Aldo Rocco Vitale
Dottore di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto europeo
Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Diritto e persona tra storia e ideologia nell’esperienza marxista*

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il problema – 3. Per concludere

 

  1. Introduzione

 

«Abbiamo bisogno della libertà per impedire che lo Stato abusi del suo potere e abbiamo bisogno dello Stato per impedire l’abuso della libertà»[1]: così ha scritto Karl Popper, diversi anni or sono, riassumendo quasi integralmente l’esperienza socio-politica e soprattutto giuridica del XX secolo, cioè di quel secolo, opportunamente definito da Robert Conquest come il secolo delle idee assassine[2], in cui maggiormente si sono avvertite le profonde lacerazioni e tensioni tra Stato e cittadino, tra ordine e libertà, tra legge e diritto, e, in buona sostanza, tra ideologia e verità.

Così, se c’è chi ha considerato il XX secolo come il “secolo dei campi”[3], c’è, invece, chi lo ha definito il “secolo breve” dei cataclismi[4], mentre altri lo hanno inteso come il “secolo degli idoli”[5], il “secolo del martirio”[6], il “secolo dei genocidi”[7], o perfino come il “secolo del male”[8], potendosi riassumere tutte queste qualificazioni del novecento nella unica e comune sostanza esplicitata dalle parole di Friedrich Nietzsche: «Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere»[9].

Del resto, non si può ignorare quanto certe ideologie e le loro concretizzazioni storico-sociali abbiano lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue e devastazione non soltanto in termini politici, ma anche e soprattutto umani e quindi giuridici, per cui val la pena riflettere, proprio subito dopo il centenario della rivoluzione d’ottobre e nel trentennale della caduta del muro di Berlino, sugli effetti che tutto ciò ha causato specialmente nella dimensione della fenomenologia giuridica, considerando che rivoluzioni, insurrezioni, guerre civili, campi di concentramento, campi di sterminio sono soltanto alcune delle molteplici e camaleontiche epifanie del male nel secolo scorso.

Tuttavia, proprio in considerazione di ciò, sembra opportuno interrogarsi su uno dei due principali elementi che costituisce il presupposto teorico per la realizzazione della suddetta efferatezza, cioè il pensiero marxista (l’altro è quello nazista)[10], posto che la sua indubbia influenza non è stata soltanto di carattere quantitativo, cioè legata al numero di popoli e nazioni ad esso sottomessi, ma soprattutto di carattere qualitativo, avendo inciso in profondità sulla dimensione giuridica universale tanto da poterne percepire perfino oggi l’eco non troppo lontana.

Non a caso Gunther Rohrmoser ha giustamente precisato che «il potere trasformante che il marxismo ha esercitato ed esercita ancora è così grande che, nel mondo in cui viviamo, ogni singolo individuo è investito direttamente o indirettamente, dal destino del marxismo»[11].

Il marxismo, tuttavia, non è stato solo determinante per la storia politica mondiale in genere ed europea in particolare, e nemmeno soltanto da un punto di vista economico, sociale o militare, ma soprattutto dal punto di vista giuridico, avendo elaborato una propria teoria generale del diritto che ha influenzato anche quella occidentale e i cui riflessi ancora oggi si possono intravedere nella realtà giuridica contemporanea.

Si tratta di uno degli aspetti più caratteristici del pensiero marxista che non è riuscito a sopravvivere alla storia sotto l’aspetto economico e socio-politico, ma che invece trova nuova e feconda incarnazione in molte sfaccettature della sensibilità giuridica odierna la quale ne incarna, spesso inconsapevolmente, la prospettiva teorico-giuridica.

Per cogliere quanto incisivo sia stato il marxismo nella storia degli ultimi due secoli e quanto ancora siano visibili le conseguenze del suo navigare lungo il mare del tempo, nonostante siano tramontate le sue epifanie storico-politiche che nei regimi dell’Europa dell’est hanno materializzato la sua dottrina, possono prendersi in considerazione le riflessioni di un grande studioso della fenomenologia socialista nella sua accezione preponderante quale il marxismo è stato, cioè le parole di Joshua Muravchik che così ha sintetizzato: «é la storia del tentativo più ambizioso dell’uomo di soppiantare la religione, con una dottrina di vita che rivendicava le proprie radici nella scienza piuttosto che nella rivelazione[…]. Nessun’altra fede è mai stata così ampiamente abbracciata. Non si limitava ai saloni o alle biblioteche, ma si diffondeva anche negli edifici statali e tra gli scioperanti, nelle barricate e nei campi di battaglia. Influì più di qualsiasi altro evento nella storia del XX secolo»[12].

In questo contesto l’elaborazione di una teoria generale del diritto di matrice marxista ha condotto ad interessanti elaborazioni teoriche che hanno non solo tradotto i principi generali del marxismo nell’esperienza giuridica, ma che soprattutto hanno traghettato tali principi ben oltre la sopravvivenza storica del marxismo in sé considerato.

Appare quanto mai opportuno, dunque, proprio dopo due decenni di distanza dal crollo ufficiale dell’Unione Sovietica, che ha incarnato l’ortodossia dogmatica e prassistica del pensiero marxista, riflettere sulla teoria generale marxista del diritto, per scrutarne le linee fondanti e le applicazioni effettive, così da poter individuare nella dimensione giuridica attuale, attraverso alcune finali esemplificazioni indicative, quanta influenza il marxismo abbia esercitato ed ancora eserciti sul versante giuridico e a quali esiti tutto ciò realmente conduca.

Sebbene, infatti, la fiamma filosofica del marxismo sia stata soffocata dalle ceneri del crollo dei regimi del socialismo reale, la sua luce, come quella degli astri morti che comunque continua a viaggiare nel tempo e nello spazio, illumina ancora certi istituti giuridici contemporanei.

Nello spazio conciso delle seguenti riflessioni, dunque, si analizzeranno i presupposti concettuali e ideali della teoria generale marxista del diritto, la sua effettiva sostanza, tramite la messa in evidenza della natura del diritto secondo il pensiero dei giuristi marxisti, e, soprattutto, gli esiti a cui conduce un simile articolato intreccio, e non solo relativamente al diritto in sé considerato, ma anche e soprattutto in merito al quell’imprescindibile elemento della dogmatica giuridica universale, inclusa quella contemporanea, che è il concetto di “persona”.

Si tenterà di rispondere al quesito di fondo che riassume l’intera problematica, e cioè: il marxismo è o non è una forma di nichilismo giuridico?

 

  1. Il problema

 

«Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza»[13]: hanno scritto Karl Marx e Friedrich Engels nel 1845 ponendo da sé medesimi la chiave ermeneutica del loro stesso pensiero, senza la quale non è possibile comprendere le conseguenze che il marxismo ha avuto sul mondo del diritto come premessa per la legittimazione di tanti orrori in suo nome commessi nel XX secolo.

Nel predetto passaggio di Marx ed Engels, infatti, è racchiusa tutta l’energia necessaria per l’individuazione non solo delle tracce del pensiero marxista nell’odierna esperienza giuridica, ma per la stessa comprensione dei rapporti tra marxismo e diritto.

Per scandagliare in profondità la relazione tra marxismo e diritto, al fine di percepire la portata degli influssi che il marxismo ha avuto e ancor oggi ha sul diritto, occorre procedere con ordine, cioè riferirsi dapprima ai presupposti teoretici, poi alla sostanza effettiva e infine agli esiti ultimi della elaborazione giuridica marxista nel suo complesso.

  1. A) Il diritto.

Presupposti teoretici. In merito ai presupposti occorre fare riferimento a quella complessa situazione che emerge dall’intrecciarsi di tre filoni di pensiero su cui sostanzialmente il marxismo si fonda: 1) l’ateismo scientifico; 2) lo storicismo; 3) l’economicismo.

1) Riguardo all’ateismo scientifico, occorre precisare fin da subito che l’ateismo di Marx non è il comune ateismo che fino a quel momento si era delineato, cioè la sovversione della dimensione trascendente con la semplice sostituzione a Dio dell’uomo, ma è la eradicazione totale di ogni dimensione trascendente, non solo come finalità in se stessa perseguita, ma anche come mezzo di attuazione della critica della religione quale presupposto di ogni altra critica, cioè della critica economica, morale, giuridica, antropologica, filosofica, secondo le stesse parole di Marx per il quale, appunto, «la critica della religione è il presupposto di ogni critica»[14].

L’ateismo scientifico per Marx è dunque il punto di partenza della sua filosofia, poiché, come egli scrive: «La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola»[15].

Preliminarmente ad ogni riforma sociale, occorre depurare l’esistenza, specialmente quella politica e quella giuridica, dall’ipoteca del fenomeno religioso che grava su ogni ambito della vita, e restringendo lo spazio della religione che non deve più trovare posto nell’alveo del pubblico, ma soltanto in quello del privato, come il trevirita puntualizza chiaramente: «L’uomo si emancipa politicamente dalla religione confinandola dal diritto pubblico al diritto privato»[16].

