AUDIZIONI ALLA CAMERA DEI DEPUTATI DI MAURO RONCO, ALFREDO MANTOVANO E DOMENICO AIROMA*

 

Audizione di Mauro Ronco

 

L’obiettivo della legge delega è l’efficienza del processo penale con la previsione di disposizioni per la celere definizione dei procedimenti pendenti presso le Corti d’Appello. Si ripercorreranno i testi dei vari articoli della legge in funzione degli obiettivi perseguiti alla luce dei principi del giusto processo (art. 111 Cost. e legge di attuazione L. 16.12.1999, n. 479).

 

L’art. 2 modifica il regime delle notificazioni per l’efficienza dei procedimenti penali.

 

La norma presenta due aspetti di novità:

  1. pone le linee di un futuro processo penale telematico [art. 2 punti da a) a i)]. L’obiettivo è senz’altro auspicabile. Tuttavia, i principi e i criteri indicati lasciano nel vago le modalità concrete con cui potrà pervenirsi al nuovo regime, rinviando a una legislazione futura tutta da costruire.
  2. Viene modificata la disciplina delle notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima. La legge sposta sul difensore il compito di mantenere collegato l’imputato al processo, con la previsione che tutte le notificazioni successive alla prima siano eseguite mediante consegna al difensore (lett. l). L’imputato inoltre ha l’onere di indicare al difensore un recapito idoneo ove effettuare le comunicazioni e di comunicargli ogni mutamento dello stesso (lett. m).

La previsione presenta aspetti di criticità: i) in via di principio, perché assegna al difensore un compito che spetta all’organo processuale che dà impulso al processo, togliendo al difensore la facoltà di non accettare l’elezione di domicilio; ii) in via di fatto, perché non v’è alcuna garanzia che l’imputato mantenga un domicilio stabile. Il difensore viene gravato di un impegno di ricerca dell’imputato, senza avere a disposizione i poteri e i mezzi della Polizia Giudiziaria.

La norma, oltre alla criticità rilevata supra, introduce altresì il rischio che il processo in absentia sia condotto con la violazione del diritto dell’imputato all’effettiva conoscenza dell’imputazione, non essendo precisate le “opportune deroghe” a garanzia dell’effettiva conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, nel caso in cui questi sia assistito da un difensore d’ufficio (come previsto dalla lett. l).

L’esimente di cui alla lett. n), apparentemente a favore del difensore, costituisce in realtà il fondamento per l’accertamento obbligatorio di una sua eventuale responsabilità disciplinare, mentre è evidente che egli non ha alcuna responsabilità professionale quando l’omessa o ritardata comunicazione sia imputabile al fatto dell’imputato.

 

L’art. 3 apporta alcune modifiche al regime delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare.

 

In particolare, vanno esaminati:

  1. La modifica della regola di giudizio per la richiesta di archiviazione (lett. a). Questa modifica assegna una ancor maggiore discrezionalità soggettiva al P.M., senza affrontare il nodo della completezza delle indagini. Ha pertanto l’effetto collaterale di incrementare le opposizioni della persona offesa alla richiesta di archiviazione, con ulteriore rallentamento del procedimento.
  2. La modifica dei termini di durata delle indagini preliminari (lett. c, d). La norma presenta una certa semplificazione ed è senz’altro apprezzabile soprattutto perché consente una sola proroga. Tuttavia, la modifica non incide sulla pratica disapplicazione di questo tipo di normativa. Soltanto un rigido principio di inutilizzabilità genetica e assoluta degli atti compiuti dopo la scadenza può consentire di ricondurre al rispetto effettivo dei termini di durata delle indagini.
  3. La discovery anticipata, introdotta dalla lett. e), in caso di ritardo nella conclusione delle indagini, è illogica in quanto priva di immediate conseguenze pratiche. Inoltre è pregiudizievole per il processo nel caso di indagini complesse. Si tratta di una disposizione estemporanea, che complica, invece di semplificare, il procedimento, anche in relazione alla facoltà concessa ai difensori dell’imputato e della persona offesa di presentare una sorta di istanza di prelievo (lett. g). La norma introduce all’interno delle indagini preliminari un incidente che complica il procedimento preliminare.
  4. La previsione di ulteriori illeciti disciplinari (lett. f, g) è insieme vessatoria e inefficace. Vessatoria perché espone il Pubblico Ministero a contestazioni di carattere disciplinare pretestuose; inefficace perché la dimostrazione dell’inescusabilità della negligenza appare soltanto teorica, ben potendo la scusa trovarsi pressoché sempre nella complessità del procedimento o nelle difficoltà incontrate negli accertamenti compiuti.
  5. La previsione che gli uffici del Pubblico Ministero individuino i criteri di priorità nella trattazione degli affari (lett. h) è contraria alla Costituzione perché la fissazione di criteri di priorità – il che significa intervenire incisivamente sulla politica criminale del Paese – spetta al Parlamento e non alle Procure della Repubblica.
  6. La modifica della regola di giudizio di cui all’art. 425, co. 3 c.p.p. (lett. i) è concettualmente criticabile. Non spetta al giudice fare previsioni sull’esito favorevole all’accusa del giudizio, bensì esaminare con acribia se gli elementi raccolti siano insufficienti o contraddittori per celebrare il giudizio, tenendo conto non soltanto dell’indagine del Pubblico Ministero, bensì anche delle indagini difensive regolate dagli artt. 391 bis ss. c.p.p.
  7. La previsione di un incidente davanti al Giudice dell’udienza preliminare al fine di accertare la data di effettiva acquisizione della notizia di reato (lett. l) introduce un conflitto tra le parti, che postula un accertamento complesso che può condurre al rallentamento del procedimento. Peraltro, già nel diritto vigente la difesa è legittimata a richiedere e il giudice ad accertare la data dell’effettiva acquisizione della notizia di reato. La norma è pertanto superflua.

 

L’art. 4, intitolato procedimenti speciali.

 

  1. L’art. 4, lett. a) apporta importanti modifiche all’istituto dell’applicazione della pena su richiesta, aumentando a otto anni di reclusione, sola o congiunta a pena pecuniaria, il limite della pena applicabile su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444, co. 1 c.p.p.
    Questa disposizione ha una forte incidenza di politica criminale e merita di essere attentamente vagliata dal Parlamento. Non ci si pronuncia, pertanto, sul merito della proposta.
    Dal punto di vista tecnico-giuridico, potrebbe costituire un valido fattore di accelerazione del sistema in quanto eviterebbe la celebrazione di processi riguardanti fatti di rilevante spessore criminale, con l’accettazione di pene detentive significativamente elevate da parte dei responsabili di reati gravi.
    Se il Parlamento ritenesse di seguire questa strada, sarebbe però controproducente ampliare il novero delle preclusioni – in relazione all’aumento dei tre anni – per tutta una serie di reati che la legge delega individua, in alcuni casi, in modo incongruo (per esempio con riferimento agli artt. 612 bis e 612 ter c.p.).
  2. La modifica del giudizio abbreviato condizionato (lett. b) rappresenta un passo indietro, in termini di efficienza generale del processo penale, perché subordina l’integrazione probatoria, oltre che al requisito della necessarietà ai fini della decisione, anche alla realizzazione di un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale. Questo ulteriore requisito penalizza il giudizio abbreviato, che si presenta, in ogni caso, estremamente meno dispendioso, in termini di mezzi e di tempi, del processo dibattimentale. Subordinarlo al requisito dell’economia comparativa dei tempi non sembra congruo rispetto al fine dell’efficienza globale del sistema.
  3. Le modifiche in tema di giudizio immediato (lett. c) e di processo per decreto (lett. d) non presentano particolari criticità.

 

L’art. 5: il giudizio.

