Paolo Valiante
Giudice del Tribunale di Salerno

 

L’ABORTO PRETERINTENZIONALE:
UNA CONTRADDIZIONE DEL SISTEMA*

 

Sommario: 1. Di un recente intervento normativo in tema di aborto preterintenzionale – 2. L’aborto preterintenzionale: una scelta legislativa in controtendenza – 3. La corrispondente fattispecie dolosa – 4. Il bene giuridico tutelato: a) la vita del concepito – 5. Segue. b) il diritto della donna all’autodeterminazione – 6. L’aborto preterintenzionale tra decriminalizzazione ed inasprimento sanzionatorio – 7. L’individuazione del bene tutelato: incongruenze tra aborto doloso e aborto preterintenzionale – 8. Conformità dell’aborto preterintenzionale al principio di colpevolezza e necessità di una revisione del contraddittorio sistema delineato dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 – 9. Il nuovo art. 593 ter c.p.: non cessa l’imbarazzo del legislatore.

 

  1. Di un recente intervento normativo in tema di aborto preterintenzionale

 

Poco prima che cadessero i quarant’anni dalla entrata in vigore della Legge 22 maggio 1978, n. 194, il Decreto Legislativo 1 marzo 2018, n. 21[1] ne ha abrogato due norme – l’art. 17 e l’art. 18 – non prima, però, di avere introdotto nel codice penale l’art. 593 bis e l’art. 593 ter: il primo rubricato come “interruzione colposa di gravidanza” e il secondo rubricato come “interruzione di gravidanza non consensuale”.

Si tratta di una delle pochissime modifiche[2] di una legge “immutabile” per antonomasia (infatti, a coloro che hanno, anche solo problematicamente, sollecitato negli anni la opportunità di una riflessione sulla sua eventuale revisione, si è in genere pregiudizialmente opposto che, trattandosi di legge la cui richiesta di abrogazione era stata respinta in sede di referendum, essa non fosse suscettibile di mutamento).

Il recente intervento del legislatore, tuttavia, non ha avuto particolare risalto, né nella dottrina giuridica, né nel dibattito socio-culturale.

Se ne possono comprendere le ragioni: il decreto si è limitato a trasferire le due preesistenti fattispecie di reato dalla legge speciale al codice penale, senza variarne il contenuto.

Del resto, la delega prevedeva solo un “riordino” della materia penale, in tendenziale attuazione del principio della riserva di codice, mediante l’inserimento nel codice stesso di fattispecie criminose previste dalla legislazione speciale a tutela di beni ed interessi costituzionalmente rilevanti. Si trattava, dunque, di un’attività tale da escludere “modifiche alle fattispecie criminose vigenti”[3], tradottasi nella loro mera traslazione all’interno del codice[4].

Ciò nondimeno, l’intervento fornisce l’occasione per tornare su una figura di reato, quella dell’aborto preterintenzionale, che, per la sua formulazione e la sua collocazione, era già suscettibile di apparire, nel contesto della legge 194/78, come una fattispecie non poco problematica.

 

  1. L’aborto preterintenzionale: una scelta legislativa in controtendenza

 

Poche nozioni legislative hanno avuto vita contrastata quanto quella di delitto preterintenzionale. Non solo la sua struttura, ma la sua stessa ragione d’essere all’interno del sistema penale hanno incontrato critiche e riserve da parte degli studiosi, tanto da indurre taluno a registrare «una sollecitudine dottrinale (…) eccessiva»[5].

Benché la preterintenzione sia stata costruita dal legislatore come un criterio autonomo di ascrizione di responsabilità, si nega generalmente che essa costituisca un tertium genus tra dolo e colpa e che delinei rispetto a questi una forma di colpevolezza intermedia[6]. Se si tratti di un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva o piuttosto di dolo misto a colpa, è questione che ancora oggi agita il dibattito in argomento e che, peraltro, costituisce già la semplificazione di una speculazione che in passato contemplava anche la riconducibilità del delitto preterintenzionale interamente nell’alveo del delitto doloso o del delitto colposo[7].

Che si dubiti, poi, dell’opportunità di mantenere in vita la preterintenzione, è atteggiamento che non da ora parte della dottrina ha assunto[8], tanto più – si è argomentato – che le figure di delitto preterintenzionale attualmente previste troverebbero egualmente disciplina alla luce del codice vigente[9].

Per questi motivi, non può che destare sorpresa, anche a distanza di anni, la previsione del delitto di aborto preterintenzionale introdotta con la legge 22 maggio 1978, n. 194, il cui art. 18, comma 2 punisce con la reclusione da quattro a otto anni «chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna».

Si tratta, infatti, dell’unica ipotesi pacifica di preterintenzione nel nostro ordinamento accanto a quella classica di omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.)[10] e, di conseguenza, anche dell’unica ipotesi di preterintenzione prevista dal legislatore ex novo dall’entrata in vigore del Codice Rocco ad oggi, peraltro contenuta in una legge speciale, sia pure di così spiccata rilevanza.

Non c’è bisogno di collocarsi oggi in una prospettiva di ripensamento, a quarant’anni dall’emanazione della legge n. 194/78, per poter affermare che la previsione dell’aborto preterintenzionale fu una scelta del legislatore in controtendenza. Che così fosse, doveva apparire probabilmente già chiaro allora, e ciò per due ordini di motivi.

Il primo è che tale nuova ipotesi di preterintenzione fu prevista in un momento in cui, come detto, era già rilevante la critica verso questa forma di responsabilità.

Il secondo è che la legge 22 maggio 1978, n. 194 segnava il passaggio da una disciplina repressiva predisposta dal legislatore del ‘30 in materia di aborto ad un regime di sostanziale liberalizzazione del fenomeno. L’introduzione del delitto di aborto preterintenzionale – e dunque di una previsione che serve ad apprestare una più intensa tutela giuridica per il bene che si vuole preservare – si inscriveva in modo incongruente, perciò, nel quadro di una scelta legislativa di decriminalizzazione.

L’aborto preterintenzionale, dunque, non appare prima facie come una previsione del tutto coerente con il sistema, oltre che con le più consolidate posizioni della dottrina.

 

  1. La fattispecie dolosa corrispondente

 

Gli interrogativi rispetto alla figura dell’aborto preterintenzionale si fanno legittimamente più consistenti se si considera che la previsione della preterintenzione quale autonoma forma di responsabilità risponde certamente alla ratio di predisporre una più efficace tutela di beni e interessi di particolare rilevanza e che l’unico altro delitto preterintenzionale previsto nel nostro ordinamento è, come ricordato, l’omicidio di cui all’art. 584 c.p., il cui bene protetto è indiscutibilmente la vita.

Se ciò è vero, non ci si può esimere, prima d’ogni altra cosa, dal tentare di individuare quale sia il bene tutelato dalla norma incriminatrice dell’aborto preterintenzionale.

Ora, poiché non è punibile a titolo di preterintenzione (come, del resto, neanche a titolo di colpa) un fatto che non sia già previsto dalla legge come reato – e dunque che non sia già punibile a titolo di dolo, il quale rimane ex art. 42, comma 2 c.p. il normale criterio di imputazione soggettiva di un fatto – occorre, in primo luogo, stabilire a quale fattispecie dolosa corrisponda la fattispecie preterintenzionale prevista prima dall’art. 18, comma 2 L. 194/78 e oggi dell’art. 593 ter, comma 2 c.p. (non v’è dubbio, per esempio, che la fattispecie preterintenzionale di omicidio dell’art. 584 c.p. corrisponda alla fattispecie dolosa di omicidio dell’art. 575 c.p.).

Una volta individuata la corrispondente fattispecie dolosa, poi, è necessario risalire al bene giuridico protetto dalla disposizione normativa che la contempla, onde verificare se esso corrisponda a quello protetto dalla fattispecie preterintenzionale o se quest’ultima non miri piuttosto alla tutela di un bene diverso e, soprattutto, se ciò sia possibile in astratto.

A seguito dell’abrogazione dell’intero titolo X del libro secondo del codice penale ad opera dell’art. 22 L. 194/78, sono rimaste due fattispecie incriminatrici dolose in materia di aborto[11]: l’art. 18, comma 1 L. 194/78 (ora art. 593 ter, comma 1 c.p.), che corrisponde sostanzialmente all’abrogata disposizione dell’art. 545 c.p. nonché dell’art. 546, comma 3, n. 2 c.p.[12], in quanto punisce (ma meno gravemente di prima) «chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna», e l’art. 19 L. 194/78, che punisce chiunque cagioni l’interruzione della gravidanza senza l’osservanza delle modalità previste dagli artt. 5 e ss. della stessa legge.

Evidenti ragioni di ordine logico-sistematico lasciano concludere che la fattispecie di aborto preterintenzionale sia riconducibile a quella dolosa prevista prima dall’art. 18, comma 1 L. 194/78 e ora dall’art. 593 ter, comma 1 c.p.

Intanto, essa è contemplata dal comma 2 sia del previgente art. 18 che dell’attuale art. 593 ter, e dunque in modo tale da lasciare intendere uno stretto collegamento con il reato previsto dal comma immediatamente precedente.

Ma soprattutto deve considerarsi che il presupposto del reato di cui all’art. 19 è il consenso della donna (se non vi fosse ritorneremmo, infatti, nell’ambito dell’art. 18) ed evidentemente di colui al quale ella si rivolge per l’intervento abortivo, cosicché l’aborto che consegua all’inosservanza delle modalità previste dalla legge è evento certamente voluto, verso il quale si dirigono inequivocabilmente la volontà dell’operatore e della donna.

Alla stregua di queste considerazioni, allora, si può affermare la riconducibilità dell’aborto preterintenzionale alla fattispecie dolosa dell’art. 18, comma 1 L. 194/78 (ora art. 593 ter, comma 1 c.p.).

