Stefano Cavanna
Avvocato in Genova, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura*
Il saggio di Bruno Capponi, Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione Civile, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2023, recentemente pubblicato, è una raccolta di scritti sulla Cassazione e rappresenta più cose nello stesso tempo.
Certamente l’opera in commento è, in primo luogo, una chiara, razionale e profonda disamina dell’evoluzione (o involuzione?) della Suprema Corte nel tempo fino ai giorni attuali, passando dall’analisi delle varie componenti vettoriali che, partendo dal suo interno, hanno condotto alla fase attuale.
Ma, come suggerisce, volutamente, il titolo, tale brillante e schietto studio sul vertice della piramide della Giustizia civile, non può prescindere da un più ampio esame che coinvolga l’intera struttura del sistema processuale civile, comprendente anche la base del Colosso, il giudizio di merito (la “trincea” come capita spesso di dire), nonché il livello intermedio, per poi giungere fin lassù, al vertice della priamide, all’empireo della Suprema Corte. Ed è proprio in forza di questo respiro ampio che il lettore riesce a comprendere intimamente le varie anime della Cassazione come ben descritte dall’Autore.
Ad opinione di chi scrive, il bel libro del prof. Capponi (quasi un pamphlet, nel senso positivo del termine, tanto è piacevole ed intuitivo alla lettura) ha ancor più valore, non solo per il detto ma, soprattutto, per il non detto e, cioè, per gli stimoli speculativi che non può non ingenerare nel lettore che abbia avuto esperienza – teorica ma anche e soprattutto pratica − delle dinamiche e(in)volutive del complesso apparato processual-civilistico italiano, così ben colte nel saggio in commento.
È così che chi abbia frequentato effettivamente (da magistrato o da avvocato) le aule di giustizia, non potrà non ritrovarsi nell’analisi storico-causale e funzionale dell’organo di vertice della giustizia nazionale, completando la propria lettura con spunti ulteriori tratti dal proprio vissuto concreto. E se tale osservazione vale in relazione alla base della piramide (il giudizio di merito), osservazioni analoghe potranno essere svolte anche per la dimensione (solo accennata nel libro di Capponi) che si colloca più in alto della piramide della Giustizia nazionale, sia in funzione dei massimi sistemi e dei principi che informano, o dovrebbero informare, lo Stato liberale montesqueiano, sia del livello sovraordinato transnazionale e supernazionale.
Un testo, quindi, che costituisce il punto di partenza per ulteriori interessanti approfondimenti e valutazioni che, in ogni caso, ciascuno di noi può essere stimolato a fare, prendendo spunto dalla superba base di analisi costituita dall’opera in commento.
Nei limiti ristretti di una recensione, non è certo possibile entrate nel merito dei caleidoscopici tratti che contribuiscono a comporre il ritratto dell’odierna Suprema Corte che vengono dettagliatamente delineati dall’Autore.
Si può, tuttavia, certamente dare atto del fatto che il portato dell’analisi di Capponi renda l’immagine di una Corte di Cassazione frutto di varie ed apparentemente contrastanti anime che alternano il loro contributo in varie direzioni, a volte apparentemente disorganiche, la cui presenza ed espressione è favorita da un Legislatore che si limita a porre regole generali “aperte”, spesso mal pensate e peggio costruite, non curandosi della effettiva e concreta regolazione di una Cassazione lasciata libera nella propria autonomia, esercitata, a volte, discrezionalmente, ad usum proprio. Si, pensi, in questo senso, al mutamento genetico ad opera della interpretazione della Cassazione del vecchio art. 366 bis c.p.c. sul famigerato principio di diritto da formulare in ricorso, che da previsione finalizzata dal Legislatore a consentire al Giudice di Cassazione di giudicare meglio, diverrà, nelle mani della Cassazione, il principale strumento per giudicare meno, in ossequio alla priorità, dubbia dal punto di vista costituzionale, di scoraggiare con ogni mezzo l’accesso alla Giustizia, specialmente di secondo grado e di legittimità.
