Aldo Rocco Vitale
Docente di Filosofia del Diritto ‒ Dipartimento di Giurisprudenza
Università Europea di Roma*

 

Sommario: 1. Introduzione ‒ 2. L’unitarietà del fenomeno successorio ‒ 3. La dignità della vita umana ‒ 4. Problematiche biogiuridiche ‒ 5. Conclusioni.

 

 

  1. Introduzione

 

Da mihi factum, dabo tibi jus: così recita il celebre comandamento archetipico del fenomeno giuridico, che affonda la propria cogenza nei più remoti albori della storia del diritto, sintetizzando la naturale dialettica tra fatto e norma, tra diritto e giustizia, tra dimensione ontica e dimensione deontica, cioè esprimendo quella energia che da sempre tiene e contiene la fenomenologia giuridica all’interno di tutte quelle tensioni che si vengono inevitabilmente a produrre tra la materialità della realtà da un lato e l’inderogabilità dei principi giuridici fondativi dall’altro.

Tuttavia, per quanto possa considerarsi risalente, la predetta angolazione risulta essere ancora la più adeguata, anche e soprattutto nei tempi attuali.

In tale frangente si può riconoscere che tanto più occorre risalire al senso primigenio del diritto fin dalla sua fondazione come scoperta dell’umana ragione in grado di discernere le modulazioni dell’agire e del relazionarsi intersoggettivo[1], quanto più oggi si avvicendano gli incrementi del potenziamento tecnico-scientifico i quali, una volta socializzati, cioè accettati e diffusi ad ogni livello della società, vengono ad interrogare il ruolo e la coscienza del giurista posto dinnanzi alla frammentazione derivante dalla prevalenza del dato tecnico su quello ontologico[2].

Il giurista, infatti, dinnanzi a quella più volte denunciata fluidità inarrestabile che caratterizza tutto il mondo contemporaneo[3], e che oramai sembra pervadere ineluttabilmente anche le dinamiche giuridiche, non può che sentirsi sollecitato a fornire non soltanto risposte in grado di garantire ancora la certezza del diritto, certezza talvolta traballante e precaria, ma anche e soprattutto risposte che siano in grado di riconciliare la transeunte azione umana con l’universalità dei paradigmi giuridici che ne descrivono la perimetria ontologico-esistenziale, così che, come per Karl Jaspers «l’uomo sparisce nell’idea della nuda numericità del suo esserci»[4], si possa altresì evitare che il diritto sparisca nella cruda molteplicità del suo divenire.

A tale logica non può sottrarsi, a pena di un totale smarrimento della propria dimensione fondazionale e della propria pretesa giustificativa, nessuno dei numerosissimi istituti che costituiscono il nobile portico sotto il quale transita la ragion giuridica nel suo incedere metatemporale: nessuno dei più recenti, come quelli atipici della contrattazione di continua importazione anglosassone, e nessuno dei più antichi, come quelli che riguardano il fenomeno successorio.

In tale sede, si tenterà di mettere in luce, ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività in considerazione della complessità degli argomenti e della ristrettezza dei tempi e degli spazi adibiti alla loro trattazione, gli aspetti principali e più problematici di alcuni profili biogiuridici che possono venire in rilievo nella fase successoria chiamando in causa la disciplina del diritto successorio e la dignità della vita umana.

 

  1. L’unitarietà del fenomeno successorio

 

Preliminarmente occorre, seppur in breve, focalizzare l’attenzione sulla unitarietà del fenomeno successorio che, sebbene possa svolgersi in diverse fasi (apertura della successione, vocazione, delazione, accettazione/rifiuto) e perfino essere scandito da tempi differenti (come nel caso di eredi, condividendi o figli naturali sopravvenuti), rimane ugualmente una operazione unitaria, giustificata dal fatto che «la successione mortis causa è la continuazione dei rapporti giuridici del defunto, i quali non tollerano interruzioni e discontinuità»[5].

A riprova di ciò si può invocare l’antico e noto brocardo romanistico semel heres, semper heres che trova la sua concretizzazione disciplinativa direttamente nel tessuto normativo degli articoli 475, 520, 637 del Codice Civile, e indirettamente anche nelle previsioni contenute, per esempio, dagli articoli 477, 478 e 533.

