Si riporta il testo della relazione di Daniela Bianchini*, depositata in seguito all’audizione informale in Commissione Giustizia al Senato della Repubblica del 3 giugno 2021.
Abstract: In ragione della genericità delle norme, della vaghezza di alcuni termini e del ricorso allo strumento della sanzione penale, il d.d.l. 2005 presenta seri rischi per la libertà di manifestazione del pensiero circa la sessualità e le tematiche ad essa relative. La scuola sarebbe uno degli ambiti maggiormente interessati da queste limitazioni.
Con riferimento al contesto scolastico, occorre distinguere gli effetti sotto due profili di valutazione: un primo profilo concernente gli effetti delle norme del disegno di legge nel loro insieme e un secondo profilo concernente in maniera specifica gli effetti relativi all’art. 7 del disegno di legge.
Sommario
- Il d.d.l. 2005 costituisce un pericolo per la libertà di manifestazione del pensiero
- Le limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero riguarderebbero ogni ambito della vita sociale, compresa la scuola
- Brevi riflessioni sulle criticità dell’art. 7 del disegno di legge 2005
Prima criticità: non c’è alcun riferimento alla disabilità
Seconda criticità: il d.d.l. 2005 pretenderebbe di introdurre a scuola argomenti basati sull’identità di genere, ossia argomenti che esulano dalla competenza scolastica e che, nell’interesse dei minori, devono invece essere lasciati alla responsabilità educativa dei genitori
Terza criticità: la previsione delle attività di cui all’art. 7 non tiene conto del rapporto di collaborazione scuola/famiglia e del primato educativo dei genitori
Quarta criticità: gli insegnanti sarebbero costretti a partecipare alle attività di cui all’art. 7, pur non condividendo i messaggi trasmessi agli studenti e senza poter manifestare il dissenso o discutere sull’argomento
Quinta criticità: introdurre nella scuola insegnamenti divisivi e controversi è senz’altro contrario ai principi posti a tutela dei minori, i quali vanno tutelati da insegnamenti anche solo potenzialmente dannosi per il loro sano ed equilibrato sviluppo psicofisico.
- Conclusioni: a tutela di genitori, insegnanti e minori non sarebbe comunque sufficiente modificare o eliminare l’art. 7 del d.d.l. 2005
- Il d.d.l. 2005 costituisce un pericolo per la libertà di manifestazione del pensiero
Il disegno di legge in esame, lungi dall’essere uno strumento di tutela contro le discriminazioni, costituisce piuttosto un pericoloso strumento di limitazione della manifestazione del pensiero in materia di sessualità, volendo di fatto imporre la visione antropologica alla base della teoria gender, che nega la dimensione sessuata dell’individuo: quanto appena affermato si ricava dal fatto che il disegno di legge è formulato attorno al controverso concetto di identità di genere, elemento alla base della teoria gender, al quale i promotori hanno più volte ribadito di non voler rinunciare, malgrado le criticità emerse durante il confronto politico e messe in evidenza anche da autorevole dottrina.
Preme qui osservare che persino fra i sostenitori del d.d.l. 2005 vi sono state posizioni piuttosto critiche circa il riferimento all’identità di genere, termine considerato vago ed indeterminato («identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere … indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione») e, in quanto tale, contrario a quelli che sono i principi di tassatività e sufficiente determinatezza alla base dell’ordinamento penale.
È plausibile ritenere che la genericità delle norme e la previsione della sanzione penale in caso di violazione, determinerebbero quale effetto quello di indurre le persone ad evitare di manifestare in pubblico il proprio pensiero sul tema della sessualità e su tutte le questioni ad esso relative.
Questioni ‒ come ad esempio l’adozione da parte di coppie omosessuali, la maternità surrogata o l’educazione dei minori nelle scuole ‒ che necessitano, invece, di un confronto aperto e rispettoso, a tutela della società e delle sue componenti più giovani, per evitare che, nell’assenza di dibattito pubblico, si radichino concezioni prive di fondamento scientifico e si impedisca di fatto la possibilità di aderire legittimamente a visioni della vita e dei rapporti umani diverse da quelle che si vorrebbe imporre attraverso l’esclusione del dialogo e del confronto.