Si ponga mente, infatti, al carattere distintivo della preterintenzione rispetto alle altre forme di responsabilità penale: nel delitto preterintenzionale l’evento dannoso o pericoloso che si è realizzato deve essere “più grave” di quello voluto dall’agente. In quanto “oltre” l’intenzione e non “al di fuori” di essa, l’evento deve essere strettamente collegato, sul piano causale, alla condotta posta in essere dall’agente al fine di realizzare un evento che, rispetto a quello verificatosi, è meno grave. Insomma, l’evento, sia pure non compreso a rigore nell’intenzione dell’agente, non può tuttavia apparire completamente “anomalo” rispetto a quello perseguito dall’agente[13].

Ebbene, l’art. 18, comma 2 richiede quale condotta-base voluta dall’agente quella consistente in “azioni dirette a provocare lesioni”, mentre tali non potrebbero considerarsi quelle poste in essere con il consenso della donna ai sensi dell’art. 19, in quanto non punibili. Viceversa, l’aborto preterintenzionale postula che la condotta da cui esso deriva sia diretta a realizzare un’aggressione dell’incolumità fisica della donna senza il suo consenso. Solo l’aggancio all’art. 18, comma 1, perciò, consente di ritenere l’evento punibile come omogeneo rispetto al tipo di condotta realizzata e al risultato che l’autore in concreto perseguiva: l’aborto preterintenzionale si può ricomprendere, cioè, nell’iter causale diretto a provocare lesioni alla donna senza il suo consenso, costituendo un momento ulteriore della linea evolutiva dell’evento meno grave.

In ogni caso, se, diversamente da quanto ora proposto, si dovesse ritenere che la fattispecie di aborto preterintenzionale sia posta in un rapporto di continuità di tutela non (come qui si sostiene) con la fattispecie dolosa di cui all’art. 18, comma 1 (ora art. 593 ter, comma 1), bensì con quella, ugualmente dolosa, di c.d. aborto illecito di cui all’art. 19, costituirebbe circostanza ben strana il fatto che la fattispecie preterintenzionale fosse punita con una pena (da quattro a otto anni) più grave di quella prevista per la corrispondente fattispecie dolosa (l’aborto praticato senza l’osservanza delle modalità previste dagli artt. 5 e 8  è punito dall’art. 19, comma 1 con la reclusione sino a tre anni, mentre l’aborto praticato senza l’osservanza delle modalità previste dagli artt. 6 e 7 è punito dall’art. 19, comma 3 con la reclusione da uno a quattro anni); per quanto egualmente singolare risulti che comunque la sanzione già prevista dall’art. 18, comma 2 e ora riprodotta nell’art. 593 ter, comma 2 coincida con quella dell’interruzione dolosa di gravidanza su donna non consenziente[14].

Individuata in tal modo la fattispecie dolosa corrispondente alla figura dell’aborto preterintenzionale, occorre a questo punto risalire sino al bene giuridico che essa si propone di salvaguardare.

 

  1. Il bene giuridico tutelato: a) la vita del concepito

 

Qual è il bene giuridico tutelato dall’art. 18, comma 1 L. 194/78 (ora art. 593 ter, comma 1 c.p.)?

Non sembra che vi sia spazio per un’alternativa che non sia la seguente: o si tratta della vita del concepito oppure del diritto della donna all’autodeterminazione, fermo restando che, limitatamente ai casi in cui l’aborto è cagionato, oltre che senza il consenso della donna, da persone non esercenti la professione medica ovvero con metodi violenti o non conformi all’arte medica, oggetto della tutela è anche l’integrità fisica della donna.

Invero, a seguire la prima opzione, si giungerebbe all’inaccettabile conseguenza che la vita del concepito sia soggetta ad una tutela condizionata: l’ordinamento la tutela se lo vuole la madre, non la tutela se non lo vuole la madre.

Si potrebbe obiettare che, posta in questi termini, la questione è eccessivamente semplificata. Gli artt. 4 e ss. della legge n. 194/78 subordinano l’interruzione volontaria della gravidanza ad una serie di condizioni tali che la prosecuzione della gravidanza comporti un serio pericolo per la salute della donna. La semplice volontà di quest’ultima, di conseguenza, non basterebbe da sola a giustificare la soppressione del concepito, laddove non ricorrano quelle circostanze previste dalla legge: circostanze, le quali integrano una situazione di conflitto tra la vita del concepito ed altri interessi della madre, che il legislatore ha ritenuto di risolvere in favore di questi ultimi.

L’obiezione, invero, è meno fondata di quanto sembri. Come è noto, il legislatore avrebbe potuto in astratto adottare due soluzioni per definire i confini entro i quali circoscrivere la liceità dell’aborto[15].

La prima è la soluzione c.d. “dei termini”, che consiste nella liberalizzazione dell’aborto in un periodo di tempo prefissato dal legislatore che va dall’inizio del concepimento[16] fino ad un determinato stadio della gravidanza (di solito, il legislatore indica, quale termine della liberalizzazione, il completamento di una determinata settimana o di un determinato mese della gravidanza): abortire in questo periodo, cioè, è sempre possibile, oltre che lecito, a semplice richiesta della donna[17].

Va da sé che l’opzione per questa soluzione presuppone che si neghi l’umanità del concepito prima che sia decorso il termine fissato dalla legge[18]: ciò solo può giustificare, evidentemente, che, a prescindere dall’allegazione di una qualsiasi circostanza idonea a sconsigliare il protrarsi della gravidanza, sia rimessa alla privacy della donna (intesa come sottrazione della sua decisione a qualsiasi controllo da parte di terzi) la scelta di ricorrere all’aborto entro i termini consentiti.

La seconda è la soluzione c.d. “delle indicazioni”, che consiste nella legalizzazione dell’aborto sulla base di determinati presupposti. Di conseguenza, la praticabilità dell’interruzione volontaria della gravidanza richiede un quid pluris rispetto alla volontà della donna, che può consistere, a seconda della scelta del legislatore, nella contestuale sussistenza di ragioni mediche, eugenetiche, sociali, economiche, psicologiche, etc., tali da sconsigliare alla madre il compimento a termine della gravidanza.

Questa soluzione, a differenza di quella c.d. dei termini, implica il riconoscimento di un valore alla vita del concepito[19], la cui tutela, però, deve cedere il passo a quella degli interessi sottesi alle situazioni astrattamente previste dal legislatore, che di volta in volta ricorrano in concreto (p. es.: l’interesse alla salute fisica o psichica della madre, l’interesse alla preservazione della specie dalla nascita di esseri umani malformati, l’interesse economico della famiglia d’origine del concepito che versi in condizioni precarie, l’interesse della donna a che il rapporto con il partner o il complessivo equilibrio della famiglia non siano turbati dalla nascita di un figlio, etc.).

Solo formalmente il legislatore italiano ha dato ingresso nella legge n. 194/78 alla soluzione delle indicazioni, in realtà sostanzialmente atteggiandola come soluzione dei termini[20]. Più precisamente, quella della legge è, in teoria, una regolamentazione secondo indicazioni legata a termini, nel senso che la disciplina delle modalità attraverso cui avviene il rilascio del documento necessario per interrompere la gravidanza è diversa a seconda che questo sia richiesto prima o dopo che siano trascorsi novanta giorni dall’inizio della gravidanza.

In realtà, la soluzione delle indicazioni non trova alcun riscontro per l’aborto che venga eseguito entro i primi novanta giorni. Ciò risulta evidente, se solo si pone mente al fatto che in tanto la soluzione delle indicazioni non deroga al suo intrinseco significato di tutela, almeno tendenziale, del concepito, in quanto sia effettivo l’accertamento in concreto dei presupposti di liceità fissati in astratto dal legislatore[21]. Se le indicazioni (assai ampie, peraltro, quelle previste dall’art. 4 della L. 194/78) non formano oggetto di un serio e indefettibile controllo, si potrà parlare, tutt’al più, soltanto di una versione “mascherata” della soluzione dei termini.

Due ordini di ragioni, infatti, hanno convinto autorevole dottrina[22] a giungere a conclusione analoga.

In primo luogo, la legge non stabilisce alcuna forma di accertamento vincolante da parte dell’organo cui la donna è tenuta a rivolgersi[23], limitandosi a stabilire all’art. 5 che il medico della struttura pubblica (consultorio o struttura socio-sanitaria) o il medico di fiducia interpellati, una volta garantiti i necessari accertamenti medico-sanitari ed esaminate con il consenso della donna le possibili soluzioni ai problemi socio-economico-familiari che la inducono a richiedere l’interruzione della gravidanza, rilasciano alla donna copia di un documento attestante la gravidanza nonché la richiesta di aborto e la invitano a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i quali senza che abbia riveduto la sua posizione, la donna è abilitata ad abortire presso le sedi autorizzate. Se il medico, poi, riscontra gli estremi dell’urgenza dell’aborto, la presentazione del documento ottenuto dal medico può avvenire subito, in modo da consentire il più sollecito svolgimento dell’intervento.

Nulla dice la legge, dunque, circa la “consistenza” dell’accertamento e della valutazione da compiersi da parte del medico nel corso dell’incontro, che si potrebbe ottimisticamente definire di “dissuasione”, con la donna. In sostanza, essa “non esclude che l’organo adito possa esercitare un sindacato più o meno pregnante sulle ragioni addotte dalla donna, ma non lo impone”[24]: ciò equivale a dire che non è richiesto al medico di far discendere dall’esito dell’incontro (almeno questo, invece, doveroso) un giudizio finale sulla sussistenza o meno delle circostanze dell’art. 4, cui subordinare il rilascio del documento necessario per abortire[25]. Egli non potrà fare altro, quando non riscontri l’urgenza dell’intervento[26], che mettere in atto la “moratoria” di sette giorni, la quale, come si è visto, non offre alcuna garanzia che la donna sia posta in condizioni di maggiore ed effettiva consapevolezza.