L’Autore dipinge magistralmente l’iter (spesso disorganico ed un po’ schizofrenico) che ha pervaso, riforma dopo riforma, interpretazione dopo interpretazione, l’evoluzione del ruolo stesso della Cassazione che, da Giudice del caso concreto (seppure di legittimità), è oggi sempre più organo apicale, proteso, da un lato a tentare di dominare un ruolo elefantiaco (alimentato costantemente dalla poca autorevolezza dei gradi di merito, sempre più spesso affidati a giudicanti non professionali), tramite l’esaltazione della politica del “respingimento”.
Ed è proprio il meccanismo del respingimento che viene ricostruito dall’Autore quale il fulcro della politica giudiziaria degli ultimi decenni: limitare il giudizio il più possibile ai vizi del processo (inammissibilità, improcedibilità) o ad un giudizio sommario e sbrigativo nel merito (manifesta infondatezza peraltro giudicata in forma monocratica). Nel contempo, la Cassazione viene investita di nuove funzioni, non più di incidenza eccezionale e straordinaria, sempre più avulse dal giudizio sul caso concreto ma tipiche di un organo che si relaziona direttamente con la Legge (e non col caso) per offrirne una sorta di interpretazione autentica, possibilmente vincolante per i casi futuri e non raramente “creatrice” di nuovo diritto in via interpretativa.
La Corte di Cassazione, quindi, attraversa oggi una delicata fase dal punto di vista identitario, frutto della evoluzione e della politica legislativa che ha riguardato la giurisdizione civile nel suo complesso ed, in primo luogo, la base della piramide che ha al suo vertice la Cassazione, nel suo ruolo base e tradizionale, Giudice di ultima istanza investito del giudizio di legittimità da intendersi come controllo sui precedenti giudizi di merito.
Dalla lettura del testo in commento, appare evidente come l’atteggiamento del Legislatore negli ultimi decenni, a fronte dell’aggravarsi dell’ingolfamento della macchina della giustizia, in parte fisiologicamente dovuto alla crescita del Paese dal punto di vista economici ed imprenditoriale, ma anche a cagione del costante taglio delle risorse destinate ad incrementare il servizio giustizia, abbia pensato di risolvere il problema limitandosi a frapporre ogni sorta di ostacolo in capo a cittadini ed avvocati all’accesso alla giustizia ordinaria.
Quindi, a fronte della concreta difficoltà/incapacità della macchina della giustizia ad assolvere la propria funzione costituzionalmente prevista, la risposta è consistita, non nel tentare di soddisfare la domanda, bensì nel disincentivare ed ostacolare l’accesso al servizio, quasi che il ricorrere al giudice, soprattutto d’appello, sia frutto di spirito inutilmente polemico e, quindi, da sospettarsi quale manifestazione in re ipsa di un vero e proprio abuso del diritto.
In questa prospettiva vengono analizzate le singole componenti che formano e danno sostanza alla c.d. politica del respingimento, la quale, dal punto di vista strategico, è basata su un concetto molto semplice: al cittadino è concesso un grado di giudizio che sfocia in una sentenza oggi, non casualmente, immediatamente esecutiva. Tutte le ulteriori iniziative della parte soccombente in primo grado sono evidentemente e concretamente disincentivate ed, addirittura, in certi casi, ferocemente sanzionate.
Il primo grado (seppur condizionato all’esperimento imposto di una serie di procedimenti para-amministrativi che, nella mente del Legislatore, dovrebbero consentire la composizione preventiva della controversia ma il cui successo, nella realtà delle cose, dipende dal banale presupposto che per conciliare la seria intenzione debba sussistere in capo a tutte le parti!) diviene quindi oggi tendenzialmente il pilastro centrale della giustizia civile nazionale, l’unica cartuccia concessa a chi voglia far valere i propri diritti senza dovere rinunciare preventivamente a parte di essi (conciliando), sia che sia un cittadino italiano, sia che si tratti di un investitore straniero.
