Emanuele Bilotti
Ordinario di diritto privato all’Università Europea di Roma

Il contributo del diritto della famiglia alla costruzione dell’Europa*

 

Sommario: 1.  La famiglia in Europa: «così è (se vi pare)» – 2. Il disegno costituzionale della famiglia: «una pietra murata in conformità all’architettura» – 3. Il progetto sociale postmoderno e il progressivo svuotamento dei modelli co-stituzionali sotto la spinta della prassi – 4. Servire il cambiamento d’epoca: il problema della formazione universitaria del giurista.

 

  1. La famiglia in Europa: «così è (se vi pare)»

 

Offrire qui una breve riflessione sul contributo del diritto della famiglia alla costruzione europea potrebbe apparire un fuor d’opera. L’atteggiamento del diritto dell’Unione nei confronti della famiglia è infatti intenzionalmente agnostico. Più ancora della constatazione che il diritto della famiglia non è oggetto di alcuna attribuzione dell’Unione, è l’art. 9 della Carta di Nizza a offrire un argomento inequivocabile nel senso indicato. Tale norma dispone infatti che «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». L’Unione sembra dunque volersi limitare a fotografare una realtà plurale. Non intende promuovere alcun modello familiare.

In effetti, il rinvio alle “leggi nazionali” che disciplinano l’esercizio del “diritto di sposarsi” e del “diritto di costituire una famiglia” allude anzitutto a una pluralità tipicamente moderna per cui l’identità della famiglia è resa storicamente variabile dalle determinazioni contingenti del diritto positivo. Ma nella rinuncia a dichiarare essenza e funzione della famiglia, nella sua declinazione in termini di distinti diritti individuali e nella conseguente rottura del binomio tra famiglia e matrimonio – la novità più rilevante della norma in questione rispetto alla corrispondente previsione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – c’è il riconoscimento di una pluralità ancor più radicale: una pluralità postmoderna per cui le relazioni familiari sono comprese come una proiezione dell’individuo, un’espressione della sua autodeterminazione.

È un dato, quest’ultimo, che trova un riscontro sempre più chiaro anche nel “diritto vivente” delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo. Quei giudici si mostrano infatti senz’altro disposti a riconoscere come “vita familiare” ogni forma dello “stare insieme” in cui gli individui coinvolti si sentano legati da relazioni affettive e di cura reciproca particolarmente intense, quali che siano le modalità di tali relazioni. Non c’è un atto che valga a qualificare la famiglia. Non c’è un’assunzione di responsabilità né una regola di reciprocità. La famiglia è tutta nella relazione. E la relazione non è altro che l’espressione mutevole della “vita privata” del singolo, della sua privacy. Esige solo di essere riconosciuta e garantita dall’ingerenza dell’autorità pubblica, eventualmente anche con l’adozione di misure positive.

Un simile atteggiamento agnostico rischia ormai di mettere in discussione la stessa capacità della cultura giuridica europea di fronteggiare convenientemente la sfida di una nuova pluralità tradizionale, tipica invero del mondo premoderno, ma che torna oggi a riproporsi anche all’interno dei confini dell’Europa, in comunità che si riconoscono intorno a forti identità etniche o religiose, per lo più d’importazione. È significativo, del resto, che di recente un giudice amministrativo tedesco abbia potuto affermare che «chi si oppone al divieto della poligamia… non può essere considerato per ciò solo “nemico della Costituzione” (Verfassungsfeind)». Infatti, per quanto si riconosca che il matrimonio monogamico è oggetto di una cd. garanzia costituzionale d’istituto (Institutsgarantie), si sostiene nondimeno che «il principio della monogamia non può esser messo in relazione con l’idea di “democrazia militante” (wehrhafte Demokratie) propria della Legge fondamentale (tedesca)». E ciò perché quel principio «non rappresenta una “componente essenziale” (Bestandteil) dell’ordine costituzionale liberaldemocratico» (VGH Baden-Württemberg, Urt. 24.4.2017, 12 S 2216/14).

Insomma, come nel finale del dramma pirandelliano, sulla scena ordinamentale europea la famiglia si presenta ormai «col volto nascosto da un fitto velo nero, impenetrabile». E pronuncia una sola enigmatica battuta: «Per me, io sono colei che mi si crede».