In secondo luogo, peraltro, la previsione delle circostanze legittimanti l’intervento abortivo è talmente generica ed imprecisata[27] che risulterebbe praticamente impossibile al medico accertarne l’effettiva sussistenza[28]. Come potrebbe, per esempio, il medico di fiducia o lo stesso medico del consultorio apprezzare le situazioni economiche o sociali allegate dalla donna e valutarne appieno l’effettiva futura incidenza sulla sua salute nell’eventualità che proseguisse la gravidanza?

E ancora: se pure fosse in grado di fare ciò, il medico non potrebbe, stando alla lettera della legge, rifiutare il rilascio del documento (lo potrebbe legittimamente fare, invece, se la donna non allegasse alcuna delle circostanze previste dall’art. 4). Ma se anche egli volesse esercitare un potere di tal genere, chi potrebbe impedire alla donna di rivolgersi ad un medico diverso, onde ottenere da lui il documento che le è stato precedentemente negato?

Non può non concordarsi, allora, con chi ritiene che al centro del sistema delineato dalla legge n. 194/78 “come linea di demarcazione tra la liceità e illiceità, vi è la volontà della donna”[29]. Lungi dal dare luogo ad una etero-determinazione delle circostanze legittimanti l’aborto, gli artt. 4 e 5 non sfuggono alla fondata impressione che sanciscano, invece, la pratica affermazione del diritto della donna all’autodeterminazione[30]. Prevedendo una serie di adempimenti meramente formali da assolvere nel contesto della procedura amministrativa per l’interruzione della gravidanza[31], essi lasciano, in sostanza, la tutela del concepito alla decisione della madre.

 

  1. (segue): b) il diritto della donna all’autodeterminazione

 

Se così è, risulta difficile sottrarsi alla convinzione che, in realtà, l’art. 18, comma 1 della legge n. 194/78 (ora art. 593 ter, comma 1 c.p.) tutela, non la vita del concepito, quanto piuttosto quello che è stato definito “l’interesse della donna alla maternità”[32].

Tanto è vero che esso punisce assai più rigorosamente l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna (da quattro ad otto anni) di quanto l’art. 19 punisca l’interruzione della gravidanza senza l’osservanza delle modalità previste dagli artt. 5 e ss. (sino a tre anni).

Delle due l’una.

O la legge vuole tutelare realmente la vita del concepito e allora non v’è motivo di giustificare una così sensibile diversità sanzionatoria quando egualmente non ricorrano le circostanze legittimanti ex art. 4: a meno, appunto, di non voler attribuire rilievo tanto decisivo al consenso della donna, sì da legittimare il sospetto che sia questo il bene che assume rilievo preponderante rispetto alla vita del concepito.

Oppure la legge non tutela la vita del concepito ovvero la tutela in modo marginale, sicché non sbaglia chi ritiene che l’art. 19 garantisca semplicemente l’interesse di tipo burocratico del rispetto delle modalità di legge[33]: logica conseguenza di tale assunto sarebbe, perciò, che l’art. 18 comma 1 tutela l’interesse della donna.

In realtà, la legge, almeno nei primi tre mesi di gravidanza, non mira a proteggere la vita del concepito e, di fatto, ne determina solo una tutela “riflessa”, mera conseguenza della più ampia tutela accordata alla volontà della donna.

Diversamente, si dovrebbe ritenere che la legge introduca nel nostro ordinamento il principio di disponibilità della vita altrui, che non vale nemmeno per la vita propria, se solo si considera che il nostro codice penale punisce (ancora) l’omicidio del consenziente(art.579) e l’istigazione al suicidio (art.580)[34], prevedendo l’incriminabilità non solo di chi determini altri al suicidio ma anche di chi si limiti a rafforzare l’altrui proposito già esistente o ad agevolare l’esecuzione del suicidio già deciso da altri, mentre non punisce il tentativo di suicidio soltanto per ragioni di politica criminale.

Assumendo, infatti, come premessa che sia sufficiente per abortire nei primi tre mesi di gravidanza la richiesta della donna, associata alla prospettazione non verificabile di una delle condizioni dell’art. 4, si dovrebbe concludere, se si ritenesse che l’art. 18, comma 1 tenda alla tutela della vita del concepito nel caso di aborto senza il consenso della donna, che la volontà di una persona (in questo caso, la madre) valga più nel caso in cui abbia ad oggetto la vita di un terzo che non la vita propria.

Se invece si reputa, come emerge dal complessivo impianto della legge n. 194/78, che l’art. 18, comma 1, in essa originariamente inserito, tuteli l’interesse della donna, se ne deve far derivare che la legge attribuisce alla vita del concepito un marginale valore.

Questo discutibile approdo è la conseguenza di un difetto genetico della legge, e cioè del pregiudiziale discostamento dai principi costituzionali di riferimento di una regolamentazione dell’aborto nel nostro ordinamento, che erano stati indicati al legislatore dalla nota sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975[35] con cui la Corte costituzionale dichiarò la illegittimità costituzionale dell’allora vigente art. 546 c.p.

Non è azzardato affermare che la legge n. 194/78 ha determinato un capovolgimento della prospettiva assunta in quella sentenza, la quale, muovendo dal riconoscimento del valore del concepito, concludeva, però, in maniera discutibile che ad esso non potesse essere assicurata una prevalenza totale ed assoluta sugli altri beni di livello costituzionale con i quali entrasse eventualmente in conflitto[36].

Pur nella sua contraddittorietà, tuttavia, la sentenza n. 27/75 aveva fissato i “paletti” minimi entro i quali realizzare per legge la tutela della “condizione della donna gestante”.

In primo luogo, la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 c.p. «nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venire interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato (…) e non altrimenti evitabile per la salute della madre, anche se non ricorrono tutti gli estremi dello stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p.». Con quest’ultima affermazione, i giudici intendevano riferirsi al fatto che tale causa di giustificazione «esige non soltanto la gravità e l’assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o il pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non è sempre immediato».

In secondo luogo, la Corte, pur avendo aperto la strada alla legalizzazione dell’aborto, non aveva esitato a sottolineare l’obbligo del legislatore di «predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla».

Invece, le scelte del legislatore del 1978 divergono considerevolmente da questa linea tracciata dalla Corte costituzionale.

Quanto alle modalità con cui la legge n. 194/78 ha realizzato l’indicata estensione degli estremi dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. – troppo angusti nel ragionamento della Corte per poter trovare applicazione nel caso dell’aborto – l’art. 4 richiede innanzitutto che ricorra un pericolo “serio” per la salute della donna in relazione all’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni. Ma il pericolo “serio” è altro dal pericolo di un “danno grave” che integra la scriminante dello stato di necessità e che peraltro era letteralmente richiamato anche dalla sentenza n. 27/75. Esso è certamente indice di un grado di pericolosità inferiore[37], come dimostra il fatto che, per l’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni, l’art. 6, richiedendo un “grave” pericolo, fa esplicito riferimento a processi patologici in atto che devono formare oggetto di un rigoroso accertamento medico. L’art. 4, invece, manca di un riferimento analogo[38].

Ulteriore motivo di divergenza della legge n. 194/78 dalle indicazioni della Consulta è il fatto che essa mai menzioni il requisito del pericolo di non essere «altrimenti evitabile». E d’altra parte, sarebbe assai difficile verificare in concreto la sussistenza di tale requisito (così come quello della serietà o gravità), se è vero che, come prima si argomentava, per l’aborto da compiersi nei primi novanta giorni il presupposto necessario e sufficiente è la semplice richiesta della donna.

Ed è proprio tale circostanza che integra la previsione di maggiore infedeltà rispetto alla sentenza della Corte e, di conseguenza, ai principi della Costituzione che ad essa erano sottesi. La parte pregnante delle “raccomandazioni” della Corte al legislatore è rimasta inattuata: nella legge n. 194/78 v’è vaghissima traccia delle “cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo” e soprattutto non è specificata la natura della “previa valutazione delle condizioni” che giustificano l’aborto: basti solo pensare, come prima si ricordava, che la legge si riferisce anche alla salute psichica della madre, il pericolo per la quale è posto in relazione a condizioni o circostanze del tutto insuscettibili di seri accertamenti, medici e non.

Tanto considerato, non si è lontani dal vero se si afferma che il legislatore ha ampiamente travalicato i limiti tracciati dalla Corte costituzionale, dando vita ad un’estensione della scriminante dell’art. 54 c.p. ben maggiore di quella prospettata dai giudici della Consulta. Il meccanismo delineato dagli artt. 4 e 5 della legge 194 per l’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni, insomma, si fonda, da un lato, sull’ingiustificato abbassamento della soglia di liceità dell’aborto e non offre, dall’altro, alcuna garanzia di accertamento in concreto di quei requisiti, già minimi, che dovrebbero legittimare il ricorso all’aborto[39].

Non può non concludersi, dunque, nel senso che la L. 194/78 si presenta pesantemente deficitaria proprio nella parte in cui dà così largo ingresso al diritto della donna all’autodeterminazione, affidando sostanzialmente la tutela del feto a meccanismi di autoresponsabilizzazione della gestante[40], nel cui foro interno si compie in ultima istanza l’operazione di bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco[41].

Non v’è dubbio che tale soluzione è il risultato di un’operazione di arbitraria reinterpretazione delle norme costituzionali, gli artt. 31 e 32, cui faceva riferimento la Corte nella sentenza richiamata per censurare il previgente art. 546 c.p. nella parte in cui prevedeva la punibilità dell’aborto nel caso di pericolo di compromissione della salute della donna.

A voler tacere delle problematiche costituzionali collegate all’estensione dell’art. 2 Cost. e al concetto di “persona umana”, basti già sottolineare che la legge n. 194/78 sembra fondarsi su un malinteso significato della “protezione della maternità” ex art. 31 Cost. e su una conseguente scorretta valutazione dei beni protetti in contrasto (fra i quali, la salute della donna alla luce dell’art. 32 Cost.).