Il d.d.l. 2005 – per la vaghezza dei termini e il ricorso allo strumento della sanzione penale ‒ pone dunque in serio pericolo la libertà di manifestazione del pensiero e, favorendo di fatto l’imposizione di un pensiero unico, si pone altresì in contrasto con il fondamentale principio pluralistico, che costituisce l’architrave del carattere democratico del nostro ordinamento.
Non va inoltre dimenticato che i due presupposti ‒ l’emergenza sociale e il vuoto normativo ‒ su cui i sostenitori del d.d.l. 2005 hanno basato le proprie argomentazioni a sostegno della sua approvazione sono del tutto prive di fondamento:
- dai dati forniti dal Ministero dell’Interno attraverso l’OSCAD risulta in maniera palese come l’argomento dell’emergenza sociale sia artefatto e strumentale, in quanto le segnalazioni relative a crimini di odio pervenute negli ultimi anni riguardano principalmente la razza, l’etnia e la religione e soltanto in una percentuale minima riguardano l’orientamento sessuale, il che esclude che si possa parlare di “emergenza sociale”;
- dalla mera lettura del codice penale e dall’esame della giurisprudenza circa i reati commessi in relazione all’orientamento sessuale della vittima, risulta evidente che non vi sono neppure vuoti normativi, in quanto nel nostro ordinamento sono già sanzionate le offese, le percosse, le violenze ecc. commesse ai danni di qualunque persona, senza fare alcuna distinzione. Inoltre il codice penale prevede anche due aggravanti, ossia la minorata difesa e i motivi abbietti e futili, che già trovano applicazione anche nei casi di reati commessi in relazione dell’orientamento sessuale della vittima.
Ne consegue che il d.d.l. 2005, per come è formulato, esclude – o comunque ostacola gravemente ‒ il pubblico e legittimo confronto sociale sulle tematiche relative alla sessualità umana, pretendendo di imporre – con il pretesto della lotta contro le discriminazioni – un pensiero unico e dominante.
- Le limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero riguarderebbero ogni ambito della vita sociale, compresa la scuola
Quanto finora osservato porta a ritenere che, laddove il d.d.l. 2005 venisse approvato, vi sarebbero gravi ripercussioni sull’intera società, in quanto la limitazione della libertà di manifestazione del pensiero riguarderebbe tutti gli ambiti nei quali si svolge la vita sociale.
L’ambito maggiormente colpito – nonché quello più delicato perché riguarda anche i minori ‒ sarebbe la scuola, ove la compressione della libertà di manifestazione del pensiero produrrebbe effetti negativi in termini di:
- limitazione della libertà educativa dei genitori (che nel manifestare contrarietà a certi insegnamenti o attività potrebbero essere ritenuti “omofobi”),
- limitazione della libertà di insegnamento (gli insegnanti che manifestassero opinioni contrarie alla teoria gender potrebbero essere accusati di discriminazione, con evidenti conseguenze sul piano professionale e giuridico),
- grave pregiudizio per la formazione scolastica dei minori (in quanto sarebbero privati di un ambiente aperto e pluralista e verrebbe fortemente limitata la capacità di critica e il confronto delle opinioni).
Del resto, l’interesse a diffondere la cultura gender nelle scuole è stata manifestata chiaramente dai sostenitori del d.d.l. 2005 nei vari dibattiti pubblici e si evince anche dall’art. 7 comma 3 dello stesso disegno di legge, che prevede il coinvolgimento delle scuole di ogni ordine e grado in «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile» per la realizzazione delle finalità di cui al comma 1 dello stesso articolo, ossia per la promozione della «cultura del rispetto e dell’inclusione» unicamente basata sul tema dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.