Vengono così poste le radici di quel pensiero laicistico che ancora oggi, nonostante la fine ufficiale del socialismo reale, differenziandosi dall’autentica laicità[17], tanta parte occupa nello spazio dell’opinione pubblica occidentale e della di questa cultura e sensibilità giuridica[18].

L’ateismo marxiano, però, non si può risolvere in una mera contemplazione negativa, poiché la filosofia non può essere tale, secondo quanto ribadito nell’ultima delle sue biasimanti “Tesi su Feuerbach”: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo»[19].

Per questo motivo Marx giudica aspramente il precedente tentativo di Feuerbach esperito in questa stessa direzione, in quanto quest’ultimo non riesce ad eliminare radicalmente il fenomeno della religiosità, ma si limita a divinizzare l’uomo, come del resto attestano le stesse parole di Feuerbach per il quale «homo homini Deus est»[20].

Marx spiega infatti che l’ateismo, nella sua forma speculativa in cui fino a quel momento è stato configurato, è ancora una forma di quella mediazione della trascendenza che occorre eliminare tramite un nuovo ateismo: «L’ateismo in quanto negazione di questa inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l’ateismo è, sì, una negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l’esistenza dell’uomo, ma il socialismo i quanto tale non ha più bisogno di questa mediazione. Esso comincia dalla coscienza teoreticamente e praticamente sensibile dell’uomo e della natura nella loro essenzialità. Esso è l’autocoscienza positiva dell’uomo»[21].

Come ha precisato Gianfranco Morra, infatti, il marxismo può considerarsi non solo come un semplice ateismo, ma anche e soprattutto come «un umanesimo positivo; forse per lo spirito religioso si tratta della stessa cosa, ma non per Marx, il quale non intende fondare nessun ateismo. L’ateismo è pur sempre una risposta negativa al problema di Dio. Marx, invece, vuole la eliminazione di questo problema»[22].

Eliminata scientificamente la religione, si apre la via all’energia della critica, per cui, sempre con le parole di Marx «la critica del cielo si converte così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica»[23].

2) Svincolata l’esistenza da ogni riferimento, anzi, da ogni fondamento trascendente e metatemporale, la realtà viene inevitabilmente vincolata al tempo, o meglio, alla storia, come ha evidenziato Albert Camus secondo il quale l’uomo «sfuggito alla prigione di Dio, sarà sua prima cura costruire il carcere della storia e della ragione»[24].

Senza la trascendenza, l’esistenza viene così richiusa e ingabbiata nell’immanenza della storia e della dialettica sociale che in essa viene a determinarsi nel conflitto di classe.

Ed ecco quindi il secondo pilastro teorico che sta alla base del marxismo, cioè lo storicismo, intendendo con ciò l’idea per cui i valori mutano al mutare dei riferimenti storico-sociali «cercando di delineare una prospettiva conoscitiva basata su un conoscere rigorosamente anti-metafisico e anti-ontologico del mondo storico sociale»[25].

Nulla più, allora, è universalmente valido e predeterminato, ma tutto diventa oggetto dei mutamenti della storia nella forma dei mutevoli rapporti sociali tra classe dominante e classi dominate, come, del resto, lo stesso Marx scrive a proposito della formazione della coscienza socialmente determinata: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante»[26].

3) Il terzo e ultimo, ma non meno importante, fattore concettuale su cui si regge l’impianto del marxismo è l’economicismo, cioè l’idea per cui i rapporti sociali, umani, giuridici sono esclusivamente determinati dal controllo dei fattori di produzione e dalle leggi dell’economia[27], così che lo Stato, la morale, la religione, e, evidentemente, soprattutto il diritto sono tutti prodotti di una precisa situazione economica in una data epoca storica.

I rapporti umani, dunque, non sono giuridici, ma economici.

Scrive espressamente in merito Marx: «La religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte, ecc., non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale»[28].

L’ateismo scientifico appare, quindi, nel marxismo come la giustificazione della revoca della relazione con la trascendenza, cioè con l’Altro da sé; lo storicismo si configura come la giustificazione dell’annullamento di ogni ontologia non provvisoria del sé; l’economicismo si propone come giustificazione della elisione della metafisica della relazionalità, cioè del legame con l’altro sé che è l’altro.

La natura del diritto. Considerati i tre elementi basilari del pensiero marxiano, si può finalmente esaminare la sua sostanza relativamente alla concezione del diritto come strumento della lotta di classe, della lotta tra classi[29].

In questa prospettiva il diritto, infatti, altro non è che il risultato della volontà della classe dominante che impone la propria oppressione sulle altre classi in genere e sul proletariato in particolare per poter perseguire i propri interessi come Marx conferma: «Leggi, morale, religione sono altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi»[30].

Il diritto, quindi, consiste nella formalizzazione della volontà di classe, come lo stesso Marx chiarisce: «Il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge, volontà il cui contenuto è dato nelle condizioni materiali di esistenza della vostra classe»[31].

Il volontarismo quindi si esprime come il contenuto reale della visione giuridica marxista, addirittura sulla scia di quel primatista della volontà che è stato Schopenhauer, come del resto ha notato lo stesso marxista Antonio Labriola: «Schopenhauer s’avvicinò in parte al vero, nel fare della volontà la radice del mondo. Gli fece da pendant Marx con la dottrina unilaterale del lavoro»[32].

Il diritto, in definitiva, diventa una sovrastruttura della struttura economica,[33] così da farlo coincidere nel pensiero marxista con la volontà in genere e con quella politica in particolare, specialmente con quella della classe dominante, cioè oggi la borghesia, e domani, secondo l’escatologia sociale marxista, il proletariato.

Il diritto nel pensiero marxista, però, non corrisponde ad un volontarismo dai canoni astratti, ma reali, cioè legati al dominio dei fattori di produzione in una specifica epoca storica e da parte di una classe sociale determinata[34], riflette cioè in sostanza la volontà di classe, della classe da cui promana e gli interessi della quale è destinato a difendere.

L’esperienza della dogmatica giuridica sovietica conferma tutto quanto fin qui illustrato.

Del resto è proprio Evgenij Pašukanis, esponente di spicco della suddetta dogmatica, che sancisce come sia «indubbio che la teoria marxista deve non soltanto analizzare il contenuto materiale della regolamentazione giuridica nelle varie epoche storiche, ma dare altresì una spiegazione materialistica alla stessa regolamentazione giuridica come forma storicamente determinata»[35].

L’elemento della volontà dunque è l’unico che fonda il diritto, diritto che a sua volta, proprio per questa sua natura volontaristica, non precede più lo Stato e la società, ma ne rappresenta semmai il diretto riflesso, come nota Umberto Cerroni in relazione alla teoria giuridica del sovietico Peteris Stučka: «Se il diritto è una derivazione del rapporto economico di scambio, la norma statuale che lo formula coattivamente è invece concepita come un atto di volontà compiuto da un organismo – lo Stato – che è soltanto strumento e cioè consapevole invenzione della classe dominante»[36].

Per questo suo fondamento volontaristico, il diritto marxista viene a coincidere sostanzialmente con la politica che lo emana e che ne decide le sorti, per cui non è più la politica subordinata alle regole del diritto, ma quest’ultimo sottomesso alle esigenze della politica.

In questo senso non avrebbe potuto essere più chiaro il Procuratore Generale dell’Unione Sovietica Andrei Vyšinskij: «Il diritto è, ovviamente, una categoria politica. Alla base del diritto sovietico stanno gli interessi politici ed economici degli operai e dei contadini»[37].

Viene rovesciata in sostanza non soltanto il rapporto tra politica e diritto con la subordinazione del secondo alla prima, ma anche e soprattutto si viola la specifica natura tanto della politica quanto del diritto, essendo la prima vocata alla particolarità mentre il secondo all’universalità[38].

Nell’ambito della esperienza marxista, quindi, il diritto viene privato della sua propria natura e ridotto a strumento del potere, della volontà, della classe dominante, cioè oggi la borghesia, e domani il proletariato.

Come ha precisato Henri Chambre, analizzando questa prospettiva, si possono individuare due caratteristiche, cioè la volontà di cui è sostanziato il diritto marxista e l’esito, esiziale per il diritto, dell’idea di impossessamento dello stesso da parte di quello Stato controllato dalla classe dominante, cioè il suo irrigidimento secondo la formalizzazione statale: «Il diritto sovietico è definito l’espressione della volontà della classe dominante, i proletari, operai e contadini. Esso è formulato a beneficio di tale classe. Nelle mani dello Stato sovietico che la rappresenta, esso costituisce uno strumento al servizio di questa classe per il raggiungimento dei suoi scopi, l’eliminazione delle vestigia del capitalismo e l’avvento del comunismo. Tuttavia ogni regola esprimente tale volontà o formulata a beneficio della classe dominante, non rappresenta, in virtù di questa sola caratteristica, il diritto. Per divenire diritto, questa regola deve aver ricevuto la sanzione dello Stato o esser stata stabilita da una legge di Stato […]. La fonte del diritto sovietico è dunque la legge»[39].

