Ilaria Amelia Caggiano
Associato di Diritto privato
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli 

 

DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

ART. 3, CO. 4 E 5, L. 219/2017 NEL GIUDIZIO SOLLEVATO

DAL GIUDICE TUTELARE – TRIBUNALE DI PAVIA 24/03/2018*

Sommario: 1.  Premessa. L’ordinanza del Tribunale di Pavia (Giudice tutelare) del 24 marzo 2018 – 2. Specificità della fattispecie del “rifiuto alla cura che determina il mantenimento in vita” e profili di illegittimità costituzionale – 2.1. La carenza del procedimento di cui all’art. 3, co. 5, con riguardo alla tutela della vita dell’interessato – 3. L’ambito soggettivo. Rilevanza della questione nel caso di rifiuto alle cure per l’incapace interdetto e minore di età. Questione di illegittimità costituzionale conseguenziale (art. 27, l. n. 87/53).

 

  1. Premessa. L’ordinanza del Tribunale di Pavia (Giudice tutelare) del 24 marzo 2018

 

Con ordinanza del 24 marzo 2018, il Giudice Tutelare (dott.ssa Fenucci) del Tribunale di Pavia, II sezione, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. 4 e 5, della l. 219/2017, nella parte in cui stabilisce che l’amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, ritenendo le suddette disposizioni in violazione degli artt. 2, 3, 13, 32 Cost.

Il ragionamento a sostegno dell’ordinanza muove dall’assunzione del carattere personalissimo del diritto al rifiuto delle cure di mantenimento in vita, caratterizzato da una “eccezionalità dell’oggetto” e tale cioè da non poter essere oggetto di disposizione o di trasferimento a terzi (che nella fattispecie da cui origina l’ordinanza è l’amministratore di sostegno), ma  di esercizio da parte di questi ultimi, ovvero di “cessione” della fase dichiarativa, a tutela del non affievolimento di tali diritti in capo all’incapace, purché limitati alla esternazione della volontà dell’interessato, ricostruibile tramite DAT o, in assenza di DAT, altri indici sintomatici e elementi presuntivi.

Per lo stesso ordine di motivi, il rifiuto delle cure di mantenimento in vita, non potrebbe essere oggetto di valutazione alla stregua di parametri oggettivi, e, ove determinato da tali parametri ovvero se etero-determinato, violerebbe pertanto gli artt. 2, 13, 32 Cost.

A garantire che la decisione al rifiuto delle cure di mantenimento in vita (ipotesi riconducibile all’art. 3, co. 4 e 5 l. 219/2017 e da interpretarsi alla luce dell’art.1, come comprensiva dei trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del paziente), non sia espressione di un giudizio non sindacabile del rappresentante sulla (qualità della) vita del rappresentato, ipotesi allo stato consentita nel caso in cui tale decisione sia condivisa dal medico curante ai sensi dell’art. 3, co. 5, interpretato a contrario, si richiama come necessaria anche in questi casi l’autorizzazione del giudice tutelare, così come previsto espressamente nell’ipotesi in cui la decisione non sia condivisa dal medico (dall’art. 3, co. 5).

A sostegno di tale interpretazione della ratio della normativa sub iudice sul consenso al trattamento del maggiore incapace beneficiario di amministrazione di sostegno con poteri di rappresentanza esclusiva o assistenza necessaria in ambito sanitario, in caso di assenza di DAT, quindi mancando parametri qualificati in base ai quali ricostruire la volontà dell’interessato, si sostiene che:

  • la disposizione sia manifestamente irragionevole se interpretata sistematicamente in raffronto alla normativa in materia di atti patrimoniali c.d. di straordinaria amministrazione, richiamata anche per l’amministrazione di sostegno, per i quali è richiesta l’autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale (art. 374 e 375);
  • la disposizione sia irragionevole alla luce della ratio complessiva della legge volta alla valorizzazione della volontà dell’individuo, e invece disattesa nella disposizione contestata, che sarebbe priva di un adeguato meccanismo di tutela e controllo sulla ricostruzione della volontà dell’incapace, essendo invece il giudizio del medico improntato a canoni obiettivi di appropriatezza e necessità.

In un obiter l’ordinanza, attesa l’eccezionalità della/e disposizione/i che rende/ono lecito il rifiuto alle cure necessarie al mantenimento in vita, sostiene che ove non sia possibile rinvenire manifestazioni di volontà o un quadro sufficientemente espressivo di volontà orientate al rifiuto, si debba (e il giudice debba) decidere nel senso della «prevalenza del complementare diritto alla vita».

