11 del 14 marzo 2018, e lo rappresentino e difendano, anche disgiuntamente tra loro, nel sopraindicato giudizio, conferendo loro ogni più ampio potere di legge, senza che agli stessi possa essere opposta carenza di legittimazione o di potere.
Elegge domicilio presso lo studio dell’avv. Stefano Nitoglia, in Roma Via Panama 74 (pec: studio.nitoglia@legalmail.it; fax 068555135).
Roma, lì 30 marzo 2018
prof. avv. Mauro Ronco
per autentica
avv. Stefano Nitoglia