 

  1. La previsione della calendarizzazione delle udienze (lett. a) è opportuna e normalizza una buona prassi talora seguita dai giudici dibattimentali.
  2. La reintroduzione della relazione illustrativa (lett. b) è contraria al principio costituzionale del giusto processo, in quanto conferisce una posizione di vantaggio all’organo d’accusa, non essendo normale il caso che la difesa possa proporre un’ipotesi alternativa.
  3. La previsione che la rinuncia di una parte all’assunzione di prove ammesse non sia condizionata dal consenso delle altre parti (lett. c) è contraria al principio della parità delle parti.
  4. La previsione di cui alla lett. e), relativa all’applicazione dell’art. 190 bis co. 1 c.p.p., ai casi di mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio è fortemente criticabile poiché dà per normalmente verificabile un evento che dovrebbe restare assolutamente eccezionale, quello del cambiamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio. La Corte Costituzionale e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono occupate di questo problema, risolvendolo in modo già molto liberale, allo scopo di evitare pretestuosità delle richieste di reiterazione degli atti.

Renderlo, però, istituto di sistema significa creare una normalità che è assolutamente contraria al principio della immediatezza nell’assunzione della prova (in molti casi di cambiamento di ufficio i componenti del collegio si fanno encomiabilmente scrupolo di permanere nel ruolo di giudicante allo scopo di evitare il vulnus al processo. Normalizzare questa situazione per via di legge significa aprire a una prassi che finora i giudici si sono ben guardati da considerare conforme ai princìpi del processo).

 

L’art. 6: il procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica.

 

Con il cambiamento si vorrebbe introdurre una specie di udienza preliminare nei procedimenti a citazione diretta.

La modifica presenta due gravi criticità: la prima, relativa al rallentamento del processo, perché porta a una duplicazione di giudici competenti a giudicare il medesimo fatto, sia pure con diversi poteri; la seconda, perché introduce, già di fronte al primo giudice, una fase di merito che rischia di pregiudicare il secondo giudizio.

Molto più conforme all’esigenza di accelerazione e di semplificazione del processo è la buona prassi, applicata presso la gran parte dei Tribunali italiani, di celebrare una udienza “filtro” per la scelta dei riti e per la trattazione delle questioni preliminari, senza la duplicazione degli organi giudicanti.

 

L’art. 7: l’appello.

 

  1. La previsione che il difensore possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato successivamente alla pronuncia della sentenza (lett. a), penalizza in modo incongruo il diritto all’impugnazione, che è un diritto unico dell’imputato e del difensore. Se ne rileva il carattere vessatorio verso gli imputati ignari del processo o che non siano riusciti, per le cause più varie, a mantenere il rapporto con il proprio difensore.
  2. La modificazione in ordine alla presentazione dell’impugnazione (circa il luogo e le modalità) è, allo stato, vessatoria. Soltanto la previsione del deposito dell’atto di impugnazione anche con modalità telematiche può giustificare l’abrogazione degli artt. 582, co. 2 e 583 c.p.p. Tale previsione è indicata nella lett. b); ma lo stato attuale del sistema telematico non è rassicurante circa la capacità sostitutiva di tale mezzo rispetto ai mezzi precedenti, che verrebbero abrogati.
  3. La previsione dell’inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità (lett. d) è congrua perché conforme al sistema.
  4. La lett. f) prevede la competenza della Corte d’Appello in composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta. La modifica va collegata con la previsione di cui all’art. 15, relativa alla definizione dell’arretrato penale presso le Corti d’Appello tramite il reclutamento di cinquecento giudici tra avvocati a riposo, magistrati a riposo, professori a riposo o a tempo definito.
    La previsione di un giudizio di appello monocratico (oggi contemplato solo per le sentenze del Giudice di pace) è contraria alla stessa logica dell’appello, che impone la rivalutazione del giudizio da parte di un giudice collegiale rispetto al giudice monocratico. L’intento evidente di attribuire a giudici tratti da categorie a riposo lo smaltimento dell’arretrato come giudici monocratici rischia di snaturare la stessa funzione dell’appello che, nella tradizione di tutte le Corti d’Italia, rappresenta una garanzia di imparzialità e di giustizia formale e sostanziale di incomparabile valore.
  5. La previsione di riti camerali non partecipati (lett. g, h), sia pure a richiesta dell’imputato o del suo difensore, non è condivisibile perché rischia di indurre prassi non commendevoli da parte di difensori che intendono sbarazzarsi il più rapidamente possibile della difesa, sgravandoli dell’onere di partecipare all’udienza.

 

L’art. 8: le condizioni di procedibilità.

 

Si tratta di modificazioni marginali, meritevoli di essere inserite in un quadro più vasto, che tuttavia non presentano particolari criticità.

 

L’art. 9: il ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive.

 

La delega a rideterminare l’ammontare della pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva in misura inferiore a quello attualmente previsto è apprezzabile, perché è rivolta a implementare l’applicazione della pena pecuniaria in sostituzione della pena detentiva.

Anche questa modifica, però, meriterebbe di essere inserita in un quadro più vasto, inteso all’implementazione della pena pecuniaria in sostituzione della pena detentiva, che dovrebbe consentire una progressiva riduzione del c.d. carcerocentrismo attualmente dominante in Italia, contrariamente a ciò che avviene in altri Paesi europei, soprattutto in Germania. Il presupposto di questa progressiva implementazione è la riduzione dell’importo pecuniario per ogni giorno di pena detentiva, oggi eccessivo. La proposta di riforma si muove nella direzione giusta.

 

L’art. 11: il controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione.

 

Si tratta di una modifica resa necessaria dalla sentenza 27.9.2018 della Corte europea, che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione. Per quanto una nuova disposizione sia necessaria, le modalità dello strumento di impugnazione sono rinviate completamente al decreto delegato, senza l’individuazione di principi o criteri direttivi. Il tema è delicato, perché implica un equilibrio tra facoltà difensive e facoltà investigative del Pubblico Ministero.

 

L’art. 12: i termini di durata del processo.

 

Le modifiche previste si risolvono in precetti simbolici, privi di rilevanza processuale. I termini previsti, peraltro, si scontrano con la realtà dei processi complessi, per la cui celebrazione maggiormente celere rispetto ad oggi occorrerebbero investimenti nelle strutture (aule giudiziarie) e l’incremento del personale amministrativo.

Una forte criticità concerne due punti, rispettivamente previsti alle lett. b) e c) dell’art. 12 della legge delega.

Il punto b) prevede una abnorme implementazione dei poteri del Consiglio Superiore della Magistratura, chiamato addirittura a modificare le previsioni di legge, in relazione alla situazione concreta degli uffici giudiziari. Si tratta di una norma di gravità inaudita, perché attribuisce una competenza normativa primaria al Consiglio Superiore della Magistratura, non prevista dalla Costituzione.

Il punto c) introduce una responsabilità disciplinare nei confronti del dirigente dell’ufficio, tenuto a vigilare sul rispetto delle disposizioni e sui termini di durata del processo. La minaccia della responsabilità disciplinare alimenta tensioni accusatorie negli avvocati e atteggiamenti vittimistici incongrui nei capi degli uffici giudiziari. L’esperienza, peraltro, rivela la completa inefficacia di tale strumento ai fini dell’accelerazione dei tempi dei processi. Già oggi sono contemplate responsabilità disciplinari adeguate per colpire eventuali comportamenti negligenti dei capi degli uffici. La previsione si rivela quindi vessatoria e inefficace, come norma meramente ad pompam per l’opinione pubblica.

 

L’art. 13: le disposizioni per la trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna.

 

La norma prevede un intervento acceleratorio dei difensori delle parti, una volta che siano decorsi i termini di durata dei giudizi di appello e in cassazione. Tale intervento è presidiato da sanzioni disciplinari nei confronti del dirigente dell’ufficio che non abbia adottato misure organizzative idonee a consentire la definizione nel rispetto del termine previsto nel caso di presentazione dell’istanza delle parti.

Valgono al riguardo le stesse osservazioni critiche circa la vessatorietà e l’inefficacia di minaccia di sanzioni disciplinari.