- Brevi riflessioni sulle criticità dell’art. 7 del disegno di legge 2005
L’art. 7 del d.d.l. 2005 prevede “l’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, finalizzata alla promozione della «cultura del rispetto e dell’inclusione», limitatamente all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Le scuole di ogni ordine e grado, secondo quanto previsto dal combinato disposto del secondo e terzo comma dell’articolo, sono chiamate ad organizzare «cerimonie, incontri, e ogni altra iniziativa utile per la realizzazione delle finalità di cui al comma 1».
- Prima criticità: non c’è alcun riferimento alla disabilità.
È piuttosto singolare riscontrare in un disegno di legge che formalmente intende introdurre “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” una palese mancanza di attenzione verso una categoria che pretenderebbe di tutelare: non si comprende, infatti, per quale ragione la disabilità sia stata esclusa dalla Giornata nazionale e dalle relative cerimonie ed attività previste al comma 3 dell’art. 7.
Di certo la ragione non può rinvenirsi nel fatto che esiste già la Giornata internazionale delle persone con disabilità, posto che esiste già anche la Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia. A ben vedere, detta esclusione è del tutto priva di valide motivazioni e sembra piuttosto dovuta al fatto di voler concentrare l’attenzione unicamente sull’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Del resto, durante il confronto in Commissione giustizia alla Camera la questione è stata sollevata ed è stato altresì proposto di istituire, semmai, una Giornata contro ogni forma di discriminazione. Come noto, questa proposta è stata rifiutata, a dimostrazione ulteriore che il vero interesse del d.d.l. 2005 non è tanto quello di prevenire e contrastare le discriminazioni, quanto piuttosto quello di diffondere la cultura che si basa sul concetto di identità di genere, impedendo – anche attraverso il timore della sanzione penale ‒ la circolazione di opinioni contrarie.
Sta di fatto che quella esclusione determina delle conseguenze in relazione alle attività di cui al comma 3 dell’art.7: la disabilità, non rientrando fra gli obiettivi di cui al comma 1 e non essendo neppure contemplata nel titolo della Giornata nazionale, non potrà essere oggetto di promozione nell’ambito delle attività ed iniziative previste per la Giornata. Con riferimento alla scuola, questo significa, ad esempio, che gli insegnanti non potranno trattare in classe la tematica della disabilità, dovendo focalizzare l’attenzione esclusivamente sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, facendo peraltro attenzione a non manifestare pensieri contrari alla teoria gender perché questo – stante l’incertezza terminologica del disegno di legge ‒ potrebbe essere ritenuto discriminatorio e comportare accuse di omofobia.
- Seconda criticità: il d.d.l. 2005 pretenderebbe di introdurre a scuola argomenti basati sull’identità di genere, ossia argomenti che esulano dalla competenza scolastica e che, nell’interesse dei minori, devono invece essere lasciati alla responsabilità educativa dei genitori.
L’art. 7 comma 3 prevede il coinvolgimento delle scuole di ogni ordine e grado in attività il cui contenuto non è specificato ma è comunque ricavabile sia dal riferimento al comma 1, sia dall’esperienza che è già stata fatta in occasione dei numerosi tentativi operati da varie associazioni LGBT di introdurre la “cultura gender” nelle scuole, attraverso il coinvolgimento di studenti ed insegnanti in varie attività (es. spettacoli teatrali, visione di cartoni animati, lettura di favole, ascolto di testimonianze di esponenti del mondo LGBT ecc.). Come noto, i genitori hanno potuto impedire l’ingresso nelle scuole di attività basate sull’identità di genere e la fluidità di genere facendo valere il loro diritto fondamentale di scelta educativa, la cui rilevanza è stata ribadita anche dal MIUR con la circolare n. 0019534 del 20/11/2018, emanata proprio per impedire l’ingresso nelle scuole di insegnamenti o attività confliggenti con la libertà educativa delle famiglie.
