Mauro Ronco
Professore Emerito di Diritto penale
Università di Padova
GIORGIO AMBROSOLI: RADICI IDEALI E SPIRITUALI DI UN SACRIFICIO*
- Non credo di essere degno dell’onore che mi è stato riservato di ricordare l’Avvocato Giorgio Ambrosoli nel quarantesimo anniversario della morte vilmente infertagli da un sicario di Michele Sindona. La Sua figura costituisce un esempio che merita ammirazione e imitazione in qualsiasi epoca, ma soprattutto oggi, quando gravissimo è il turbamento della coscienza morale e civile nel nostro paese e in tutto il mondo occidentale.
Pur inadeguato nel compito, fornirò qualche linea interpretativa per accostarci fruttuosamente alla sua figura.
Due prospettive si incrociano necessariamente nella descrizione del percorso sacrificale che Giorgio Ambrosoli ha compiuto. Da un lato, occorre far uscire dall’ombra le strade tortuose calcate dalla folla dei malvagi. Costoro, non soddisfatti delle loro iniquità, si affannarono ad occultarle e, infine, compirono la vendetta su colui che le aveva smascherate. Da un altro lato, come nel trionfo della luce sull’ombra in un quadro di Caravaggio, risplende la condotta di un giusto che, odiando le parole false, si fa guida del prossimo lungo la strada della giustizia in cui dimora la vita.
- Rileggendo dopo tanti anni le vicende dell’ascesa e del crollo dell’oscuro impero finanziario di Michele Sindona, non può non affiorare lo sconcerto per la capacità delle potenze di questo mondo di paralizzare i presidi pubblici la cui missione è impedire lo sconvolgimento dell’ordinato svolgersi della vita civile. Mai come in questa occasione vale l’asserto secondo cui è la debolezza dei buoni a spianare la strada al trionfo dei malvagi. Dico “buoni” in senso improprio; perché veramente buoni sono soltanto gli uomini e le donne che operano nell’integrità di una vita virtuosa e non anche coloro che si limitano a non partecipare attivamente alle trame inique, senza impedirne però il successo.
Michele Sindona, in fin dei conti, se lo si studia nel suo cammino verso il potere finanziario, è ben poca cosa. Anche il periodo di tempo in cui esercitò il suo potere è, a ben considerare, estremamente breve. Ancora nel 1967 il Questore di Milano, rispondendo a un interpello del Capo dell’Organizzazione Internazionale di Polizia Criminale di Washington circa il suo coinvolgimento in un traffico illecito tra l’Italia e gli Stati Uniti, tratteggia a suo riguardo un ritratto non particolarmente allarmante.
Il potere economico e finanziario di Sindona conosce un vorticoso sviluppo nel decennio ‘60-’70, in connessione con l’ultima fase della tumultuosa espansione economica dell’Italia nel dopoguerra. Egli diventa socio di maggioranza di due piccole banche che gli vengono vendute dalle facoltose famiglie italiane che ne erano proprietarie. Tramite esse egli entra nel mondo della finanza internazionale. Oltre alle due banche milanesi egli possiede la Banca di Messina e la Finabank di Ginevra; si avvale di solidi legami con il mondo finanziario inglese, americano e svizzero e colloca le sue strutture societarie in paesi finanziariamente riservati.
Agli inizi degli anni ‘70 Sindona compie il tentativo di costituire una grande società finanziaria tramite la fusione di alcuni antichi gruppi finanziari italiani, nonché di acquisire il controllo delle banche di credito ordinario. Il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli sventa questo tentativo. Il 31 agosto e il 20 settembre 1971 ordina un’ispezione sulle due banche di Sindona. Le ispezioni si concludono nei mesi iniziali dell’anno successivo. Entrambe rivelano gravissime irregolarità amministrative e il compimento di operazioni non consentite ad altissimo rischio. La Banca d’Italia presenta un esposto-denuncia all’Autorità giudiziaria; non scioglie però gli organi amministrativi delle banche, ritenendosi soddisfatta di aver sventato il folle progetto di concentrazione finanziaria. D’altra parte, così forse si ragiona in Banca d’Italia, ormai Sindona si è trasferito negli Stati Uniti, ove ha acquistato una banca di primaria importanza. Il suo peso finanziario parrebbe ormai indebolito. Lo scioglimento amministrativo delle banche potrebbe provocare un trauma nel debole mercato finanziario italiano.