Esiti teoretici. 1) Appare così il primo dei tre sbocchi a cui conduce la teoria generale marxista del diritto, cioè il formalismo, ovvero l’idea che il diritto altro non sia che un vuoto contenitore, indipendente dalla giustizia e da altri valori e principi metastatali e metapolitici, che può essere riempito con qualsiasi contenuto (politico) vedendo, con le parole di Peteris Stučka, «nel diritto un fenomeno sociale mutevole anziché una categoria eterna»[40].

La teoria marxista del diritto risulta essere connotata da un forte formalismo non solo perché intende il rapporto giuridico come un rapporto astratto,[41] ma anche e soprattutto perché considera il diritto una mera emanazione dello Stato, secondo la corretta osservazione di Rudolph Schlesinger[42], o, con le parole di Pašukanis, una sovrastruttura derivata e secondaria della statualità[43].

L’elemento della statualità del diritto, come per rimarcare che non c’è diritto oltre ciò che lo Stato come tale sancisce, è perfettamente cristallizzato dalle parole di Vyšinskij: «Il diritto è un insieme di regole della condotta stabilite dal potere statuale in quanto potere della classe che domina la società, nonché delle consuetudini e delle regole di convivenza sanzionate dal potere statuale e attuate coercitivamente con l’ausilio dell’apparato statuale»[44].

La teoria marxista del diritto è, insomma, una teoria positivista in quanto positivisti sono i suoi fondatori e i suoi postulatori, e soprattutto perché negando ogni esperibilità del diritto naturale rinchiude la dimensione giuridica nella sua interezza nella formalizzazione statuale della stessa[45].

Tanto la teoria marxista del diritto è talmente formalista da poter essere paragonata a quella di Hans Kelsen, nella sua pretesa di rendere puro il diritto, per bonificarlo da ogni contaminazione etica, religiosa, politica e ricondurne la sostanza a mero fenomeno sociale nella cui autoreferenzialità principia e termina l’intera sua natura, come lo stesso Kelsen scrive: «La giustizia di un uomo è dunque la giustizia del suo comportamento sociale; e la giustizia del suo comportamento sociale consiste nella conformità ad una norma che, statuendo il valore della giustizia, è anch’essa giusta in questo senso»[46].

Una tale similitudine con la dottrina kelseniana è stata del resto già confermata, evidenziando che la teoria marxista del diritto vi si adatta quasi millimetricamente come notato da Marco Cossutta le cui conclusioni meritano di essere riportate per esteso: «La teoria pura e la teoria comunista del diritto considerano il loro oggetto una tecnica di controllo sociale. La operazione che attraverso il diritto si compie è la medesima per entrambe le teorie: organizzare e controllare la società secondo la volontà del ceto dominante. Valori, ideali, diritti inalienabili e così via, appartengono al variegato mondo della soggettività irrazionale che non vincola in alcun modo la attività del Legislatore e perciò non può né deve venire assunta ad oggetto di riflessione di una scienza giuridica. Il diritto viene, dunque, rappresentato come uno strumento inanimato, un recipiente aperto a qualsivoglia contenuto, un oggetto a disposizione di chiunque abbia la forza per conquistarlo»[47].

2) Il formalismo che caratterizza la teoria marxista del diritto, del resto, è l’unico rimedio, tuttavia pur sempre inefficace, per contravvenire al secondo esito a cui la stessa teoria inevitabilmente conduce, cioè il relativismo.

Essendo negata ogni essenza del diritto, ogni possibilità di conoscere questa essenza, e rendendo il diritto, come già rilevato, un mero guscio formale estraneo alla giustizia e in grado di contenere qualsiasi volontà di qualunque classe dominante che ne detenga il controllo, la dimensione giuridica privata di ogni ancora ontologica ed assiologica, viene in definitiva abbandonata ai fortunali del relativismo.

Lo stesso Marx in fondo confessa: «La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza»[48].

Al mutare dei rapporti materiali dell’esistenza, con tutta evidenza, non può che mutare conseguentemente soprattutto il diritto – specialmente nella sua accezione di codice etico – in quanto non più legato a principi universali e razionali, ma soltanto contingenti, determinati dai giochi di forza sui mezzi di produzione nella lotta tra le classi per il controllo degli stessi.

Se, infatti, Marx nega ogni fondamento sostanziale del diritto, cioè in ultima analisi la configurabilità del diritto naturale, rimettendo, come già visto, tutto il diritto al potere dello Stato e della classe sociale che vi domina, l’effetto primario sarà quello di relativizzare, dopo aver relativizzato la coscienza[49], la stessa concezione del diritto.

Sull’assunto per cui, come evidenziato da André Gide, «secondo la dottrina marxista la verità non esiste, per lo meno in senso assoluto, c’è soltanto una verità relativa»[50], anche il diritto viene investito da questa visione relativistica che rappresenta all’un tempo la premessa necessaria e la logica conclusione della teoria generale marxista del diritto, senza la quale, addirittura, per utilizzare le parole di Giacomo Perticone, «i vincoli e le premesse dottrinali si sciolgono e cadono, se non si accetta un punto di vista relativistico, così sul terreno economico come sul terreno morale»[51].

In questo senso Mikhail Rejsner non avrebbe potuto esprimersi più chiaramente: «Il diritto si sviluppa in sistemi ideologici di classe separati […]. Il diritto civile della borghesia domina su ogni altro […]. Il proletariato crea il suo proprio diritto di classe […]. Il diritto socialista della classe operaia»[52].

Ogni epoca storica ha un proprio diritto; ogni società di ogni epoca storica ha un proprio diritto; ogni classe di ogni società di ogni epoca storica ha un proprio diritto; ciascuno elabora il proprio diritto; il diritto cessa così di essere una manifestazione universale della relazionalità umana e diventa, tramite l’interpretazione che di esso opera la teoria generale marxista, uno strumento di potere, di lotta, di divisione.

Il relativismo, quindi, secondo la sua tipica modalità diffusa e diffusiva[53], si manifesta come il pensiero nel pensiero, cioè come un elemento strutturale del marxismo, o, se si preferisce, come un esito inevitabile del pensiero marxista preso sul serio.

Tuttavia, se è vero che «il relativista ritiene che non esista alcun criterio per affermare che taluni assetti sociali – o taluni stili comportamentali – siano migliori di altri»[54], è anche pur vero che questo tratto costitutivo e sostanzialmente caratterizzante del marxismo, ne costituisce una delle più palesi contraddizioni interne.

Contraddizione che viene tanto in luce quanto più si considera che Marx intendeva de-ideologizzare il diritto[55], depurarlo della sua dimensione politica, sottrarlo al dominio della classe dominante, ma alla fine lo ha reso più ideologico di quanto non fosse, più politico di quanto non pensasse e strumento di una nuova classe dominante, cioè il proletariato.

Aporie interne di un sistema, quello marxista, che ha reso prettamente politico il diritto, come attesta la serratissima critica di chi, come Hans Kelsen, ha sempre tentato di compiere (invano) una analoga operazione di purificazione del diritto[56].

Di un tale armamentario relativistico di cui dispone il marxismo si sono avvalsi, comunque, ovviamente i teorici marxisti del diritto, come per esempio esplicita Peteris Stučka allorquando risponde alla domanda che cos’è il diritto?: «In primo luogo il diritto è un sistema o un ordinamento dei rapporti sociali, in secondo luogo, l’elemento determinante di questo ordinamento o sistema è l’interesse della classe dominante, e in terzo luogo, questo sistema o ordinamento dei rapporti sociali si attua in forma organizzata, vale a dire viene sanzionato e tutelato dalle violazioni dalla organizzazione della classe dominante, cioè dallo Stato»[57].

3) Il diritto non ha dunque una propria natura e una propria sostanza, ma riflette soltanto le dinamiche socio-economiche storicamente determinate.

Un tale relativismo, però, è sempre un metodo con cui si esprime qualcosa di ben più radicale e profondo, cioè il nichilismo, come ha giustamente puntualizzato Gianfranco Morra: «Il relativismo altro non è se non la metodologia del nichilismo»[58].

Tuttavia, e qui si giunge finalmente al terzo esito nonché al cuore dell’intera problematica, se il diritto assume soltanto un ruolo servile rispetto alle dinamiche della lotta di classe che imperversa lungo la storia e dunque non ha una propria natura, cioè una propria verità, il diritto, in definitiva, non esiste e, soprattutto, non deve esistere.

In fondo Marx stesso non avrebbe potuto essere più chiaro in questo senso scrivendo nel suo “Manifesto” la direzione programmatica da seguire in merito alla verità: «Il comunismo abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, invece di trasformarle; quindi il comunismo si mette in contraddizione con tutti gli svolgimenti storici avuti sinora»[59].

Se il marxismo abolisce le verità eterne come retaggi del dominio oppressivo della borghesia, abolisce anche lo Stato, e quindi il diritto, come momenti di massima espressione di tale retaggio.