Il coinvolgimento delle scuole – ossia dei bambini, degli adolescenti e degli insegnanti ‒ previsto dall’art. 7 viola pertanto in modo palese il riparto di competenze fra la scuola e i genitori, secondo cui non compete alla scuola la trattazione di tematiche particolarmente sensibili come quelle relative alla sessualità.
Detto riparto di competenze si ricava dal combinato disposto degli artt. 30 e 34 della Costituzione.
Soltanto ai genitori è infatti riconosciuta ‒ dall’art. 30 cost. e dalle fonti internazionali ‒ la responsabilità di provvedere all’educazione e all’istruzione della prole, con la conseguenza che compete in via esclusiva ai genitori la responsabilità di prendere decisioni che riguardano lo sviluppo psico-fisico dei figli. Ciò significa in ultima analisi che i genitori hanno l’autorità di decidere come e quando affrontare con i propri figli tematiche concernenti la sfera più intima.
Secondo l’art. 34 della Costituzione, la scuola è aperta a tutti. Per dare piena attuazione al disposto costituzionale è quindi necessario che lo Stato garantisca un’offerta formativa che non soltanto sia in grado di far acquisire ai minori le conoscenze necessarie ma che sia anche fondata su valori condivisi. La scuola pubblica, per essere davvero aperta a tutti, deve essere una comunità accogliente e deve promuovere la partecipazione, il rispetto e il confronto, in modo da realizzare un ambiente dove gli studenti possano comprendere il valore della condivisione e della pacifica convivenza. Ne consegue che tematiche ideologiche e divisive non possono trovare ingresso nella scuola, in quanto andrebbero ad alterare gli equilibri e si porrebbero come ostacoli ad un’effettiva apertura secondo il disposto dell’art. 34 cost.
La scuola è quindi chiamata ad accogliere tutti, senza fare distinzioni e senza porre condizioni o limiti lesivi dei diritti fondamentali.
A tal proposito giova ricordare che l’art. 28 della Convenzione ONU del 1989, nel rispetto del diritto all’educazione dei minori, impone agli Stati di adottare «ogni adeguato provvedimento per vigilare affinché la disciplina scolastica sia applicata in maniera compatibile con la dignità del fanciullo in quanto essere umano».
Coerentemente con questo principio, il MIUR, al fine di impedire nelle scuole lo svolgimento di attività o insegnamenti contrari alla competenza scolastica e al primato educativo dei genitori, nel 2018 ha ribadito che «la partecipazione a tutte le attività che non rientrano nel curricolo obbligatorio, ivi inclusi gli ampliamenti dell’offerta formativa di cui all’articolo 9 del D.P.R. n. 275 del 1999, è, per sua natura, facoltativa e prevede la richiesta del consenso dei genitori per gli studenti minorenni, o degli stessi se maggiorenni. In caso di non accettazione, gli studenti possono astenersi dalla frequenza. Al fine del consenso, è necessario che l’informazione alle famiglie sia esaustiva e tempestiva» (cfr. circolare MIUR prot. n. 0019534 del 20/11/2018).
Come è evidente, la scuola non può prevedere insegnamenti personalizzati per ciascuno studente. Pertanto, a garanzia dell’interesse e della dignità di ciascun minore e nello stesso tempo di tutti i minori coinvolti, deve proporre un’offerta formativa equilibrata, che possa soddisfare le esigenze educative di tutti e al contempo non escludere nessuno, neppure indirettamente.
Per tale ragione, ad esempio, il buon senso ha sempre consigliato di evitare a scuola messaggi politici: a scuola gli studenti devono apprendere quelli che sono i valori del nostro ordinamento, devono imparare a conoscere e rispettare i diritti fondamentali dell’uomo ma non devono essere orientati verso un partito piuttosto che un altro. Lo stesso vale per tutte le altre tematiche divisive che, in quanto tali, esulano dalla competenza della scuola. Ne consegue che a scuola non possano essere svolte attività concernenti l’identità di genere.