L’ordinanza solleva, dunque, la questione di legittimità costituzionale relativamente ad un’ipotesi specifica portata dall’art. 3, co. 4 e 5, della l. 219/2017:

(1) quanto ad ambito oggettivo, dell’atto di manifestazione di volontà relativo al trattamento sanitario, si ha riguardo alla fattispecie del rifiuto alla cura che determina il mantenimento in vita, ipotesi circoscritta nell’ambito della più ampia fattispecie “rifiuto delle cure” previsto dall’art. 3, co. 4 e 5;

(2) con riguardo al profilo soggettivo/oggettivo di incapacità, cioè dell’autore dell’atto di rifiuto in relazione alla situazione di incapacità del paziente, la questione è sollevata con riferimento all’amministratore di sostegno incaricato di rappresentanza esclusiva o assistenza necessaria per le decisioni in ambito sanitario. Appare opportuno rammentare, in proposito, per quanto si argomenterà più avanti, che nelle disposizioni contestate la medesima disciplina si applica al rappresentante legale del maggiore interdetto, in caso di assenza di DAT, e del rappresentante del minore d’età, ove l’assenza di DAT è “ontologica” vista l’incapacità del minore di esprimere le proprie volontà tramite DAT (art. 4).

 

  1. Specificità della fattispecie del “rifiuto alla cura che determina il mantenimento in vita” e profili di illegittimità costituzionale

In applicazione di principi costituzionali (artt. 2, 32, 13 Cost.) e di diritto sovranazionale (artt. 2 e 8 CEDU; artt. 1, 2, 3 Carta Nizza), la normativa nazionale di cui alla l. 219/2017 valorizza l’informazione e il consenso ai trattamenti sanitari della persona interessata, tramite atti programmatici (Disposizioni Anticipate di Trattamento e pianificazione condivisa delle cure, spec. artt. 4 e 5) e in relazione al singolo trattamento.

In quest’ultimo caso, spetta in vario modo anche all’incapace il diritto di essere coinvolto nelle decisioni attuali che la legge prescrive vengano espresse dal rappresentante legale, secondo un’incidenza rispetto all’atto di consenso/dissenso al trattamento, che tiene conto della capacità di intendere e volere del beneficiario di amministrazione di sostegno (art.  3, co. 4), delle concrete circostanze, per l’interdetto (art. 3, co. 3), dell’età e del grado di maturità del minore (art. 3, co. 2, art. 24 Carta Nizza).

Il consenso o il rifiuto ai trattamenti sanitari (erroneamente l’art. 3, co. 2, parla di «consenso…rifiutato») vengono, in ogni caso, espressi dal tutore, ovvero dagli esercenti la responsabilità genitoriale, tenuto conto della volontà dell’incapace.

La valorizzazione delle capacità di comprensione e decisione del minore e dell’incapace (art. 3, co. 1) e il suo diritto a ricevere informazioni sul proprio stato di salute, va in ogni caso bilanciata con il rispetto dei diritti fondamenti alla vita, alla salute e alla dignità della persona (art. 1, 2, 3 Cost. e artt. 1 e 2 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), come richiamati dall’art. 1 e dall’art. 3, co. 2 e 3, che parallelamente cita salute psicofisica, e della vita, nel rispetto della dignità.

Può notarsi come, singolarmente, il testo legislativo non richiami la tutela degli stessi principi, al successivo co. 4 dell’art. 3, nella parte in cui disciplina l’operato dell’amministratore di sostegno[1].  In ogni caso, lasciando a parte tale omissione del testo di legge, che è colmabile alla stregua dei criteri di interpretazione sistematica, appare evidente che la tutela specifica dei summenzionati diritti fondamentali sia parametro di valutazione delle scelte relative alle cure del paziente. Questi ultimi rappresentano i principi sovraordinati alla cui stregua l’intera normativa va interpretata e che vanno riconosciuti indipendentemente dalle condizioni personali e sociali, compresi l’età, l’handicap e la malattia.

In applicazioni di tali principi, infatti, la scelta del paziente o del suo rappresentante non sono sempre decisive, quando vita e/o salute vengano messe a rischio, in determinati casi (come in situazioni di emergenza o urgenza, art. 1, co. 7).

Il legislatore italiano, in questo ambito, ha preferito distinguere tra disciplina del consenso e del rifiuto/rinuncia, in via generale, e, nel caso del rifiuto (non espressamente della rinuncia), in via di ulteriore specialità anche in caso di decisione del rappresentante[2], a tutela dei soggetti vulnerabili che non possono o non possono più compiutamente autodeterminarsi.