 

L’art. 14: le disposizioni in materia di prescrizione.

 

Si esprimono forti ragioni di criticità nei confronti della proposta di normativa che complica in modo inaccettabile l’attuale stato normativo, tramite una discriminazione tra le sentenze di primo grado, rispettivamente di condanna e di assoluzione, lasciando, peraltro, invariato l’attuale regime, con riferimento alle sentenze di condanna, che confligge con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo (art. 111 Cost.).

 

Gli artt. 15 e 16: misure straordinarie per la definizione dell’arretrato penale presso le Corti d’Appello e per il contenimento della durata dei processi giudiziari pendenti.

 

Si propone per i giudizi penali la non brillante esperienza delle sezioni stralcio, già previste per la definizione dell’arretrato civile.

Forte criticità presenta la previsione che l’arretrato penale presso le Corti d’Appello sia risolto da giudici monocratici provenienti dalle nuove categorie di giudici ausiliari. Oltre alla problematicità di inserire nuove aliquote di pensionati come giudici penali, particolarmente discutibile appare la possibilità che proprio ai giudici provenienti da tali categorie siano chiamati a giudicare in sede di appello le sentenze di giudici monocratici penali.

 

Conclusione.

 

  1. L’erosione delle garanzie difensive a riguardo dell’imputato non difeso da difensore fiduciario, nonché l’erosione dell’appello tramite la previsione di un giudice monocratico in ordine all’appello delle sentenze emesse dai giudici monocratici non sono in linea con i principi costituzionali, rappresentando un passo indietro rispetto all’attuale regime normativo.
  2. Le disposizioni relative ai tempi, rispettivamente delle indagini preliminari e del processo, sono simboliche, non tali da favorire realmente l’accelerazione dei processi nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost. (ragionevole durata del processo). Vessatoria e inefficace è la previsione di misure disciplinari nei confronti dei magistrati.
  3. Gravissime criticità presentano tanto l’attribuzione agli uffici del Pubblico Ministero dei poteri di fissare priorità nella trattazione degli affari, quanto, soprattutto, la previsione di una potestà normativa primaria, contraria alla Costituzione, al Consiglio Superiore della Magistratura.
  4. Sono contemplate norme (come quella sulla duplicazione dei giudici del giudizio per i reati di competenza del giudice monocratico e quella sulla discovery anticipata degli atti delle indagini preliminari), idonee a rallentare e a complicare, invece che ad accelerare e semplificare il processo, oltre che (con riferimento alla discovery anticipata) a pregiudicare le indagini preliminari.

Infine, le disposizioni effettivamente apprezzabili ai fini di una più rapida giustizia penale (estinzione anticipata delle contravvenzioni e nuovi criteri di ragguaglio della pena pecuniaria con la pena detentiva) non sono inserite in un quadro globale di riforma organica, come invece meriterebbe che fosse.

 

Audizione di Alfredo Mantovano

 

Ringrazio il Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e i componenti della Commissione per questa audizione.

 

  1. L’intervento riformatore al vostro esame è ampio e complesso ‒ riguarda i codici penale e di procedura penale, talune leggi speciali penali e profili di revisione del sistema delle contravvenzioni ‒ e ambizioso, dal momento che affronta e punta a risolvere questioni gravi e delicate. Non può dirsi però né organico né sistematico: si intravvedono delle linee guida, delle dominanti, ma non un coerente disegno d’insieme, come invece sarebbe necessario, sia sul piano sostanziale, sia sul piano procedurale. Evitando valutazioni articolo per articolo, proverò a fermarmi su taluni profili di particolare rilievo, cercando di privilegiare le considerazioni di carattere generale.
    Mi sia permesso d’esordio di esprimere perplessità sullo strumento della delega: esso ben si concilia, come è stato per il codice di procedura penale del 1989 e come è stato in tempi più recenti per le modifiche al libro XI dello stesso c.p.p., con una riforma di quadro, della quale indichi i principi generali e i criteri direttivi, che in modo omogeneo andranno poi specificati. Nel d.d.l. in esame i principi di carattere generale appaiono talora affermati talora in modo generico: si pensi per es. alla disposizione di cui all’art. 2 co. 1 lett. a), contenente la delega a «prevedere che, nei procedimenti penali in ogni stato e grado, il deposito di atti e documenti possa essere effettuato anche con modalità telematiche», che conferisce al legislatore delegato un’ampia discrezionalità ‒ “possa” ‒per una materia di notevole rilievo, tale da far assumere allo stesso legislatore delegato una significativa responsabilità politica. Talaltra sono specificati con eccessivo dettaglio, come per più d’una delle disposizioni di cui all’art. 4, rispetto alle quali non si comprende che cosa il legislatore delegato debba aggiungere o precisare.
    In altri casi, ancora, si prospetta l’introduzione di disposizioni che il quadro normativo attuale già prevede, e che non paiono modificate nella sostanza, come è per es. per il giudizio abbreviato condizionato: non si riesce a cogliere in che cosa sia differente l’attuale configurazione dell’art. 438 co. 5 del codice di rito con quella proposta dall’art. 4 co. 1 lett. b) del ddl. Ulteriori disposizioni sembrano in contraddizione con disposizioni esistenti, come accade per i criteri di priorità nella trattazione dei processi, di cui si dirà fra breve.
    Più in generale, si ha l’impressione che il ddl dell’Esecutivo immagini un effetto taumaturgico derivante dalle norme che propone, nel senso che per conseguire gli obiettivi che emergono dal contenuto di talune di esse sarebbe sufficiente una efficace e continuativa azione di buon governo, anche interno agli uffici giudiziari: si pensi alla nuova formulazione dell’art. 125 disp. Att. cod. proc. pen., o alla fissazione dei termini delle indagini e dei vari gradi di giudizio. È assai probabile che, se si cambiano termini ed espressioni nei singoli articoli, in assenza di una saggia azione di governo del settore il prodotto resti inalterato.
    Dunque, fra la larghezza della delega contenuta in talune disposizioni e l’inutilità della delega per altre, non guasterebbe un riequilibro, che almeno faccia uscire dal generico quel che non può essere demandato al legislatore delegato; o magari, lasciando da parte lo strumento della delega, presenti all’esame norme chiare, quelle che effettivamente si intende introdurre, che una volta approvate siano direttamente operative.

 