A tal ultimo proposito, giova considerare l’erroneità di quanto affermato dai sostenitori del d.d.l. 2005 a sostegno dell’introduzione nelle scuole di insegnamenti basati sull’identità di genere, secondo cui questi sarebbero finalizzati a contrastare fenomeni di bullismo legati all’orientamento sessuale delle vittime.
Si tratta di un’argomentazione del tutto pretestuosa, in quanto il contrasto al bullismo non passa di certo attraverso l’introduzione di insegnamenti divisivi e controversi sulla sessualità, bensì attraverso l’educazione di bambini ed adolescenti al rispetto di tutte le persone in ragione della loro dignità umana.
A scuola, attraverso l’educazione civica, vengono trasmessi agli studenti i valori su cui si fonda la pacifica convivenza, viene insegnata l’importanza della solidarietà e viene spiegato il significato del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 cost.
Semmai, al fine di favorire lo sviluppo armonioso dei minori e al contempo contrastare il fenomeno del bullismo può essere utile introdurre nelle scuole l’educazione dell’intelligenza emotiva, come è stato proposto anche da due progetti di legge (d.d.l. 1635 del 3 dicembre 2019 e P.d.l. 2782 del 13 novembre 2020), in cui è stata messa in evidenza l’opportunità di offrire agli studenti strumenti volti a stimolare la capacità di comprensione degli altri, allo scopo di migliorare la qualità delle relazioni umane e contrastare efficacemente ogni fenomeno di bullismo.
La scuola è infatti chiamata a formare i minori in modo che questi possano acquisire tutte le competenze necessarie per il sano ed equilibrato sviluppo della personalità e per la partecipazione attiva alla vita sociale, nel rispetto dei principi e dei diritti fondamentali a tutela dei minori, secondo quanto previsto dalla Costituzione e dalle fonti internazionali, fra cui in primis la Convenzione ONU del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che nel preambolo pone in primo piano un presupposto fondamentale per la tutela dei diritti dei minori: occorre «preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella Società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nella Carta delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà».
I minori, come è stato più volte ricordato anche dall’Autorità garante dell’infanzia e dell’adolescenza, hanno dunque il diritto di crescere in uno spirito di eguaglianza e solidarietà, di essere liberi di esprimere la propria opinione con la certezza di essere ascoltati, di crescere in un ambiente sano e favorevole allo sviluppo armonioso e completo della personalità, nonché di ricevere assistenza e protezione dalle istituzioni e di essere protetti da ogni forma di violenza fisica o psicologica.
Infine, a fugare ogni possibile dubbio circa l’incompetenza della scuola a trattare tematiche relative all’identità di genere o all’orientamento sessuale è intervenuto anche il MIUR, che in maniera chiara ed incontrovertibile ha affermato che fra le tematiche estranee ai compiti e agli obiettivi della scuola vi è senz’altro quella relativa all’identità di genere: il Ministero, nel precisare quali conoscenze vadano trasmesse a scuola ha affermato testualmente che fra queste «non rientrano in nessun modo né “ideologie gender” né l’insegnamento di pratiche estranee al mondo educativo» (cfr. Prot. n. 1972 del 15/09/2015).
Proprio sulla base di questa circolare del MIUR, tra l’altro, di recente l’Ufficio scolastico regionale per il Lazio ha dovuto ritirate un documento – intitolato “Linee guida per la scuola: strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere” ‒ che aveva diffuso nelle scuole di ogni ordine e grado del territorio e che era stato da subito ritenuto illegittimo dalle associazioni a tutela dei minori. Le Linee guida avevano lo scopo di promuovere attività ed insegnamenti sulla varianza di genere, in palese contrasto con i principi sopra enunciati in materia di competenza scolastica.
Ebbene, anche alla luce di quanto accaduto nel Lazio, è plausibile ritenere che, qualora il d.d.l. 2005 diventasse legge, sarebbe molto difficile per i genitori e gli insegnanti impedire l’ingresso di certe attività che già attualmente, in spregio ai principi esistenti, i sostenitori della cultura gender stanno tentando di imporre nelle scuole.