In questa ottica, il giudizio di appello (non parliamo di quello di Cassazione) assume oggi, nella architettura generale, un ruolo ontologicamente sempre più marginale, gravato come è dalle crescenti condizioni all’accesso e privo di ambiti di manovra, a cagione dei limiti, sempre più estesi al c.d. nuovo in appello: non, come anticamente, un nuovo giudizio pieno (utile se il primo sia stato insoddisfacente, come le statistiche, nonostante tutto, attestano con una certa ricorrenza), ma un semplice controllo a giochi sostanzialmente chiusi in primo grado.
Se non fosse, come evidenziato dall’autore, che una politica di tale portata e contenuto sostanziale dovrebbe avere come presupposto un primo grado assolutamente efficiente, sicuro negli esiti, in quanto autorevole, e per ciò accettabile anche da parte del soccombente, mentre oggi di ciò i cittadini e i difensori non paiono molto persuasi.
Si comprende chiaramente come la Cassazione sconti oggi pesantemente tale impostazione di fondo, come comprovato dal susseguirsi delle varie riforme, nonché dalla propria opera di autoregolazione.
Come detto all’inizio di questo commento, il lettore che abbia esperienza di processo civile non farà fatica a riconoscere le varie componenti che, come argomentato e documentato dall’Autore, hanno caratterizzato e caratterizzano l’evoluzione del diritto processuale civile in atto.
Direttrici di politica legislativa e, purtroppo, economica, come la tendenza alla degiurisdizionalizzazione (o, in certi casi, più brutalmente “privatizzazione”) del processo civile, alla sommarizzazione dei processi, alla esaltazione della virtuosità per definizione della “chiusura della causa” non con il suo esito naturale (la sentenza) ma con una transazione quasi imposta, che non faccia perdere tempo ed energie all’apparato, sono tutti fenomeni chiaramente riscontrabili nei Tribunali da parte di qualsiasi avvocato civilista.
In tale prospettiva il saggio del Prof. Capponi costituisce un’ottima base di analisi per dare spiegazione teorica a quanto accade tutti i giorni nelle aule di merito italiane.
Come, infatti, non pensare, dopo avere letto le pagine del Prof. Capponi, oltre che alla scarsa efficacia concreta delle pratiche conciliative imposte dalle varie riforme della procedura civile a pena di improcedibilità (percorsi visti spesso dalle Parti, anche e soprattutto straniere, come l’ennesimo incombente meramente burocratico da assolvere con spese a carico delle parti), ad una serie nutrita di prassi, come, a titolo di mero esempio, la proposta a verbale del giudice per la composizione della controversia in base ad un assetto da esso stesso caldamente suggerito e quasi mai confermato in sentenza (a volte accompagnata da avvertimenti orali non molto larvati volti a fare comprendere alla parte meno disposta che, in caso di disaccordo, di ciò si terrà conto in punto di condanna alle spese)?
E che dire di un accertamento tecnico preventivo in cui il giudice attribuisca l’incarico al consulente di perseguire (ancor meglio, raggiungere) la composizione della controversia, e ciò nell’ambito di un procedimento che dovrebbe fissare semplicemente una fotografia della situazione di fatto in quel momento, finalità che non dovrebbe affatto essere perturbata da ansie conciliative, nella maggioranza dei casi del tutto premature?
Si fa presto, poi, a chiudere il cerchio richiamando la recente innovazione data dalla c.d. Riforma Cartabia (l. 17 giugno 2022, n. 71) che all’art. 3, comma 1, lett. i), n. 1), secondo cui, ai fini della valutazione di professionalità dei magistrati, effettuata normalmente ogni quattro anni, dovranno essere raccolti i dati conoscitivi sull’attività giudiziaria svolta dal magistrato stesso, con specifico riferimento a quella espletata con finalità di mediazione e conciliazione (la sottolineatura è nostra n.d.r.), con ciò strutturalmente spingendo il giudicante ad assumere una parte attiva non nella distaccata amministrazione della giustizia (come da modelli che derivano dalla nostra tradizione romanistica), ma nello smaltimento burocratico dei fascicoli.