L’atto di rifiuto delle cure (art. 3, co.5) espresso dal rappresentante legale, in assenza di DAT, quale ipotesi speciale di autodeterminazione legislativamente prevista, è presidiato da una specifica procedura di controllo ex ante a tutela della persona incapace, sebbene, nel testo di legge, solo con riguardo all’ipotesi di disaccordo tra rappresentante e medico e con l’intervento del giudice tutelare. Se, infatti, vi è contrasto tra il rifiuto al trattamento da parte del rappresentante legale del minore ovvero il rappresentante del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, dell’interdetto e le cure proposte dal medico, da quest’ultimo ritenute appropriate e necessarie, i soggetti legittimati al ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno possono richiedere che la decisione venga rimessa al giudice tutelare (art. 3, co. 5).

Il provvedimento a quo sostiene che la cornice concretamente disegnata dal legislatore (intervento del giudice tutelare solo in caso di divergenze tra indicazioni sanitarie a favore del trattamento e rifiuto da parte dell’amministratore di sostegno) non prescriva nessun tipo di controllo sulla reale volontà di rifiuto da parte dell’interessato per le ipotesi in cui la scelta del rifiuto sia condivisa dal medico, con il potenziale oscuramento di scelte pur riconducibili all’incapace, diverse dal rifiuto, e quindi con violazione del suo diritto personalissimo al rifiuto delle cure. Si verificherebbe, cioè, una sovrapposizione del sistema di valori dell’amministratore di sostegno (rappresentante) rispetto al rappresentato (ovvero persona assistita) silente o non in grado di esprimersi autonomamente[3].

Nell’ambito dell’ipotesi in questione nell’ordinanza, relativa ai trattamenti idonei a determinare il mantenimento in vita, il profilo assume concreta rilevanza laddove la cura, come spesso avviene, non possa essere valutata in termini di stretta sproporzionalità o ostinazione irragionevole[4], tali da poter essere esatti dal paziente e non comportare il venir meno degli obblighi professionali da parte del medico[5].

In tali ipotesi, è possibile quindi, in mancanza di un controllo preventivo, che l’amministratore di sostegno esprima una manifestazione di volontà contraria ad un precedente volere del paziente, la quale comporterebbe non solo la lesione del diritto all’autodeterminazione (quale condizione per la sottoposizione a trattamenti sanitari, ma altresì in termini di scelta di come trascorrere la vita, anche negli ultimi momenti, e quindi di qualità della vita), ma altresì del diritto alla vita del paziente[6], in sé considerata, pur potendo non interessare univocamente il diritto alla salute (ricordiamo trattarsi di ipotesi nelle quali vi è un parere del medico relativo alla non applicazione della cura, per mancanza di un beneficio per la salute) o la qualità della vita; ovvero, ove la volontà del paziente non sia rinvenibile, possono verificarsi  situazioni nelle quali la decisione sulla vita dell’incapace venga rimessa al rappresentante.

Va in proposito ricordato che – fermo l’ampio margine di apprezzamento riservato agli Stati, secondo le indicazioni della Corte EDU, per il bilanciamento delle questioni riguardanti la tutela dei diritti fondamentali – lo strumento di controllo sulla decisione del legislatore nazionale va rintracciato, secondo il diritto interposto, nel carattere di procedimentalità della decisione (in questo caso sul fine-vita), in quanto idoneo a rappresentare tutti i soggetti coinvolti nella vicenda.

Pertanto, nelle ipotesi di rifiuto, espresso dall’amministratore di sostegno, alle cure che determinano il mantenimento in vita del soggetto beneficiario dell’amministrazione, la valutazione sulla legittimità può essere effettuata tenendo conto, anzitutto, dell’esistenza di un procedimento a tutela dell’autodeterminazione, della salute e della vita del paziente, e quindi, del concreto bilanciamento di tali diritti costituzionali nonché del criterio di ragionevolezza.

Le obiezioni avanzate dall’ordinanza pavese riguardano l’inidoneità del procedimento previsto dal legislatore italiano, attraverso il parere medico, che dovrebbe avere la funzione di passaggio procedimentale a tutela della vita e della salute del paziente, a garantire, invece, per quanto possibile e tenuto conto delle condizioni dell’incapace, la ricostruzione della volontà del paziente.