In ogni caso, già nel 1972, l’ascesa di Sindona è stata fermata. Nell’ottobre del 1974 sarà spiccato contro di lui un mandato di cattura per bancarotta fraudolenta. La sua carriera criminale dovrebbe essere finita.
- Eppure, proprio quando lo spericolato finanziere si è rivelato uno squallido bancarottiere, la sua aggressività si accresce in modo esponenziale.
Giorgio Ambrosoli – insieme a poche altre persone – costituirà il baluardo inespugnabile contro le trame seduttive e i ricatti atroci che sfoceranno nel suo assassinio nel mese di luglio del 1979. Le armi dell’avvocato milanese saranno: la ricerca paziente della verità e l’esposizione semplice, chiara, rigorosa, completa dell’intera sequenza degli accadimenti. Queste armi sono predestinate alla vittoria; ma quanta pazienza, quanta fatica, quanta dedizione costa affilare questo tipo di armi e poi impugnarle e infine protenderle verso coloro che dispregiano la verità e preferiscono fantasticare in vista di compromessi tra ciò che è e ciò che non è; tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto!
Ancora qualche parola desidero dire sulle fonti del potere di colui che decretò la morte di Ambrosoli. Michele Sindona seppe sfruttare con astuzia la fragilità della nostra Repubblica, ineluttabilmente divisa in due campi avversi dopo la tragedia della guerra, ma anche minata nei suoi organi vitali dall’infezione della mafia italo-americana. Duramente incatenata dal Governo e dalla Magistratura nel periodo antecedente alla guerra, tanto che Michele Pantaleone in Mafia e politica scrisse che: «La mafia come organizzazione scomparve, né fu mai ricostituita fino alla caduta del fascismo»[1], la mafia riuscì a imporsi in modo tracotante e sfacciato nell’immediato dopoguerra grazie al sostegno dei servizi alleati che ne fecero una testa di ponte per esercitare un controllo sulla giovane Repubblica.
Nella serie di ricatti che Sindona rivolgeva alle autorità italiane e, più ancora, nelle minacce dirette e indirette all’Avvocato Ambrosoli e ad altri esponenti di vertice della finanza italiana, risuona spesso il richiamo alla comunità italo-americana di New York. È doloroso constatare il degrado del senso di italianità che affiora da queste parole!
Ma, più ancora della mafia, che probabilmente aveva fornito a Sindona il denaro necessario per iniziare la sua carriera di finanziere, vi è stata un’entità, più rispettabile, raramente menzionata, il cui sostegno spiega le ragioni per cui, anche quando egli era stato convinto come bancarottiere, riuscì a tessere la trama di ricatti e di minacce che gli consentì di giungere al passo estremo di uccidere. Mi riferisco alla massoneria, nelle sue varie istituzioni e sembianze, sul cui sostegno a Sindona non si è forse indagato abbastanza. Essa fu così presente nelle vicende drammatiche di quei giorni da spingere nel 1975 un altissimo esponente della magistratura, Carmelo Spagnuolo, già Procuratore Generale della Corte di Appello di Roma e poi Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, a rilasciare un affidavit in cui, rivelando di essere stato incaricato dal Gran Maestro dei massoni in Italia di accertare se Michele Sindona dovesse essere espulso dalla massoneria per comportamento indegno, asseverò che il bancarottiere era stato accusato di reati che non aveva commesso, e, pertanto, che era un perseguitato politico.