La circostanza per cui il secondo comma dell’articolo 475 sancisce la nullità di una accettazione sottoposta a termine o condizione, indica, oltre la tutela degli interessi e dell’affidamento dei terzi, anche la salvaguardia dell’unitarietà del fenomeno successorio inteso, appunto, come continuum.

In tal senso, il terzo comma dell’articolo 475 che prevede la nullità dell’accettazione parziale ribadisce con ulteriore chiarezza e specificità il predetto concetto facendo peraltro rilevare l’integrità della dinamica successoria come corpus unicum che non accetta “frazionamenti” poiché la delazione non è modificabile[6].

Sebbene una risalente e autorevole dottrina[7], con un relativamente recente, ma minoritario seguito giurisprudenziale[8], abbia ritenuto possibile un’accettazione parziale sulla base della concorrenza di una delazione testamentaria con objectum successionis una parte del patrimonio del de cuius e di una delazione legittima destinata a regolamentare la restante parte dell’asse ereditario rimasto al di fuori delle disposizioni testamentarie, si deve precisare che la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza consolidata sono di opposto parere[9].

Luigi Ferri, in tal senso, chiarisce la ratio della nullità sancita per l’accettazione di eredità sottoposta a condizione o termine, così come per quella parziale, rifacendosi alla logica di fondo dell’unitarietà del perfezionamento negoziale: «Negli atti tra vivi l’accettazione nulla per non conformità alla proposta si converte in una valida nuova proposta: ciò non può avvenire nell’accettazione dell’eredità, data l’assoluta immodificabilità della delazione[…]. Lo stesso discorso deve farsi per l’accettazione parziale dell’eredità[…]. Accettare in parte equivale e non accettare affatto»[10].

L’accettazione, dunque, per un verso conclude e “perfeziona” il fenomeno successorio, mentre, per altro verso, suggella l’unitarietà e l’inscindibilità dello stesso[11].

La parzialità dell’accettazione, dunque, espressamente esclusa, significa l’esclusione di una delazione frazionabile, cioè l’ingresso nella sfera giuridica dell’accettante dell’intero assetto ereditario del de cuius, senza eccezioni, senza facoltà di scelta, senza limitazioni volontarie.

Anche se per titoli diversi, cioè per via testamentaria o per via legittima, la delazione, come la migliore dottrina precisa,[12] è comunque da considerarsi complessa, ma pur sempre unica, rilevando così ancor di più l’unitarietà del fenomeno successorio.

Una evenienza differente si ha soltanto nel caso in cui ad essere condizionata è la vocazione; in tale caso, secondo Perlingieri, l’accettazione sarebbe ben possibile senza violare il predetto divieto rimanendo comunque un atto di adesione puro e incondizionato[13].

In conclusione, dunque, sempre con le parole di Capozzi, «consegue che il chiamato può solo accettare l’eredità nel suo insieme o rinunciare ad essa»[14].

Da tutto ciò si evince che, almeno secondo la disciplina codicistica italiana e l’interpretazione che di questa forniscono la maggioritaria dottrina e la giurisprudenza[15], il fenomeno successorio non può che essere inteso unitariamente in considerazione della unitarietà della delazione e della univocità dell’accettazione come adesione alla vocazione; da questa prospettiva discende che l’accettante non possa scegliere i beni o le parti del patrimonio ereditario da “acquistare” o da rifiutare secondo il proprio capriccio.

Nel caso di damnosa hereditas, per esempio, cioè nel caso in cui dall’asse ereditario emergano più passività che attività, l’accettante non potrà dunque lasciare le prime e acquisire le seconde, ma dovrà, come è ovvio, accettare o rifiutare l’intero, anche e soprattutto in previsione della fusione del proprio patrimonio con quello del de cuius, fatta sempre salva l’eventuale accettazione beneficiata ex art. 484 Codice Civile.

Si consideri, inoltre, che, data l’unitarietà della delazione che conferisce unitarietà all’intero fenomeno successorio, non appare possibile per l’accettante selezionare i beni o i diritti da acquisire dall’asse ereditario non soltanto in ragione della loro convenienza economica (come detto in caso di damnosa hereditas), ma neanche in ragione della natura differente degli stessi (se cioè essi siano di natura patrimoniale o meno, come, per esempio, nel caso delle carte di famiglia o della collezione epistolare del defunto che non abbiano valore economico, ma affettivo o semplicemente morale).