Può del pari essere considerato un ulteriore profilo della norma in questione: la mancata previsione del medesimo procedimento delle ipotesi di rinuncia, e non solo di rifiuto, dei trattamenti per il mantenimento in vita.

Il testo della l. 219/2017 accoglie la distinzione tra rifiuto e rinunzia al trattamento, nel primo caso nel senso di diniego, sin dall’inizio, ovvero successivamente, di un trattamento già intrapreso (art. 1, co. 5 e 6, e co. 3, nel medesimo senso con riguardo alle informazioni)[7]. Il rifiuto e la rinuncia, se attuali, si prestano a porre le medesime problematiche in termini di efficienza funzionale rispetto al trattamento. Se riferita al beneficiario di amministrazione di sostegno (o più in generale all’incapace), la rinuncia si presta a porre un potenziale autonomo problema solo ove sia relativo ad un trattamento intrapreso con il consenso del paziente stesso, potendosi in tal caso, quanto meno, valutare tale primo atto in termini di presunzione di volontà del paziente.

La mancata previsione della ipotesi della rinuncia all’interno dell’art. 3, ove compare solo il termine «rifiuto», pone quindi l’alternativa: se la rinunzia non sia mai praticabile, attesa l’eccezionalità della previsione con riguardo alla interruzione dei trattamenti e in particolare con riguardo a quelli relativi al mantenimento in vita; ovvero, se la rinunzia sia praticabile, ma, in questo caso, alle medesime condizioni previste per la fattispecie del rifiuto, con conseguente illegittimità costituzionale della stessa per irragionevolezza.

 

2.1. La carenza del procedimento di cui all’art. 3, co. 5, con riguardo alla tutela del diritto alla vita dell’interessato

 

In presenza di ogni margine di incertezza sull’emersione della volontà del paziente ovvero sulla soggettiva visione di dignità della vita, l’amministratore, per il corretto espletamento delle sue funzioni per la cura del beneficiario dell’istituto di protezione ovvero il giudice in ogni caso, esercitano i loro poteri, nell’interesse del rappresentato/assistito per la tutela dei suoi diritti, avendo riguardo autonomamente ai diritti alla salute e alla vita.

Non sono affatto peregrine le ipotesi nelle quali emergano enormi difficoltà nel rinvenimento di una esatta e precisa prova storica relativa alla ricostruzione della volontà.

In tali casi, deve trovare spazio il bilanciamento dei restanti valori della salute psicofisica, vita e dignità del paziente (art. 3, co. 2 e 3 l. 219/2017) secondo un procedimento logico-interpretativo che, alla stregua di tali principi costituzionali (artt. 2, 12, 32), conduca alla decisione.

Salute e vita non vanno confusi: rappresentano due diritti fondamentali autonomi, meritevoli di autonoma tutela e oggetto di bilanciamento[8].

La valutazione sul mantenimento in vita non deve essere condotto solo alla stregua del diritto alla salute, cioè alla prospettiva di miglioramento o beneficio diretto, ma, ove questi mancassero, può trovare spazio la tutela della vita in sé, ove non confliggente con il benessere dell’individuo (es. sofferenza).

Il diritto alla vita riceve autonoma tutela nell’ordinamento italiano, oltre che nella legislazione penale, attraverso la normativa a costituzionalità necessaria quale la l. 29 dicembre 1993, n. 578 (a sua volta specificato nel regolamento D.m. 582/1994), relativa ai criteri di accertamento della morte e, oggi, nella stessa l. 219/2017, la quale esclude ogni comportamento attivo idoneo a determinarla. L’eccezionalità dei comportamenti che consentono di privare la persona del diritto alla vita nonché i necessari criteri di accertamento consentono di circoscrive tutte le restanti ipotesi nelle quali la vita, in quanto tale, deve essere tutelata.

In tale ambito, l’efficacia causale della cura va valutata effettuando il bilanciamento tra diritto alla salute e diritto alla vita. Può pertanto sostenersi che la cura, anche laddove non comporti un immediato beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita, ipotesi nelle quali l’intervento terapeutico risulterebbe comunque valutato secondo i caratteri di appropriatezza e necessità (art. 3, co. 5, anche alla luce dell’art. 6 Conv. Oviedo, la quale pur non essendo perfezionato l’iter per la piena attuazione interna, fornisce alcuni criteri indicativi, e dell’art. 16 cod. deont. med.), possa in ogni caso, senza sofferenza per il paziente e in presenza di cure palliative in grado di escluderla, determinarne il mantenimento in vita.