Protezione della maternità è protezione della madre e, al tempo stesso, del feto. Non esiste, infatti, maternità senza feto e, pertanto, protezione della maternità non può significare mera protezione della donna in quanto potenzialmente gestante[42]: non ha fondamento l’affermazione secondo cui nella protezione della maternità viene innanzitutto in rilievo la madre[43].

E, invece, nella legge 194/78 la protezione della maternità si trasforma in tutela della madre, per divenire protezione della salute della donna in quanto individuo, con la conseguenza che il bene feto, indubbiamente tutelato nella stessa previsione dell’art. 31 Cost., viene sacrificato di fronte alla salute della donna. Insomma, “protezione della maternità” si intende come “protezione della donna dalla maternità”[44].

 

  1. L’aborto preterintenzionale tra decriminalizzazione ed inasprimento sanzionatorio

 

Il ragionamento sin qui svolto non consente, per vero, di escludere una “terza via” nell’opera di ricostruzione del bene tutelato dalla fattispecie dolosa.

Si tratta di ciò che potrebbe definirsi una posizione intermedia rispetto a quelle illustrate in precedenza, la quale è incline ad affermare la plurioffensività del reato di interruzione della gravidanza senza il consenso della donna: oggetto della tutela, infatti, sarebbero al contempo la vita del concepito ed il diritto della donna alla maternità.

Si dice, infatti, che l’intera legge n. 194/78 concentrerebbe contestualmente l’attenzione sugli interessi della madre e sugli interessi del concepito, atteso che sin dall’art. 1 il valore sociale della maternità viene accostato alla tutela della vita dal suo inizio. L’enunciato di esordio mostrerebbe l’intento di porre su uno stesso piano gli interessi dei due soggetti principali coinvolti nell’interruzione della gravidanza. A tal fine, la legge prevederebbe norme che si preoccupano di tutelare, gli uni accanto agli altri, tanto gli interessi della madre che quelli del concepito: fra queste, rientrano anche norme penali come l’art. 18 comma 1.

Un serio argomento a sostegno di questa posizione è quello secondo cui, a ritenere che la norma in questione non annetta alcun valore al feto, si dovrebbe concludere che l’incriminazione dell’aborto su donna non consenziente non assuma alcuna consistenza offensiva autonoma: ragione per cui, esso dovrebbe in realtà stemperarsi in una violenza privata eventualmente accompagnata da lesioni volontarie, in quanto lesivo soltanto della libertà morale della donna[45].

A ben vedere, una simile conclusione non è del tutto incompatibile con ciò che si sosteneva nei paragrafi precedenti, a patto, però, di riconoscere che in realtà la tutela che deriva dall’art. 18 comma 1 alla vita del nascituro è solo una tutela “riflessa”. La pretesa plurioffensività sarebbe del tutto squilibrata, a completo vantaggio di uno dei due beni presi in considerazione.

Non può revocarsi in dubbio, cioè, che, se è vero che il bene-concepito, almeno nei primi novanta giorni di gravidanza, riemerge solo se non v’è una contraria volontà della madre, è proprio tale volontà che in primis riceve tutela, facendone partecipare indirettamente anche il nascituro. Il fatto di cui all’art. 18 comma 1 avrebbe, quindi, una plurioffensività da definirsi almeno “imperfetta”.

Ad ogni modo, il reale problema che si pone a questo punto è quello di stabilire quale influenza sortiscano le possibili soluzioni proposte in ordine al bene protetto dall’art. 18 comma 1 sulla corretta ricostruzione della fattispecie dell’aborto preterintenzionale.

Come detto, il comma 2 dell’art. 18 L. 194/78 ha introdotto questa particolare ipotesi di delitto preterintenzionale, costituito dal fatto di chi cagiona l’interruzione della gravidanza “con azioni dirette a provocare lesioni alla donna”. La struttura del reato, perciò, si presenta assai simile a quella dell’omicidio preterintenzionale, se si eccettuano l’uso improprio da parte del legislatore del termine “azioni” in luogo di quello, che è stato ritenuto più corretto[46], di “atti”, nonché l’omessa previsione della rilevanza delle azioni dirette a commettere il reato di percosse oltre che di lesioni[47].

L’art. 18 comma 2, in sostanza, ha sostituito l’abrogato art. 583 comma 2 n. 5 c.p.[48], il quale configurava “l’aborto della persona offesa” quale circostanza aggravante del reato di lesioni volontarie: in particolare, la lesione doveva considerarsi gravissima, e dunque punibile con la pena della reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto fosse derivato l’aborto.

Ebbene, questo rilievo è tale da indurre ulteriore “sconcerto” nell’interprete, in quanto costituisce la conferma di quel contraddittorio disegno del legislatore del ‘78 cui si faceva riferimento in principio, che, da un lato, decriminalizza, pur a determinate condizioni, l’aborto, e, dall’altro, ne inasprisce però talune conseguenze sanzionatorie. La previsione dell’aborto preterintenzionale, come inscritto nel sistema delineato dalla legge n. 194/78, attiene proprio alla seconda delle contrastanti tendenze.

Certo, è vero che ne è derivato un abbassamento, nemmeno lieve, dei limiti edittali di pena (mentre l’abrogato art. 583 comma 2 n. 5 c.p. prevedeva la reclusione da sei a dodici anni, l’art. 18, comma 2 L. n. 194/78 ha previsto la reclusione da quattro ad otto anni). Ma è vero pure che, nel complesso, il regime sanzionatorio ne è paradossalmente risultato aggravato. Ciò apparirà palese se solo si considerino taluni aspetti innovativi della disciplina risultante dalla legge n. 194/78.

Innanzitutto, nella formulazione dell’art. 583 c.p. l’aborto veniva configurato come conseguenza di una lesione personale nei confronti della donna, e dunque come circostanza attinente al momento perfezionativo del reato – l’evento delle lesioni – come tale compatibile soltanto con la compiuta realizzazione dell’illecito penale e non anche con il tentativo.

Viceversa, nella disciplina prevista dalla legge n. 194/78 il reato di aborto preterintenzionale rimane integrato quando il fatto sia conseguenza di azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Tali azioni devono essere dirette in modo non equivoco a realizzare il delitto di lesioni, ma non è invece necessario che esse siano anche idonee ai sensi dell’art. 56 c.p. Ciò significa che il reato può sussistere non solo quando non siano state realizzate le lesioni, ma anche laddove le azioni poste in essere dall’agente non integrino nemmeno il tentativo[49].

In secondo luogo, la disposizione di cui all’art. 583 comma 2 n. 5 c.p. configurava l’aborto della persona offesa quale circostanza aggravante del reato di lesioni personali, mentre il più volte citato art. 18, comma 2 ha previsto l’interruzione della gravidanza quale reato autonomo[50], che ricorre, come ricordato, indipendentemente dal verificarsi delle lesioni.

Tale mutata configurazione comporta conseguenze di ordine pratico assai rilevanti. Se l’aborto, infatti, non è più una semplice circostanza del reato di lesioni, esso non potrà formare oggetto di un eventuale giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. nel caso di concorso eterogeneo di circostanze in relazione ad un medesimo fatto di reato. E poiché non è infrequente nella prassi giudiziaria che, all’esito del complessivo giudizio richiesto dal codice sulla personalità del reo e sulla gravità del reato, i giudici si determinino, soprattutto in virtù di un’applicazione talvolta benevola delle attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., verso un giudizio almeno di equivalenza tra le circostanze eterogenee, ciò avrebbe comportato in concreto, sotto la vigenza dell’abrogato art. 583 comma 2 n. 5 c.p., il possibile ritorno finanche alla fattispecie delle lesioni personali lievi ex art. 582 c.p.: con la conseguenza che avrebbe trovato applicazione una pena detentiva – la reclusione da tre mesi a tre anni – assai più lieve di quella attualmente prevista dall’art. 593 ter, comma 2 c.p. anche (almeno nel minimo della pena) se si riconoscesse in concreto per quest’ultimo reato il massimo della diminuzione di pena consentita dal codice nel caso di concorso di circostanze attenuanti.

 

  1. L’individuazione del bene tutelato: incongruenze tra aborto doloso ed aborto preterintenzionale

 

Nel sistema di reati e pene contemplato dalla legge n. 194/78 al fine di adeguare la pretesa punitiva dello Stato alla mutata disciplina dell’interruzione della gravidanza, dunque, l’aborto preterintenzionale si inserisce come una vistosa contraddizione rispetto alla tendenza di complessivo indebolimento della tutela della vita del nascituro.

Proprio questa considerazione induce a proseguire attraverso la successiva tappa dell’indagine che ci proponevamo: si tratta, cioè, di verificare se il bene protetto dal delitto preterintenzionale coincida o meno con quello o quelli a cui presidio è prevista la corrispondente fattispecie dolosa.

A tale verifica deve fare da necessaria premessa l’assunto che l’incriminazione del fatto preterintenzionale viene utilizzata dal legislatore per attuare una più efficace tutela di beni e interessi ritenuti di particolare rilevanza. Si consideri, per esempio, la fattispecie di omicidio preterintenzionale: la Relazione al progetto definitivo del codice Rocco ne giustificava la previsione con la necessità di apprestare «una più vigorosa tutela in tema di delitti di sangue»[51]. Ed anche considerando la posizione dottrinale di chi ritiene di individuare, oltre all’omicidio preterintenzionale, ulteriori figure criminose riconducibili alla categoria del delitto preterintenzionale, si dovrà rilevare che si tratta pur sempre di fattispecie che si segnalano per la specifica rilevanza del bene offeso[52].

Tutto ciò deve far concludere che la caratteristica peculiare del delitto preterintenzionale, sia che se ne limiti l’estensione – come sembra più corretto – ai soli reati previsti dall’art. 584 c.p. e dall’art. 593 ter, comma 2 c.p., sia che se ne ritenga la configurabilità anche in relazione ad altre figure delittuose contemplate dal codice penale, risiede indubbiamente nel particolare valore che il legislatore annette al bene offeso dal secondo evento più grave di quello voluto dall’agente.