  1. Nel tentativo di fornire qualche indicazione meno generica, parto dall’art. 2, il cui intento è certamente condivisibile, e attiene all’uso dell’informatica per rendere più fluido il procedimento penale, fin dai suoi momenti iniziali e quanto alle attività delle parti.
    La lettura del testo fa però sorgere delle riserve, di ordine operativo e contenutistico.
    Dal punto di vista operativo, chiunque ha avuto e ha a che fare con l’informatica gestita dal Ministero della Giustizia ha fatto esperienza di disagi e di disservizi; forse sarebbe opportuno affiancare a questo ddl una relazione dettagliata e obiettiva sul funzionamento attuale della DGSIA e su come si intendano superare i problemi che il sistema finora ha manifestato. Parlare di notifiche e di depositi di atti e documenti col mezzo telematico fa sperare in cambiamenti significativi, a condizione di essere in grado di realizzarli. In tal senso non rassicura il passaggio della relazione tecnica che precede l’articolato, nella quale a margine dell’art. 2 si parla di disposizioni non suscettibili di determinare oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, e anzi idonei a garantire risparmi: è lecito manifestare dubbi in proposito. In prospettiva, un sistema funzionante di notifiche e di deposito degli atti garantisce certamente un contenimento di spesa, purché al momento del suo avvio vi sia l’investimento più adeguato, del quale però nel ddl in esame non vi è traccia.
    Quanto ai contenuti, vanno operate delle scelte: non ci si può limitare, come si diceva prima, a una delega affinché «il deposito di atti e documenti possa essere effettuato anche con modalità telematiche»; è invece necessario precisare gli stati e i gradi del giudizio per i quali ciò è necessario che avvenga in modo prioritario rispetto ad altri. Il primo urgente livello di trasmissione di atti per via telematica è quello delle misure cautelari, reali e personali, e dei relativi ricorsi. Faccio un solo esempio: con una recente decisione del 24/09/2020, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ribadito un principio, già espresso da un orientamento fino a quel momento prevalente, secondo cui in materia di riesame delle misure cautelari «il ricorso per cassazione deve essere presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale del riesame o, in caso di ricorso immediato, nella cancelleria dell’organo giudiziario che ha emesso il provvedimento impugnato, non trovando applicazione gli art. 582, comma 2, e 583 cod. proc. pen.». Che cosa significa? Che se a mio carico vi è una misura cautelare del GIP di Roma e io la impugno presentando nei termini il ricorso nella cancelleria dell’ufficio giudiziario del luogo nel quale risiedo, diverso da Roma, il ricorso stesso diventa inammissibile qualora il plico cartaceo contenente il ricorso pervenga alla cancelleria del GIP di Roma oltre il termine di scadenza per la proposizione dell’atto: non pochi ricorsi contro provvedimenti cautelari sono dichiarati non ammissibili per questa ragione. È evidente che la trasmissione telematica salta questi passaggi e risolve ogni problema di ammissibilità.
    Se quel “possa” contenuto all’art. 2 co. 1 lett. a) sta a intendere una gradualità nella attuazione dell’informatizzazione, è il caso di uscire dal generico e di dettagliare priorità e precedenze, nella direzione dell’abbattimento del peso cartaceo, per lo meno nella fase di avvio dei vari procedimenti, in particolare di quelli di riesame o di impugnazione.

 

  1. Nella prospettiva di inviare a giudizio solo ciò che per il quale vi è la probabilità che l’accusa regga, l’art. 3 modifica l’art. 125 disp. Att. cod. proc. pen. nel senso di legittimare il P.M. a chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari «risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio», a modifica della più sobria attuale formulazione, che collega la richiesta di archiviazione alla “inidoneità” degli «elementi acquisiti nelle indagini preliminari (…) a sostenere l’accusa in giudizio». Nel Dossier dell’Ufficio studi della Camera si spiega che la novità consisterebbe nell’oggetto della valutazione prognostica del G.U.P., basata ‒ in coerenza con l’esegesi di legittimità finora maturata ‒ sull’utilità del dibattimento, e invece dalla nuova formulazione agganciata alla “ragionevole” previsione di accoglimento della tesi accusatoria.
    La modifica proposta ha un passaggio non felice: se il P.M. accerta che gli elementi raccolti nelle indagini sono “insufficienti o contraddittori”, ha a disposizione gli strumenti per completare quanto sembra “non sufficiente” e per sciogliere le “contraddizioni”, o in un senso o nell’altro. Se lo spostamento del baricentro diventasse effettivo vi sarebbe il rischio, rilevato nella relazione del prof Mauro Ronco, che si incrementino le opposizioni alle archiviazioni delle persone offese dal reato, e quindi che il carico di lavoro cresca invece che diminuire.

 

  1. Come già sottolineato in più d’una delle audizioni già svolte, lo snodo più problematico dell’art. 3 è, alla lettera h), quello dedicato alla individuazione dei criteri di priorità, che di fatto punta a consacrare in norme delle prassi che si sono affermate contro le disposizioni vigenti. La norma di riferimento è l’art. 132 bis disp. Att. cod. proc. pen., che già individua le tipologie di reati in ordine ai quali “è assicurata la priorità assoluta”: rispetto a essa, la modifica che viene proposta rende concreto il pericolo di un “federalismo giudiziario”, al cui interno ogni distretto, se non ogni circondario, definisca criteri di priorità, in deroga a quanto previsto dalla disposizione prima menzionata. Che già oggi ciò accada in più d’un territorio non vuol dire che vada esteso ovunque, consegnando all’autorità giudiziaria delle singole Corti di appello scelte discrezionali che, in quanto tali, competono alle istituzioni politiche, in particolare al Parlamento, e determinano responsabilità egualmente politiche, estranee a quelle delle istituzioni giudiziarie.
    Da un intervento del Parlamento su questo versante ci si attende se mai un impulso verso la cessazione di questa frequente e preoccupante difformità di criteri di precedenza dei procedimenti penali, un continuativo monitoraggio dell’applicazione della previsione di cui al menzionato art. 132 bis disp. Att. cod. proc. pen., e qualche indicazione ‒ poiché il principio della obbligatorietà dell’azione penale permane nella Costituzione ‒ sulla sorte dei procedimenti qualificati come non prioritari, anche al fine di scongiurare la patologia della giustizia fai-da-te che, oltre a segnare la sconfitta dello Stato di diritto, consegna la tutela di interessi leciti a organizzazioni criminali.
    Peraltro appare incoerente che l’art. 5 co. 1 lett f) faccia richiamo esplicito alla cogenza dell’articolo 132-bis al fine di aggiungere i delitti colposi di comune pericolo fra quelli che meritano priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza, ma prima l’art. 3 lett. h) superi la norma medesima nel modo prima sintetizzato.

 

  1. Presenta oggettivi problemi anche l’art. 4, dedicato ai riti alternativi. Personalmente non sono mai stato entusiasta del c.d. patteggiamento, poiché resto perplesso di fronte allo scambio fra la rinuncia al giudizio da parte dell’imputato e lo sconto di pena concesso dallo Stato, né dell’accordo in sé fra Stato e soggetto criminale.
    È però veramente singolare che, intrapresa col codice del 1989 la strada dell’applicazione della pena su richiesta, ampliata la sua estensione incrementando il limite di pena a cinque anni di reclusione con la riforma del 2003, oggi da un lato si prospetti un ulteriore aumento della pena applicabile, fino a otto anni, dall’altro si introducano nuove eccezioni di titoli di reato ai fini dell’accesso al rito speciale. Si continua a fare confusione fra un istituto il cui scopo è ridurre il carico giudiziario attraverso l’accettazione dell’accusa con l’accordo sulla pena, e la preoccupazione politica e mediatica per l’adeguatezza dell’entità della sanzione rispetto alla gravità del reato.
    Se la logica del patteggiamento è di alleggerire il peso delle udienze, premiando l’imputato che a ciò collabora con una minore quantità di pena, poi non è coerente allontanare la responsabilità ‒ essa sì politica ‒ che i colpevoli di delitti percepiti come gravi e/o odiosi ottengano lo sconto sanzionatorio. E se l’equilibrio del sistema della pena concordata regge sul consenso/dissenso del P.M. e sulla decisione del giudice (allorché la sanzione proposta dall’imputato sia sproporzionata per difetto rispetto alla sua condotta criminale), l’incremento delle eccezioni alla praticabilità del rito è chiaro segnale di sfiducia verso le valutazioni del P.M. e del giudice.
    La modifica proposta va quindi ‒ per lo meno quanto alla dilatazione dell’area delle esclusioni dal ricorso all’istituto ‒ nella direzione opposta a quella che una coerenza di sistema esigerebbe, e cioè di eliminare le eccezioni già esistenti.

