Aldo Rocco Vitale

Dottore di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto europeo
Università “Tor Vergata” di Roma

 

Sommario: 1. Introduzione – 2. Dal diritto di morire al morire del diritto – 3. Conclusioni.

 

 

  1. Introduzione

«L’animo mio, per disdegnoso gusto,/ credendo col morir fuggir disdegno,/ ingiusto fece me contra me giusto./ Per le nove radici d’esto legno/ vi giuro che già mai non ruppi fede/ al mio segnor, che fu d’onor sì degno»:[1] così recita il noto passo sul celebre giurista Pier delle Vigne, notaio e consigliere dell’imperatore Federico II, il quale, nel settimo cerchio del secondo girone della “Commedia” dantesca, confessa all’un tempo la propria colpevolezza e la propria innocenza.

Pier delle Vigne, infatti, ingiustamente accusato di aver tradito l’Imperatore, per la vergogna causata dalla calunnia e ritenendo che la propria vita fosse divenuta irrimediabilmente indegna a causa del disprezzo e dello scherno del mondo circostante, decise di suicidarsi.

Appare evidente che se Dante lo ritiene giustamente innocente riguardo alle accuse di tradimento rivoltegli, lo ritiene altresì colpevole per aver commesso l’atto suicidario, inserendolo nel cerchio di coloro che sono stati violenti contro se stessi.

Nella concezione retributiva della sanzione, largamente condivisa all’epoca in cui la Commedia fu scritta,[2] la pena del contrappasso, tanto più efficace quanto più si pone in antagonismo con il peccato,[3] subita dai sucidi è una delle più terribili: i dannati sono trasformati in alberi e arbusti animati, simboleggiando così il rifiuto per la propria vita umana degradata dall’atto suicidario in vita meno che umana, a tal punto che, il giorno del giudizio universale, le anime dei suicidi potranno, secondo Dante, recuperare i propri corpi come ogni altra anima, ma senza potervisi ricongiungere, appendendo, come un abito consunto, le proprie spoglie all’albero in cui l’anima è imprigionata, non essendo giusto poter riavere ciò che si è rifiutato con violenza.[4] Alla luce del racconto dantesco, tuttavia, senza dubbio degli interrogativi sorgono spontanei: a proposito del suicidio, si tratta di semplici letture dantesche? Di ermeneutiche ed etiche medievali? Di fantasticherie letterarie? Di scenografie morali d’altri tempi? Di mitologie giuridiche dell’antichità? Si tratta, cioè, di qualcosa di lontano nello spazio, nel tempo e nella morale rispetto alla razionalità dei tempi moderni e contemporanei che nulla può insegnare all’uomo e al giurista di oggi?

Probabilmente no, non soltanto perché, come ha notato Ismail Kadarè, «il nostro pianeta è troppo piccolo per permettersi il lusso di ignorare Dante Alighieri. Sfuggire a Dante è impossibile come sfuggire alla propria coscienza»,[5] ma soprattutto perché la ricostruzione di Dante, pur essendo fortemente radicata nella sua profonda formazione cattolica, coincide, proprio in ragione della universalità della sua sostanza, con una interpretazione genuinamente secolare della vita e del diritto, poiché il suicidio è atto antigiuridico in se stesso considerato, in quanto, come ha insegnato uno dei principali geometri del razionalismo illuministico, Immanuel Kant, «noi possiamo disporre del nostro corpo in vista della conservazione della nostra persona; chi però si toglie la vita non preserva con ciò la sua persona: egli dispone allora della sua persona e non del suo stato, cioè si priva della sua persona. Ciò è contrario al più alto dei doveri verso se stessi, perché viene soppressa la condizione di tutti gli altri doveri».[6]

 

  1. Dal diritto di morire al morire del diritto

«Come concepiamo la vita e come concepiamo la morte sono soltanto due aspetti di un atteggiamento di fondo unitario»,[7] notava Georg Simmel evidenziando la strettissima relazione per un verso tra la vita e la morte, e, per altro verso, tra come gli uomini comprendono la prima e come comprendono la seconda, relazione da cui discende un criterio per esplicitare quell’unità di senso che caratterizza, o che dovrebbe caratterizzare, la realtà in genere e quella giuridica in particolare.

L’epoca attuale, tuttavia, è contraddistinta proprio dalla mancanza del senso, se è vero, come è vero, con le parole di Tristram Engelhardt, che la cultura post-secolare dominante del nostro tempo si fonda sull’idea per cui «tutto è in definitiva privo di senso».[8]

Occorre, dunque, recuperare il senso delle cose e del mondo per comprendere se e in che misura è o meno configurabile un diritto di morire.

A tal fine, per cogliere fino in fondo l’essenza della riflessione di Simmel, così come il senso della vita, della morte e dello stesso diritto, non ci si può esimere dall’affidarsi, seppur brevemente, alla riflessione filosofica, poiché questa, e questa soltanto, consente il recupero (pre-giuridico) del senso perduto, come ha opportunamente ricordato Jean-François Lyotard per il quale, infatti, «c’è bisogno di filosofare perché abbiamo perso l’unità. L’origine della filosofia è la perdita dell’uno, è la morte del senso».[9]

Non a caso Albert Camus ha avuto modo di sottolineare come «giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».[10]

L’analisi che segue, dunque, prendendo le mosse da basilari fondamenta di carattere filosofico, proseguirà sul versante più strettamente bio-giuridico, per approdare, infine, dopo un breve excursus giurisprudenziale di carattere comparatistico, alla perimetrazione dello scenario delle conseguenze che più verosimilmente potrebbero venire a delinearsi qualora fosse riconosciuto il diritto di morire.