Orbene, finora s’è ritenuto di accedere alla tesi secondo cui, sin dalla L. 194/78, l’art. 18, comma 1 – e cioè la corrispondente fattispecie dolosa dell’aborto preterintenzionale – ha avuto per oggetto l’interesse della donna alla maternità. La conseguenza che da tale tesi deriva è che il legislatore avrebbe previsto una specifica e penetrante forma di tutela, quale un nuovo delitto preterintenzionale, a difesa di questo tipo di interesse.

L’assunto non può che risultare discutibile, alla luce della premessa precedente. Come si ricordava, l’incriminazione del fatto preterintenzionale si giustifica soltanto con la eccezionale rilevanza del bene giuridico leso da un fatto che esprime un assai grave contenuto di disvalore. Questa è appunto la ratio di un’autonoma previsione di ipotesi che altrimenti non vi sarebbe necessità di fare oggetto di un’apposita regolamentazione, posto che, come si rilevava in apertura, se non fossero espressamente disciplinate non rimarrebbero comunque impunite.

Se questo è vero, deve convenirsi che non avrebbe alcuna giustificazione dal punto di vista sistematico la previsione di un delitto preterintenzionale al fine di salvaguardare il diritto della donna all’autodeterminazione, bene che di per sé non riveste i connotati di primaria importanza che giustificherebbero l’adozione di tale particolare tecnica di tutela penale.

Lo scarto che in tal modo dovrebbe registrarsi tra la ratio della criminalizzazione a titolo preterintenzionale di determinate condotte nel sistema delineato dal codice penale e la natura del bene giuridico preso in considerazione dalla fattispecie dell’aborto preterintenzionale sarebbe troppo ampio perché se ne possa spiegare il fondamento.

Anche la tesi della plurioffensività del reato di interruzione dolosa della gravidanza determinerebbe problemi, sia pure minori, di raccordo con le peculiarità proprie del delitto preterintenzionale. L’aborto preterintenzionale, infatti, non è certo un reato plurioffensivo, almeno non nel senso in cui tale espressione deve essere intesa con riguardo al delitto su donna non consenziente. La tutela che ne deriverebbe alla vita del concepito dipenderebbe, cioè, dalla più ampia tutela che, come sostenuto in precedenza, il legislatore ha inteso accordare al diritto della donna all’autodeterminazione: con conseguenze non dissimili da quelle che prima si prospettavano in relazione all’ipotesi che assume come unico bene protetto la volontà della donna e, soprattutto, scarsamente compatibili con le motivazioni sottese alla scelta del legislatore di prevedere come autonoma forma di colpevolezza la preterintenzione, la cui già dubbia conformità al principio della responsabilità personale postulerebbe che le deviazioni siano giustificate dalla specifica rilevanza del bene protetto.

In realtà, l’unica ricostruzione del delitto di aborto preterintenzionale che sia veramente aderente all’orientamento seguito dal legislatore in tema di preterintenzione è quella che individua nella vita del concepito il bene che la norma vuole tutelare[53].

Solo la punizione di una condotta che si diriga all’aggressione del bene della vita, infatti, giustifica la previsione di un più severo trattamento sanzionatorio, quando da quella condotta derivino conseguenze più gravi di quelle volute dall’agente, e fonda la deroga attuata dal legislatore con la previsione dell’ipotesi preterintenzionale rispetto alle regole generali del nostro codice (si pensi, per esempio, all’art. 83 c.p.).

Se questa appare la soluzione più convincente e conforme ai principi generali, se ne deve ricavare, allora, che la fattispecie di aborto preterintenzionale è preordinata alla tutela di un bene diverso da quello cui invece fa riferimento la corrispondente fattispecie dolosa.

Una simile conclusione, peraltro, sarebbe in grado di spiegare la vistosa incongruenza che si presenta all’interno della legge n. 194/78, ora traslata nel codice penale, costituita dall’equiparazione di pena (e cioè la reclusione da quattro a otto anni) che il legislatore ha operato tra l’aborto doloso su donna non consenziente e l’aborto preterintenzionale. Si tratta di una previsione che da subito ha suscitato perplessità di ordine politico-criminale e costituzionale, derivanti dalla considerazione che il ben diverso peso della colpevolezza delle due ipotesi lascerebbe immotivata la coincidenza delle sanzioni[54].

Ebbene, sembra da ciò che risulti confermata la tesi secondo cui le norme in questione abbiano ad oggetto due beni diversi: l’art. 18 comma 1 tutelerebbe, se non esclusivamente almeno prevalentemente, il diritto della donna all’autodeterminazione, mentre l’art. 18 comma 2 tutelerebbe la vita del concepito. L’almeno apparentemente inspiegabile equiparazione di pena troverebbe giustificazione appunto nella ben diversa rilevanza dei beni che le due norme aspirano a proteggere.

 

  1. Conformità dell’aborto preterintenzionale al principio di colpevolezza e necessità di una revisione del contraddittorio sistema delineato dalla legge 22 maggio 1978, n. 194

 

Le osservazioni sin qui sviluppate sul delitto di aborto preterintenzionale non devono indurre a pensare che si tratti di figura ormai anacronistica, anche in considerazione della ormai pluriennale prassi applicativa della legge n. 194/78 che sembra confermare la sostanziale declassificazione del bene protetto. In realtà, oggi più che non quaranta anni fa, il reato dell’art. 593 ter, comma 1 c.p. esplica la sua rilevanza, anche alla luce del fatto che si tratta del reato preterintenzionale che meglio resiste al rilievo secondo cui la categoria del delitto preterintenzionale integrerebbe una sostanziale deroga al principio di colpevolezza.

Come si ricordava, la preterintenzione è caratterizzata dal fatto che il contenuto dell’intenzionalità del soggetto si dirige verso un determinato risultato pur antigiuridico, ma non comprende l’evento più grave che si verifica in concreto. E tuttavia questo evento, sul piano causale, non può dirsi estraneo rispetto a quello che formava oggetto della volontà dell’agente. Chi, per esempio, cagiona la morte di un uomo verso il quale ha tenuto una condotta diretta a realizzare un’aggressione della sua incolumità fisica, non può dire di aver cagionato un evento del tutto anomalo rispetto alla condotta.

Dunque, nel delitto preterintenzionale, l’evento costitutivo si presenta come progressivamente più grave di quello che in concreto l’agente voleva perseguire, e rientra nell’iter causale, costituendo un momento ulteriore della linea evolutiva dell’evento meno grave[55].

Ciò non basta, però, a delimitare l’ambito di configurabilità del delitto preterintenzionale: occorre chiarire, invece, quale tipo di rapporto psicologico intercorra tra la condotta e l’evento, ovvero quale debba essere il contenuto della volontà dell’agente rispetto all’evento preterintenzionale, atteso che la preterintenzione si colloca nel disegno del codice in una posizione che è distinta sia dal dolo che dalla colpa e che non si può nemmeno ricondurre tout court alla responsabilità oggettiva.

Se è vero che la legge non dice altro del delitto preterintenzionale se non che l’evento verificatosi in concreto si pone “oltre” l’intenzione dell’agente, nel senso che supera in gravità quello da lui voluto, si può dire, però, che esso integri una situazione per molti versi analoga a quella che si produce nel delitto colposo. In effetti, in entrambe le ipotesi l’evento viene attribuito al soggetto in quanto, se pur non voluto, è la conseguenza di una condotta inadeguata.

Più precisamente, nel delitto preterintenzionale l’agente, in seguito ad un’attività illecita in quanto diretta a percuotere o a ledere, realizza un risultato antigiuridico più grave di quello effettivamente voluto, ma non completamente sganciato da quella attività. Il decorso causale che ha prodotto l’evento ulteriore appartiene all’agente, perché quell’evento si ricollega ad un’azione antigiuridica diretta all’aggressione di un bene giuridico e ne deriva come progressione del risultato perseguito: come tale, l’evento più grave era prevedibile ed era inoltre evitabile da parte dell’agente mediante un controllo più attento e consapevole del decorso causale.

Senza la prevedibilità, dunque, non v’è preterintenzione, il cui fondamento risiede proprio nella possibilità di imputare ad un soggetto il fatto di aver avuto la possibilità di prevedere un evento e di non aver tenuto una condotta diversa idonea ad evitarlo.

Se questo è vero, l’aborto preterintenzionale è allora la figura di delitto preterintenzionale maggiormente compatibile con i principi costituzionali di riferimento del diritto penale. Se, infatti, occorre la prevedibilità dell’evento più grave e quindi la possibilità per il soggetto di attivarsi per evitarlo, l’aborto conseguente alle azioni dirette a ledere una donna in stato di gravidanza è certamente più prevedibile dell’omicidio, posto che, perché sia prevedibile l’aborto, lo stato di gravidanza deve essere conosciuto o almeno conoscibile: in caso contrario, l’aborto non potrebbe essere imputabile all’agente, nemmeno a titolo di preterintenzione.

Ciò vuol dire che ancora maggiore cautela è richiesta all’aggressore di donna incinta di quella che ci si deve attendere da chi percuota o leda un’altra persona, nel senso che nella prima ipotesi già in partenza l’agente ha minore margine nel dirigere l’attività esecutiva in modo che da essa non derivi l’evento più grave di quello voluto, che la legge ha inteso sanzionare a titolo di preterintenzione.

Da questo punto di vista, anche l’esclusione delle percosse – e cioè di fatti o meglio di condotte dirette a porre in essere fatti provvisti di minimi connotati di pericolosità per la vita – è difficilmente giustificabile alla luce del fatto che le azioni dirette a commetterle sono invece rilevanti rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 584 c.p. Non deve dubitarsi, invece, che proprio nell’aborto preterintenzionale, e ben più che nell’omicidio preterintenzionale, occorrerebbe la previsione della punibilità di tali azioni, a ragione della maggiore precarietà che caratterizza il bene protetto della vita del concepito.