 

  1. La disciplina del giudizio, contenuta all’art. 5, patisce in più punti quella distonia fra intenzioni apprezzabili e risultati discutibili, che caratterizza l’intero articolato. Quando la lett. a) pone a carico del giudice, nell’ipotesi in cui preveda che il dibattimento duri per più udienze, di comunicare «alle parti il calendario delle udienze per l’istruzione dibattimentale e per lo svolgimento della discussione», ricorda un’incombenza che dovrebbe essere già praticata, nel rispetto del lavoro del P.M. e dei difensori, perché costoro organizzino meglio i propri impegni, e anche nel rispetto degli altri soggetti coinvolti nel giudizio, dai testimoni agli interpreti, dai periti ai consulenti, allo scopo di contenere le attese e i disagi.
    La lettera a) va tuttavia correlata con la lett. e), che introduce una pesante deroga al principio della immutabilità del giudice con l’estensione della «regola di cui all’articolo 190-bis, comma 1, del codice di procedura penale (…) anche ai casi nei quali, a seguito del mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio, è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’articolo 210 del codice di procedura penale e queste hanno già reso dichiarazioni nel dibattimento svolto innanzi al collegio diversamente composto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate». È superfluo ricordare che i cardini del processo del 1989 sono l’oralità, la concentrazione e l’immediatezza: trasformare un giudizio tendenzialmente orale, nel quale la prova si forma obbligatoriamente davanti al medesimo giudicante che poi sarà chiamato a decidere, in un giudizio che vede ampliare le deroghe scritte, con un giudicante ‒ se pure in parte ‒ differente da quello davanti al quale le prove siano state raccolte, significa percorrere una strada diversa da quella del rito in vigore, andando molto oltre l’esegesi della Giudice di legittimità e della Consulta, con le pronunce sul tema riportate dal Dossier dell’Ufficio studi.
    Se non si intende ritornare a un processo prevalentemente scritto, come era nel codice del 1931, disposizioni come quella della lett. e) vanno messe da parte. L’esigenza, assolutamente condivisibile, di evitare la ripetizione della prova in giudizi di particolare delicatezza ‒ un testimone a rischio in un processo di mafia ‒ va perseguita in altro modo. Che cosa osta, allorché il giudice programma le udienze ai sensi della lett. a), di redigere un calendario temporalmente ravvicinato? Nella prima fase di applicazione del codice del 1989 questa era la prassi; poi, non ovunque, si è diffusa la prassi contraria di udienze del medesimo giudizio fissate a mesi di distanza l’una dall’altra: è evidente che questo incrementa l’eventualità che il giudicante non sia più lo stesso. E, quand’anche restasse il medesimo, verrebbero comunque lesi i requisiti di concentrazione e di immediatezza che costituiscono i corollari irrinunciabili dell’oralità; ma che questa prassi sia il pretesto per derogare alla immutabilità del giudice rappresenta un danno peggiore del rimedio.
    Prima ancora dei suggerimenti formulati nella sua audizione dal Presidente emerito della Corte di Cassazione Canzio, di applicazioni endo o extradistrettuali del magistrato che nel frattempo sia stato trasferito, al fine di definire il giudizio ‒ di non agevole realizzazione nel rapporto fra l’ufficio giudiziario di provenienza e quello di destinazione ‒, appare preferibile, in aggiunta e non in alternativa, prevedere che il trasferimento ad altro incarico di un giudice si realizzi quando egli abbia completato la trattazione dei processi nei quali era impegnato nella sede che lascia, ma prima ancora che le udienze siano cadenzate in tempi ravvicinati l’una con l’altra.

 

  1. Non è la sola perplessità che emerge dall’art. 5. La previsione di cui al co. 1 lett. c) “che la rinunzia di una parte all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta non sia condizionata al consenso delle altre parti”, ripropone quanto segnalato in altri passaggi del testo, circa la distanza fra l’intenzione di contenere i tempi e la realtà. Premesso che, come è stato ricordato da altri auditi in questa sede, quando una prova viene ammessa esce dalla disponibilità della parte che l’ha richiesta ‒ questo spiega perché si esiga il consenso delle altre parti in caso di rinuncia ‒, l’esito concreto di questa novità sarà che ogni parte, nell’incertezza in ordine alle prove cui l’altra, pur avendole proposte, deciderà di rinunciare, allungherà la lista delle proprie: e questo non faciliterà la trattazione del giudizio, né la previsione attendibile dei suoi tempi di svolgimento.
    Più d’uno ha già manifestato contrarietà all’abolizione della collegialità nel giudizio di appello, se pure per una fascia delimitata di reati: la garanzia di almeno un esame collegiale nei gradi di merito non è un mero ossequio alla forma. Mi permetto piuttosto di suggerire, quale contributo alla deflazione, e in linea coi più recenti interventi riformatori in tema di impugnazioni, la costituzione in ogni distretto di una sezione, o quanto meno di un collegio per le Corti di dimensione più circoscritta, impegnata ‒cambiando quel che vi è da cambiare ‒ nelle funzioni che in Corte di Cassazione svolge la 7^ sezione penale, e cioè un giudizio camerale di inammissibilità a fronte di appelli palesemente infondati.

 

  1. Un cenno, in conclusione, sull’art. 14 e sulla ennesima riformulazione della disciplina della prescrizione. Non entro nel merito di quanto viene proposto, sul quale già sono state avanzate condivisibili riserve, per esempio nel documento dell’Unione delle Camere Penali. Ponendomi nell’ottica di una delle linee guida del legislatore, e cioè dello sforzo per contenere i carichi di lavoro e di permettere al magistrato maggiore produttività, mi limito a osservare che il sistema attuale è complesso e farraginoso, poiché impone al momento del calcolo in concreto dei termini di prescrizione uno studio mirato delle imputazioni, con termini differenti sulla base delle aggravanti e delle molteplici forme di recidiva, e del fascicolo, con la ricerca non semplice delle cause di sospensione, ricavate dalla lettura dei verbali. Il sistema che viene proposto accentua la farraginosità, con la decorrenza del termine dopo una sentenza di assoluzione, e invece la sua sospensione dopo una sentenza di condanna; col recupero della prescrizione dopo il primo grado in caso di condanna riformata da una assoluzione in appello; con le altre disposizioni di dettaglio introdotte dalla norma in esame.
    Il risultato sarà che i magistrati addetti allo spoglio dei fascicoli, soprattutto in appello e in cassazione, rischiano di impiegare più tempo per la determinazione della prescrizione che per lo studio del fascicolo, perché la riforma proposta richiede una maggior tempo dedicato alla verifica dei relativi termini. Inutile osservare, anche per questa voce, che l’occasione sarebbe propizia per tornare al regime della prescrizione ‒ non semplice ma non così dannosamente complicato ‒ antecedente la legge n. 3/2019.

 

Audizione di Domenico Airoma

 

Ringrazio il Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e i componenti della Commissione per questa audizione riguardante il disegno di legge del Governo di delega “per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”, AC 2435.

Le presenti osservazioni hanno lo scopo di offrire un contributo di riflessione con riferimento specifico al tema delle indagini preliminari, considerato nell’art. 3 del Progetto di Riforma del processo penale.

Il punto di partenza è rappresentato dalla constatazione della centralità assunta dalla fase delle investigazioni rispetto a quella del giudizio.

La stessa problematica concernente la prescrizione appare non correttamente impostata se non si tiene conto del fatto che una rilevante porzione delle declaratorie di prescrizione (il 42,7%) attiene proprio alla fase delle indagini preliminari.

Pertanto, il tema della durata delle indagini, accanto a quello della selezione dei reati per i quali esercitare l’azione penale, è assolutamente decisivo per comprendere le attuali dinamiche dell’intero processo penale e modulare al meglio gli interventi correttivi.

 

  1. L’iscrizione della notizia di reato

 

La questione concernente il controllo sull’iscrizione della notizia di reato operata dal P.M., rimanda necessariamente alle modalità attraverso le quali l’organo dell’Accusa acquisisce e gestisce la notizia stessa sin dalle fasi iniziali.

Pur prevedendo, infatti, il codice l’immediatezza dell’iscrizione, va rilevato che le attività compiute dal pubblico ministero sul punto assumono una connotazione procedimentale.

Ed infatti, il subprocedimento relativo alla iscrizione della notizia di reato si articola in tre distinte fasi:

  • l’acquisizione di una comunicazione concernente un fatto presentato come reato;
  • la valutazione della comunicazione;
  • gli aggiornamenti delle iscrizioni.