Lo Stato e il diritto, nella prospettiva marxista devono dunque estinguersi, anzi tutta la tensione della rivoluzione proletaria ad altro non serve se non al raggiungimento diretto di questo obiettivo, ovvero nientificare lo Stato e soprattutto il diritto.

Non è un caso, quindi, che nella celebre lettera che Engels scrive a Babel giustifichi la posizione dei marxisti contro le accuse degli anarchici, ricordando proprio che nella logica del marxismo lo Stato e il diritto saranno definitivamente e finalmente dissolti: «Gli anarchici ci hanno rinfacciato fino alla nausea lo Stato popolare, benché già il libro di Marx contro Proudhon e in seguito il Manifesto comunista dicano esplicitamente che con l’instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare»[60].

Lo stesso Lenin, diversi anni dopo, entrando nella contesa con gli anarchici e con tutti quei socialdemocratici che in Europa, a suo dire, avevano intanto deformato gli assi portanti e i principi cardine del pensiero di Marx, così scrive proprio nella sua principale opera dedicata al tema dei rapporti tra Stato e rivoluzione: «La sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta. La soppressione dello Stato proletario, cioè la soppressione di ogni Stato non è possibile che per via di estinzione […]. Il marxismo ha sempre insegnato che con l’abolizione delle classi si compie anche l’abolizione dello Stato. Il passo a tutti noto dell’Antidühring sull’estinzione dello Stato rimprovera gli anarchici non tanto di essere per l’abolizione dello Stato, quanto di pretendere che sia possibile abolire lo Stato dall’oggi al domani»[61].

La lotta marxista si risolve quindi in una lotta contro lo Stato (che si dissolve) e, soprattutto, in una lotta contro il diritto, inteso nella sua accezione di dimensione giuridica dell’esistenza in generale, come ricorda nel 1923 il giurista sovietico Aleksandr Gojhbarg: «Noi ci rifiutiamo di vedere nel diritto una idea utile alla classe operaia. Lo Stato feudale era uno Stato di diritto divino, uno Stato religioso. La borghesia chiama il suo Stato uno Stato legale. Religione e diritto sono le ideologie della classe dominante di cui l’una sta gradualmente sostituendo l’altra. Se ora noi siamo condotti a lottare contro l’ideologia religiosa, giunti ad un livello più elevato dovremo lottare contro l’ideologia giuridica»[62].

Del resto, partendo dalla ricognizione storica compiuta da Guido Fassò secondo cui «nell’Ideologia tedesca, scritta dal Marx e dall’Engels congiuntamente, non soltanto il diritto in forma di legge è dichiarato incompatibile con il comunismo, ma il diritto in generale»[63], non si può che convenire con gli autori della presentazione dell’edizione italiana del Codice Civile della Russia sovietica, tradotto dal celebre studioso di diritto sovietico Tommaso Napolitano, secondo i quali «quell’avversione per le forme e i principi giuridici tradizionali, già presupposta nel Manifesto e per certi aspetti implicita nella concezione storica del marxismo, assumeva in Russia, nella propaganda rivoluzionaria, un tono di più aperta ostilità, che si esprimeva assai spesso in una negazione dell’idea stessa del diritto»[64].

Così, infatti, scrive Pašukanis: «La sparizione delle categorie del diritto borghese non significa in alcun caso la loro sostituzione con nuove categorie di un diritto proletario… La sparizione delle categorie del diritto borghese significa in queste condizioni la sparizione del diritto in generale, cioè la sparizione progressiva del momento giuridico nei rapporti tra gli uomini»[65].

La teoria generale marxista del diritto si risolve per essere, in buona sostanza, una teoria negatrice del diritto, una teoria che tende ad annichilire la dimensione giuridica della realtà, disconoscendone all’un tempo la natura e lo scopo.

Tuttavia, questo nichilismo giuridico – come del resto quelli etico e ontologico quale cifra del pensiero gnostico – che sembra così coerente nel pensiero marxista non è del tutto inedito in quanto «filosoficamente parlando, la teoria dell’Auflösung [dissoluzione n.d.a.] di Stato e diritto sembra essere la ripresa contemporanea di un antichissimo tema ricorrente nella storia del pensiero giuridico e politico: ossia l’idea della totale liberazione dell’uomo dai suoi limiti»[66].

Si consideri inoltre che come l’ateismo marxista non si limita ad essere contemplativo, ma diviene un vero e proprio ateismo positivo, cioè un antiteismo, così il suo connaturato nichilismo giuridico non rimane al livello della mera teoria, ma diviene concreto antigiuridismo, come del resto accade ogni volta che il diritto viene subordinato alla politica o all’ideologia secondo quanto precisato da Sergio Cotta: «L’antigiuridicismo attuale[…] non tende a sostituirgli la carità, come voleva Carnelutti; né, attraverso un approfondimento della dimensione umana del diritto, apre la via a penetrare nella regione ulteriore della morale, come proponeva Capograssi. Ma l’antigiuridicismo piuttosto lo subordina[…] alla politica e alla ideologia»[67].

Tutto ciò non può che ripercuotersi sulla prima dimensione di senso del diritto che viene ad essere così travolta e stravolta, cioè la persona.

  1. B) La persona.

La negazione ultima. Avendo compiutamente inquadrato la negazione risoluta del diritto in cui si risolve il marxismo, occorre adesso brevemente esaminare quanto una tale negazione produca i suoi effetti pratici sul concetto di persona, rappresentando anche di quest’ultimo la negazione così radicale da non poter più essere invocato come fondamento dei diritti più basilari.

I medesimi presupposti teorici del marxismo, cioè l’ateismo, lo storicismo e l’economicismo, che si sono già esaminati relativamente al diritto nel suo complesso trovano la stessa applicazione anche nel caso della definizione di persona che diviene l’orizzonte della negazione ultima dell’antigiuridismo connaturato al marxismo.

Avendo eliminato ogni fondamento metafisico, come per il caso del diritto, anche la definizione di persona non può che essere parziale nell’ottica marxista ed essere ricondotta ad una forma di umanesimo materialistico e deterministico.

Nel 1844 lo stesso Marx estrinseca la sua idea intorno all’uomo, uomo che è, al pari di ogni altro fenomeno dell’esistenza, economicamente interpretato e definito, infatti, mera «merce umana»[68].

L’essere umano, oltre il proprio fisico involucro corporeo, non ha alcuna giustificazione ontologica che possa rendere ragione della propria essenza e natura, ma è soltanto determinato, come il resto della vita e del mondo, dalle dinamiche sul controllo dei fattori di produzione e quindi, in definitiva, è deterministicamente inteso come il prodotto delle dinamiche sociali secondo quanto provano le riflessioni di Adam Schaff che così difende l’umanesimo marxista: «La personalità non è un’entità spirituale, essa è un prodotto sociale, è funzione dei rapporti sociali, dei rapporti che intercorrono fra gl’individui concreti. Ne consegue che la personalità umana è storicamente mutevole poiché mutevoli sono le condizioni che la determinano»[69].

Marx personalmente, infatti, chiarisce che «come la società stessa produce l’uomo in quanto uomo, cosi l’uomo produce la società»[70].

Ciò significa che l’ente uomo non è identificabile secondo una sua determinata essenza, che come tale sia universale, nel tempo e nella comunanza a tutta l’umanità, ma l’ontologia dell’uomo non solo viene dal marxismo ancorata al succedersi dei fenomeni storici, cioè alla continua mutevolezza nel tempo e del tempo, ma a ciò che si individua come più mutevole in ogni ambito storico, cioè appunto la dinamica socio-economica[71].

L’uomo assume una connotazione del tutto nuova poiché perde la sua qualifica di ente della natura determinato nella sua essenza, e diventa un prodotto mutevole del πάντα ρει della storia[72], benché non si riferisca a quella storia universale (Geschichte) che Hegel magistralmente dipinge come il risultato dell’ingresso nel mondo del  principio cristiano, cioè «il progresso della coscienza della libertà»[73], ma la semplice storia (Historie) della proprietà dei mezzi di produzione[74].

Se, infatti, Hegel, il pensiero del quale è sistematicamente rovesciato da Marx come perseguitato dalla voglia di scardinare e ribaltare l’intero idealismo tedesco, nel solco della migliore tradizione del pensiero occidentale, identifica con precisione l’essenza costitutiva dell’uomo, cioè la sua specifica ed unica sostanza razionale: «L’uomo sa di se stesso, e ciò lo distingue dall’animale. Egli è pensante: ma pensare è aver scienza dell’universale[…]. Ciò che l’uomo è realmente, dev’esserlo idealmente. Avendo coscienza del reale come ideale, esso cessa di essere qualcosa di puramente naturale, dedito solo alle sue immediate intuizioni e tendenze, alla loro soddisfazione e produzione. Che egli abbia coscienza di questo si manifesta nel fatto che egli frena i suoi istinti: tra l’impulso dell’istinto e la soddisfazione egli pone l’ideale, il pensiero. Nell’animale i due momenti coincidono; esso non scinde da sé questo nesso, che può essere interrotto solo dal dolore o dal timore»[75], per Marx, invece, l’ente uomo non solo non è più determinato, ma non è neanche determinabile, poiché – sempre nell’ottica marxiana – l’uomo è un Gattungswesen, cioè un “ente generico”[76].