Preme qui osservare che ai fini dell’inclusione di eventuali minori con varianza di genere, nell’interesse di tutti i minori coinvolti, la soluzione non può essere certo quella di introdurre nelle scuole insegnamenti controversi, bensì quella di attuare strategie che prevedano, da una parte, fra i compagni di classe, la promozione dell’inclusione attraverso il dialogo rispettoso ed il confronto e, dall’altra, il rafforzamento della collaborazione fra gli insegnanti e le singole famiglie interessate, in modo da individuare le situazioni di disagio, valutare e comprenderne le cause e attuare interventi mirati volti ad offrire al minore gli strumenti necessari per affrontare il percorso scolastico serenamente.
- Terza criticità: la previsione delle attività di cui all’art. 7 non tiene conto del rapporto di collaborazione scuola/famiglia e del primato educativo dei genitori.
La scuola e i genitori sono chiamati a formare i minori e garantire loro il fondamentale diritto all’educazione e all’istruzione: si tratta di soggetti che hanno competenze diverse e che, nel reciproco rispetto dei ruoli, devono collaborare nell’interesse dei minori.
Soltanto ai genitori è infatti riconosciuto il diritto-dovere di educare ed istruire i figli, mentre alla scuola compete un ruolo di supporto, tanto che i genitori potrebbero anche legittimamente decidere, nel rispetto della normativa prevista, di provvedere direttamente all’istruzione dei propri figli (c.d. educazione parentale).
Inoltre, le fonti internazionali riconoscono espressamente il primato educativo dei genitori (cfr. art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: «I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli»), in virtù del quale, come si è visto, ci sono tematiche che esulano dalla competenza scolastica, in quanto rientrano nella sfera educativa di esclusiva competenza dei genitori.
Come affermato dal MIUR nella circolare del 22/11/2012 (prot. n. 0003214), avente ad oggetto la trasmissione delle Linee di indirizzo sulla corresponsabilità educativa, occorre dare rilievo alla collaborazione educativa tra scuola e famiglia, che è «fondata sulla condivisione dei valori e su una fattiva collaborazione delle parti nel reciproco rispetto delle competenze» ed è necessaria per «offrire ai ragazzi la più alta opportunità di sviluppo armonico e sereno».
Nelle Linee di indirizzo del 2012 sulla corresponsabilità, il MIUR sottolinea che genitori ed insegnanti hanno ruoli diversi e che la corresponsabilità si basa proprio sul reciproco riconoscimento e rispetto dei ruoli, nonché sulla condivisione dei valori: quest’ultimo elemento conferma ulteriormente la necessità, soprattutto nell’interesse dei minori, di evitare che nella scuola siano trattati argomenti divisivi e controversi.
Che sull’identità di genere vi sia contrasto e divisione è evidente, come è emerso dal dibattito politico e sociale sul tema e come è emerso dalle recenti reazioni circa il documento sulla varianza di genere diramato dall’Ufficio scolastico regionale del Lazio cui sopra si è fatto cenno.
Introdurre tematiche divisive e prive peraltro di fondamento scientifico avrebbe senz’altro delle ripercussioni negative sul rapporto scuola/famiglia e, prima ancora, andrebbe a violare il diritto fondamentale dei genitori di educare liberamente i propri figli.
Giova a tal proposito considerare che quelle attività di cui all’art. 7, proprio in quanto giustificate dalla preparazione alla Giornata nazionale, troverebbero una legittimazione all’interno delle scuole, con la conseguenza che i genitori non potrebbero neppure più invocare il consenso informato (oltre ai limiti della libertà di manifestazione del pensiero che già di per sé determinerebbero una compressione della libertà educativa dei genitori, come sopra si è detto).
- Quarta criticità: gli insegnanti sarebbero costretti a partecipare alle attività di cui all’art. 7, pur non condividendo i messaggi trasmessi agli studenti e senza poter manifestare il dissenso o discutere sull’argomento.