In altri termini, anche l’esperienza pratica del quotidiano ha corrispondenza esatta con la chiara politica legislativa degli ultimi due decenni e pare confermare l’argomentata tesi di fondo contenuta nel saggio del Prof. Capponi sulla Cassazione.
Ed è chiaro che le tendenze e lo stato del sistema della procedura civile italiana non possano non incidere profondamente sul giudice al vertice della piramide, afflitto, come sappiamo da decine di migliaia di fascicoli, in attesa di “smaltimento” in un modo o nell’altro, preferibilmente, come si sa, con una pronuncia rapida sul processo e non nel merito del caso concreto, magari reso da un consigliere delegato in sostanziale funzione monocratica.
Sotto questo importante profilo, le conclusioni che un lettore può trarre dal logico ed argomentato incedere della disamina contenuta nel libro in commento, possono giungere al desolante ma, purtroppo realistico, non detto, in forza del quale, nell’odierno apparato legislativo ed ordinamentale, il giudice del caso, appaia (sperando che nel suo intimo non lo voglia essere) un mero smaltitore di pratiche, da “chiudere” possibilmente in un modo o nell’altro, preferibilmente senza una sentenza, applicatore necessitato dei principi del “respingimento”, costretto dalla carenza degli organici e dal conseguente ciclopico ruolo, a compiacere le istanze “economistiche” del sistema statale in affanno.
Va da sé che tale situazione non possa non comportare una tanto intuibile, quanto grave crisi di identità della magistratura civile, la quale appare oggi correre il rischio di perdere o compromettere la funzione di rilevanza costituzionale del rendere giustizia (dare soluzione sicura ad una controversa con una decisione dotata di forza autoritativa), per vedere trasformati i magistrati in funzionari valutati positivamente in base alle percentuali di smaltimento e posti in concorrenza con procedimenti para-amministrativi considerati per Legge strumenti più efficienti di un processo.
Il secondo tema portante dell’evoluzione del sistema della procedura civile, come ben individuato nel saggio, riguarda direttamente il vertice della piramide e, come vedremo, può dare spunto al lettore per ulteriori considerazioni.
Si tratta dell’ambizione della tendenza del supremo giudice nazionale di acquisire nuove funzioni che gli consentano di legittimarsi quale primo interprete della Legge, organo legittimato a porsi direttamente come interlocutore della norma in quanto più autorevole e alto interprete della sua lettura “in purezza”, non più mediata dalla soluzione di una fattispecie concreta e, quindi, libero di esprimere principi avulsi dal procedimento nell’ambito del quale si presenti la questione giuridica da affrontare. La Corte di Cassazione diviene così interprete ma anche creatrice derivata di diritto, con effetto tendenzialmente vincolante per il giudice di merito.
Il fenomeno descritto minuziosamente dal Prof. Capponi, anche se non pienamente realizzato, appare in tutta la sua portata oggettivamente rivoluzionaria per il sistema italiano e la sua tradizione culturale.
Seppure, infatti, tale tendenza evolutiva si collochi latamente nell’alveo della funzione nomofilattica attribuita alla Cassazione dall’art. 65 Ord. Giud., R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, frutto dell’impostazione centralista ed autoritaria dell’epoca, tuttavia, essa appare oggi presentare nuovi e più radicali colorazioni che trovano fondamento nell’evoluzione attuale della società e del diritto. Per l’Autore infatti, l’attuale assetto tendenziale del ruolo della Suprema Corte rompe con l’originaria nozione di nomofilachia, proprio perché essa, a differenza che nel passato non è più strettamente circoscritta alla definizione di un principio connesso alla soluzione di un caso specifico.