A sostegno di tale scansione risultano gli orientamenti giurisprudenziali maturati in sede di legittimità, sia con riferimento alla inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti a termine per le indagini scaduto sia con riferimento ai doveri ricadenti sul pubblico ministero e sanzionati in sede disciplinare.

È pur vero – secondo quanto statuito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (nr. 11586/2019) ‒ che l’iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. non costituisce oggetto di un potere discrezionale del P.M., il quale è tenuto a provvedervi senza ritardo non appena acquisita la notitia criminis, così come, una volta riscontrati elementi obiettivi di identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, è tenuto ad iscriverne il nome con altrettanta tempestività. Ed è altrettanto vero che l’inadempimento di tale obbligo è stato ritenuto dai giudici di legittimità idoneo ad integrare l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma primo, lett. g), del D. Lgs. n. 109 del 2006.

È stato tuttavia chiarito dalla giurisprudenza di legittimità che, ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di iscrizione, non è sufficiente un generico e personale sospetto, ma occorre che sia stata acquisita una notizia di reato in termini di configurabilità quanto meno oggettiva, ovverosia una base fattuale idonea a configurare un fatto come sussumibile in una determinata fattispecie di reato.

Particolare rilievo assume, dunque, l’acquisizione di una notizia di reato che possa dirsi tale da determinare l’insorgere di un obbligo di iscrizione.

La questione, in altri e più chiari termini, non è se sia o meno facoltativo procedere alla iscrizione immediata della notizia di reato, bensì quando si è in presenza di un fatto che possa qualificarsi come notizia di reato.

Pertanto, appare poco funzionale ai fini che intende perseguire il Progetto di Riforma, e cioè di un più penetrante controllo sull’attività del pubblico ministero sin dall’avvio delle indagini, rimandare ad un più penetrante controllo del giudice o alla responsabilità disciplinare; giacché il punto centrale è fare in modo che l’organo dell’Accusa si trovi a gestire, sin dalle battute iniziali, una notizia che sia “vestita” il più possibile, in modo da ridurre al minimo i margini di discrezionalità del pubblico ministero.

Ciò presuppone che la polizia giudiziaria compia tutte quelle attività investigative che consentono al pubblico ministero una delibazione esaustiva e, soprattutto, di non impegnare il tempo dedicato alla fase delle indagini con incombenti istruttori che, sovente, possono e devono essere adempiuti anche preventivamente alla comunicazione della notizia di reato.

Dal sistema tracciato dal codice con riferimento alla trasmissione della notizia di reato (artt. 347, 348 c.p.p.) emerge che vi è uno spazio, non esterno ma prodromico al procedimento penale, fatto di atti i cui effetti sono destinati a riverberarsi nel procedimento, sottratti – per volontà dello stesso legislatore ‒ alla incidenza del decorso del tempo; uno spazio occupato in prevalenza dalla polizia giudiziaria e che sarebbe assai opportuno valorizzare maggiormente.

Si segnala, sul punto, fra le altre, la seguente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. 1, n. 26284 del 2006: «[…] le modifiche apportate dalla L. 26 marzo 2001, n. 128 (…) allart. 327 c.p.p. e art. 348 c.p.p., comma 3 non hanno attribuito alcun nuovo e specifico potere alla polizia giudiziaria e non hanno modificato (…) i rapporti tra quest’ultima e il pubblico ministero. L’autonomia investigativa e strategica della polizia giudiziaria continua ad essere ritenuta dal legislatore una condizione indispensabile per garantire l’efficace repressione dei reati. Il novellato art. 348 c.p.p., comma 3 dopo aver precisato che la polizia giudiziaria è tenuta ad eseguire le direttive del pubblico ministero (s’intende, ove queste siano state impartite), stabilisce che la stessa svolge di propria iniziativa tutte le altre attività di indagine utili ai fini dell’accertamento dei reati, nonché quelle richieste da elementi successivamente emersi, assicurando le nuove fonti di prova e informando prontamente il pubblico ministero. (…) ‘La tipologia degli atti di indagine utilizzati dalla polizia giudiziaria per pervenire all’accertamento dei fatti’ ha spiegato questo Supremo Collegio (Cass., Sez. 6^, 21 settembre 1993, Fattibene, in CED n. 195719), ‘non è sindacabile’, perché le direttive e le deleghe di indagine, ove esistono, tendono a valorizzare, sotto il profilo operativo, proprio l’assetto unitario e congiunto della funzione investigativa e degli organi a cui essa è demandata (pubblico ministero e polizia giudiziaria: arg. Ex art. 326 c.p.p.). (…) l’evoluzione del sistema evidenzia, negli ultimi anni, il passaggio da una compressione degli spazi riconosciuti alla polizia giudiziaria rispetto al ruolo del pubblico ministero, dominus delle indagini, a un progressivo ampliamento dei poteri della polizia. Non a caso è stato evidenziato in dottrina che l’estensione e i limiti della delega prevista dall’art. 370 c.p.p., comma 1, se per un verso ricalcano gli schemi tipici della delega amministrativa, afferendo concettualmente a un rapporto di sovraordinazione gerarchico-funzionale, per altro verso appaiono, anche normativamente, inscindibili dall’autonomia investigativa della polizia giudiziaria, con la quale interagiscono.  Né lart. 348 c.p.p., comma 3 né l’art. 370 c.p.p., comma 1 fanno riferimento all’urgenza come requisito dellattività di iniziativa della polizia giudiziaria. Il senso complessivo delie modifiche apportate dalla L. n. 128 del 2001 è stato proprio quello di valorizzare maggiormente lattività di iniziativa investigativa espletabile dalla polizia giudiziaria, ben oltre un burocratico limite di orizzonte della delega del pubblico ministero. Delega o non delega, insomma, la polizia giudiziaria resta libera di procedere autonomamente ad atti di indagine ‘anche dopo la comunicazione della notizia di reato’ (art. 327, comma 1, aggiunto dalla L. n. 128 del 2001, art. 7), con la sola condizione che tali atti siano compatibili con le direttive (e le deleghe) impartite dal pubblico ministero (Cass., Sez. 2^, 30 novembre 2000, Zavattieri, in CED n. 217421)».

Conclusivamente, appare utile ribadire, anche mediante un’opportuna modifica dell’art. 347 c.p.p., che l’obbligo della polizia giudiziaria di riferire senza ritardo la notizia di reato al pubblico ministero, non la esime dal dovere di acquisire e trasmettere al p.m. una notizia di reato il più possibile munita di tutti gli elementi che consentano l’altrettanto immediata iscrizione della notizia di reato. Tale obiettivo si consegue, per un verso, responsabilizzando maggiormente la P.G. e, per altro, attenuando la rigidità temporale connessa alla trasmissione, prevedendo che la polizia giudiziaria trasmetta al pubblico ministero la notizia di reato una volta compiuti tutti gli accertamenti preliminari (come, ad esempio, la compiuta identificazione dell’indagato) necessari per consentire all’Ufficio di Procura un’iscrizione tempestiva nel registro delle notizie di reato contro indagati noti (con il conseguente avvio del termine delle indagini).

In difetto di tale presupposto, è del tutto evidente che non può dirsi sussistente alcun automatismo nell’iscrizione delle notizie di reato in capo al P.M. ( e, conseguentemente, sarebbe del tutto inutile, per come sopra si è detto, la previsione di una specifica ipotesi di illecito disciplinare o di un sindacato del giudice), sovente dovendosi escludere di trovarsi al cospetto di una fattispecie concreta chiaramente sussumibile in un paradigma normativo, e l’attribuzione della stessa ad uno o più soggetti compiutamente identificati.

 

  1. La gestione dei procedimenti non prioritari

 

La riforma dell’art. 407 c.p.p. mediante l’introduzione del comma 3 bis già ha posto la questione, oltre che della individuazione dei procedimenti prioritari, soprattutto della definizione dei procedimenti ritenuti non prioritari, secondo una individuazione condivisa in ambito distrettuale.