 

  1. Motivi filosofici.

Sotto il primo aspetto, cioè quello prodromico di carattere filosofico, vi sono tre dimensioni su cui occorre focalizzare l’attenzione per riflettere adeguatamente sul tema principale: la persona, la dignità, la libertà.

Successivamente al riconoscimento di questi tre profili, alcuni interrogativi, soltanto apparentemente di carattere meramente teoretico, ma dall’ampia rilevanza e incidenza giuridica, si propongono: cosa è la persona? Cosa è la dignità? La persona è o possiede la propria dignità? La dignità si può acquistare o perdere? La libertà personale può giungere fino a disporre della propria vita?

Sebbene sia ampiamente diffusa una certa visione individualistica e libertaria strutturalmente refrattaria al senso giuridico del limite e della legge,[11] che riduce il corpo a proprietà,[12] la libertà e la dignità a mere espressioni delle funzionalità individuali,[13] e il tutto al puro insindacabile volontarismo di chi i propri desideri (consapevolmente) esprime,[14] occorre anche chiedersi se tale visione sia non soltanto davvero rispondente alla realtà, ma se sia compatibile più specificamente con la realtà giuridica.

La persona, infatti, che è una categoria ontologica attorno alla quale oramai orbita l’intero ordinamento giuridico e senza la quale la stessa pensabilità del diritto contemporaneo appare impossibile, traduce l’essenza stessa dell’essere dell’umanità.

Ciò significa che la persona non può essere ridotta né alle sue componenti biologiche, né alle sue capacità di espletare o meno le proprie funzionalità, in quanto, come ha insegnato Nikolaj Berdjaev, la persona «non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale».[15]

Soltanto alla luce di tale riconoscimento la tutela costituzionale, penale e civile della persona umana può trovare un razionale e ragionevole fondamento che non può essere disconosciuto per nessun altro motivo ipotizzato o ipotizzabile.

In tale prospettiva, dunque, la dignità non è un attributo esteriore o eventuale della persona, che può essere acquisito o perduto a seconda del mutare delle circostanze, ma è un requisito essenziale, e come tale necessario e inderogabile, della persona medesima che, dunque, sempre e comunque sussiste nella propria dignità, perfino dopo la morte, come dimostra, per esempio, l’ampia rete di tutele giuridiche che mira alla salvaguardia del cadavere (si pensi agli articoli 410, 411, 412, 413 del codice penale che per l’appunto puniscono il vilipendio, la distruzione, la soppressione o la sottrazione del cadavere, il suo occultamento e perfino il suo uso illegittimo) il quale non è per l’appunto mera res,[16] ma la dimensione materiale dell’umano che ancora possiede e conserva l’aura della dignità personale che su esso si proietta.

Essendo più dell’unione delle sue parti e più delle funzioni che può svolgere, e non essendo una mera res, neanche dopo la cessazione delle funzioni vitali, «persona significa che non può essere presa in possesso, non può essere usata come mezzo, non può essere subordinata ad uno scopo […]. Non posso afferrare neppure me stesso».[17]

Ulteriore chiarificazione proviene dalla riflessione intorno alla libertà che deve essere purificata da tutti i suoi derivati cristallizzati nelle diverse correnti di pensiero che nel tempo si sono succedute: anarchismo, liberalismo, liberismo, libertinismo, libertarismo.

Infatti, non soltanto ogni “–ismo” rivela la sublimazione politico-ideologica, e quindi lo stravolgimento, della purezza dell’idea da cui discende,[18] ma tutte le predette derive hanno sempre frainteso la libertà nella sua propria sostanza poiché hanno interpretato la libertà stessa in opposizione alla esistenza di regole e di limiti sebbene secondo una modulazione di volta in volta diversa, in ragione della propria specificità ideologica, ma pur sempre presente, di questa presunta assolutezza.

Non solo la libertà non può essere assoluta poiché come ha evidenziato Albert Camus «la libertà senza limiti è il contrario della libertà»,[19] ma soprattutto perché una libertà assoluta, anche all’interno delle differenti accezioni della predetta assolutezza, condurrebbe inevitabilmente ad una mancanza di responsabilità altrettanto assoluta.[20]

È inevitabile, infatti, prendere coscienza della relazione di proporzionalità diretta tra il riconoscimento dell’autentica libertà, cioè quella non assoluta, e la pensabilità stessa della responsabilità,[21] così che ogni processo di assolutizzazione della prima comporta, inevitabilmente, la totale elisione della seconda, in quanto la vera libertà non soltanto non può coincidere con il mero capriccio soggettivo che ritenga di poter fare tutto ciò che si desidera,[22] né con la mera felicità individuale,[23] ma con la verità dell’essere umano che, in considerazione della propria costitutiva finitudine,[24] non può che godere di una libertà limitata e non infinita.