- A partire dalla pubblicazione del libro di Corrado Stajano, che definisce Giorgio Ambrosoli un “eroe borghese”, si è diffusa un’immagine dell’avvocato milanese che non mi convince del tutto. Certo, egli proveniva dalle file della borghesia cittadina medio-alta. Il suo profilo umano, però, soffre di un indebito riduzionismo quando si focalizza la radice dei suoi comportamenti eroici nelle attitudini legalitarie di quella parte di classe sociale che si era tenuta lontana dal malaffare, conservando rispetto per lo Stato di diritto.
Il punto cruciale che definisce il profilo etico e civile di Ambrosoli e che ne spiega l’eroismo sereno e operoso è la conformazione di tutte le sue energie, intellettuali volitive e sensibili, al fine superiore di una vita virtuosa. È la virtù che fa l’uomo (“vir”): essere uomo, di conseguenza, significa essere virtuoso.
La virtù morale incide profondamente sulla perfezione della persona e contribuisce potentemente a far sì che la condotta sia buona non soltanto estemporaneamente, in qualche occasione, in relazione a fini particolari, ma sia orientata permanentemente a realizzare il fine della perfezione personale. E, con la realizzazione del fine personale, si attua nel modo migliore anche il fine professionale che costituisce il compito specifico affidato di volta in volta a ciascuno. Congiungere il discorso etico sulle virtù all’esercizio corretto della vita professionale, prendendo in esame il caso personale di Giorgio Ambrosoli, significa compiere una scelta di campo intesa ad apprezzarne la condotta professionale alla luce dei princìpi filosofici e morali capaci di realizzare il bene e difendere i valori su cui è fondata una società libera e giusta.
- Un rapido excursus in ordine agli aspetti più significativi della condotta di Ambrosoli nella gestione dell’affare “Sindona”, dal conferimento dell’incarico alla morte, rendono più chiari gli asserti precedenti.
La sua condotta fu massimamente ispirata alla virtù della prudenza, regina delle virtù e guida fondamentale di ogni attività umana. Non risiede la prudenza nella meschina preoccupazione per il proprio futuro, come oggi spesso fallacemente la si intende. Essa si radica nella concreta previsione degli eventi in relazione alle cose incerte. Essa postula, pertanto, la puntuale conoscenza della realtà e l’adeguata preparazione professionale.
Prudenza è anzitutto adesione alla realtà; rifiuto delle fantasticherie; presa d’atto delle conseguenze logicamente prevedibili degli atti compiuti e degli accadimenti passati. Per anni i sostenitori di Sindona – tanto gli avvocati che lo assistevano legittimamente quanto gli uomini politici che disegnavano illecitamente compromessi fantasiosi – ne dilatarono l’ego smisurato con vane aspettative che egli potesse uscire impunito dal disastro finanziario che aveva provocato.
Ambrosoli mai si piegò ad ascoltare queste sirene. Concentrandosi sulla realtà incontestabile dei numeri, ricostruita con certosina pazienza, si dimostrò uomo sommamente prudente. Non socchiuse gli occhi di fronte alla realtà. Si cade in questo difetto per svariate ragioni. Talora per scelta deliberata, ma spesso per distrazione, perché attirati da altri a considerare aspetti marginali e irrilevanti del tema oggetto di trattazione.
La conoscenza della realtà è compito arduo. Insegna il Siracide: «Se lo vuoi, figlio, diventerai saggio;/applicandoti totalmente, diventerai abile»[2].
Il giudizio prudente è impedito dall’improvvisazione, dalla fretta, dalla molteplicità degli impegni o, peggio, dal prestare orecchio a consigli interessati, dall’ascoltare opinioni di persone socialmente importanti, ma non a conoscenza dei fatti, dai condizionamenti politici e ideologici.
Ambrosoli si dedicò per anni quasi esclusivamente allo studio dell’affare che gli era stato affidato; rinunciò a guadagni e a vantaggi economici; non approfittò dell’incarico per acquisirne altri, magari più lucrosi e meno impegnativi; fu sordo alle voci interessate che proponevano soluzioni impossibili; non si lasciò distrarre da alcuna ipotesi politica o da dietrologie interessate; si astenne da valutazioni istintive dettate dall’indignazione o dal risentimento.