La previsione dell’aborto preterintenzionale, dunque, bene si concilia con quella che sembra la struttura più corretta e conforme a Costituzione del delitto preterintenzionale, profilandosi anzi come la figura meno criticabile della categoria.

Il problema è, piuttosto, che la fattispecie dell’art. 593 ter, comma 2 c.p. (già art.18, comma 2 L. 194/78) si appalesa, per le ragioni che si esponevano in precedenza, come una contraddizione del sistema: e ciò, non tanto perché il reato di aborto preterintenzionale è in contrasto con il sistema, quanto perché il sistema è intrinsecamente contraddittorio.

L’elemento di contraddizione risiede nell’aver innestato su un disegno normativo che si apre con l’affermazione che “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio” la previsione di un meccanismo – quello delineato dagli artt. 4 e 5 – che, anziché creare le condizioni per risolvere il conflitto presupposto tra gli interessi della madre e gli interessi del concepito, apre la strada nei primi novanta giorni di gravidanza alla liberalizzazione di fatto dell’aborto che capovolge l’iniziale affermazione di principio della legge.

Ne è derivato un sistema pieno di incongruenze, che reca «le stigmate di contrasti solo faticosamente e talvolta approssimativamente compromessi»[56]: in questa malcelata vocazione compromissoria della legge (o meglio dovrebbe dirsi del legislatore) rientra appunto la previsione del delitto di aborto preterintenzionale.

In realtà, se la legge n. 194/78, anziché perseguire una disorientante eterogenesi dei fini, avesse previsto in modo più stringente i casi in cui è possibile abortire nei primi novanta giorni di gravidanza, limitandoli, in ossequio alle indicazioni della sentenza n. 27/75 della Corte costituzionale (e dunque ai principi costituzionali), a quelli in cui effettivamente si realizzino le condizioni di uno stato di necessità “allargato”, i reati previsti proteggerebbero effettivamente la vita del concepito (se non c’è unicamente il diritto della madre, riemerge, infatti, il diritto del concepito) e l’aborto preterintenzionale avrebbe una sua giustificazione sistematica.

Fermo restando, dunque, che il profilo sanzionatorio della legge sull’interruzione della gravidanza non può essere disgiunto dalla previsione del rafforzamento degli interventi diretti a porre la donna, attraverso meccanismi di sostegno, nella reale condizione di scegliere, l’assetto delineato dal legislatore tornerebbe lineare e si libererebbe dalle illustrate ambiguità se il legislatore operasse una revisione degli artt. 4 e 5 della legge n. 194/78[57] tale da eliminare quelle incongruenze che si è tentato fin qui di porre in luce.

Ed in tale mutato quadro, l’aborto preterintenzionale, che ora è solo la spia dell’imbarazzo del legislatore, riacquisterebbe per intero la sua ragione d’essere.

 

  1. Il nuovo art. 593 ter c.p.: non cessa l’imbarazzo del legislatore

 

Se nello svolgimento del presente lavoro s’è continuato sovente a fare riferimento al previgente art. 18, comma 2 L. 194/178, ciò è dipeso dal fatto che, come si rilevava in apertura, il nuovo art. 593 ter c.p. (“Interruzione di gravidanza non consensuale”) ne riproduce integralmente il testo, senza apportarvi alcuna modifica.

Sicché tutte le riserve che potevano formularsi in relazione alla previsione originaria, nel contesto del sistema delineato dalla legge n. 194/78, sono rimaste inalterate.

Tuttavia, alcune ulteriori e sintetiche osservazioni conclusive possono essere avanzate circa il recente intervento del legislatore, se non altro perché qualche limitato elemento di novità è comunque ravvisabile e vale a confermare, se non a rafforzare, il giudizio di incongruenza del sistema.

Si intende fare riferimento alla circostanza che le due nuove fattispecie di reato sono state sì comprese nel Titolo XII del Libro II del codice penale dedicato ai “Delitti contro la persona”, ma in un capo di nuova formazione: il capo I bis, intitolato “Dei delitti contro la maternità” e collocato subito dopo il capo I intitolato “Dei delitti contro la vita e la incolumità individuale”.

L’unica spiegazione della collocazione in blocco di tali fattispecie dopo i delitti contro la vita e l’incolumità personale, in un nuovo capo, la si rinviene, a scorrere i lavori preparatori, nella Relazione del 9 marzo 2017 della “Commissione di studio per l’elaborazione dello schema di decreto legislativo per un riordino della parte speciale del codice penale”, istituita con decreto del 3 maggio 2016 dal Ministro della Giustizia proprio in attuazione della previsione di legge delega sul principio c.d. della tendenziale riserva di codice in materia penale contenuto nel disegno di legge delega approvato dalla Camera dei Deputati il 23 settembre 2015.

Nella parte dedicata alla spiegazione delle ragioni delle proposte di inserimento nel codice penale di fattispecie penali contenute nella legislazione complementare, la Commissione chiarisce che la soluzione di prevedere la sistemazione delle fattispecie di interruzione di gravidanza colposa e non consensuale in un nuovo capo ‹‹sembra decisamente preferibile all’alternativa, consistente nello smembrare la disciplina in oggetto per collocare le disposizioni in diversi luoghi e, nello specifico, rispettivamente dopo le “ipotesi minori” di omicidio doloso (all’art 580-bis c.p.), dopo le fattispecie di omicidio colposo (art. 589-quater c.p.) e dopo l’omicidio preterintenzionale (art. 585-bis c.p.). La sistemazione dopo le fattispecie di omicidio, piuttosto che a seguire quelle di lesione, sarebbe infatti giustificata dalla considerazione che nella filosofia ispiratrice della legge 194, nei casi di non consensualità, l’interesse del nascituro, sottraendosi al bilanciamento con il bene “salute della madre”, si “riespande”, acquistando un valore assoluto. Tuttavia, premesso che anche la mera scelta di sedes sottende una presa di posizione sul piano dei valori tutelati, si teme che tale presa di posizione, in una materia delicata come quella bioetica, dia la stura a valutazioni critiche, e per questo è stata ritenuta recessiva››[58].

Dunque, il legislatore è avvertito della incoerenza di un impianto normativo che fa dipendere la tutela del nascituro dalle determinazioni della madre (si “riespande” solo quando la donna non acconsenta all’aborto) e, tuttavia, si astiene dal fare scelte conseguenti «sul piano dei valori tutelati»[59] per evitare, in sostanza, di far emergere le contraddizioni. La conseguenza è che ancora nella Relazione illustrativa al Decreto sottoposta all’esame definitivo del Consiglio dei Ministri dell’8 febbraio 2018[60] si legge che l’operazione di trasferimento nel codice penale degli artt. 17 e 18 L. 194/78 è «preordinata a rafforzare la salvaguardia di soggetti deboli, quando vi sia un’offesa alla donna, e in particolare alla sua integrità fisica e al suo progetto di maternità, nonché al nascituro».

Come si vede, l’ambiguità del legislatore riaffiora palesemente: si ondeggia nella individuazione dei beni tutelati e infine si riconosce, anche dal punto di vista lessicale, che viene dapprima in considerazione il diritto della donna all’autodeterminazione, peraltro sotto la particolare specie del «suo progetto di maternità»[61], e poi quello del concepito, subordinato rispetto al primo.

Ne risulta confermato, allora, che il bene tutelato dalla fattispecie di aborto preterintenzionale non è lo stesso tutelato dalla corrispondente fattispecie dolosa dell’aborto non consensuale.

Ma il legislatore non s’è fatto carico della contraddizione e si è nuovamente sottratto al suo compito di prendere posizione, esimendosi programmaticamente dall’esprimere giudizi di valore sugli interessi in gioco[62].

Con il risultato di avere dato, una volta di più, copertura formale ad un meccanismo nel quale il bene della vita del nascituro rimane inevitabilmente sullo sfondo.

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

[1] Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 22 marzo 2018, pp. 1 e ss.

[2] V’erano state, in quarant’anni di vigenza della legge, due sole altre limitate modifiche, ma come mera conseguenza di più ampie riforme legislative nel frattempo intervenute: in particolare, nell’art. 12 co. 2 la parola “potestà”, per effetto della revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione operata con il D.Lgs 154/2013, era stata sostituita dalle parole “responsabilità genitoriale” nella parte relativa all’aborto di donna di età inferiore ai diciotto anni, mentre l’art. 1 co. 1 D.Lgs 8/2016, avendo depenalizzato tutti i reati previsti in leggi speciali che fossero puniti con la sola pena pecuniaria, aveva di conseguenza determinato anche la depenalizzazione del reato di cui all’art. 19 co. 2 L. 194/78.

[3] Si veda, a tal proposito, la Relazione illustrativa al decreto (Esame definitivo – Consiglio dei Ministri 8 febbraio 2018), pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia.

[4] S. Bernardi, Il nuovo principio della “riserva di codice” e le modifiche al codice penale: scheda illustrativa. A proposito del d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21 in vigore dal 6 aprile 2018, in Dir. pen. cont. 4/2018, p. 128.

[5]  Così M. Boscarelli, Proposte per una revisione tecnica del primo libro del codice penale, in G. Vassalli (a cura di) Problemi generali di diritto penale. Contributo alla riforma, Milano 1982, p. 92.

[6]  F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova 2017, p. 354; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, pp. 692-693; F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1994, p. 356.

[7] Cfr. V. Patalano, Preterintenzione, in Enc. dir., vol. XXXV, Milano 1986, p. 351, e la dottrina ivi citata; L.D. Cerqua, Preterintenzione, in Enc. Giur., vol. 11, Milano 2007, pp. 429-435.