Ed infatti, la citata disposizione normativa, introdotta dalla legge n. 103/2017, prevede che: «In ogni caso il pubblico ministero è tenuto ad esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415 bis».

Siffatta disposizione mira, essenzialmente, ad evitare prolungate ed ingiustificate stasi del procedimento ad indagini scadute o chiuse e, tuttavia, produce inevitabili ripercussioni sulla stessa organizzazione della fase delle indagini e sulle strategie del pubblico ministero relative all’azione.

È evidente, infatti, che il pubblico ministero dovrà rendere conto non solo dei procedimenti prioritari conclusi e non definiti, ma soprattutto di quelli che, non essendo prioritari, sono stati “postergati” e, perciò, non interessati da alcuna attività di indagine.

La questione da affrontare attiene, in particolare, alla rilevanza di un’inerzia del pubblico ministero estesa ad intere categorie di procedimenti; un’inerzia che finisce con l’essere certificabile come ritardo, al pari di quello imputabile ai giudici, per effetto proprio della riforma degli artt. 407 e 412 c.p.p., con le intuibili conseguenze anche sul piano disciplinare.

Sul punto, tuttavia, ancora una volta soccorre la giurisprudenza disciplinare del C.S.M. e della Corte di Cassazione (in particolare, con la sentenza, resa a Sezioni Unite, nr. 10793/2017) che ha fissato i seguenti principi:

  • ai fini dell’integrazione dell’illecito disciplinare è necessario che la condotta causi anche un ingiusto danno o un indebito vantaggio ad una delle parti, elementi che assumono la natura di evento. Tale evento deve essere ulteriore ed aggiuntivo rispetto a quello insito nella violazione dei termini di durata massima delle indagini;
  • gli eventi (prevedibili) di danno ingiusto e di indebito vantaggio sono individuabili nel venir meno della possibilità di coltivare l’azione risarcitoria nel processo penale ed il beneficio del proscioglimento per gli imputati per l’intervenuta estinzione del reato per decorso del tempo necessario a prescrivere;
  • nel caso di omesso compimento di qualsivoglia attività investigativa da parte del pubblico ministero, diventa decisivo, ai fini della integrazione del requisito della negligenza inescusabile, l’entità ed il numero degli episodi di ritardo e il mancato rispetto dei criteri di priorità della trattazione degli affari determinati dal Capo dell’Ufficio (C.S.M., sezione disciplinare, sent. 104/2013).

Diventa, pertanto, essenziale la cornice organizzativa entro la quale vengono ad inserirsi le decisioni del pubblico ministero; una cornice, estesa all’ambito distrettuale, che riconduca l’ “inerzia” non a condotte deliberatamente neghittose e, perciò, gravemente lesive dei doveri funzionali, ma a ben precise e trasparenti scelte legate alla necessità di assicurare la celere trattazione dei procedimenti ritenuti prioritari, rispetto ai quali il nuovo sistema dell’avocazione assume un ruolo propulsivo ed insieme sanzionatorio.

Sul punto, la stessa bozza di Risoluzione della Settima Commissione del C.S.M. (n. 657/VV/2017), ha osservato, con riferimento alla gestione dei procedimenti non prioritari, che questi ultimi sono: «(…) in quanto tali da trattarsi in coda a quelli prioritari ma non, per ciò solo, destinati all’oblio ed al definitivo accantonamento (…)».

Posto, dunque, che, comunque, i procedimenti non prioritari non possono rimanere accantonati senza definizione, la strada da percorrere – e che risulta già praticata nell’esperienza di molti uffici ‒ non può essere che quella dell’archiviazione per insostenibilità dell’accusa in giudizio, vista, però, sotto il profilo della verosimile prescrizione della pretesa punitiva.

Resta, certo, il grave problema della tutela della persone offese, rispetto alle quali la motivazione relativa al carattere non prioritario del procedimento originato dalla propria doglianza ( in larghissima parte concernenti reati contro il patrimonio ) assume il sapore di denegata giustizia; soprattutto se si considera l’accentuazione del ruolo della persona offesa alla luce delle recenti modifiche normative (si veda, da ultimo, l’ampliamento della procedibilità a querela di un cospicuo numero di reati, introdotta dal D. Lgs. 36/2018), l’implementazione delle garanzie difensive delle persone offese derivanti dal nuovo co. 3 bis dell’art. 355 c.p.p. e dal novellato art. 90 bis co. 1 lett. B), che sembra quasi introdurre una forma di controllo esterno sul contenuto e sui tempi dell’attività del pubblico ministero, accanto a quello interno derivante dal sistema dell’avocazione.

In definitiva, il potere di avocazione non si è rivelato un efficace sistema di controllo sui tempi delle indagini, per l’impraticabilità di avocazioni generalizzate impossibili da gestire da parte delle Procure generali presso le corti di appello.

Appare, pertanto, più coerente con l’esigenza, per un verso di ridurre i tempi delle indagini e, per altro, di incrementare il controllo giurisdizionale sulla fase delle indagini stesse, prevedere un ampliamento delle ipotesi del ricorso all’archiviazione, con specifico riferimento a tutti quei casi per i quali sia verosimile ritenere che non si possa addivenire ad una sentenza di condanna in primo grado entro il termine di prescrizione, conservando in capo alle persone offese il diritto di interloquire con il G.i.p.

E ciò, in aggiunta all’estensione già contemplata all’art. 3 del Progetto di Riforma, laddove si prevede che si possa fare ricorso all’art. 125 disp. Att. anche quando gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettiva accusatoria.

 

  1. Criticità e ricadute sistemiche delle scelte di priorità e, soprattutto, di non priorità

 

Come sopra si è visto, la questione relativa alla determinazione dei criteri di priorità, deve essere anche e soprattutto riguardata nel suo lato per così dire oscuro, rappresentato dai procedimenti che, per l’effetto, vengono ad essere declassati come non prioritari; dal momento che è la fetta dei procedimenti non prioritari che rappresenta la cifra della violazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Una tale deroga ad un principio costituzionale, che è indispensabile presidio della effettività dei diritti non può avvenire mediante provvedimenti dei dirigenti degli uffici, sia pure condivisi e concordati ai livelli apicali della giurisdizione; deve necessariamente prevedersi un passaggio parlamentare, che ratifichi ed integri, ove necessario, le determinazioni assunte nel circuito giurisdizionale, passaggio indispensabile se si vuole che la giustizia venga amministrata in nome e non in vece del popolo.

Orbene, prevedere – come viene fatto all’art. 3 del Progetto di Riforma ‒ che «gli uffici del pubblico ministero individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica” e che “l’elaborazione dei criteri sia affidata al procuratore della Repubblica previa interlocuzione con il Procuratore generale e con il Presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti», significa limitarsi a “fotografare” l’esistente, attribuendo alla magistratura un’investitura legislativa in via di fatto.

Non intendo affrontare qui il merito delle scelte fatte in ciascuna Procura della Repubblica. Mi limito a due rilievi di fondo.

Il primo è una constatazione: i criteri di priorità – e quelli di non priorità soprattutto ‒finiscono col disegnare una giustizia penale a geografia variabile, dove il confine fra un distretto ed un altro può significare guadagnarsi l’impunità per taluni reati; con tutto quel che ne consegue in termini di allocazione delle risorse da parte delle organizzazioni criminali, da sempre interessate allo shopping giudiziario. Il tutto pur dando atto dell’encomiabile sforzo di reductio ad unum che viene fatto dal Procuratore Generale della Cassazione, sulla base della cornice normativa offerta dall’art. 6 del D.Lgs. 106/2006.

Il secondo è un interrogativo, che scuote il magistrato e chi ha a cuore la complessiva tenuta democratica delle istituzioni.