Sul punto occorre una particolare attenzione.

Normalmente la formula marxiana Gattungswesen viene tradotta con l’allocuzione “ente appartenente ad una specie” o anche “ente della specie”, mostrando non già un errore di traduzione, ma una semplice disattenzione che può però condurre ad uno sviamento drammatico e significativo dall’autentico pensiero di Marx.

In lingua tedesca, infatti, il vocabolo Wesen ha un duplice significato: può da un lato essere tradotto come ente e dall’altro anche come essenza, può cioè essere descrittivo sia dell’esistente sia dell’essenziale, può in definitiva rappresentare sia ciò che esiste, l’ente appunto, sia ciò che rende un ente ciò che è, ovvero la sua essenza, la sua sostanza, la sua dimensione ontologica[77].

La radice Gattungs, invece, significa letteralmente generico, dunque associandola a Wesen risulta più propria la traduzione di ente generico.

Del resto se Marx con Wesen avesse voluto indicare l’essenza, cioè ciò che rende ogni ente ciò che è, che lo sottende, cioè che lo specifica, non avrebbe avuto motivo di aggiungere Gattungs,  rischiando una contraddizione logica, in quanto Gattungs possiede al contrario un significato che proprio dalla specificazione si allontana, ad essa addirittura, si potrebbe affermare con tutta evidenza, si oppone, essendo logico e palese che la genericità sia l’opposto della specificità[78].

Inoltre il tutto appare ancor più chiaro analizzando la complessità del pensiero di Marx, esplicando, cioè, ciò che egli intende con ente generico, o meglio, il significato che “ente generico” assume incardinandosi, sistematizzandosi all’interno del suo pensiero.

Considerando l’uomo un ente generico Marx elimina il problema dell’essenza dell’ente uomo, e trasformando l’uomo in un semplice contenitore che di volta in volta, al mutare delle varie epoche storiche e al conseguente mutare delle varie fasi dello sviluppo storico della proprietà dei mezzi di produzione, assume un contenuto sempre diverso.

Marx, in sostanza, dapprima relativizza l’ente uomo, agganciandone l’essenza alla logica della dialettica storica sulla proprietà dei mezzi di produzione, quindi si dirige verso un evidente processo di nientificazione (Nichtung) dell’ente uomo, che diventa, appunto, un ente generico, sfociando così in una palese forma nichilismo: l’umanesimo nichilista marxiano appunto.

Il nichilismo a cui si perviene seguendo l’idea del Gattungswesen si evidenzia tanto più quanto si delinea il modo con cui Marx elimina, nientifica, annulla, l’essenza e il problema dell’essenza dell’ente uomo.

Il Trevirita, infatti, procede all’un tempo al sovvertimento dei rapporti che si potrebbero definire di causa-effetto tra l’uomo e la società – come più sopra già si è appurato – e ad una elisione della dimensione metafisica dell’uomo, cioè alla eliminazione (Vernichtung) della verità sulla sua essenza[79].

Dunque in Marx l’essenza dell’uomo è sferzata dai colpi di un fortissimo nichilismo che la riduce a mera sovrastruttura, poiché ciò che è rilevante e strutturale è il complesso dei rapporti materiali, ovvero «l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita»[80].

Il nichilismo marxiano trova compimento proprio nella eliminazione della metafisica, quella che per il filosofo tedesco è mera sovrastruttura, poiché – per utilizzare le parole di Heidegger – «la fine della metafisica si svela quale decadenza del dominio del soprasensibile e degli ideali che ne scaturiscono»[81].

Il nichilistico Gattungswesen marxiano peraltro trova notevoli assonanze concettuali con il nichilismo per definizione, cioè quello strutturalmente definito da Friedrich Nietzsche.

Se, infatti, per Marx l’uomo è un ente generico, è bene ricordare che per Nietzsche l’uomo si configura come «l’animale non ancora determinato»[82].

L’umanesimo marxista allora è un falso umanesimo proprio in considerazione degli esiti nichilistici a cui perviene non solo sulla generale dimensione giuridica che include, ovviamente, i diritti fondamentali della persona[83], ma anche e soprattutto sulla pensabilità stessa della persona medesima.

Sia l’elisione della dimensione ontologica dell’essere umano, soprattutto come valore etico universale[84], soppiantata dalla prospettiva sociologica, sia l’elisione della dimensione trascendente che lega l’umano al divino, comporta non solo l’eliminazione della verità, della verità terza rispetto a chi la conosce (l’uomo), ma anche e soprattutto, come la storia insegna, a lungo andare perviene inevitabilmente all’eliminazione dell’uomo medesimo, poiché, con le parole di Nikolaj Berdjaev: «Là dove non c’è Dio, non c’è l’uomo»[85].

Il marxismo, dunque, si risolve per essere ben più di una semplice tendenza verso il nulla[86], ma è una vera e propria forma – sebbene elaborata e contorta – di nichilismo etico, giuridico e antropologico, così da poter accogliere integralmente le lucide considerazioni di Kostas Axelos che ha perfettamente intuito e sintetizzato l’autentica e profonda essenza del pensiero marxista, cioè la sua potenza nientificatrice: «In Marx v’è ciò che nessuno osò vedere: una straordinaria passione per il nulla, una sconvolgente volontà di superamento. L’intera prospettiva marxiana si concentra su questo punto: sopprimere, annientare, superare»[87].

  1. C) Le conseguenze pratiche.

Famiglia e identità personale.    Gli esempi concreti in cui il predelineato edificio teorico (vuoto all’interno poiché sorretto soltanto dalla forza negatrice della sostanza ultima del diritto e della persona) ha trovato e tutt’ora trova applicazione potrebbero essere molteplici[88], ma due su tutti gli altri sono necessariamente da prendere in considerazione – sebbene in modo senza dubbio estremamente sintetico – in virtù non soltanto della loro importanza intrinseca, ma soprattutto perché decisamente attuali e preponderanti nel discorso giuridico odierno, cioè la famiglia e l’identità personale.

La famiglia, nella prospettiva marxista, altro non è che uno degli strumenti della borghesia con cui quest’ultima esercita la sua oppressione, e tutti i contrasti di classe trovano nella famiglia l’origine archetipica della conflittualità di classe secondo lo schema dicotomico oppressori-oppressi, in cui l’uomo opprime la donna; così scrive sul punto Marx citato da Engels: «La moderna famiglia contiene in germe non solo la schiavitù, ma anche la servitù della gleba[…]. Essa contiene in sé, in miniatura, tutti gli antagonismi che si svilupperanno più tardi largamente nella società e nel suo Stato»[89].

Esplicitamente in questo senso si è pronunciato Engels il quale appunto così ha avuto modo di scrivere: «Il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile»[90].

Anche la famiglia, sia come istituto giuridico che come elemento sociale, subisce la medesima sorte del diritto e dell’intera società, per cui come nella visione marxista, non è più l’uomo che forgia la società, ma la società che forgia l’uomo, così non è più la famiglia che determina la società, ma la società che determina la famiglia[91], come ribadisce proprio Marx secondo il quale, infatti, «il comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistiti in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione finora esistite»[92].

La conseguenza diretta è chiaramente quella per cui al mutare dei rapporti sociali e delle condizioni economiche, cioè al mutare della classe sociale che controlla i fattori di produzione, deve necessariamente mutare anche l’idea di famiglia, di matrimonio, di morale sessuale, di rapporti tra le generazioni.

Tanto si deduce cristallinamente dal pensiero di Alexandra Kollontaj in tema di regolamentazione statale delle relazioni sessuali secondo i nuovi canoni della moralità e della giuridicità che la rivoluzione bolscevica ha condotto con sè: «Ogni epoca storica ha un suo ideale del matrimonio e della moralità sessuale. Differenti sistemi economici hanno differenti codici morali. Non solo ad ogni stadio dello sviluppo sociale, ma ad ogni classe corrisponde una moralità sessuale»[93].

Ecco quindi che se non esistono più una morale sessuale e famigliare universale e una universalmente valida forma di famiglia, tutto è concesso e la famiglia diviene un vero e proprio laboratorio di ingegneria sociale in cui poter sperimentare i modelli di unione e di regolamentazione più corrispondenti a questo assunto.

Il pensiero marxista riversa, proprio sull’istituto della famiglia, tutta la propria carica antigiuridista, tramite la diffusione dell’idea per cui esistendo tanti modelli famigliari quante sono le dinamiche sociali che li determinano, la famiglia in definitiva non esiste e se esiste dovrà scomparire alla pari di tutte le altre sovrastrutture della civiltà borghese occidentale[94].