Alla luce di tutto questo, tuttavia, sembra porsi un problema che trova la propria scaturigine dal miscelarsi di tre fattori: il progresso tecnico assente ai tempi del confezionamento di tutte le predette norme e che oggi suscita problematiche un tempo assenti e perfino impensabili; la vacatio legis di cui si è reso responsabile un poco accorto legislatore che negli ultimi anni ha senza dubbio disciplinato alcune tematiche, come per esempio la procreazione medicalmente assistita, ma senza quella prudenza sistematica che distingue il giurisperito da un qualunque azzeccagarbugli di manzoniana memoria; l’esigenza di tutelare la dignità umana oltre le semplici discipline di carattere strettamente patrimoniale.

A tal fine, però, prima di delineare il tema ed una possibile risposta al medesimo, occorre interrogarsi, seppur sinteticamente, come già fatto per l’unitarietà del fenomeno successorio, anche in ordine alla dignità umana (spesso oggi travisata dalla stessa classe dei giuristi che il più delle volte vi fanno ricorso senza quel sostrato di riflessione filosofica necessario per percepirne davvero l’essenza e la costitutiva pregnanza giuridica) quale principio fondamentale senza dubbio di ordine pre-ordinamentale, ma non per questo meno giuridico, anzi alla base dei pilastri della stessa ratio juris.

 

  1. La dignità della vita umana

 

«La distinzione tra vita degna e vita indegna distrugge presto o tardi la vita stessa»[16]: così ha avuto modo di notare Dietrich Bonhoeffer ponendo l’attenzione sulla circostanza per cui la vita umana non è graduabile secondo una minore o maggiore dignità, ma è degna sempre e comunque di per se stessa, a meno che si voglia correre il rischio di distruggerla come conseguenza inevitabile della predetta distinzione.

La storia giuridica del XX secolo, tuttavia, pare aver dimostrato che non è sufficiente ritenere la dignità umana come qualcosa di scontato, ma che anzi essa deve sempre essere ricordata e tutelata generazione dopo generazione, poiché, come hanno tristemente e ampiamente dimostrato le leggi di Norimberga del 1935, la legge può tramutarsi in strumento di abuso e di lesione della umana dignità se, come aveva già insegnato S. Agostino[17], non è una legge giusta.

In questo senso, la rigidità della forma del diritto deve sempre essere mitigata dal rigore della sua sostanza, cioè dalla salvaguardia della persona umana che è, secondo la felice formula rosminiana, «il diritto umano sussistente, quindi anco l’essenza del diritto»[18], poiché, in sostanza, non può darsi realmente diritto contro la persona essendo questa l’orizzonte di senso dell’intera fenomenologia giuridica.

Occorre, en passant, ricordare come, tuttavia, per una specifica corrente di pensiero, definibile come “funzionalista”, si ha dignità di persona soltanto se si è in grado di svolgere le facoltà razionali.

In questo senso John Locke, per esempio, ritiene che sia persona soltanto l’individuo capace di auto-consapevolezza: «Per scoprire in che cosa consiste l’identità personale noi dobbiamo considerare che cosa significa la parola persona: un essere, io credo, intelligente e pensante, capace di ragionare e di riflessione, che può considerare se stesso come tale, come la medesima cosa pensante in differenti luoghi»[19].

Ne consegue che quanti non possono esercitare tali facoltà e funzioni non sono persone e non posseggono una dignità personale, come per esempio i malati psichiatrici, i neonati, e tutti gli altri che non possono, anche soltanto temporaneamente, utilizzare le energie intellettive.

Si dimentica, però, con la appena predetta prospettiva, che la dignità non è qualcosa che si acquista o si perde o si modula secondo le qualità, gli attributi e le funzionalità esperibili dall’essere umano, ma è l’espressione della dimensione ontologica del diritto all’esistenza e dell’esistenza stessa del diritto, in quanto, come ha ricordato Robert Spaemann, «la persona non è un aggregato degli stati attraverso i quali passa; è piuttosto la stessa identica persona che passa attraverso quegli stati»[20].