 

  1. Il disegno costituzionale della famiglia: «una pietra murata in conformità all’architettura»

 

È noto che la Costituzione repubblicana aveva operato con riguardo alla famiglia una scelta molto diversa, addirittura agli antipodi rispetto all’opzione pluralista e agnostica della Carta di Nizza. I Padri costituenti non si erano sottratti al compito di tracciare un disegno dai contorni ben definiti delle relazioni familiari, consegnando all’art. 29 il modello della famiglia fondata sul matrimonio e all’art. 30 il modello della genitorialità naturale.

Giorgio La Pira, in un memorabile intervento all’Assemblea Costituente, che ripropose in sintesi riflessioni maturate negli anni della clandestinità romana e già esposte in pubblico nella primavera del 1944 in un breve corso di lezioni nell’Ateneo lateranense, non ebbe difficoltà a riconoscere anche nel disegno costituzionale delle relazioni familiari «una pietra murata in conformità all’architettura»: un’architettura interamente governata – così diceva – dalla norma che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo» e richiede al contempo «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», esplicitando con chiarezza la dimensione anche comunitaria degli uni e degli altri (art. 2 Cost.).

L’immagine della “pietra murata in conformità all’architettura” esprime efficacemente la convinzione che tra un certo disegno della realtà familiare e la Grundnorm personalista – autentica “pietra angolare” del grandioso progetto di emancipazione prefigurato dalla Carta – sussista un’implicazione necessaria e irrinunciabile. La coesistenza nel medesimo testo costituzionale degli artt. 29 e 30, da un lato, e dell’art. 2, dall’altro, non sarebbe cioè un prodotto occasionale della contingenza storica. Nessun progetto di autentica liberazione umana e sociale sarebbe piuttosto credibile senza il riconoscimento e la garanzia dei modelli della genitorialità naturale e della famiglia fondata sul matrimonio.

La ragionevolezza di quest’idea di La Pira trova tuttora conferma in una parte autorevole della ricerca sociologica. Si riconosce che una relazione di piena reciprocità tra i sessi e tra le generazioni – una relazione che connette le persone tra loro con la totalità del loro essere e che può perciò realizzarsi solo nel contesto istituzionale proprio della famiglia fondata sul matrimonio – una relazione siffatta non è un semplice modello storico: è piuttosto un universale culturale, empiricamente riscontrabile in diverse società e suscettibile di configurazioni concrete differenti. E si aggiunge che «mancando l’istituzione, mancano i presupposti sia di orientamento soggettivo, che sono essenziali per la maturazione della identità personale, sia di attendibilità oggettiva, che rendono organizzata e giusta la società». Si ritiene, del resto, che la neutralità etica e giuridica nei confronti del matrimonio – e dunque la scelta di non distinguere tra ciò che è famiglia secondo la sua identità propria e ciò che è famiglia in senso analogico o finanche metaforico – determini una regressione culturale, giacché introduce uno iato tra sessualità e cultura e comporta una disumanizzazione della generazione umana, degradandola a mera riproduzione biologica e rendendo così incerta e vaga la stessa distinzione tra l’umano e il non umano.

Certi argomenti non sembrano affatto ricorrenti nel pure ampio dibattito in corso tra i giuristi sulla morfogenesi familiare contemporanea. Eppure proprio il giurista non dovrebbe avere difficoltà nel riconoscere il potenziale di umanizzazione insito nei modelli costituzionali. In effetti, quanto anzitutto al modello della genitorialità naturale, non sembra difficile consentire sul fatto che le volte in cui, in ragione del ricorso a tecniche di fecondazione artificiale, la libertà di dare la vita si trasforma nel diritto di essere genitori, il figlio diviene oggetto di un diritto degli adulti e il significato sovrautilitaristico della persona è irrimediabilmente compromesso.