Quanto ancora oggi una tale visione influenzi l’elaborazione giuridica (dottrinale, giurisprudenziale e legislativa) sull’istituto della famiglia, è così evidente per tutti che non si richiedono specifici sforzi probatori in tal senso: sia sufficiente richiamare la crescente legalizzazione delle unioni di fatto, del matrimonio egualitario per persone del medesimo sesso, e perfino la richiesta di riconoscimento del poliamore[95], così che, seppur con una sommaria ricognizione, si può concludere che se tutto è famiglia, in sostanza, nulla è famiglia perché, in definitiva, la famiglia è nulla.

Del resto, come storicamente accertato, una simile logica ha prodotto nel modo più ampio i propri effetti, anche oltre il tema strettamente legato alla definizione e regolazione della famiglia: si pensi, per esempio, al problema dell’aborto, almeno per come è stato legislativamente affrontato proprio da quell’ordinamento – quello sovietico – che ha preteso di incarnare il pensiero marxista.

Non esistendo criteri universalmente validi, sia di carattere etico che giuridico, la teoria generale sovietico-marxista del diritto ha consentito che anche in tema di aborto non si potessero tracciare linee definite e definitive, così che la legislazione sul punto fosse da adeguare di volta in volta in base alla mutevolezza delle diverse esigenze socio-economiche determinate.

La prova più diretta, in tal senso, deriva, appunto, dalla continua modifica della disciplina dell’aborto in Unione Sovietica, in cui, nel giro di pochi anni, si è dapprima legalizzato l’aborto, con il decreto del 18 novembre 1920, sull’assunto che la rivoluzione proletaria aveva restituito alla donna il potere sul proprio corpo; con il decreto del 3 novembre 1924, tuttavia, l’ampia possibilità di abortire originariamente consentita fu grandemente ristretta sull’assunto che oramai, instaurata la società sovietica e liberata la donna dal giogo della borghesia, si dovesse sottrarre al proletariato il minor numero possibile di vite; quindi la legge del 27 giugno 1936 ha vietato del tutto la possibilità dell’aborto, perché la patria del proletariato libero necessitava della prole per portare avanti la lotta marxista nel mondo e nella storia; infine, il decreto del 5 agosto 1954, legalizzò nuovamente la libertà di ricorrere all’aborto venuta meno l’emergenza di creare nuove generazioni in tempo di guerra[96].

Una ulteriore esemplificazione della pregnanza di una tale prospettiva può essere considerata, risultato sostanzialmente diretto del processo nichilistico che la teoria generale marxista del diritto reca con sé producendo i suoi influssi ancora oggi, guardando alla questione dell’identità personale.

Essendo l’essere umano, secondo la definizione dello stesso Marx, un “ente generico”, tale genericità può essere rivestita di qualunque specificità si voglia, sol che lo si voglia e come lo si voglia.

In questo senso la nascita e la diffusione della “recente” ideologia genderista costituisce il più fulgido esempio di ciò che si intende.

L’uomo è un “ente generico” la cui identità viene determinata soltanto dai fattori sociali e storici, così, dunque, anche la sua stessa identità sessuale è determinata non già da una dimensione multifattoriale (corpo e anima), pur sempre ontologica, tuttavia da altri fattori esterni non più legati all’essenza, ma alla storia, alla percezione, alla volontà, alla società.

Ecco in che senso Simone de Beauvoir nel 1949 può scrivere, appunto, che «donna non si nasce, lo si diventa»[97]. L’idea che non vi sia una identità sessuata secondo la naturale dicotomia maschile/femminile[98], ma che, invece, ciascuno possa scegliere la propria identità costituisce la diretta applicazione di quel principio tutto marxiano per cui l’uomo è appunto un “ente generico”.

La dissoluzione dapprima di ogni rapporto con la trascendenza, quindi la disfatta di ogni fondamento metafisico del diritto, e infine la negazione dello statuto ontologico della persona non potevano che condurre ad esiti simili in merito all’identità personale e sessuale, con immaginabili ripercussioni nell’ambito del diritto che, come si ripete oramai quasi ogni giorno, deve garantire l’espressione di una tale polimorfia identitaria: per esempio, concedendo il cambiamento di sesso senza la relativa rettifica dei caratteri biologici[99], o tutelando, da eventuali discriminazioni di qualsiasi tipo, i 23 generi diversi che pare siano stati teorizzati[100].

Il collegamento tra l’antigiuridismo nichilista che caratterizza il marxismo e il pensiero gender odierno è offerto dal ponte del femminismo che radicandosi sul pensiero socialista ha avuto modo di riadattare gli schemi concettuali dello stesso al mondo contemporaneo facendo sopravvivere i principi giuridici e antropologici di base del marxismo alla fine ufficiale del comunismo (almeno nella sua variante “occidentale”, cioè europea).

La stessa pretesa di ricomposizione definitiva dei conflitti tra donne e uomini, dentro e fuori la famiglia, attraverso la costituzione di una società androgina è un mito di derivazione precipuamente femminista che il pensiero gendersita odierno ha fatto proprio e sta diffondendo ad ogni livello della cultura e della società[101].

Il pensiero gender, quindi, in qualità di cronologicamente ultima generazione dell’elaborazione del pensiero femminista, di quest’ultimo ha adottato il metodo di lotta attraverso la rivendicazione giuridica dei cosiddetti “nuovi diritti”– come per esempio il diritto di non definire la propria identità sessuale – ma del marxismo ha adottato la matrice concettuale nichilistica per cui ciascuno può rivendicare un proprio diritto non esistendo una verità universale del diritto; del resto come ha sottolineato Natalino Irti, proprio evidenziando i (presunti) vantaggi di un diritto senza verità,  «caduto il vincolo obbligante della verità, si schiude l’orizzonte delle possibilità. Se nessun diritto è necessario, tutti i diritti sono possibili»[102].

 

  1. Per concludere

 

In conclusione non si può fare a meno di notare tre aporie o contraddizioni interne al pensiero marxista che si è infranto sulla effettiva dimensione del diritto: la prima riguarda lo scetticismo, di cui è sostanzialmente sovraccarico il pensiero marxista, in merito alla possibilità che l’uomo colga razionalmente la verità del mondo in genere e del diritto in particolare. E proprio perché tale scetticismo informa tutto il pensiero (giuridico) marxista è ancor più paradossale che una dogmatica giuridica sia stata elaborata, anche se soltanto per abrogare la fenomenologia giuridica, poiché, utilizzando le parole di Enrico Opocher, «lo scettico non può che rinunciare a filosofare, e, in sostanza, tacere, se non vuole che la sua negazione assuma contraddittoriamente un valore assiologico»[103].

La seconda contraddizione strutturale del pensiero giuridico marxista è la stessa che affligge naturalmente lo storicismo: infatti, la pretesa di quest’ultimo di non scorgere nel pensiero umano nessuna validità universale a fronte di molteplici verità storicamente determinate e sempre transeunti, rappresenta proprio una pretesa universale che contraddice se stessa.

Più chiaramente non avrebbe potuto esprimersi Leo Strauss per il quale «lo storicismo afferma tutti i pensieri e le credenze dell’uomo essere storici, e quindi meritatamente destinati a perire. Ma lo storicismo è anch’esso un pensiero umano: non può dunque aspirare che ad una validità provvisoria: non può essere puramente e semplicemente vero. Sostenere la tesi storicistica significa metterla in dubbio e così trascenderla […]. Lo storicismo con piena incoerenza si esenta dal proprio verdetto circa il pensiero umano, anzi di ciò vive. La tesi storicistica è in sé contraddittoria, è assurda»[104].

La terza contraddizione emerge, infine, da tutto quanto fin qui esaminato, trattandosi di quella relativa all’ideologia.

Non solo Marx non è riuscito a de-ideologizzare il diritto, secondo le sue più genuine intenzioni, ma lo ha reso prettamente ideologico, poiché privandolo di ogni verità, abbandonandolo ai tempestosi flutti dei mutamenti storici, consegnandolo ai capricci della politica, come già visto, lo ha svuotato della sua essenza rendendolo strumento di potere per la sua ideologia e per qualsiasi altra ideologia, tanto da costringere i giuristi marxisti a servirsi necessariamente, come in ogni apriorismo ideologico, dell’utilizzo, ben poco giuridico, di schemi prestabiliti[105].

Senza fondamenti metafisici, senza struttura ontologica, senza orizzonte di senso, infatti, la realtà giuridica prospettata dal marxismo si è presenta come una vera e propria forma di “religione sociale”, parimenti ad ogni ideologia[106].

Quella marxista, allora, più che una vera e propria teoria generale del diritto è stata piuttosto una ideologia del diritto, che per di più si è rivoltata contro l’oggetto stesso della propria propaganda, cioè appunto la fenomenologia giuridica in sé stessa considerata.

Si può, dunque, ritenere in definitiva che il marxismo è stato, e per molti versi ancora oggi è, la forma più vasta, completa, radicale ed efficace di nichilismo giuridico che sia mai apparsa nella lunga storia del diritto, potendosi così accogliere i puntualissimi rilievi di Harold Berman: «Il marxismo classico è dunque una critica della legge ed una scienza del rovesciamento della legge, una scienza della rivoluzione. Mentre cerca di spiegare la legge, la distrugge»[107].