Ove manchi una chiara volontà di rifiuto del paziente, e pur non essendovi un diretto beneficio per la salute o qualità della vita, il diritto alla vita può essere considerato come oggetto di autonoma protezione, anche nelle ipotesi di cd. fine-vita, le quali pur ricevendo una speciale considerazione da parte del legislatore (art. 2) in considerazione dell’atteggiarsi degli interessi in gioco, non determinano un affievolimento dei relativi diritti. Coerentemente a quanto affermato nell’ordinanza a quo, il diritto alla vita, autonomamente tutelato, deve prevalere, quando il “concorrente” diritto al rifiuto non sia ricostruibile.

 

  1. L’ambito soggettivo. Rilevanza della questione nel caso di rifiuto alle cure per l’incapace interdetto e minore di età. Questione di illegittimità costituzionale conseguenziale (art. 27, l. n. 87/53).

 

Può porsi il problema se le considerazioni prospettate con riguardo all’amministrazione di sostegno valgano, del pari, per le altre ipotesi di incapacità previste dalle disposizioni contenute nell’art. 3, in cui spetti al rappresentante l’espressione del consenso o del rifiuto. Si tratta dell’interdizione e della minore età, ove il diverso grado di capacità di intendere e volere ovvero di discernimento possono incidere in concreto sulla possibilità di ricostruire la volontà dell’incapace o sulla stessa configurabilità di un’autonoma volontà del paziente, come avviene nel caso del minore d’età, per il quale con riguardo ai primi anni di vita, è del tutto impossibile rintracciarne la volontà.

Invero, la normativa tratta unitariamente le diverse fattispecie di “incapacità” non lasciando margini per precetti differenziati in ragione delle condizioni di incapacità del paziente.

In tali casi, non può che emergere lo specifico obbligo di protezione degli interessi ovvero di specifica cura in capo ai rappresentanti legali o dei genitori, idoneo a sopperire la mancanza di volontà espressa dal paziente.

Tali obblighi si specificano secondo i principi illustrati mentre il loro esercizio deve essere valutato in ragione degli interessi presidiati dai relativi istituti, di talché la valutazione del giudice non può essere improntata a criteri di mera oggettività ma, come nel caso dei genitori del minore, purché nel rispetto dei diritti fondamentali di quest’ultimo, tener conto del sistema dei valori dagli stessi espresso e che integrano gli obblighi di cura loro spettanti.

Per tali ragioni, ove la Corte accerti la fondatezza della questione di legittimità costituzionale e dichiari l’incostituzionalità della disposizione di legge oggetto della medesima, è da prospettarsi la dichiarazione di l’illegittimità delle disposizioni legislative, diverse da quella oggetto del giudizio innanzi alla Corte, relative all’art. 3, co. 4 e 5, della l. 219/2017 nella parte in cui stabiliscono che il tutore o rappresentate legale, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessario al mantenimento in vita dell’incapace.  Tale incostituzionalità deriverebbe come conseguenza della decisione adottata (art. 27, l. n. 87/53).

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] Ai sensi dell’art. 3, co. 4, l. 219/2017, l’amministratore di sostegno, se nominato con rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, esprima il consenso o rifiuti il trattamento, ovvero ad esprima il consenso o rifiuti il trattamento unitamente al beneficiario dell’amministrazione ove la nomina abbia previsto l’assistenza necessaria in ambito sanitario, tenendo conto della volontà del beneficiario in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere (art. 3, co. 4); L’inabilitato può esprimere (autonomamente) il consenso.

[2] Quanto all’ipotesi del consenso, quando questi contrasti con il parere del medico, soccorre la disciplina generale, la quale autorizza il medico ad astenersi da ogni ostinazione irragionevole o da trattamenti inutili o sproporzionati (art. 2, co. 2), e da trattamenti contrari alla legge, deontologia professionale, buone pratiche, caso che può verificarsi nel caso di cure sperimentali. Il legislatore, tuttavia, ha omesso di includere le “linee guida” richiamate nella recente legge 8 marzo 2017, n. 24, come termine di confronto per stabilire la responsabilità medica (art. 5), con evidenti problemi di interazione tra le normative, a carico del medico. Nel caso di paziente capace di agire, l’ipotesi del rifiuto o rinuncia espressa è presidiata da obblighi informativi, ove «il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica [...L’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico]» (art. 1, co. 5). La previsione di tali obblighi informativi, applicabile anche all’ipotesi della decisione su un trattamento che sia considerato non strettamente necessario o appropriato dal medico e che è estensibile analogicamente all’ipotesi dell’incapace, evidenzia l’esigenza di una particolare cautela rispetto a tutti i casi di manifestazione di una decisione che comporti la negazione delle cure.