Quanto invece al modello della famiglia fondata sul matrimonio, bisogna riconoscere che il suo potenziale emancipatorio è divenuto col tempo sempre più difficile da percepire a causa del diffondersi del convincimento secondo cui il “per sempre” del matrimonio – e cioè l’essere il rapporto coniugale sottratto alla disponibilità dei suoi protagonisti – non sarebbe affatto compatibile con la libertà della persona e con la sua aspirazione alla piena realizzazione di sé. In questa sede non si può evidentemente neppure pensare di discutere criticamente l’idea astratta di libertà che è al fondo di un simile convincimento. Non sembra tuttavia inopportuno osservare come solo attraverso il “per sempre” del matrimonio diviene davvero possibile garantire la pari dignità dei protagonisti della coppia e perciò anche la pari dignità del generato e dei generanti. E ciò perché solo il “per sempre” del matrimonio, e dunque la forma istituzionale del rapporto di coppia, nel dischiudere la possibilità della piena reciprocità, della donazione di sé in totalità personale, dà vita a un’autentica “comunione di persone” capace di mediare il rapporto di dipendenza tra i generanti e il generato, sottraendolo alla logica causale propria delle cose prodotte.

È chiaro allora come i modelli della genitorialità naturale e della famiglia fondata sul matrimonio costituiscano davvero una “pietra murata in conformità” al grandioso progetto di emancipazione umana e sociale che anima la Carta. È chiaro cioè come quei modelli cooperino al fine di garantire la dignità del nascere dell’uomo e con ciò la formazione di un contesto di vita comunitaria, dal quale, almeno in potenza, è bandita, insieme alla dipendenza originaria, ogni altra forma di dipendenza: un contesto di vita nel quale e a partire dal quale la realizzazione di sé nell’esistere e nell’agire insieme con gli altri può cessare di essere una prospettiva utopistica e divenire possibilità concreta. La ragione autentica della perdurante validità di certi modelli a fondamento della costruzione sociale non è dunque da ricercare né in una pretesa funzionalizzazione della famiglia alla crescita e al consolidamento della compagine statale né nel radicamento di quei modelli nell’identità o nella tradizione di un Popolo né ancora nella loro corrispondenza all’ordine naturale delle cose. Rileva piuttosto che quei modelli rappresentano una garanzia essenziale di credibilità del progetto costituzionale, e perciò una condizione imprescindibile della sua realizzazione.

 

  1. Il progetto sociale postmoderno e il progressivo svuotamento dei modelli costituzionali sotto la spinta della prassi

 

Si può tornare a questo punto alla Carta di Nizza. Nel Preambolo si legge che «consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà», che «essa si basa sul principio della democrazia», che «pone la persona al centro della sua azione». Ora, di fronte a certe solenni enunciazioni di principio, al constatato agnosticismo dell’Unione in materia familiare e ai rilievi appena svolti sull’implicazione necessaria tra la spinta emancipatoria che anima il progetto costituzionale repubblicano e il riconoscimento della forza istituzionale della famiglia e del diritto alla genitorialità naturale non possono non sorgere alcuni interrogativi decisivi e, per certi versi, drammatici: quale idea di dignità della persona esprime davvero la Carta di Nizza? Quale opzione antropologica è sottesa al progetto di società che quel documento normativo intende promuovere? E qual è davvero questo progetto?

Nel riflettere sulla profonda trasformazione del diritto di famiglia del nostro tempo, un giurista italiano ha osservato che «la novità… consiste nella rinuncia, anzi: nel rifiuto a indicare in che cosa consista la “dignità umana” posta alla base del nuovo sistema di relazioni». In effetti, ciascuno di noi sperimenta oggi la difficoltà di dire in positivo cosa sia la dignità della persona. È una difficoltà che, a ben vedere, trova causa nella sostanziale assimilazione tra dignità e autonomia impostasi alla coscienza collettiva occidentale. È in virtù di tale assimilazione che la dignità è percepita ormai come un guscio vuoto, idoneo ad accogliere i più diversi contenuti valoriali. Ma così diviene un concetto inservibile, utile solo ad alimentare una retorica sempre più esasperata, che comincia ormai a produrre sentimenti diffusi di diffidenza e scetticismo.