L’introduzione nelle scuole di tematiche divisive e prive di fondamento scientifico contrasta altresì con la libertà di insegnamento riconosciuta ai docenti dall’art. 33 Cost. ‒ l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento ‒, che trova la propria ratio nell’esigenza di garantire i docenti da costrizioni o condizionamenti da parte dello Stato al fine di salvaguardare il pluralismo e garantire agli studenti un ambiente scolastico aperto al confronto delle idee e rispettoso dei diritti fondamentali.
La libertà di insegnamento, secondo quanto previsto dalla Costituzione, è funzionale al godimento pieno ed effettivo del diritto all’istruzione e di conseguenza allo sviluppo democratico della società: l’insegnamento deve essere libero, perché solo in questo modo ha spazio nella scuola il senso critico necessario per gli obiettivi di formazione integrale dei minori.
Il compito affidato agli insegnanti che operano nella scuola non è meramente quello di trasmettere agli studenti delle “informazioni” nei vari campi del sapere: l’insegnamento ha una portata più ampia, ed è finalizzato alla piena formazione della personalità dei discenti, alla loro valorizzazione e all’acquisizione della capacità di critica indispensabile per partecipare attivamente alla vita sociale.
- Quinta criticità: introdurre nella scuola insegnamenti divisivi e controversi è senz’altro contrario ai principi posti a tutela dei minori, i quali vanno tutelati da insegnamenti anche solo potenzialmente dannosi per il loro sano ed equilibrato sviluppo psicofisico.
Un insegnamento che crea confusione e che induce bambini ed adolescenti a credere che possano bloccare senza problemi il loro sviluppo sessuale in attesa di decidere a quale genere appartenere, che parla loro di “fluidità di genere” (concetto che si ricava dall’art. 1 lettera d del d.d.l. 2005) può forse dirsi che concorra al sano ed equilibrato sviluppo dei minori?
Certamente no, come è possibile dedurre dalle esperienze di altri Paesi, fra cui il Regno Unito, dove negli ultimi anni sono stati introdotti nei programmi ministeriali insegnamenti basati sull’identità di genere, con la conseguenza che si è assistito ad un progressivo aumento esponenziale di transizioni di genere fra i minori (anche di età compresa fra i dieci e gli undici anni): un fenomeno che ha destato molta preoccupazione nella società e soprattutto fra i genitori, tanto che il Ministero dell’istruzione ha sentito l’esigenza di emanare, nello scorso mese di settembre, delle Linee guida in cui ha precisato che è sbagliato ritenere che un minore possa appartenere ad un sesso diverso in base alle preferenze da lui manifestate. Il Ministero dell’istruzione inglese è dovuto intervenire perché quelle numerose transizioni di genere sono state messe in correlazione proprio con i messaggi trasmessi, nelle scuole, a bambini ed adolescenti circa la fluidità del genere: nel corso delle lezioni sull’identità di genere i minori possono infatti essere indotti a dubitare del loro sesso, può essere loro insinuato il dubbio che potrebbero stare in un corpo diverso da quello che biologicamente appare e che se hanno qualche perplessità possono anche bloccare il proprio sviluppo sessuale ricorrendo a trattamenti ormonali. Si tratta di messaggi molto pericolosi, che possono creare grave confusione nei minori, in particolare in quelli più fragili, che in misura maggiore rispetto agli altri possono essere disorientati, messi a disagio da certi discorsi e trovarsi in uno stato di sofferenza.
Alla luce dell’art. 7 del d.d.l. 2005 è inoltre opportuno domandarsi se un insegnamento basato su una teoria priva di fondamento scientifico, che si discosta dal dato biologico pretendendo di convincere che la distinzione sessuale dell’essere umano sia una mera costruzione sociale ‒ perché a questo si allude quando si parla di identità di genere ‒ possa o meno dirsi rispettoso del superiore interesse dei minori a ricevere un’istruzione di qualità.