 

  1. Motivi bio-giuridici.

Da tutto ciò discendono tre precisi motivi di ordine biogiuridico che rendono impossibile fondare giuridicamente il diritto di morire, pur dovendosi ribadire che a fronte della generale riconoscibilità del diritto di sospendere i trattamenti terapeutici vocati a colpire la patologia o gli effetti negativi della stessa, occorre altresì riconoscere che non si possano sospendere i trattamenti di sostegno vitale, poiché le terapie possono sempre essere rifiutate in ragione della loro natura, ma invece, non può essere interrotta la cura di sostegno vitale che, per l’appunto, non è volta alla patologia, ma al sostentamento della vita in sé considerata.[25]

In primo luogo, qualora venisse riconosciuto un diritto di morire (per omissione o per commissione), si dovrebbe necessariamente riconoscere un corrispettivo dovere di far morire (per omissione o per commissione).

I dubbi etici e giuridici, a questo punto risultano già di per sé stessi evidenti: può davvero esistere un dovere di far morire all’interno di un ordinamento giuridico con una impronta personalistica come quello italiano? Può il dovere di far morire essere compatibile con l’intero impianto di presupposti etici e giuridici che sottostanno alla stessa Costituzione in virtù delle dinamiche storico-politiche che l’hanno determinata? Il medesimo ordinamento giuridico potrebbe davvero garantire due opposti come il diritto alla vita e il dovere di far morire senza rischiare un collasso della propria stessa unitarietà, sistematicità e fondabilità razionale?

Il diritto alla vita, infatti, per quanto non espressamente contemplato nella carta costituzionale italiana, fu assunto quale elemento di per se stesso evidente dai padri costituenti che provenivano dalla terribile esperienza del secondo conflitto mondiale con le relative atrocità a cui ci hanno tristemente abituato le pagine dei manuali di storia.

Tuttavia, l’intera figura della carta costituzionale italiana è con tutta evidenza orientata non già al favor mortis, quanto piuttosto al favor vitae, come si evince da una serie di cristallini “indicatori”, specialmente nella parte dei suoi principi fondamentali: la Repubblica, infatti, si fonda sul lavoro (art. 1) che presuppone la vita e che è teleologicamente orientato verso il sostentamento della stessa, tanto a livello personale che sociale; la Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), il primo dei quali non può che essere il diritto alla vita, e i diritti della personalità (art. 2), personalità che non può che fondarsi sulla indisponibilità della vita medesima; la Repubblica riconosce che tutti i cittadini hanno pari dignità (art. 3), significando ciò che la dignità non può essere perduta o acquistata, specialmente non in base alle circostante mutevoli, nemmeno a quelle legate al proprio stato di salute e di operatività funzionale delle proprie capacità bio-fisiche; la Repubblica riconosce la persona (art. 3 comma 2), così che, sulla base di quanto esaminato nel breve preambolo filosofico delle presenti riflessioni, la persona presuppone la tutela della vita, la quale, dunque, non può mai essere qualcosa di manipolabile o di disponibile; la Repubblica tutela, inoltre, il progresso spirituale del singolo e della collettività (art. 4), progresso spirituale che sarebbe con tutta evidenza messo in grave pericolo, come già accaduto in altre epoche storiche, qualora si insinuasse la logica del favor mortis che potrebbe affiancare o perfino soppiantare quella del favor vitae; la Repubblica, inoltre, riconosce e tutela la libertà di coscienza e di pensiero (art. 19, 21) che sono l’espressione più intima della vita umana rappresentando il disvelamento della dimensione etica della persona quale ente strutturalmente inafferrabile e intangibile, cioè indisponibile.

Con tutta evidenza, altresì, la Costituzione è presidio di garanzia orientato secondo il principio del favor vitae in quanto riconosce e tutela la famiglia naturale (art. 29, 30, 31) che è esattamente il momento propulsivo logico, cronologico e assiologico del diritto alla vita.

Infine, l’articolo 32 tutela appunto la salute, che della vita è espressione e non già della morte, sancendo l’impossibilità per la legge di violare il rispetto della persona umana, come potrebbe, invece, accadere qualora si riconoscesse il diritto di morire sul presupposto di un disconoscimento della indisponibile dignità del paziente, anche se fosse quest’ultimo a dichiararne la eventuale deminutio.

Sull’articolo 32, intorno al quale sterminate sono la produzione scientifica e la giurisprudenza di merito e di legittimità, per cui la eventuale loro ricostruzione in questa sede avrebbe più una vaga e vana pretesa enciclopedistica che una effettiva utilità, occorre, tuttavia, effettuare una brevissima riflessione sostanziale di teoria generale del diritto.

La salute da tutelare, che come ha cristallinamente ricordato Hans-Georg Gadamer, non è qualcosa di misurabile per evidenziarne l’unitarietà e la non graduabilità,[26] si fonda su un presupposto logico che è quello della vita secondo una relazione di specie e genere, per cui non si può tutelare il diritto alla salute contrapponendolo al diritto alla vita.