Al fondo ci sono precise premesse metafisiche e, conseguentemente, anche antropologiche e di etica sociale. È la sintesi culturale che anima la costruzione di una società concepita come insieme di individui isolati e tutti ugualmente liberi, le cui interazioni occasionali si rendono necessarie solo per far fronte al soddisfacimento dei bisogni materiali di ciascuno e sono conseguentemente governate dal principio dell’accordo, e quindi da una razionalità di tipo mercantile. È quella logica che, in un famoso libro della seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso, un grande giurista italiano aveva lucidamente sintetizzato nella formula efficace dell’individualismo proprietario: una logica pervasiva e totalizzante, che istituisce la supremazia dell’economico finanche nell’ambito delle relazioni familiari, consumandole nella ricerca della gratificazione individuale e nella reciproca strumentalizzazione.

Non è il caso di insistere sul fallimento di un simile progetto di socializzazione neutra che si realizza anche attraverso la deistituzionalizzazione e la pluralizzazione delle forme familiari. Talora quel progetto è ancora presentato con una certa enfasi retorica come funzionale a obiettivi di promozione e di liberazione della persona. Di fatto sono sotto i nostri occhi la destrutturazione della personalità individuale e dei rapporti interpersonali, la frustrazione che nasce dalla mancanza di spazi autentici di partecipazione, le esperienze di solitudine e di sofferenza che originano dalla precarietà e che si estendono ormai ben al di là delle aree consuete del disagio e occupano l’intero spazio del lavoro e della vita.

Ciò su cui vale la pena riflettere è piuttosto che la logica dell’individualismo proprietario, ben prima di essere consegnata come progetto alle norme di una carta dei diritti, si è imposta come prassi capace di orientare anche la morfogenesi familiare contemporanea. E ciò anche a dispetto di modelli costituzionali e precetti normativi, che sono stati progressivamente svuotati dall’interno, fino a trasformarsi in “fossili” giuridici, resti di organismi un tempo viventi. In effetti, è stato osservato da tempo che, anche in Italia, almeno a partire dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso, la storia del diritto della famiglia si è caratterizzata per il progressivo approfondirsi del contrasto tra enunciazioni di principio – a livello costituzionale e anche di legge ordinaria – e soluzioni pratiche. Gli interpreti istituzionali e lo stesso legislatore non hanno potuto resistere alle spinte imperiose della prassi e, alla fine, l’hanno senz’altro assecondata, dando corso a una radicale Umformung dei modelli costituzionali. Le architetture costituzionali hanno ceduto. Il diritto si è arreso. Ha rinunciato a qualsiasi funzione di governo della morfogenesi familiare e si limita ormai a riflettere l’immagine di ciò che la società produce.

In effetti, la forza istituzionale della famiglia fondata sul matrimonio esiste ormai solo nella norma costituzionale. Nelle aule dei tribunali separazione e divorzio non richiedono più “intollerabilità della convivenza” e, rispettivamente, fine della “comunione materiale e spirituale” di vita. È sufficiente la volontà dei coniugi. Il giurista rispettoso delle esigenze del sistema potrà anche continuare a sostenere che, pena il contrasto con la garanzia costituzionale di stabilità accordata alla realtà familiare, i recenti interventi del legislatore in materia di separazione e divorzio devono intendersi correttamente nel senso di una mera riduzione di termini e di uno snellimento di procedure. Sappiamo bene che la realtà è un’altra. Ce ne rendiamo conto quando proviamo a spiegare ai nostri studenti l’essenza del rapporto di status. Nel confronto con gli studenti non possiamo fare a meno di percepire che l’idea di un rapporto sottratto alla disponibilità dei suoi protagonisti è quanto di più estraneo all’odierno contesto culturale e che nella prassi, quale che sia l’assetto normativo vigente, la trasformazione epocale del diritto della famiglia from status to relation si è ormai compiuta.