Ecco perché «l’onnipotenza dello Stato e l’immanenza del potere devono arrestarsi dinnanzi all’eminenza della dignità della persona»[21], che come tale non può mai essere ridotta al suo mero sostrato biologico[22], o perfino reificata, poiché, come ha insegnato Emmanuel Mounier, «la persona non è l’oggetto più meraviglioso del mondo»[23].

In questo senso la dignità umana è qualcosa che possiedono tutti gli esseri umani prescindendo dallo stadio di sviluppo in cui si trovano (embrione, feto, nato, malato, anziano, cadavere), e dalle funzioni che possono interamente o parzialmente, temporaneamente o definitivamente, esercitare o meno, poiché pertiene alla dimensione costitutiva dell’essere umano la quale, essendo appunto ciò che è, non può subire una deminutio né una compressione in ragione dei fenomeni transeunti dell’esistenza.

 

  1. Problematiche biogiuridiche

 

La relazione tra diritto successorio e problematiche biogiuridiche emerge nel momento in cui si considerano alcune situazioni che intersecano le due dimensioni.

Le tematiche da analizzare potrebbero essere molteplici: la configurabilità e i limiti contenutistici e redazionali di un testamento biologico (specialmente alla luce della nuova disciplina introdotta in Italia con la legge n. 219/2017)[24]; i limiti della disposizione del proprio corpo post mortem anche tramite clausole testamentarie in aderenza agli articoli 9 e 32 della Costituzione[25]; la eventuale vendita di organi post mortem (per adesso senza dubbio impedita da una contrarietà a norme imperative, ma in prospettiva verosimile considerando il sempre più pressante movimento internazionale teso ad una legalizzazione in tal senso)[26];  la fecondazione post mortem[27], cioè l’inizio di una gravidanza dopo la morte del de cuius che magari ha cristallizzato il proprio consenso nelle rituali formule testamentarie[28]; infine, la ereditabilità dei gameti e degli embrioni crioconservati, come rimedio per la tutela del diritto alla salute (con finalità eugenetiche o meno)[29].

In questa sede, visti i limiti di spazio e di tempo, si tenterà di esaminare l’ultima circostanza, cioè la ereditabilità degli embrioni e dei gameti crioconservati che risulta essere un tema paradigmatico per la comprensione reale delle tensioni che si stanno venendo a creare per l’incedere costante del progresso tecnico tra l’unitarietà del fenomeno successorio da un lato e la tutela della dignità della vita umana dall’altro.

A tale scopo è necessario prendere le mosse dalle risultanze della periodica Relazione ministeriale al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 40/2004 in tema di procreazione medicalmente assistita, Relazione dalla quale risulta che, per esempio, nell’anno 2016 «aumentano quasi del 20.0% gli embrioni crioconservati successivamente alla loro formazione, nonostante diminuiscano quelli formati e trasferiti. Nel dettaglio: in totale nel 2015 sono stati formati 111.364 embrioni (-1.199 rispetto al 2014, pari a -1.0%). Di questi sono stati trasferiti 76.864 (6932 in meno rispetto al 2014, pari a – 8.3%), e crioconservati 34.490 (+ 5733 rispetto al 2014, pari a +19.9%)»[30].

Da questi dati emerge non soltanto il numero degli embrioni crioconservati, ma anche che tale prassi è in aumento, specialmente, come la stessa Relazione ministeriale più avanti ammette, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 151/2009 che ha eliminato il limite numerico di massimo tre embrioni da formare come sanciva la formulazione originaria della legge 40/2004.

Non si può fare a meno di notare che essendo più di 34.000 gli embrioni crioconservati e non trasferiti, con un aumento del 20% rispetto alla precedente rilevazione, si porranno molto presto problematiche di carattere successorio che riguardano tali embrioni, poiché se quella presente è la generazione che li crioconserva, la prossima sarà la generazione che dovrà scongelarli ricevendoli verosimilmente in eredità.

Ed è qui che si pongono i dilemmi etici e giuridici in genere e di carattere successorio in particolare.