La cura con cui preparò le sue relazioni al Giudice; la perfezione concettuale e la completezza analitica della sua deposizione nella rogatoria americana avanti al Giudice Istruttore milanese Giovanni Galati il 9, il 10 e l’11 luglio 1979 costituiscono pietre miliari di un lavoro mirabile, tutto quanto inscritto nel quadro della virtù della prudenza.
- Giorgio Ambrosoli praticò la giustizia in modo eminente sotto entrambe le forme in cui essa si manifesta.
La forma della veracità, anzitutto, che obbliga la persona a dare a ciascuno il suo e, quindi, a dire la verità. Se ciò vale in ogni rapporto della vita sociale, tanto che, se almeno la gran parte degli uomini non praticasse abitualmente tale virtù, la società non potrebbe sussistere, tanto più vale per coloro che assumono incarichi pubblici, i giudici, certo, ma anche gli esperti, che hanno l’obbligo di ricercare e di dire la verità in ordine ai fatti incerti e complessi che hanno assunto l’obbligo di investigare.
Oltre alla veracità, poi, occorre la forma della fedeltà e della lealtà alla parola data con l’assunzione dell’incarico. Questo aspetto della giustizia caratterizzò in modo particolare l’opera di Ambrosoli nella vicenda in esame. È proprio della fedeltà la saldezza nello svolgimento dell’incarico; il rifiuto di ogni tergiversazione, la determinazione nel superamento degli ostacoli. Il rispetto di questa forma della giustizia è tanto più arduo quanto più l’ambiente in cui si è costretti ad agire è affollato da soggetti cinici, infingardi, disonesti.
La fedeltà al giuramento prestato nell’assolvimento dell’incarico peritale presenta due versanti: la veracità e l’affidabilità della ricostruzione di una situazione appartenente al passato e la promessa di condurre a termine l’incarico in modo retto, senza titubanze, ripensamenti o incertezze; combattendo contro chiunque, ma soprattutto contro se stessi, per superare l’inevitabile propria fragilità; per approfondire ciò che in un primo momento può sembrare troppo complicato; per districare con energia intellettuale e con ferma determinazione i nodi che sembrano rendere incomprensibile l’oggetto dell’investigazione.
Quanto penoso è lo sforzo necessario per pervenire alla meta! Talora ci si ferma a metà strada, o a due terzi del cammino, lasciando scoperto qualche aspetto, magari soltanto per prendere fiato, per porre tra se stessi e la materia trattata una certa distanza, ovvero talora per condividere con altri la responsabilità del disvelamento integrale della verità.
Ebbene, Ambrosoli svolse l’incarico con la fermezza e con la rettitudine che caratterizzano l’operare dell’uomo interiormente trasformato dalla ricchezza derivante dalla virtù della giustizia.
- La corona dell’opera compiuta sta nella fortezza e nella magnanimità con cui Ambrosoli accettò e svolse l’incarico. Al suo occhio esperto non poté sfuggire fin dall’inizio quali sarebbero state le difficoltà e gli ostacoli sul cammino. Gli uomini e le donne astute, pur talora ricercando con ansia incarichi superiori alle loro capacità e onori immeritati, tendono a sottrarsi agli sforzi eccessivi e ai pericoli che si accompagnano agli impegni più gravosi. Quando le cose si fanno difficili, usano la tattica del commodus discessus, allegando ogni tipo di giustificazione, talora insinuando l’imprudenza in coloro che sono disponibili a percorrere la strada del sacrificio.
È proprio, invece, della virtù della fortezza correre diritti verso la meta della giustizia sopportando con pazienza i sacrifici necessari per evitare la resa e la defezione a causa della pervadente presenza del male. La determinazione generosa nel compimento del dovere attira spesso rancore e odio. La moralità dell’oggetto dell’impegno richiesto ad Ambrosoli rendeva la causa nobile e il suo operare magnanimo. Egli abbracciò la sua croce senza esitazione; la portò innanzi fino al compimento. È significativo che egli sia stato assassinato nella stessa giornata, poche ore dopo, in cui aveva esaurito il suo compito.