E che dire del diritto alla genitorialità naturale? È sufficiente ricordare che il nostro giudice delle leggi ha abrogato il divieto di fecondazione eterologa in nome di un preteso diritto fondamentale di autodeterminazione procreativa (Corte cost., sent. n. 162/2014). E ciò senza mai menzionare, in una pur lunga ed elaborata motivazione, proprio il precetto dell’art. 30 Cost. Con riferimento a questa decisione un giurista italiano ha parlato di «terrific judgement, nei due opposti significati del termine». E dire che, almeno in questo caso, la Corte di Strasburgo aveva dato un segnale chiaro riconoscendo un ampio margine di apprezzamento dello Stato e rinunciando così a farsi promotrice di un’apertura indiscriminata alla tecnica eterologa di fecondazione artificiale (Corte EDU, Grande Camera, 3.11.2011, S.H. et alii c. Austria, ric. 57813/00). Ciò nondimeno la soluzione liberalizzatrice si è imposta. Né sembra immaginabile una correzione di rotta. Solo qualche settimana fa, del resto, in una decisione molto raffinata, il nostro giudice delle leggi, pur affermando che la pratica della maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», ha ribadito il rilievo giuridico della cd. genitorialità sociale anche al di là dell’extrema ratio dell’adozione dei minori abbandonati (Corte cost., sent. n. 272/2017).

 

  1. Servire il cambiamento d’epoca: il problema della formazione universitaria del giurista

 

A questo punto è forse opportuno chiedersi quale ruolo possano ancora giocare il giurista e la stessa scienza del diritto in una situazione come quella che si è appena provato a descrivere. È una situazione in cui, a differenza di quanto avveniva in passato, la morfogenesi sociale non è più garantita né dalla natura né da qualche altra forma statica, nella quale il giurista non aveva difficoltà a riconoscere i tratti di quel “sistema” che, ponendosi prima e oltre la legge, assicurava il carattere cognitivo, e dunque la scientificità, del suo lavoro. Il giurista perde invece i suoi tradizionali punti di orientamento in una situazione come quella odierna, in cui la società di continuo si autocostruisce e impone ai singoli e ai gruppi la sua prassi superpersonale e globale, animata da una sintesi culturale fondata sull’idea della supremazia dell’economico.

Le trasformazioni in atto nel diritto della famiglia rappresentano indubbiamente un luogo privilegiato di emersione di questo disagio del giurista contemporaneo. Ma la portata del problema è molto più ampia. È in questo disagio, del resto, che trova causa, a ben vedere, la stessa crisi di attrattività che caratterizza ormai da qualche anno lo studio universitario del diritto e che è ora all’attenzione anche nelle sedi istituzionali. Quella crisi è innanzitutto una crisi epistemologica indotta dalla novità rappresentata dal primato irresistibile della prassi rispetto all’azione individuale e comunitaria. E infatti: quale attrattività può mai esercitare lo studio del diritto se quel primato sembra ormai aver sottratto al giurista qualsiasi possibilità di orientare la costruzione sociale nel senso di un’autentica emancipazione umana? Di questa costruzione le nuove generazioni vogliono essere protagoniste. Non si rassegnano al ruolo sbiadito del funzionario che si mette diligentemente al servizio dell’implementazione di un’evoluzione sociale percepita come deterministica. Né vogliono chiudersi nell’isolamento e nella frustrazione di chi continua a proporre scenari sistematicamente smentiti dalla realtà. Le nuove generazioni non vogliono essere né olio né sabbia negli ingranaggi del sistema. Vogliono progettare il nuovo motore della costruzione sociale.

Ma è ancora possibile orientare la prassi nella direzione di una piena umanizzazione? Ed è realistico pensare che il giurista possa ancora rivestire un ruolo da protagonista in questa nuova opera di costruzione sociale? In che modo?

Può essere utile, a questo punto, tornare alle pagine di Giorgio La Pira. Il suo argomentare muoveva da un convincimento di un certo interesse: quello secondo cui alla base di ogni costruzione sociale c’è sempre una precisa concezione della natura dell’uomo e, di conseguenza, anche della natura e della struttura del corpo sociale. Questa “idea direttiva” – diceva La Pira – è ineliminabile e, una volta innestata nel sistema, ne condiziona l’intera costruzione: dalle mura portanti della casa, che rappresentano il corpo sociale, fino alla volta, che ne identifica l’assetto giuridico, tutto si conforma a quell’idea. E ciò avviene – aggiungeva ancora il giurista messinese – anche in una maniera inconsapevole, e dunque anche a prescindere dall’adesione cosciente dei singoli o dei gruppi. Le trasformazioni sociali finiscono insomma per imporsi comunque in conseguenza di precise premesse culturali assunte dalla coscienza collettiva. E precipitano poi, sempre in maniera inevitabile, in un determinato assetto giuridico. È dunque sulle premesse culturali che bisogna agire. Per orientare la prassi sociale in vista di un obiettivo realistico di emancipazione umana – e restituire così contenuto e sostanza anche a certi modelli giuridici – c’è bisogno di una nuova sintesi culturale, della crescita di una coscienza collettiva profondamente rinnovata.