[8] Si veda, per esempio, E. Dolcini, Dalla responsabilità oggettiva alla responsabilità per colpa: l’esperienza tedesca in tema di delitti qualificati dall’evento, in G. Vassalli (a cura di), Problemi generali di diritto penale, cit., p. 282.

[9] Cfr. M. Boscarelli, Proposte per una revisione tecnica, cit., 92, il quale considera, a riprova del suo assunto, che se la legge non offrisse alcuna definizione del reato preterintenzionale la figura dell’omicidio preterintenzionale troverebbe agevole sistemazione dogmatica quale particolare ipotesi di aberractio delicti, così come avviene della figura dell’omicidio cui allude l’art. 586 (la quale non costituisce un’ipotesi di reato preterintenzionale, in quanto non ne è estremo la maggior gravità del fatto non voluto rispetto a quello voluto).

[10] Così G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., p. 692; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 354; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., p. 356. Anche D. Pulitanò, La vita prenatale, in D. Pulitanò (a cura di) Diritto penale. Parte speciale, vol. I – Tutela penale della persona, Torino 2014, p. 98, definisce espressamente la fattispecie di cui all’art. 18 co. 2 L. 194/78, avuto riguardo alla sua struttura, come aborto preterintenzionale: «il criterio di imputazione soggettiva è costituito dal dolo di lesioni e dalla prevedibilità dell’evento aggravante».

[11]  Invero, la legge n. 194/78 prevede un’altra ipotesi di reato doloso all’art. 21, stabilendo la punibilità a norma dell’art. 622 del codice penale di chi “fuori dei casi previsti dall’art. 326 del codice penale, essendone venuto a conoscenza per ragioni di professione o di ufficio, rivela l’identità – o comunque divulga notizie idonee a rivelarla – di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge”. Ma si tratta con tutta evidenza di ipotesi che non riguarda direttamente l’autore materiale dell’aborto o che comunque attiene a condotte successive all’evento dell’aborto: il suo fine è piuttosto quello di tutelare il segreto d’ufficio e il segreto professionale. Per questi motivi, nessun collegamento può stabilirsi con la fattispecie dell’aborto preterintenzionale.

[12]  T. Padovani, Procreazione (dir. pen.), Enc. dir., vol. XXXVI, Milano 1987, p. 984.

[13] Sulle caratteristiche distintive del delitto preterintenzionale, si veda diffusamente V. Patalano, Preterintenzione, cit., p. 352 ss.

[14]  Cfr. in proposito T. Padovani, Procreazione (dir. pen.), cit., p. 985.

[15] Si veda ampiamente sul tema T. Padovani, Liceità dell’aborto e legge penale: osservazioni generali ed esperienza normativa italiana, in Aa. Vv., Interrupcion voluntaria del embarazo, Avila, 1981, pp. 117 e ss.

[16] In realtà, tale termine iniziale è meramente teorico, atteso che l’accertamento dello stato di gravidanza della donna richiede alcune settimane.

[17] Di converso, ogni aborto effettuato oltre il termine consentito integrerà un’ipotesi punibile di aborto illecito. E tuttavia – come osserva T. Padovani, Liceità dell’aborto e legge penale, cit., p. 117 – l’applicazione delle fattispecie incriminatrici risulterà ardua, per le difficoltà connesse all’accertamento sia del momento effettivo in cui l’aborto è avvenuto sia del dolo dell’agente rispetto a tale elemento costitutivo, cosicché la liberalizzazione “per termini” finisce per dilatarsi in pratica ben oltre il termine consentito.

[18] Quanto questa soluzione sia irragionevole lo fa rilevare M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza. Commentario sistematico alla legge 22 maggio 1978, n. 194, Padova 1992, p. 123, il quale osserva che essa presuppone una frattura nella continuità di sviluppo della vita prenatale, un momento prima della quale l’embrione possa essere considerato non degno di tutela.

[19]  T. Padovani, Procreazione (dir. pen.), cit., p. 976.

[20]  Così T. Padovani, Liceità dell’aborto e legge penale, cit., p. 118.

[21]  E ciò vale a maggior ragione quando, come ha fatto il nostro legislatore, si prevede un sistema basato sull’accertamento preventivo, il quale presuppone l’individuazione di un organo dotato di un potere decisorio sull’effettiva sussistenza dei presupposti di liceità dell’aborto.

[22] Cfr. P. Nuvolone, La nuova disciplina dell’aborto nella legislazione penale, in Aa. Vv., Interrupcion voluntaria del embarazo, cit., p. 23 ss.; T. Padovani, op. loc. ult. cit.

[23]  T. Padovani, Procreazione (dir. pen.), cit., p. 976.

[24]  Così T. Padovani, Liceità dell’aborto e legge penale, cit., p. 119.

[25]  Sugli argomenti a sostegno della contraria interpretazione dell’art. 5, secondo cui il sanitario ha il diritto di rifiutare il documento richiesto quando valuti l’insussistenza delle circostanze di cui all’art. 4, si veda M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza, cit., p. 145 ss.

[26]  Tutt’al più si può ritenere che quando il medico debba certificare l’urgenza dell’intervento abortivo non possa limitarsi a recepire passivamente l’allegazione della donna circa la sussistenza di una delle circostanza indicate dall’art. 4, ma debba invece verificarne la fondatezza. A conforto di tale posizione, si può effettivamente rilevare che il certificato d’urgenza, a differenza del documento ordinario, non è controfirmato dalla donna, che dunque non si assume la responsabilità esclusiva della richiesta, e che tale certificato viene conservato in originale dal medico: si tratta, quindi, di un certificato in senso proprio, del cui contenuto il medico si assume la responsabilità. Resta chiaro, però, che l’urgenza debba essere costituita da circostanze, fra quelle previste dall’art. 4, che siano accertabili in via medica. In questo senso T. Padovani, Procreazione, cit., p. 977.

[27] «…circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito…».

[28]  Esemplari in questo senso le parole di T. Padovani (Liceità dell’aborto e legge penale, cit., p. 118): «La praticabilità sostanziale di un accertamento preventivo è infatti direttamente proporzionale alla determinatezza dei criteri di valutazione ed alla loro natura: massima nell’ipotesi che la legge si riferisca a situazioni definite, la cui sussistenza possa essere riscontrata con procedimenti tecnico-scientifici, essa si riduce al minimo grado quando si tratti invece di valutare situazioni d’ordine economico e sociale, o a sfondo psicologico in base a canoni necessariamente indeterminati. In tal caso, è la stessa congruità della soluzione “delle indicazioni” ad apparire dubbia. La pretesa di ottenere un accertamento su situazioni che, una volta considerate rilevanti, si sottraggono però a riscontri obiettivi e friniscono col risultare implicite nella stessa richiesta di abortire, rischia semplicemente di occultare una scelta in favore della liberalizzazione». Anche P. Nuvolone – A. Lanzi, Gravidanza (interruzione della), in Dig. pen., VI, 1993, p. 30, evidenziano che, nel caso in cui siano allegate circostanze relative all’aspetto psichico, «il giudizio di serio pericolo diventi estremamente soggettivo e sia praticamente incontrollabile».

[29]  Così P. Nuvolone, La nuova disciplina dell’aborto, cit., p. 25. Questa è, in sostanza, anche la posizione, invero espressa con toni meno preoccupati, di taluni dei commentatori tendenzialmente favorevoli alla legge. Si veda, per esempio, C.F. Grosso, L’interruzione volontaria della gravidanza, in Aa. Vv., Interrupcion voluntaria del embarazo, cit., pp. 45 e ss., il quale ammette che la legge “dà comunque, per quanto concerne l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni dal concepimento, un rilievo decisivo alla decisione della donna” e che il compito del medico “sembra esaurirsi … in una mera attività notarile”. Meno condivisibile, invece, il giudizio di corrispondenza di tale interpretazione della legge al suo significato politico, per avere la legge individuato il soggetto della decisione nella madre, conformemente alla tesi dei movimenti femministi e radicali.

[30] Afferma perentoriamente M. Romano, Legislazione penale e tutela della persona umana (contributo alla revisione del titolo XII del codice penale), in Riv. it. dir. proc. pen. 1989, p. 70, che «nei primi novanta giorni della gravidanza l’embrione o il feto non ha alcuna reale protezione nei confronti di decisioni materne».

[31] «Posto che l’intervento può essere praticato sia che si riscontri sia che non si riscontri l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento stesso, è chiaro che si resta su di un piano meramente formale di adempimenti: in ultima analisi, è sempre la volontà della donna a prevalere». Così P. Nuvolone, La nuova disciplina dell’aborto, cit., p. 29. La conclusione dell’A. è che «nel complesso, si può dire che l’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni è liberalizzata; quella dopo i primi novanta giorni è regolamentata giuridicamente, o legalizzata».

[32] T. Padovani, Procreazione, cit., p. 984.

[33] Cfr. P. Nuvolone, La nuova disciplina dell’aborto, cit., p. 33. L’A. sostiene che la soluzione al problema di stabilire se la legge abbia inteso riferirsi al semplice adempimento delle formalità previste dagli artt. 5 e ss. oppure esigere che il magistrato penale verifichi l’esistenza dei presupposti sostanziali deriva dallo stesso art. 19. In esso si distingue un aspetto formale ed un aspetto sostanziale. In talune delle ipotesi ivi previste, infatti, si punisce l’aborto cagionato «senza l’osservanza delle modalità» (appunto al 1° comma con riferimento alle modalità degli artt. 5 o 8: in questi casi si richiede in sede penale un semplice controllo di carattere formale, mirante ad accertare l’esistenza di una documentazione attestante il compimento delle procedure prescritte. In altre ipotesi, invece, si punisce l’aborto cagionato «senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’art. 6 (co. 3)» o «fuori dei casi e senza l’osservanza delle modalità» (al 5° comma con riferimento agli artt. 12 e 13): in questi casi, la legge esige che il magistrato stabilisca se, dal punto di vista sostanziale, ricorrevano i presupposti di una legittima interruzione della gravidanza.