L’Autore chiarisce come nella passata impostazione, la funzione nomofilattica traeva la sua forza dalla persuasività data dall’autorevolezza dell’interprete, piuttosto che da regole che la imponessero come precedente tendenzialmente vincolante.
In sintesi, secondo, il Prof. Capponi, «la tendenza che sta prendendo piede all’interno della Corte è così quella di fare della Cassazione non più o non soltanto un giudice bensì – come è stato scritto – un organo di «coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria», interessato assai più alla interpretazione del diritto che non alla sua applicazione in quei casi pratici che, per i tramiti delle impugnazioni, ascendono verso l’Organo di legittimità.
La più recente manifestazione di questa tendenza è appunto nell’istituto dell’art. 363-bis c.p.c. che incomprensibilmente riceve un consenso quasi generalizzato: posta di fronte alla norma e non al caso, la Corte, non potendo imporla, dovrebbe «suggerire» ai giudici di merito la corretta interpretazione di una questione di diritto nuova, che sia tale da poter interessare contenziosi ripetuti, o seriali» (Capponi, Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, 2023, 289).
Ed è soprattutto in questo ambito che si coglie il valore del saggio in commento, nella sua capacità di innescare nel lettore minimamente addentro ai temi trattati, una serie di considerazioni sul non scritto (o solo accennato).
È naturale, infatti, osservare come la mutazione genetica della Cassazione risponda esattamente a modelli un tempo esogeni ma oggi penetrati d’imperio ed inesorabilmente nel tessuto connettivo del diritto italiano, più per ragioni geopolitiche che in forza di una naturale evoluzione culturale (peraltro difficilmente percepibile nelle aule di merito).
In tal senso appare innegabile come la nuova dimensione della Cassazione guardi alla diversa natura di organi transnazionali non solo strettamente giurisdizionali, come la Corte di giustizia della Unione Europea e la Corte E.D.U., i cui precedenti, come noto, sono vincolanti per il futuro e prevalgono sul diritto interno dei singoli Stati nazionali, anche, entro certi limiti, sulle norme natura costituzionale. Con ciò si può tranquillamente affermare che tali Corti, per il tramite della interpretazione della norma, siano sostanzialmente dotate del potere di innovare il diritto, producendone in prima persona ed imponendo, per Legge, tale interpretazione a tutti i giudici di livello sottordinato.
E, facendo un passetto in più, come non collocare questo tassello nel più ampio tema dell’odierno travaglio, comune praticamente a tutti gli ordinamenti di matrice montesqueiana, circa la rimeditazione del confine e delle aree di contatto fra i classici tre poteri dello Stato?
In questa prospettiva, la per noi inedita natura intermedia della Cassazione (primo interprete della legge, in posizione di raccordo tra funzione legislativa e giurisdizionale) ipotizzata dal Prof. Capponi, fa pensare alla dinamica di un pendolo che passa dall’estremo di un potere esecutivo (spesso indistinguibile dal legislativo), naturalmente proteso, se non verso il controllo, certamente verso la riduzione del margine di indipendenza della Magistratura (che non raramente e non solo in Italia si fa biasimare per la propria autoreferenzialità vds. la degenerazione del correntismo, fenomeno conosciuto in quasi tutti gli Stati fondati sulla separazione dei poteri), e dall’altro estremo del pendolo, all’aspirazione della Magistratura, non solo di applicare il diritto, ma anche di crearlo.
Ma come per la dinamica YIN e YANG, è legittimo poi dubitare che i due estremi del pendolo rappresentino forze vettoriali effettivamente contrapposte, potendosi pensare che, in verità, costituiscano il verso ed il recto di un’unica medaglia: in fondo la teorica presenza di un unico interlocutore potrebbe semplificare ogni possibile riassetto.
Un’opera, quella del Prof. Capponi che offre tanti spunti di meditazione sul futuro non solo del nostro Ordinamento, partendo da una analisi brillante e profonda degli istituti attuali, sempre visti come il risultato di ben identificabili percorsi storico-giuridici.
* Contributo sottoposto a valutazione.