[3] Anche ove vi sia un palese conflitto di interessi tra il rappresentante e l’incapace, pur potrebbero operare istituti di carattere generale (nomina curatore ex art. 78 c.p.c., ricorso al tribunale), essi sono destinati ad intervenire comunque in via eventuale e inidonei a fornire una tutela effettiva, e, semmai, con il rischio di moltiplicare solo i punti di vista “estranei” alla volontà del paziente.

[4] Sulla difficoltà di accertare in concreto l’effettiva sussistenza di un accanimento clinico-diagnostico, già CNB, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, 24 ottobre 2008.

[5] L’ipotesi potrebbe essere quella di trattamenti che assicurano il mantenimento in vita della persona ad eccezione di ulteriori trattamenti che comportano una ostinazione irragionevole (come ad esempio la ulteriore somministrazione di antibiotici). Cfr. CNB, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, ottobre 2008.

[6] In tal senso, anche, per l’ordinamento francese, code de la santé publique (l. 1110-5 e 1110-4) ove si prevede che la sospensione o l’astensione debbano essere richieste dal paziente e, se quest’ultimo non è in grado di esprimere la propria volontà, possono essere adottate a seguito di una procedura collegiale e se le limitazioni o cessazioni di trattamenti possono determinare il decesso, in aggiunta alla procedura collegiale, devono essere rispettate le direttive anticipate, previa consultazione del fiduciario o, in mancanza, della famiglia o dei parenti. Nel caso di rifiuto opposto dal genitore o tutore possa avere gravi conseguenze, il medico è tenuto a prestare le cure indispensabili. Secondo il BGB tedesco, § 1904, invece, in caso di rifiuto o revoca del trattamento anche da parte del rappresentante, se questi sono idonei a provocare un danno grave alla salute o il decesso, occorre l’autorizzazione del giudice tutelare. Sono fatti salvi i casi di urgenza e di concorde valutazione del tutore e del medico, purché la decisione corrisponda alla volontà del paziente (espressa o presunta). Per il Regno Unito, il Mental Capacity Act 2005 prevede che le decisioni di una persona incapace che non abbia espresso volontà anticipate si debbano fondare sul best interest, anche definiti dalla persona incaricata di assumere decisioni in materia di salute e trattamenti. In ogni caso, va prese in considerazione anyone engaged in caring for the person or interested in his welfare (sec. 4, subs. 7). La legislazione spagnola (Ley 41/2002, art. 9, co. 6), prevede in caso di consenso prestato dal rappresentante o dai familiari, che la decisione sia presa tenendo sempre conto del maggior beneficio per la vita o la salute. Le decisioni contrarie a tali interessi devono essere portate a conoscenza dell’autorità giudiziaria, che dovrà attenersi anzitutto alla volontà del paziente ed evitare l’accanimento terapeutico.

[7] Nel medesimo senso, cfr. CNB, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, 24 ottobre 2008.

[8] Sugli step del bilanciamento, cfr. Corte Cost. n. 477/2002 come poi specificati da Cass. n. 24822/2015.

 

Abstract

Ilaria Amelia Caggiano, Dichiarazione di illegittimità costituzionale art. 3, co. 4 e 5, L. 219/2017 nel giudizio sollevato dal giudice tutelare – Tribunale di Pavia 24/03/2018. Note scritte

L’articolo affronta la questione dei poteri dell’amministratore di sostegno in ambito sanitario e dei relativi limiti. In particolare, l’Autrice commenta l’ordinanza del 24/03/2018 con cui il Giudice tutelare del Tribunale di Pavia ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 219/2017.

Parole chiave: amministratore di sostegno, cure sanitarie necessarie, diritti personalissimi, diritto alla vita, Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT).

 

Ilaria Amelia Caggiano, Declaration of constitutional illegitimacy art. 3, co. 4 and 5, Law 219/2017 in the judgment raised by the tutelary judge – Court of Pavia 24/03/2018. Written notes

The article deals with the question of the powers of the health support administrator and related limits. In particular, the Author comments on the order of 24/03/2018 with which the tutelary judge of the Court of Pavia raised a question of constitutional legitimacy of art. 3 of the law 219/2017.

Key words: support administrator, necessary health care, personal rights, the right to life, Advanced Treatment Provisions (DAT).