L’ordinamento giuridico, del resto, non è nuovo a schemi logici costitutivi e gerarchizzati di tal natura, come, per esempio tra i tanti possibili, dimostra la relazione di genere e specie esistente tra il diritto di proprietà e il diritto di usufrutto, secondo la natura delle cose per cui il diritto primario e maggiore ricomprende quello derivato e minore; del resto, se può esistere un diritto di proprietà senza usufrutto, non può tuttavia esistere un usufrutto senza l’originario diritto di proprietà; analogamente, per incoercibile forza della natura giuridica degli istituti di cui si tratta, può ben darsi una vita senza salute, ma non un diritto alla salute in astrazione – cioè in assenza – o perfino in opposizione del superiore diritto alla vita.[27]

Appare, dunque, quanto mai illogico e contrario ai principi generali dell’ordinamento il riconoscimento di un diritto di morire, specialmente come espressione di una eventuale tutela “negativa” del diritto alla salute evidentemente contrapposto al diritto alla vita da cui, invece, proviene e discende in senso onto-deonto-logico.

Non a caso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Pretty v. United Kingdom,[28] ha avuto modo di precisare che un diritto di morire in quanto tale non è configurabile e non può essere legittimato né alla luce dell’art. 2 né alla luce dell’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, tanto che il divieto di assistenza al suicidio cristallizzato nel Suicide Act del Regno Unito è stato ritenuto conforme alla Convenzione suddetta tutelando il diritto alla vita in genere e quello dei più deboli e vulnerabili, come i malati cronici o terminali, nello specifico.

Del resto, la discrezionalità degli ordinamenti dei singoli Stati nel vietare l’assistenza al suicidio per tutelare il diritto alla vita è stata più volte espressamente sancita e dichiarata legittima dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo pur in sentenze, come, per esempio, Haas v. Switzerland,[29] o Lambert and others v. France,[30] che pur tuttavia hanno comunque asserito la possibilità della morte per il ricorrente, seppur ricostruendo tale facoltà per altre vie e mai comunque direttamente come vero e proprio diritto di morire.

Nel Regno Unito, inoltre, il recentissimo caso Conway v. Secretary of State for Justice deciso nell’ottobre 2017 dalla British High Court ha sancito che il divieto di suicidio assistito dell’ordinamento britannico è proporzionato alla tutela dei più deboli e che vi è un pubblico interesse al mantenimento di tale divieto.[31]

Anche la giurisprudenza d’oltre oceano ha più volte, anche di recente, negato la possibilità di configurare un diritto di morire.

Infatti, tanto nel caso Morris v. Brandenburg giudicato dalla Supreme Court of New Mexico nel 2016,[32] quanto nel caso Myers v. Schneiderman giudicato dalla Superior Court of New York nel 2017,[33] il diritto di morire è stato escluso nella sua sostanza e nella sua fondabilità costituzionale in quanto vi è un interesse pubblico superiore alla tutela del diritto alla vita.

In secondo luogo, l’eventuale riconoscimento di un diritto di morire comporterebbe delle distorsioni etiche e soprattutto giuridiche in differenti dimensioni dell’esistenza: il rapporto medico paziente e la natura giuridica dell’obbligazione medica; l’autodeterminazione e i suoi limiti; la effettiva tutela dei diritti fondamentali e specialmente di coloro che vivono in particolari condizioni di disagio o difficoltà personale o sociale.

Si proceda, dunque, con ordine.

L’eventuale riconoscimento del diritto di morire in capo al paziente, infatti, incardinerebbe sul medico un palese e corrispettivo dovere di far morire, contrastando tale dovere non soltanto con la natura della professione medica e la dimensione deontologica della stessa, ma anche con quel rifiuto del paternalismo che tanto profondamente ha segnato la cultura medico-legale occidentale degli ultimi decenni.

Il paternalismo, infatti, si ripresenterebbe sotto mentite spoglie e a parti invertite qualora il medico dovesse eseguire il mandato di assistenza alla morte conferitogli dal paziente.

Oltre a ciò, sarebbe sovvertita la natura giuridica della obbligazione medica che dalla classica ricostruzione come obbligazione di mezzo diventerebbe una obbligazione di risultato, dovendo il medico ottenere la morte del paziente dietro richiesta di quest’ultimo, magari senza potersi opporre qualora fosse costretto dal mutato contesto normativo, inverandosi quel drammatico scenario già delineato da Romano Guardini per l’eventualità di una elisione del diritto all’obiezione di coscienza nel caso di interruzione volontaria di gravidanza: «Siamo dunque giunti proprio al punto in cui – come in quei foschi dodici anni – un uomo viene messo di fronte al dilemma di fare ciò che per la sua coscienza morale è un assassinio, oppure di perdere la sua professione: una delle forme peggiori di sconvolgimento che possa mai darsi».[34]

La professione medica, dunque, invece che essere incardinata sul parametro razionale dell’agire secondo scienza e coscienza, sarebbe incentrata sul volontarismo assoluto del paziente, riducendo il medico ad un mero esecutore di ordini à la carte emanati dal paziente, dai suoi famigliari, o dai suoi rappresentanti legali.

Tale considerazione introduce il problema dell’autodeterminazione, che, rispecchiando il tema già delineato della libertà, non può essere considerata svincolata da ogni limite.