Indomito egli trascorse l’ultimo anno della vita sotto la costante minaccia di morte. L’anonimo sedicente appartenente alla consorteria italo-americana di New York lo tempestò di telefonate fin dal dicembre del 1978 in un crescendo di minacce, sempre più dirette e vicine. Non lo spinse alla resa neanche la scoperta che intorno a sé, tra le pochissime persone che godevano della sua fiducia, si annidava un traditore, che aveva trasmesso al nemico la sua seconda relazione al Giudice Istruttore.
La sorte di Ambrosoli alla fine del ‘78 è segnata. Ad aprile ‘79 Sindona dice all’onnipotente banchiere Enrico Cuccia che Ambrosoli non ha più scampo, che lui lo avrebbe fatto scomparire. Cuccia ha raccontato ciò al Giudice Istruttore di Milano l’8 giugno 1983, soltanto dopo l’omicidio. Gli ultimi mesi di vita di Ambrosoli vedono l’alternarsi di ricatti e di minacce. Egli continua impavido a seguire la via dolorosa del coraggio e dell’onore. Si dedica con sempre maggiore cura allo studio per far fronte alla deposizione in rogatoria. Qualche sicario apre la cassaforte e lascia il messaggio mafioso di una pistola segata in un locale della banca ove egli svolge il suo lavoro. Presenta la doverosa denuncia; ma non deflette dall’impegno. Sa che il nemico vuole indebolirlo frapponendogli gli ostacoli più diversi. Lo scopo dei ricatti è incrinare la sua attendibilità. Egli corre magnanimo verso il sacrificio della vita, consapevole che vi sono valori spirituali e morali più importanti della vita stessa.
- La radice profonda delle virtù civiche di Giorgio Ambrosoli sta nella certezza ferma e serena che i valori spirituali e trascendenti, in cui egli crede come convinto cattolico, sono perenni e invincibili, perché nessun nemico potrà sconfiggerli.
Non posso tacere questo aspetto della vita di Giorgio Ambrosoli, perché egli lo ha consegnato alla moglie nel testamento di vita vergato il 25 febbraio 1975. Con lucida chiarezza egli rivela alla compagna della sua vita che pagherà «a molto caro prezzo l’incarico». Egli ne è consapevole al momento dell’accettazione; ma lo ha accettato perché si è trattato di «un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese». Il testamento si chiude con queste nobili parole: «Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa».
Il messaggio trasmesso sia ancora oggi per noi una consegna incandescente, da accogliersi con animo grato rivolgendo al Signore la preghiera del Siracide che sono certo egli avrebbe condiviso: «Accetta quanto ti capita,/ sii paziente nelle vicende dolorose,/ perché con il fuoco si prova l’oro,/ e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. /Affidati a lui ed egli ti aiuterà;/ segui la via dritta e spera in lui»[3].
Nella speranza di sfuggire anche noi, in questi tempi di confusione dell’intelligenza, all’invettiva che ricorre pochi versetti dopo nel testo della Scrittura: «Guai ai cuori pavidi e alle mani indolenti/ e al peccatore che cammina su due strade»[4].
* Testo dell’intervento tenuto dal Prof. Mauro Ronco in occasione del Convegno Etica, diritto, giustizia svoltosi ad Alessandria presso l’Università degli Studi del Piemonte orientale – Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze politiche, economiche e sociali, il 22 novembre 2019 ed organizzato dalla Scuola di Formazione Forense Giorgio Ambrosoli e dagli Ordini degli Avvocati del luogo, nel 40°anniversario della scomparsa dell’Avvocato Giorgio Ambrosoli.
[1] M. Pantaleone, Mafia e politica, Torino, 1962, p. 42.
[2] Sir 6, vv. 33-34.
[3] Sir 2, vv. 4-6.
[4] Sir 2, v. 14.