La risposta è certamente negativa, in quanto la qualità dell’istruzione si misura in termini di raggiungimento degli obiettivi previsti, fra i quali si annoverano il pieno ed armonioso sviluppo della personalità del minore, il senso della sua dignità e la capacità di critica.
Come affermato nella Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Parlamento europeo n. 1904 del 4 ottobre 2012: «per garantire il diritto fondamentale all’educazione, l’intero sistema educativo deve assicurare l’eguaglianza delle opportunità ed offrire un’educazione di qualità per tutti gli allievi, con la dovuta attenzione non solo di trasmettere il sapere necessario all’inserimento professionale e nella società, ma anche i valori che favoriscono la difesa e la promozione dei diritti fondamentali, la cittadinanza democratica e la coesione sociale». L’Assemblea parlamentare, nella medesima Risoluzione, ha inoltre precisato che «è a partire dal diritto all’educazione così inteso che bisogna comprendere il diritto alla libertà di scelta educativa» e pertanto gli Stati hanno l’obbligo di rispettare «il diritto dei genitori assicurando questa educazione e questo insegnamento conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche».
- Conclusioni: a tutela di genitori, insegnanti e minori non sarebbe comunque sufficiente modificare o eliminare l’art. 7 del d.d.l. 2005
Le previsioni di cui all’art. 7 del d.d.l. 2005 si pongono in contrasto con i principi fondamentali in materia di educazione e formazione dei minori, nonché in materia di libertà di educazione dei genitori e di insegnamento dei docenti, per le ragioni di cui si è detto.
Tuttavia, per come è formulato il disegno di legge si ritiene che non sarebbe comunque sufficiente ‒ a tutela di minori, genitori ed inseganti ‒ modificare il contenuto dell’art. 7.
Gli altri articoli che compongono il testo, infatti, potrebbero comunque operare anche in ambito scolastico indipendentemente dall’art. 7, determinando non soltanto le limitazione della libertà di manifestazione del pensiero di cui si è detto ma anche l’introduzione di attività o insegnamenti gender nelle scuole: laddove infatti venisse manifestata opposizione a detta introduzione da parte di genitori, dirigenti scolastici o insegnanti – come è stato fatto finora ‒ questi potrebbero essere accusati di discriminazione e denunciati.
Inoltre i docenti non sarebbero più liberi di insegnare certe materie, in quanto laddove affermassero pensieri contrari alla teoria gender – come ad esempio la differenza biologica fra uomo e donna presente fin dalla nascita e insita nel DNA ‒ potrebbero essere accusati di discriminazione, rischiare un procedimento penale e persino l’applicazione di una sanzione, dal momento che il disegno di legge non chiarisce cosa sia lecito e cosa non lo sia. La libertà di insegnamento verrebbe così svuotata dei suoi contenuti essenziali, ossia dell’autonomia didattica e della libera espressione culturale del docente.
È evidente che di fronte al rischio di subire lo stigma sociale di “omofobo” se non addirittura di essere denunciato e sanzionato, la maggior parte delle persone “per quieto vivere” mortificherebbe la propria libertà evitando di manifestare in pubblico le proprie opinioni.
Le limitazioni subite da genitori e insegnanti alle loro rispettive libertà e il timore da ambo le parti di esprimere liberamente il proprio pensiero per le ragioni sopra rappresentate potrebbero dunque condizionare negativamente il rapporto di collaborazione scuola/famiglia, rendendolo più formale e distaccato.
Tutto ciò avrebbe delle ricadute anche sulla formazione dei minori in termini di impoverimento sotto il profilo culturale, relazionale e valoriale. Oltre ovviamente ai pregiudizi che i minori potrebbero subire in seguito all’introduzione di insegnamenti basati sull’identità di genere che, come si è precisato, potrebbero entrare nelle scuole anche a prescindere dall’art. 7, attraverso l’applicazione delle altre norme.
* Avvocato in Roma, Dottore di ricerca in Diritto canonico ed ecclesiastico ‒ Università degli Studi di Perugia e Cultore della materia di Diritto di famiglia e minorile all’Università LUMSA di Roma