Se così non fosse, se cioè l’autodeterminazione non avesse limiti, ammettendosi un diritto di autodeterminarsi fino al diritto di morire, si giungerebbe a drammatiche incongruenze e distorsioni giuridiche, poiché, se può giungersi a disporre del proprio diritto alla vita si deve giungere a riconoscere il potere di disporre dei diritti derivati e minori rispetto al diritto alla vita, come per esempio quello all’integrità fisica.

Infatti, quale coerenza interna possiederebbe quell’ordinamento che pur consentendo la tutela di un asserito diritto di morire come espressione dell’autodeterminazione, non consentisse altresì come espressione della medesima autodeterminazione, per esempio, la vendita del proprio diritto di voto, o la vendita delle parti del proprio corpo magari in vista del soddisfacimento delle esigenze primarie della propria famiglia?

A tal fine ostativo non sopraggiunga l’eventuale timore di una deriva utilitaristica, la cui presenza è, infatti, sempre altamente concreta e non semplicemente ipotetica, come si evince dalla circostanza per cui è già stata avviata la pubblica discussione per legalizzare la morte assistita di alcuni tipi di pazienti in vista di conseguire ingenti risparmi a favore dei sistemi sanitari nazionali, come comprova con palese chiarezza lo studio pubblicato già nel 2017 sul “Canadian Medical Association Journal” alla luce del quale la legalizzazione della morte assistita consentirebbe al sistema sanitario canadese di risparmiare ben 140 milioni di dollari ogni anno.[35]

Il rischio connesso ad una simile logica, evidentemente, consiste nella possibilità di trasformare la morte assistita da morte volontaria a morte non volontaria, e per di più in ragione delle convenienze di bilancio dello Stato.

Su tale prospettiva, in fondo, la realtà dimostra più di ogni ragionamento, poiché è già provato che il richiamo all’autodeterminazione con cui si intende legittimare il diritto di morire, si ribalta molto presto diametralmente nel suo opposto transitando, cioè, da una elargizione di morte volontaria ad una elargizione di morte non volontaria, come è accaduto nei Paesi in cui la morte assistita è stata già da anni legalizzata e nei quali si stanno già registrando molteplici e crescenti casi di abusi a detrimento della tutela dei diritti fondamentali della vita e della salute dei più deboli come anziani o disabili fisici e psichiatrici.

Tra le molteplici prove che di ciò possono fornirsi, si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al recentissimo studio pubblicato nell’ottobre 2017 sul prestigioso e noto “British Medical Journal”,[36] che delinea con estrema chiarezza il capovolgimento in corso in Olanda in cui si sta transitando dalla morte assistita volontaria alla morte assistita involontaria; dalla morte assistita ex lege alla morte assistita contra legem; dalla morte assistita regolamentata alla morte assistita “selvaggia”; dalla morte assistita “liberale” alla morte assistita eugenetica.

Lo studio suddetto, infatti, ha preso in considerazione una trentina di casi di morte assistita praticata in Olanda, verificati a posteriori dalla commissione regionale prevista dalla legge olandese, scoprendo non solo che la verifica successiva non offre quelle garanzie e quella precisione che ci si aspettava di trovare, ma che addirittura nel 69% dei casi si sono registrate violazioni dei criteri procedurali previsti dalla legge e nel restante 31% si sono registrare violazioni dei criteri sostanziali.

Gli autori dello studio chiariscono, altresì, che i criteri sostanziali, ricavabili dal testo della legge olandese, sono quattro: libero e consapevole consenso del paziente; valutazione e accertamento di una insopportabile sofferenza; informazione del paziente circa la sua situazione e la relativa prognosi; condivisione con il paziente circa l’inesistenza di alcun altra soluzione alternativa.

I criteri procedurali, invece, sono due: doppia diagnosi con la valutazione di un medico indipendente che deve visitare il paziente richiedente e rilasciare un parere scritto comprendente la valutazione sulla diligenza nei protocolli seguiti; l’esecuzione e l’adempimento dell’obbligo di cura anche per il paziente terminale che ha richiesto l’eutanasia o il suicidio medicalmente assistito.

Più in concreto, gli autori dello studio hanno rilevato che:

– nel 13% dei casi non è stata accertata la volontarietà della richiesta dell’atto eutanasico;

– nel 16% non è stato accertato che la richiesta di eutanasia fosse correttamente valutata dal paziente e dal medico come richiede la legge olandese;

– nel 19% dei casi non è stata accertata l’insopportabilità della sofferenza;

– nel 22% dei casi non è stata valutata una ragionevole alternativa.

Vi sono stati, inoltre, numerosi casi di consulenza ai pazienti non offerta da medici indipendenti, come pretende la legge olandese, ma da medici che appartengono o sono sponsorizzati dalle associazioni e organizzazioni che promuovono e difendono l’eutanasia e il suicidio assistito.

Non a caso, rileva sempre il suddetto studio, vi sono stati casi che hanno coinvolto pazienti a cui non è stato diagnosticato il cancro o che non si trovavano in stato terminale, come per esempio pazienti affetti da morbo di Huntintgton, da morbo di Parkinson, dal morbo di Alzheimer e anche da patologie psichiatriche o, più “semplicemente”, con un passato di incidenti cerebrovascolari.