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] K. Popper, La lezione di questo secolo, Venezia, 2009, p. 68.

[2] R. Conquest, Il secolo delle idee assassine, Milano, 2002.

[3] P. Rigoulot – J. Kotek, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000, Milano, 2001.

[4] E. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 1995.

[5] S. Natoli, Sul male assoluto. Nichilismo e idoli nel novecento, Brescia, 2006.

[6] A. Riccardi, Il secolo del martirio, Milano, 2009.

[7] B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi, Bologna, 2006.

[8] A. Besançon, Novecento. Il secolo del male, Torino, 2008.

[9] F. Nietzsche, La volontà di potenza, Milano, 2008, p. 3, n. 2.

[10] Per una più esaustiva comparazione critica dei due pilastri ideologici su cui si sorregge la storia intera del XX secolo con le sue tragedie, le sue contraddizioni, le sue crisi antiumaniste, i suoi deliri di onnipotenza, i suoi conflitti concettuali precursori di quelli armati, si consideri, tra i tanti esempi possibili, il saggio di A. De Benoist, Nazismo e comunismo, Napoli, 2005.

[11] G. Rohrmoser, Marxismo e umanità, Brescia, 1976, p. 15.

[12] J. Muravchik, Il paradiso in terra. Ascesa e caduta del socialismo, Torino, 2005, p. 12.

[13] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, in La concezione materialistica della storia, Bologna, 1959, p. 45.

[14] K. Marx, Introduzione per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Scritti marxisti sulla religione, a cura di F.S. Testa – T. La Rocca, Brescia, 1988, p. 38.

[15] K. Marx, Introduzione per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Scritti marxisti sulla religione, a cura di F.S. Testa – T. La Rocca, Brescia, 1988, p. 38.

[16] B. Bauer – K. Marx, La questione ebraica, a cura di Massimiliano Tomba, Roma, 2004, p. 185.

[17] Per una differenziazione compiuta tra laicità e laicismo cfr. A. R. Vitale, Laicità e laicismo: sinonimia, dicotomia o antinomia? in Gregorianum, 1/2017.

[18] «Il comunismo si è posto sul piano di un ateismo o per lo meno di un laicismo che è ormai espressione di un pensiero sempre più diffuso anche in occidente». Cfr. U. Spirito, Il comunismo, Firenze, 1965, p. 136.

[19] K. Marx, Tesi su Feuerbach, in Scritti filosofici giovanili, Milano, 1996, p. 185.

[20] L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, Milano, 1996, p. 312.

[21] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, 2004, p. 120.

[22] G. Morra, Marxismo e religione, Milano, 1976, p. 57.

[23] K. Marx, Introduzione per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Scritti marxisti sulla religione, a cura di F.S. Testa – T. La Rocca, Brescia, 1988, p. 39.

[24] A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, 2009, p. 92.

[25] F. Tessitore, voce “Storicismo”, in Enciclopedia filosofica, Milano, 2006, Vol. XI, p. 11164.

[26] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, in La concezione materialistica della storia, Bologna, 1959, p. 72.

[27] «La teoria che assegna un ruolo determinante nella storia umana ai fattori economici»: S. Cremaschi, voce “Economicismo”, in Enciclopedia filosofica, Milano, 2006, Vol. IV, p. 3208.

[28] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, 2004, p. 108.

[29] «Ecco dunque la prima idea decisiva di Marx; la storia umana è caratterizzata della lotta di quei gruppi umani, che noi chiamiamo classi sociali, la cui definizione resta, per il momento, equivoca, ma che hanno la duplice caratteristica di comportare da una parte l’antagonismo tra oppressori e oppressi, e dall’altra di tendere a una polarizzazione in due blocchi e due soltanto». Cfr. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Milano, 1989, p. 145.

[30] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Roma, 2000, p. 26.

[31] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Roma, 2000, pp. 34-35.

[32] A. Labriola, Del materialismo storico, Appendice.

[33] «In altre parole, esso è una sovrastruttura, e, come tale, non ha una sua propria storia, autonoma da quella del modo di produzione». Cfr. R. Guastini, Marx. Dalla filosofia del diritto alla scienza della società, Bologna, 1974, p. 300.

[34] «Il diritto viene concepito non soltanto come struttura volontaria-normativa, ma anche come struttura materiale reale (rapporto economico-sociale)». Cfr. U. Cerroni, Marx e il diritto moderno, 1962, p. 67.

[35] E. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, in Aa.Vv., Teorie sovietiche del diritto, Milano, 1964, p. 96.

[36] U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Roma, 1969, p. 59.

[37] U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Roma, 1969, p. 76.

[38] «Se consideriamo politica e diritto nella loro purezza fenomenologia, la prima si colloca nell’orizzonte della particolarità, mentre il secondo si situa nell’orizzonte dell’universalità. Affermare allora l’essenziale politicità del diritto è, dal punto di vista fenomenologico, un vero non-senso». Cfr. S. Cotta, I limiti della politica, Bologna, 2002, p. 439.

[39] H. Chambre, Il marxismo nell’Unione Sovietica, Bologna, 1957, pp. 261-262, p. 264.

[40] P. Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato, in Aa.Vv., Teorie sovietiche del diritto, Milano, 1964, p. 9.

[41] «Il rapporto giuridico è, per dirla con un termine di Marx, un rapporto astratto». Cfr. E. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, in Aa.Vv., Teorie sovietiche del diritto, Milano, 1964, p. 112.

[42] «Il marxismo considera il diritto come un’emanazione dello Stato». Cfr. R. Schlesinger, La teoria del diritto nell’Unione Sovietica, Torino, 1952, p. 33.

[43] «Lo Stato, cioè la organizzazione del dominio politico di classe, cresce sul terreno di determinati rapporti di produzione ovvero di determinati rapporti di proprietà. I rapporti di produzione e la loro espressione giuridica costituiscono quel che Marx denominò, seguendo Hegel, società civile. La sovrastruttura giuridica e, in particolare, la statualità ufficiale, è un elemento secondario e derivato». Cfr. E. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, in Aa.Vv., Teorie sovietiche del diritto, Milano, 1964, p. 134.

[44] U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Roma, 1969, p. 74.

[45] «Sulle questioni che molti teorici occidentali del diritto considerano fondamentali per la loro scienza, Marx ed Engels si sono pronunciati solo occasionalmente, ma in modo da non lasciar dubbio sul fatto che i fondatori del marxismo erano positivisti, in quanto non riconoscevano nessuna specie di diritto naturale». Cfr. R. Schlesinger, La teoria del diritto nell’Unione Sovietica, Torino, 1952, p. 34.

[46] H. Kelsen, Il problema della giustizia, Torino, 1975, p. 3.

[47] M. Cossutta, Formalismo sovietico, Napoli, 1992, p. 94.

[48] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Milano, 2009, p. 16.

[49] «Marx ha relativizzato le forme della coscienza e l’essere sociale fondato sulla produzione materiale». Cfr. C. Failla, Introduzione a Marx. Pro e contro, Brescia, 1977, p. 89.

[50] A. Gide, Sulla soglia, in Il Dio che è fallito, Milano, 1992, p. 222.

[51] G. Perticone, Storia del socialismo, Roma, 1946, p. 549.

[52] M. Rejsner, Ogni classe ha il suo diritto, in Marxismo e teorie del diritto, a cura di R. Guastini, Bologna, 1980, pp. 103-106.

[53] «Il relativismo non ha un centro e non è mai in un luogo preciso […]. E questo conferma un fatto: il relativismo non è una filosofia. È una ideologia». Cfr. G. Jervis, Contro il relativismo, Bari, 2005, p. 54.

[54] G. Jervis, Contro il relativismo, Bari, 2005, p. 36.

[55] Osserva in proposito Massimo Cacciari: «Ideologia per Marx non significa più soltanto una forma del pensiero che mistifica il nesso tra teoria e prassi, che universalizza un punto di vista storicamente determinato, occultando in tal modo la propria condizionatezza. Ideologico, per Marx, è il funzionamento stesso del rapporto sociale di produzione, che la grande forza rivoluzionaria del capitalismo instaura e che è destinata ad affermarsi sull’intero pianeta». Cfr. M. Cacciari, voce “Ideologia”, in Enciclopedia filosofica, Milano, 2006, Vol. 6, p. 5485.

[56] «Il carattere ideologico della teoria sovietica del diritto è la conseguenza inevitabile del principio di Marx, contrario al postulato anti-ideologico, che la scienza sociale in generale, e la scienza dello Stato e del diritto in particolare, deve essere politica, vale a dire deve risultare in formule che possano venire usate come strumenti nella lotta politica di un gruppo contro un altro. Lo stato deplorevole della teoria giuridica sovietica, degradata ad ancella del governo sovietico, dovrebbe essere un ammonimento severo agli studiosi di scienze sociali, che la vera scienza sociale è possibile solo a condizione che sia indipendente dalla politica». Cfr. H. Kelsen, La teoria comunista del diritto, Milano, 1956, p. 298.