L’Università è appunto il luogo privilegiato in cui questa sintesi può e deve essere elaborata. A quest’opera devono concorrere tutti i saperi. Anche il giurista non può far mancare il suo contributo. Anche il diritto deve allora uscire dalla logica opprimente di un sapere puramente settoriale. Deve tornare a farsi cultura e a fare cultura se vuole recuperare un ruolo nell’orientare la costruzione sociale per il bene della persona. Per far questo però anche la metafisica, l’antropologia filosofica, l’etica sociale, la sociologia devono essere riconosciute come un complemento essenziale della formazione universitaria del giurista. Altrimenti come potrà il giurista essere in grado di riconoscere la sintesi che anima la prassi e ne determina l’assetto ordinamentale? Come potrà assumere nei confronti di questa sintesi una posizione di distanza critica? E come potrà offrire il contributo del proprio sapere tecnico all’elaborazione di nuove sintesi sempre più adeguate alle esigenze di una promozione autentica della persona? Senza una formazione umanistica adeguata il giurista continuerà a privarsi della parola, consegnando l’autonomia del diritto agli esperti di altri saperi. Con ciò siamo ormai giunti alla radice del progetto formativo della nostra Istituzione accademica e, in realtà, di ogni Istituzione accademica.

Ma oggi tutto questo potrebbe non essere ancora sufficiente senza il rispetto di un’essenziale istanza che è innanzitutto metodologica. Giorgio La Pira insisteva in maniera particolare sulla necessità che l’idea direttiva della costruzione sociale – la forma dinamica che anima la prassi – dovesse essere il più possibile aderente alla realtà, che dovesse essere cioè una rappresentazione veritiera e integrale della natura dell’uomo e della società. La sua generazione aveva infatti sperimentato a quali esiti di degradazione potessero condurre costruzioni sociali e assetti giuridici fondati su premesse culturali parziali e astratte. Di conseguenza le diverse sintesi materialiste – sia quelle di tipo statalista e marxista sia quelle di tipo liberalcapitalista – erano da lui criticate proprio in ragione del loro carattere riduttivo e utopistico. La sintesi cristiana era invece considerata l’unica idonea perché fondata sul riconoscimento oltre che della libertà e della naturale socialità della persona, anche della sua inesauribile aspirazione a trascendersi, a crescere nell’essere.

Ora, il cuore della fede cristiana è appunto nella certezza che l’aspirazione dell’uomo a essere di più è destinata a realizzarsi nella prassi ecclesiale originata dall’evento pasquale. A partire da questa certezza il Cristianesimo si è fatto cultura e ha fatto cultura. E ha così potuto animare anche la prassi sociale. Per questo anche lo studio della teologia può occupare un posto nella formazione di un giurista che intenda svolgere un ruolo da protagonista nella costruzione sociale. Solo una comprensione autentica della sintesi cristiana consente infatti di attingere il significato di quei due principi basilari, senza il rispetto dei quali ogni costruzione sociale, presto o tardi, è destinata a entrare in crisi: la dignità trascendente della persona e l’unità del genere umano in forza di un principio organico di comunione. Ma come avevano ben compreso i progettisti delle nostre architetture costituzionali, quei due principi possono davvero essere garantiti solo attraverso il riconoscimento della forza istituzionale della famiglia e del diritto alla genitorialità naturale. È allora a partire da qui – dalla riflessione su questo nesso di necessaria implicazione tra un determinato disegno familiare e la realizzazione di istanze autentiche di promozione umana e sociale – che anche lo studio del diritto della famiglia può e deve tornare a offrire un contributo non rinunciabile a una nuova costruzione europea.

 

 

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* Contributo sottoposto a valutazione. È il testo della Relazione pronunciata in occasione della Cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Europea di Roma, che si è tenuta all’Auditorium “Giovanni Paolo II” il 18 febbraio 2018.