Gli autori dello studio, ritengono quindi che «i dati sollevano la questione se un sistema basato sulla revisione retrospettiva provvede ad una tutela adeguata dei pazienti particolarmente vulnerabili (come i pazienti psichiatrici e quelli incapaci), specialmente quando il medico che deve praticare l’eutanasia o il suicidio medicalmente assistito è sponsorizzato da organizzazioni che promuovono e difendono la stessa eutanasia e lo stesso suicidio assistito».

Da tutto ciò emergono diverse considerazioni.

La legalizzazione della morte assistita di per sé non garantisce né l’eliminazione del rischio di abusi, né la riduzione degli stessi quando si verificano, ponendo nel nulla tutta la retorica di coloro che predicano la necessità della legalizzazione per limitarne gli eccessi.

Lo studio dimostra, oltre la tragicità di ciò che sta accadendo in Olanda, che la morte assistita liberale, cioè quella basata sull’esercizio della (presunta) libertà individuale di disporre di sé, della propria vita e della propria morte, si traduce sempre e molto presto in morte assistita illiberale.

In sostanza, si comincia a praticare la morte per chi la richiede e si finisce per praticarla anche a chi non l’ha richiesta.

Il tutto assume contorni più foschi se i freddi numeri della statistica, per esempio il 13% di casi delle morti assistite non richieste evidenziate dal suddetto studio, si traducono nella sostanza “stragista” di ben 9 vite di altrettanti esseri umani interrotte senza nemmeno o perfino contro il loro stesso consenso.

La legalizzazione della morte assistita con cui si pretende di creare delle procedure che siano in grado di tutelare i pazienti più fragili si ribalta in poco tempo esattamente nel suo opposto, cioè nella totale assenza di qualunque garanzia proprio per le persone più deboli, come gli anziani, i pazienti con patologie croniche e ingravescenti, i pazienti psichiatrici o gli incapaci di ogni ordine e grado e tutti coloro che non solo non vogliono morire, ma che non possono nemmeno esplicitare la propria volontà in un senso o in un altro.

Non è un caso se l’aumento vistoso di eventi di morte assistita nei confronti di pazienti psichiatrici è stata definita dal Washigton Post come espressione della «crisi morale dell’Europa»,[37] che, si può arguire, si sta traducendo con estrema velocità in crisi del diritto.

I timori di coloro che hanno costantemente denunciato i pericolosi rischi derivanti dal cosiddetto “pendio scivoloso” nel caso di legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio medicalmente assistito si palesano, quindi, ineluttabilmente fondati.

Tale fondatezza è dimostrata, per esempio tra i tanti possibili, dal condivisibile ragionamento logico-giuridico alla base della sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti Washington v. Glucksberg che,[38] già ben venti anni or sono, nel lontano 1997, aveva negato l’esistenza di una tutela costituzionalmente fondata del diritto di morire (sia come suicidio medicalmente assistito sia come eutanasia) in quanto si sarebbe stravolta l’integrità etica della professione medica e in quanto sarebbe grandemente e gravemente diminuita la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti più vulnerabili come i minori, gli anziani, i malati, i disabili, i poveri.

Si comprende in che senso l’accorta saggezza e la prudenza che hanno sempre contraddistinto la più nobile tradizione giuridica occidentale rischiano di essere soppiantate da una corrente di pensiero che, dimentica di ogni fondamento del diritto e in nome di un individualismo senza limiti, è in grado di scardinare i principi fondamentali dell’ordinamento e del diritto in se stesso considerato.

A ragione, dunque, ha scritto Francesco Santoro-Passarelli che «non esiste e non è neppure concepibile, malgrado ogni sforzo dialettico, un diritto sulla propria persona o anche su se medesimo, o sul proprio corpo, stante l’unità della persona, per la quale può parlarsi soltanto di libertà, non di potere rispetto a se medesima».[39]

 

Alla luce di tutto ciò che fin qui è stato considerato, non si può non accennare al piano delle conseguenze altamente verosimili a cui si può pervenire in seguito all’eventuale riconoscimento del diritto di morire tramite la depenalizzazione prima e la legalizzazione poi della morte assistita.

In primo luogo, infatti, in seguito alla mutazione della funzione e della natura della prestazione medica, si potrebbe verificare il paradosso per cui il medesimo medico, per esempio un anestesista, potrebbe essere ritenuto giuridicamente responsabile per non essere riuscito a salvare la vita di un paziente da un lato e, all’un tempo, per non essere riuscito ad ottenere la morte di un diverso paziente dall’altro lato.

Insomma, al già vasto scenario delle cosiddette wrongful actions, potrebbe senza dubbio aggiungersi quello giuridicamente inquietante, della wrongful death, cioè dell’azione intentata dal paziente che richiede la morte assistita e che magari non riesce ad ottenerla a causa della “ordinaria” malpractice medica.