[57] P. Stučka, La concezione marxista del diritto, in La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato e altri scritti, Torino, 1967, p. 394.

[58] G. Morra, La scure del nulla, L’Aquila, 1984, p. 154.

[59] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Roma, 2000, p. 39. Cfr. altresì G. Rinaldi, L’etica dell’idealismo moderno, Roma, 2016, pp. 593-597; G. Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, in “Opere complete”, Firenze, 1959, Vol. XXVIII, pp. 46-48 e p. 155.

[60] F. Engels, Lettere sulla critica del programma di Gotha di Karl Marx, in K. Marx, Critica al programma di Gotha, Bolsena, 2008, p. 94.

[61] Lenin, Stato e rivoluzione, Napoli, 2001, pp. 33-73.

[62] H. Chambre, Il marxismo nell’Unione Sovietica, Bologna, 1957, p. 247.

[63] G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, Bologna, 1970, Vol. III, p. 162.

[64] A. De Capua – M. Battaglini – V. Martuscelli, Il Codice Civile della Russia sovietica, Milano, 1946, p. 4.

[65] H. Chambre, Il marxismo nell’Unione Sovietica, Bologna, 1957, p. 254.

[66] D. Coccopalmerio, Dogmatismo e storicità del marxismo. Politica e diritto nell’esperienza comunista, Milano, 1984, p. 138.

[67] S. Cotta, I limiti della politica, Bologna, 2002, p. 431.

[68] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, 2004, p. 86.

[69] A. Schaff, Il marxismo e la persona umana, Milano, 1966, p. 104.

[70] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, 2004, p. 109.

[71] «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Cfr. F. Engels, Recensione, in K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Milano, 2009, p. 237.

[72] Così del resto nota lo stesso marxista I. Svitak: «Se si vuole definire l’uomo, il miglior modo per farlo è tramite la sua storia. L’uomo è una storia delle sue proprie definizioni, la determinazione di se stesso». Cfr. I. Svitak, Le origini dell’umanesimo socialista, in L’umanesimo Socialista, a cura di E. Fromm, Bari, 1971, p. 32.

[73] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1981, p. 47.

[74] «Tutti i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetti ad un continuo mutamento storico, ad una continua trasformazione storica». Cfr. K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Roma, 1994, p. 30.

[75] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, 1981, p. 40.

[76] «Una conseguenza immediata del fatto che l’uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro, della sua attività vitale, al suo essere generico, è l’estraniazione dell’uomo dall’uomo». Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, 2004, p. 76.

[77] È sufficiente consultare un qualunque dizionario della lingua tedesca per rendersi conto dell’inesattezza che viene correntemente riprodotta nelle traduzioni delle parole di Marx. Personalmente ho consultato la voce Wesen nel Dizionario Tedesco-Italiano e Italiano-Tedesco, Firenze, 1975.

[78] Il discorso sarebbe stato diverso – avvalorando dunque le ordinarie e correnti traduzioni di questo termine – se Marx avesse voluto intendere invece di una genericità dell’ente uomo, espressamente una sua specificità, utilizzando più univocamente il termine Gattung o Geschlichte (specie) e non Gattungs (generico).

[79] Così Martin Heidegger definisce la metafisica: «La verità sull’ente nel suo insieme si chiama fin dall’antichità metafisica». Cfr. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Milano, 2006, p. 30.

[80] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Milano, 2009, pp. 16-17.

[81] M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Milano, 2006, p. 30.

[82] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano, 1996, II, 62, p. 104.

[83] «Il carattere sistematico della critica marxiana dei diritti umani si scontra, nel tentativo della sua evidenziazione, col fatto che, come è stato rilevato, non esiste nell’opera di Marx una teoria dei diritti umani intesa in senso stretto ed apertamente formulata. Ciò è dovuto alla pari mancante formulazione sia di una teoria dello Stato che del diritto o dell’etica che della problematica dei diritti umani costituiscono i parametri fondamentali di individuazione». Cfr. A.M. Revedin, La negazione teoretica, Padova, 1985, p. 66.

[84] «Il materialismo di Marx è appunto negazione di valori etici universali in nome della rivoluzione totale. Quindi inglobamento dei valori nell’unico valore della rivoluzione, inglobamento che non può non portare alla totale dissoluzione dell’etica nella politica». Cfr. A. Del Noce, Verità e ragione nella storia: antologia di scritti, Milano, 2007, p. 145.

[85] N. Berdjaev, Nuovo medioevo, Roma, 2000, p. 69.

[86] «Il socialismo è una manifestazione di questa tendenza all’autodistruzione, al Nulla, specificamente per ciò che concerne l’organizzazione della società». Cfr. I. Šafarevič, Il socialismo come fenomeno storico mondiale, Milano, 1999, pp. 420-421.

[87] K. Axelos, Marx pensatore della tecnica, Milano, 1963, p. 344.

[88] In merito cfr. E. Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Milano, 1979, pp. 138-147.

[89] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma, 2005, p. 85.

[90] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma, 2005, p. 93.

[91] Per approfondire le relazioni tra tutela della famiglia e solidità regime democratico cfr. A. R. Vitale, Introduzione alla bioetica. Temi e problemi attuali, Rimini, 2019, p. 55 ss.

[92] K. Marx, L’ideologia tedesca, in Scritti filosofici giovanili, Milano, 1996, pp. 275-276.

[93] A. Kollontaj, Tesi sulla moralità comunista nella sfera delle relazioni matrimoniali, 1921. Per ulteriori approfondimenti sul tema cfr. C. Carpinelli, Donne e famiglia nella Russia sovietica, Milano, 1998.

[94] «Abolizione della famiglia! Anche i più estremisti si riscaldano parlando di questa ignominiosa intenzione dei comunisti. Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cade naturalmente col cadere di questo suo complemento ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale». Cfr. K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Roma, 2000, p. 35.

[95] «Un giorno il sentimento amoroso potrà essere talmente intenso da implicare più persone alla volta […]. Nascerà così una nuova tipologia di relazioni che sarà meglio denominare netloving, in analogia con networking: uomini e donne potranno avere relazioni sentimentali e/o sessuali simultanee, trasparenti e contrattuali con più persone che avranno a loro volta partner multipli. A seconda delle situazioni giuridiche verranno distinte diverse forme di netloving: il poliamore, in cui ciascuno potrà avere più partner sessuali distinti; la polifamiglia, in cui ciascuno apparterrà a più famiglie; la polifedeltà, in cui ciascuno sarà fedele a tutti i membri di un gruppo dalle sessualità multiple». Cfr. J. Attali – S. Bonvicini, Amori. Storia del rapporto uomo-donna, Roma, 2008, pp. 224-225.

[96] Per approfondimenti cfr. G. Codevilla, Dalla rivoluzione bolscevica alla Federazione Russa. Traduzione e commento dei primi atti normativi e dei testi costituzionali, Milano, 1996, pp. 247-261; e anche T. Napolitano, Maternità e infanzia nell’URSS. Saggi di legislazione sovietica, Padova, 1934.

[97] S. De Beauvoir, Il secondo sesso, Milano, 2012, p. 271.

[98] «Si teorizza lo statuto di costruzione del genere in quanto radicalmente indipendente dal sesso, il genere stesso diventa un artificio fluttuante, con la conseguenza che termini come uomo o mascolinità possono significare con la stessa facilità un corpo di sesso sia femminile sia maschile, e termini come donna e femminilità un corpo di sesso sia maschile sia femminile». Cfr. J. Butler, La disfatta del genere, Roma, 2006, pp. 11-12.

[99] Cfr. Corte di Cassazione n. 15138/2015; Corte Costituzionale n. 221/2015; Corte Costituzionale n. 180/2017.

[100] A. R. Vitale, Gender. Questo sconosciuto, Verona, 2016, p. 20.

[101] «Ciò che avremo nella prossima rivoluzione culturale sarà la reintegrazione del maschile con il femminile, per creare una cultura androgina che supera le vette di entrambe le correnti culturali, o anche la somma delle loro integrazioni». Cfr. S. Firestone, The dialectic of sex, in A. Cavarero – F. Restaino, Le filosofie femministe, Milano, 2002, p. 149.

[102] N. Irti, Diritto senza verità, Bari, 2011, p. 17.

[103] E. Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1993, p. 27.

[104] L. Strauss, Diritto naturale e storia, Genova, 2009, pp. 53-54.

[105] «I nuovi concetti giuridici dovevano svilupparsi secondo schemi prestabiliti». Cfr. T. Napolitano, Le metamorfosi del bolscevismo, Milano, 1940.

[106] «L’ideologia può considerarsi una specie di religione sociale». Cfr. E. Nolte, L’eredità del nazionalsocialismo, Roma, 2003, p. 63.

[107] H. Berman, La giustizia nell’URSS, Milano, 1965, p. 14.