[34] Si veda ora, tuttavia, l’ordinanza 24 ottobre-16 novembre 2018 n. 207 delle Corte costituzionale (se ne può leggere il testo in Guida dir., nn. 49-50 del 2018, pp. 16 e ss.), che, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. sollevata dalla Corte di Assise di Milano con ordinanza del 14.2.2018 nel procedimento penale a carico di Marco Cappato, ha sostanzialmente sollecitato un intervento del Parlamento di legalizzazione, a talune condizioni, del suicidio assistito, rinviando di quasi un anno il proprio giudizio in corso e sospendendo il giudizio a quo.

[35] Corte costituzionale 18 febbraio 1975, n. 27, in Giur. cost. 1975, pp. 117 e ss.

[36]  Il presupposto di tale affermazione della Corte, invero, era e resta criticabile, se solo si considera che i giudici, da un lato, attribuivano alla tutela del concepito un solido fondamento costituzionale (art. 31 Cost.) da cui facevano discendere l’applicabilità della garanzia ex art. 2 Cost. dei diritti inviolabili dell’uomo, “fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito”, e, dall’altro, degradavano il “diritto alla vita” del concepito, chiaramente desumibile dalla premessa, affermando lapidariamente che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già persona come la madre e la salvaguardia dell’embrione che persona ancora deve diventare”. Non peccò certo di irriverenza chi, all’indomani della sentenza, ebbe a considerare che “a tal punto il ragionamento della Corte non si capisce più” (così R. D’alessio, L’aborto nella prospettiva della Corte costituzionale, in Giur. cost. 1975, p. 540). Ma tant’è: i commentatori della sentenza, prima, e della successiva legge, poi, hanno già avuto modo di stigmatizzare la confusione degli ordini argomentativi seguiti dalla Corte e in questa sede ci si può limitare a rimandare a quegli autorevoli e ormai sedimentati rilievi. Si vedano, tra gli altri, C. Chiola, Incertezze sul parametro costituzionale per l’aborto, in Giur. cost. 1975, p. 1098 ss.; S. Bartole, Scelte di valore più o meno implicite in una laconica sentenza sull’aborto, in Giur. cost. 1975, p. 2099 ss.; A. Crespi, L’aborto vivo vitale negli auspici della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen. 1975, p. 566 ss.; M. Boscarelli, Corte costituzionale e liberalizzazione dell’aborto, in Riv. it. dir. proc. pen. 1975, p. 569 ss.

[37]  Cfr. M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza, cit., p. 133.

[38] Ritiene P. Nuvolone, La nuova disciplina dell’aborto, cit., p. 27, che l’aggettivo “serio” deve intendersi comunque riferito all’oggetto del pericolo, altrimenti si finirebbe per ritenere che anche il rilevante pericolo di una lievissima malattia legittimi la soppressione della vita del nascituro.

[39] Sulla perdurante difficoltà dei giudici di merito di sottoporre in questi anni alla Corte costituzionale le questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 4 e 5 della L. 194/78, si veda diffusamente C. Casini, Verso il riconoscimento della soggettività giuridica del concepito?, in Foro it. 1997, p. 298 ss.

[40] T. Padovani, Procreazione, cit., p. 992.

[41] Rileva G. Spagnolo, Studio sull’interruzione della gravidanza, in Riv. it. dir. proc. pen. 1993, p. 1273, che «in realtà il richiamo al serio pericolo, formale atto di ossequio alla sentenza della Corte costituzionale, ha in sostanza un valore simbolico e di orientamento culturale: affidando la valutazione della situazione di pericolo alla stessa interessata, la legge infatti lascia la donna arbitra di decidere».

[42] Cfr. G. Morelli, Ordinamento positivo, Pubblica opinione, Corte costituzionale (A proposito di alcune sentenze in materia di aborto), in Iustitia 1977, p. 409 ss.

[43] Così, per esempio, S. Bartole, Scelte di valore più o meno implicite, cit., p. 2114.

[44] Solo così, peraltro, si spiega perché nel sistema delineato dalla legge n. 194 non riveste alcuna rilevanza la volontà del padre del concepito, il quale può tutt’al più essere ascoltato, ai sensi dell’art. 5, in sede di discussione preliminare quando la richiesta sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche o familiari sulla salute della gestante e sempre che – circostanza, questa, che davvero conferma la tesi riportata nel testo – la donna lo consenta.

[45] T. Padovani, Procreazione, cit., p. 991, il quale conclude che, in questa prospettiva, anche la punizione a titolo autonomo dell’aborto colposo risulterebbe priva di giustificazione, in quanto si tratterebbe soltanto di una forma di lesioni personali.

[46]  Così T. Padovani, Procreazione, cit., p. 985.

[47] Cfr. P. Nuvolone, La nuova disciplina dell’aborto, cit., p. 35; C.F. Grosso, L’interruzione volontaria della gravidanza, cit., p. 51.

[48]  M. Zanchetta, La legge sull’interruzione della gravidanza, cit., p. 353.

[49] Cass. Sez. VI, n. 10699 del 15 novembre 1985, in Mass. dec. pen. 1985, p. 1237. La sentenza statuisce che, ad integrare il reato di cui all’art. 18 co. 2 legge 22 maggio 1978 n. 194 «è sufficiente che l’interruzione della gravidanza sia realizzata con azioni dirette a provocare lesioni alla donna anche se tali azioni, nel loro concreto svolgimento, non abbiano realizzato il reato di lesioni, nemmeno nella forma del tentativo».

[50]  Cfr. Cass. Sez. VI, n. 10699 del 15 novembre 1985, già citata alla nota precedente.

[51] Relazione ministeriale al progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, parte II, Roma, 1929, p. 384.

[52] Si veda, per esempio, l’orientamento di V. Patalano, Preterintenzione, cit., p. 357, il quale ritiene che possono considerarsi preterintenzionali quei delitti nei quali ad un dolo di danno e ad una condotta volta a realizzarlo corrisponde invece un evento di pericolo: per esempio, quelle ipotesi di danneggiamento cui segue un evento di pericolo, cioè la probabilità del verificarsi di un risultato dannoso più grave di quello voluto dall’agente (artt. 424, 427, 429, 431 c.p.). In questi casi l’azione del colpevole non si limita al danneggiamento, ad esempio di una diga (art. 427 c.p.) o d una nave (art. 429 c.p.), ma determina il pericolo del verificarsi di un evento molto più grave che, seppure prevedibile considerate le modalità del fatto realizzato, tuttavia oltrepassa l’intenzione del colpevole che in tutte le ipotesi considerate, per espressa previsione della legge, deve agire al solo scopo di danneggiare.

[53] In questo senso anche V. Patalano, Preterintenzione, cit., p. 354, il quale osserva che nel caso dell’aborto preterintenzionale «il legislatore dà rilevanza ad una condotta di aggressione fisica … da cui deriva l’aborto, cioè la lesione di un bene che è necessariamente più ampio di quello dell’incolumità fisica tutelato dal delitto di lesioni».

[54] T. Padovani, Procreazione, cit., p. 985.

[55] Cfr. V. Patalano, Preterintenzione, cit., p. 352.

[56] Così T. Padovani, Procreazione, cit., p. 993.

[57] Non è questa la sede per affrontare compiutamente la problematica delle possibili ipotesi di modifica della Legge n. 194/1978. Qui, si può fare richiamo, tra gli altri, ai contributi, per esempio, di L. Eusebi, La legge sull’aborto: problemi e prospettive (Le questioni aperte in materia costituzionale e l’evoluzione legislativa possibile, con un’analisi dei criteri etici di intervento sulle c.d. norme imperfette), in Iustitia 1996, p. 239 ss. (v. spec. pp. 285-292), e di C. Casini, Possibili cambiamenti della legge sull’aborto oggi in Italia, in Studia Bioethica, vol. 1 n. 2, 2008, p. 121 ss.

[58] Relazione della Commissione di studio per l’elaborazione dello schema di decreto legislativo per un riordino della parte speciale del codice penale, Ministero della Giustizia – Ufficio Legislativo, Roma 9.3.2017, p. 28.

[59] Non da ora era stata invece auspicata una revisione del Titolo XII del codice penale nel senso di prevedere eventualmente una specifica tutela della vita prenatale: cfr. M. Romano, Legislazione penale e tutela della persona umana, cit., p. 66 ss.; M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza, cit., p. 4.

[60] Cfr. https://bit.ly/2QN3Psm.

[61] Si vedano, a proposito della “protezione della maternità”, le considerazioni già espresse nel precedente paragrafo 5.

[62] Si possono richiamare, a tal proposito, le considerazioni di F. D’Agostino, La legge italiana sull’aborto: una valutazione etico-giuridica, in Iustitia 1996, pp. 300-304, secondo cui la legge 194/78 ha preteso di gestire il problema dell’aborto in una logica di neutralità, benché il diritto non possa essere mai neutrale: e il destino di una legge che non prende posizione è quello di perdere la propria autentica specificità normativa, di non operare propriamente come una legge, ma come generica tecnica di azione sociale. L’A., in particolare, considera che l’aborto è rilevante come pratica sociale perché è un evento eminentemente relazionale con un rilievo pubblico (la decisione di abortire, cioè, va al di là della donna e del suo corpo e investe un’altra vita indubbiamente dotata di alterità rispetto alla identità della madre). E il diritto ha titolo ad intervenire in tema di aborto come pratica sociale perché ha in generale il dovere di intervenire ogni qual volta l’equilibrio relazionale venga turbato. Ma, per le ragioni che s’è tentato di esporre anche in questo lavoro, il processo che conduce alla scelta abortiva, come strutturato dalla legge, tende invece a diventare strettamente autoreferenziale (sicché la scelta stessa si configura come non relazionale).