In secondo luogo, l’eventuale riconoscimento di un diritto di morire con la connessa legalizzazione della morte assistita si trasforma molto presto nella dimensione inversa di un dovere di morire, cioè della imposizione della morte assistita per ragioni di ordine sociale o perfino economico, ignorando le effettive volontà del soggetto o dei suoi rappresentanti legali.[40]

In terzo luogo, la principale conseguenza che potrebbe discendere dall’eventuale riconoscimento del diritto di morte, sarebbe proprio la morte del diritto stesso, poiché non solo, come già esaminato, si metterebbe a rischio l’incolumità e i diritti fondamentali dei più deboli in difesa dei quali il diritto dovrebbe sempre essere schierato in aderenza alla propria connaturata vocazione, ma anche e soprattutto perché il riconoscimento del diritto di morire dovrebbe fondarsi sull’affermazione implicita dell’idea in base alla quale il diritto medesimo è privo di ogni contenuto morale nella sua presunta equidistanza nei confronti di tutte le opzioni possibili.

A tale soluzione, infatti, si potrebbe pervenire soltanto laddove prevalesse la prospettiva per cui il diritto non possiede una sua propria verità,[41] non tanto e non solo perché una verità in sé non esiste,[42] ma anche e soprattutto perché la verità del diritto sarebbe meramente coincidente con le istanze sociali e individuali che storicamente si vengono a determinare nella prassi socio-politica.[43]

Come ha insegnato Sergio Cotta, tuttavia, «la riduzione della verità a prassi comporta la negazione della verità dell’essere»,[44] così che, si può ritenere, la riduzione del diritto alla prassi socio-politica comporta la negazione del diritto stesso.

Ritenere, come oggi da più parti si ritiene, che il diritto altro non sia che la semplice formalizzazione della volontà politica o di quella individuale, per consentire a ciascuno di poter fare ciò che maggiormente gli aggrada anche in contrasto con i principi fondamentali del diritto, significa ritenere che il diritto non abbia un suo essere e, dunque, una sua ragion d’essere.

Ecco in che senso cogliere la durissima critica mossa da Piero Calamandrei alla depauperante visione del diritto suddetta, e oggi pur tuttavia ampiamente diffusa, che dimostra una totale assenza di fede nel diritto: «C’è il caso che l’inesperto e il dilettante (che è anche peggiore) di filosofia, si metta a proclamare che il diritto consiste unicamente nel far tutti quanti il comodo proprio».[45]

 

  1. Conclusioni

In direzione delle conclusioni, non si può non ritenere che qualora fosse vera l’idea in base alla quale il diritto non possegga una sua verità, tanto che ogni diritto può essere prospettato, perfino il diritto di morire che è, come già visto, negazione del diritto in se stesso considerato, si deve necessariamente convenire con Nietzsche secondo il quale «parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso; in sé, offendere, far violenza, sfruttare, annientare, non può naturalmente essere nulla di illegittimo».[46]

In un tale scenario, quello cioè in cui «la conquista finale dell’Uomo si è rivelata come l’abolizione dell’Uomo»,[47] secondo la icastica formula di Clive Lewis, sarebbe reale il paradosso per cui la conquista finale del diritto sarebbe proprio la causa diretta della morte del diritto.

In una simile prospettiva, cioè quella in cui può essere ottenuto l’annientamento dell’uomo, seppur on demand, la fine del diritto appare come conseguenza certa ed inevitabile, poiché infrangendosi la solidità etico-giuridica della intangibilità della persona l’intera dimensione del diritto perderebbe il suo fondamento più basilare crollando, così, rovinosamente su se stesso, come un edificio in una catastrofe.

Proprio la dimensione semantica originaria di καταστροφή, nell’accezione sia di “capovolgimento” sia di “conclusione”, conduce a ritenere, infatti, che l’eventuale riconoscimento del diritto di morire costituisca esattamente l’ultima fase della καταστροφή che attualmente coinvolge l’intera civiltà giuridica occidentale in cui il giurista ha smarrito la consapevolezza circa i fondamenti del diritto e la realtà giuridica è stata radicalmente sovvertita e capovolta.

In conclusione, dunque, si possono ritenere perfettamente adatte le evocative riflessioni di chi, come Giuseppe Capograssi, proprio sui rapporti tra diritto e catastrofe ha avuto modo di meditare avendole personalmente vissute: «La catastrofe, immergendo l’umanità in un mondo caratterizzato dalla morte e dall’incubo, ha messo in condizioni l’uomo di capire che cosa è che difende e assicura la vita dalla morte e dall’incubo. Sarebbe preferibile che non ci fosse bisogno delle catastrofi per capire; ma l’uomo è fatto in modo che ha bisogno della terribile pedagogia della storia. Il guaio è che, per capire, questa è condizione necessaria, ma non sufficiente».[48]

 

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[1] D. Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Milano, 2005, pp. 154-155, vv. 70-75.

[2] A. R. Vitale, Il contrappasso. Rilievo teologico, filosofico e giuridico, Torino, 2019 (in pubblicazione).

[3] F. Forlenza, Il diritto penale nella Divina Commedia, Armando Editore, Roma, 2003, p. 77.

[4] «Come l’altre verrem per nostre spoglie,/ ma non però ch’alcuna rivesta;/ ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie»: Dante, op. cit., vv. 103-105.

[5] I. Kadarè, Dante, l’inevitabile, Roma, 2008, p. 5.