Chi ha investito i Capi delle Procure – e più in generale, i vertici degli uffici giudiziari- del compito di stabilire quale domanda di giustizia è meritevole di risposta e quale no? Siamo davvero convinti che sia un bene per il corpo sociale – e per la stessa magistratura ‒ legittimare amnistie su base localistica?

Orbene, il compito di decidere se una condotta non è più reato spetta al legislatore; perché solo quest’ultimo risponde delle scelte compiute dinanzi ai governati.

Nella relazione tenuta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario nel 2015, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione svolgeva alcune riflessioni sul rapporto fra etica pubblica ed etica “penale”, di straordinaria profondità ed attualità.

«[…] Nessuna etica pubblica, infatti, può essere integralmente trasferita nel processo penale e sono irrinunciabili i criteri diversi per separare il giudizio penale da quello etico. Se, insomma, il giudice penale diviene metronomo assoluto dei comportamenti esigibili sul piano etico dai consociati e se l’apparato sanzionatorio penale diviene l’unica tabella di valori per i comportamenti pubblici, allora i riflettori accesi dalla collettività sulla giustizia penale sono accecanti: non si ammettono ombre e neppure chiaroscuri; non si tollerano ritardi di interventi o inefficienze di gestione o dissonanze di risultati, perché anche la rendicontazione di un caffè – e dunque la stessa “moralità” del pubblico amministratore, oltre che il corretto utilizzo del pubblico denaro – è affidata unicamente ad una sentenza. In breve: non solo la rilevanza dei comportamenti antisociali è affidata alla giustizia penale, ma l’intero collante sociale, rappresentato dal senso civico comune, è appaltato alla giurisdizione penale. La stessa consapevolezza che i cittadini dovrebbero avere della particolare antisocialità di taluni comportamenti è affidata ad una pronuncia del giudice penale ed esclusivamente a questa. Si tratta di un sentire sociale mediato dalla giustizia penale, secondo modalità praticamente sconosciute, in questi termini, nelle democrazie occidentali avanzate.

L’effetto precipuo ed immediato di tale aspettativa è quello di una progressiva centralità della giurisdizione. La magistratura – ha osservato qualche tempo fa il Presidente emerito della Corte costituzionale, Gaetano Silvestri – è da tempo uscita dal terreno del controllo, che è quello ad essa congeniale e proprio, per addentrarsi in quello della mediazione e della regolazione del conflitto sociale. Il diritto giurisprudenziale è preminente nella composizione delle più svariate problematiche sociali, assai più di quanto lo sia la stessa legislazione. Esso diviene la pietra di volta sulla quale poggia l’intera aspettativa sociale, non solo per affermare i valori essenziali di convivenza, ma soprattutto per garantirne l’attuazione: ci si attende molto di più da una sentenza che da una (nuova) legge e si pensa al controllo della giurisdizione penale quale forma unica di controllo e poi di sanzione, senza neppure immaginare forme alternative, di tipo preventivo o successivo, al di fuori del circuito penale.

Insomma, il terzo potere si trasforma sempre più in gigantismo della giurisdizione per le aspettative etiche e sociali che l’accompagnano, il che costituisce una grave distorsione dell’assetto sociale».

Autorevole dottrina ha rilevato che «[…] Il tempo del processo non può essere condizionato da pratiche incontrollabili che rimettono alle scelte ‘inquisitorie’ le opzioni procedurali dei fatti da perseguire e dei soggetti da processare, in via prioritaria» (Giorgio Spangher).

Indubbiamente.

E tuttavia è anche vero che i tempi della giustizia non possono essere condizionati dalla sistematica rinuncia del legislatore ad operare quelle scelte, relative ai fatti da perseguire in via prioritaria, che si preferisce lasciare ai magistrati del pubblico ministero, dimenticando che la giustizia – come diceva Rosario Livatino ‒ non è affare di pochi magistrati, ma di tanti.

 

  1. La fase della chiusura delle indagini preliminari e il passaggio a quella del giudizio

 

Altra fase che risulta incidere notevolmente sui tempi delle indagini e, di conseguenza, sulla ragionevole durata del processo è quella relativa al passaggio dalla fase delle indagini preliminari a quella del giudizio.

Lo snodo fondamentale è costituito dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

L’esperienza di questi anni suggerisce di rivedere l’utilità, anche sotto un profilo del rispetto delle garanzie, dell’istituto in questione.

Ed infatti, spesso, soprattutto per i reati di minore allarme sociale, l’avviso di conclusione rappresenta solo un burocratico passaggio che affatica solo le segreterie ed allunga inutilmente i tempi, senza giovamento per i diritti difensivi.

Sempre nell’ottica di addivenire quanto prima ad un controllo giurisdizionale sull’azione del p.m., potrebbe essere di grande giovamento eliminare per i reati a citazione diretta l’avviso ex art. 415 bis c.p.p.; e ciò, quanto meno:

  • tutte le volte in cui nella fase delle indagini preliminari sia stato già effettuato il deposito degli atti (ad esempio, conseguente all’adozione di un decreto di sequestro) e il p.m. non ha compiuto ulteriore attività di indagine;
  • per tutti i reati puniti con la sola pena pecuniaria ovvero con pena detentiva alternativa a pena pecuniaria.

Tale modifica normativa si allineerebbe con quanto già previsto nell’art. 6 del progetto di riforma, nella parte in cui viene introdotta un’udienza filtro – da celebrarsi innanzi al giudice monocratico ‒ destinata ad una valutazione sull’accusa tale da condurre ad un’eventuale pronuncia di non luogo a procedere.

 

  1. Le scelte organizzative come indispensabile cornice di ogni soluzione normativa. La designazione dei dirigenti degli Uffici

 

Molte delle soluzioni prospettate nel progetto di riforma del processo penale rimandano ad interventi di natura organizzativa, quasi delegando i capi degli uffici giudiziari per la concreta individuazione di una normativa secondaria.

Vi è da dire che lo stesso Procuratore Generale della Corte di Cassazione, con la nota (nr. 11376 del 24.4.2018) in tema di avocazione, ha posto in evidenza la centralità dell’assetto organizzativo quale pre-condizione per quello che viene definito un esercizio realistico dell’azione penale, nella consapevolezza, oramai universalmente condivisa, della pratica inattuabilità del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Nella medesima nota, infatti, viene esplicitamente riconosciuta l’incidenza, sulle scelte relative all’azione penale, dei criteri di gestione delle risorse disponibili; in particolare, si osserva: «(…) quando il complessivo carico di lavoro dell’ufficio inquirente di primo grado, rapportato all’organico disponibile, abbia imposto al suo dirigente l’adozione di criteri di priorità, stante l’impossibilità di definire tutti gli affari nei termini prefissati, dovrà essere esclusa l’inerzia ingiustificata in relazione ai fascicoli concernenti reati la cui trattazione non è prioritaria (…)».

La circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura del C.S.M. del 16 novembre 2017 evoca chiaramente tale connessione, nel momento in cui, definendo la lettura costituzionalmente orientata del principio di obbligatorietà dell’azione penale, stabilisce che il procuratore «indica i criteri prescelti al fine dell’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili” (art. 3 comma 2)».

Al di là delle considerazioni, già svolte, sulla legittimazione democratica di ogni soluzione che rimetta al Procuratore della Repubblica le scelte sui reati da perseguire (in via prioritaria), va rilevato come, nell’attuale contesto diventi sempre più decisivo l’individuazione di dirigenti capaci; e ciò perché qualsiasi soluzione normativa si persegua, la stessa passerà sempre attraverso il filtro applicativo di persone chiamate ad interpretarle e dare loro vita.

La scelta dei dirigenti chiama in causa il Consiglio Superiore della Magistratura e la necessità che tale profilo, ricadente nella competenza di tale organo di rilevanza costituzionale, trovi adeguata disciplina, mediante la previsione di criteri il più possibile oggettivi che facciano riferimento alle provate capacità organizzative di coloro che vengono designati a dirigere gli uffici giudiziari.

Grazie per l’attenzione.