[6] I. Kant, Lezioni di etica, Laterza, Bari, 2004, pp. 170-171.

[7] G. Simmel, Metafisica della morte e altri scritti, Milano, 2012, p. 9.

[8] T. Engelhardt, Dopo Dio. Morale e bioetica in un mondo laico, Torino, 2014, p. 48.

[9] J. F. Lyotard, Perché la filosofia è necessaria, Milano, 2013, p. 23.

[10] A. Camus, Il mito di Sisifo, Milano, 2009, p. 7.

[11] M. Cappato, Credere, disobbedire, combattere. Come liberarci dalle proibizioni per migliorare la nostra vita, Milano, 2017.

[12] «A chi appartiene la tua vita? A te. E hai diritto di farne quello che vuoi»: cfr. P. Flores D’Arcais, A chi appartiene la tua vita?, Milano, 2009, p. 115.

[13] Cfr. le riflessioni sulla mancanza di dignità dei malati di Alzheimer condotte in: C. Troilo, Liberi di morire, Soveria Mannelli, 2012, pp. 148-151.

[14] M. Sozzi, Sia fatta la mia volontà, Milano, 2014.

[15] N. Berdjaev, Schiavitù e libertà dell’uomo, Milano, 2010, p. 105.

[16] «Il cadavere è res sui generis, poiché nonostante il mutamento di sostanza e di funzione del corpo umano, esso resta pur sempre il residuo del corpo umano vivente: è la proiezione ultraesistenziale della persona umana. E, perciò, conserva una connaturata dignità umana, che lo rende incompatibilmente diverso da tutte le altre cose»: cfr. F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la persona, Padova, 2008,                      Vol. I, p. 43

[17] R. Guardini, Persona e personalità, Brescia, 2006, pp. 46-48.

[18] «I programmi politici non sono mai fabbricati con autentiche idee, ma si compongono soltanto di ismi e, viceversa, quando qualcuno si solleva fino a un ismo vuol dire che non è più una cosa autentica, ma che si è trasformata e degradata in programma»: J. Ortega Y Gasset, Meditazione sull’Europa, Milano, 2000, p. 113.

[19] A. Camus, Il futuro della civiltà europea, Roma, 2012, p. 39.

[20] «La libertà presuppone una scelta e quindi una responsabilità»: cfr. E. Opocher, Analisi dell’idea della giustizia, Milano, 1977, p. 64.

[21] «Senza quella libertà nel suo ultimo e genuino significato, che è la sola pratica a priori, non è possibile nessuna legge morale e nessuna imputazione in base ad essa»: I. Kant, Critica della ragion pratica, Milano, 2000, p. 205.

[22] «Quando si sente dire che la libertà in generale consisterebbe nel poter fare ciò che si vuole, una tale rappresentazione può essere presa soltanto per mancanza totale di educazione del pensiero»: G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Milano, 1996, p. 103, § 15.

[23] «Se si sostituisce l’eudemonia (il principio della felicità) all’eleuteronomia (il principio della libertà, su cui si appoggia la legislazione interna), la conseguenza sarà l’eutanasia (cioè la placida morte) di ogni morale»: cfr. I. Kant, La metafisica dei costumi, Bari, 1973, p. 225.

[24] «La nostra fragilità è ontologica, perché ci costituisce come soggetti qualificati dalla finitudine»: F. D’Agostino, Introduzione alla biopolitica, Roma, 2009, p. 180.

[25] A. R. Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, Roma, 2017, pp. 82-94.

[26] «La salute non si dà a vedere […]. Non è possibile misurare la salute»: cfr. H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Milano, 1994, p. 117.

[27] A. R. Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, Roma, 2017, pp. 76-81.

[28] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-60448

[29] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-102939

[30] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-155352

[31] https://tinyurl.com/yczmuaeh

 

[32] https://law.justia.com/cases/new-mexico/supreme-court/2016/35-478.html

[33] https://law.justia.com/cases/new-york/court-of-appeals/2017/77.html

[34] R. Guardini, Il diritto alla vita prima della nascita, Brescia, 2005, p. 23.

[35] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5250515/#

[36] http://bmjopen.bmj.com/content/7/10/e017628

[37] https://tinyurl.com/ybzpyyzh

 

[38] https://supreme.justia.com/cases/federal/us/521/702/case.html

[39] F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, p. 51.

[40] http://www.centrostudilivatino.it/dal-diritto-di-morire-al-dovere-di-morire-chiaroscuri-e-prospettive/

[41] N. Irti, Diritto senza verità, Bari, 2011.

[42] «Che non ci sia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una “cosa in sé”; ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo»: cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Id., Opere complete, trad. it. di S. Giametta, vol. VIII, tomo II, Milano, 1971, pp. 12-14.

[43] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari, 2012.

[44] S. Cotta, Il diritto come sistema di valori, Cinisello Balsamo, 2004, p. 78.

[45] P. Calamandrei, Fede nel diritto, Bari, 2008, p. 69.

[46] F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, 2007, p. 65.

[47] C. S. Lewis, L’abolizione dell’uomo, Milano, 2016, p. 67.

[48] G. Capograssi, Il diritto dopo la catastrofe, in Opere, Milano, 1959, Vol. V, p. 153.