Alcuni interrogativi, infatti, s’impongono: gli embrioni crioconservati sono ereditabili? Devono essere considerati parte dell’asse ereditario parimenti a qualunque altro bene in esso conferito? Che tipi di diritti si possono vantare su di essi? Che tipi di diritti può vantare specialmente il vocato all’eredità? Che tipi di doveri? Quale la loro sorte esistenziale e giuridica in caso di eredità giacente o in caso di eredità vacante con conseguente successione a favore dello Stato?

Ma su tutte le predette questioni emerge la seguente: in considerazione della natura dell’embrione, potrebbe il vocato voler e poter accettare soltanto l’asse biologico della massa ereditaria rifiutando, contemporaneamente, quello patrimoniale?

Potrebbe, in altri termini, il vocato scegliere, in virtù della particolare natura degli embrioni,[31] oppure per rivendicare un diritto alla continuità biologica endofamiliare, o perfino un diritto alla fraternità (per esempio tramite lo sviluppo con maternità surrogata o utero artificiale – in prospettiva – dell’embrione crioconservato creato con il materiale biologico dei genitori defunti della cui eredità si tratta per dar vita ad un fratello o ad una sorella) rifiutare il coacervo patrimoniale accettando all’un tempo soltanto la successione degli embrioni (o dei gameti) crioconservati?

La rigidità del principio di unitarietà del fenomeno successorio, che pur trova una sua fondatissima ragion d’essere nella coerenza interna della dinamica successoria e dell’ordinamento nel suo insieme, potrebbe, dunque, subire un contemperamento e una contrazione in virtù del sovrastante e senza dubbio superiore principio di tutela della dignità della vita umana, ancorché non nata, ma già concepita (a cui l’ordinamento peraltro riconosce e riserva espressamente delle “capacità” ereditarie e dei benefici giuridici, per esempio, ex artt. 462 o 784 Codice Civile)?

Del resto, se si ammettono casi in cui viene ad essere considerato il nascituro non concepito, a maggior ragione si dovrà considerare la questione dell’embrione crioconservato che è, senza fuor di dubbio, un nascituro concepito[32].

A tal proposito occorre precisare in via preliminare che per quanto la legge 40/2004 sia stata a più riprese modificata e amputata da un decennio di pronunce di legittimità costituzionale, nessun intervento giurisdizionale ha mai infranto l’integrità del principio ispiratore di fondo dell’intera sua struttura normativa cristallizzato nella formulazione del suo articolo 1 che riconosce espressamente e tutela i «diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».

Del resto, anche la stessa Corte costituzionale che in più sentenze ha riscritto la legge 40/2004, ha specificato che l’embrione in genere e quello crioconservato in particolare non può essere considerato semplice materiale biologico tanto che anche gli embrioni malati devono essere tutelati così da non essere sottoposti a soppressione[33].

Con la sentenza n. 229/2015 la Corte costituzionale, infatti, ritenendo legittimo il divieto della legge 40/2004, ribadisce che al di fuori dei casi previsti per la tutela della salute della donna quale circostanza legittimante un affievolimento della predetta tutela dell’embrione medesimo,[34] quest’ultimo non può essere distrutto, soppresso o considerato come mera res: «Il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista».

Da tutto ciò fin qui considerato, dunque, si deduce che nel caso di embrioni crioconservati destinati ad essere oggetto di successione – testamentaria, legittima, necessaria – non si possono considerare res paragonabili alle altre res dell’asse ereditario richiedendo dunque una disciplina diversa – tutt’oggi ancora non espressamente presente – che potrebbe prospettare la necessità di far breccia – almeno in quest’unico caso – nel principio di unitarietà del fenomeno successorio per garantire la tutela del superiore principio di dignità umana degli embrioni crioconservati.

Alla luce di questa nuova prospettiva il vocato, pur facendo salve le norme e i divieti in relazione alla maternità surrogata già di per se stessa contraria alla dignità umana[35], per risolvere i problemi della quale in tale contesto si potrebbe pensare al ricorso all’istituto dell’adozione degli embrioni crioconservati, dovrebbe poter accettare l’asse biologico rifiutando quello patrimoniale ordinario, non già perché vi sia una duplicazione della delazione in ragione dell’objectum successionis, quanto piuttosto perché, in considerazione della natura etico-giuridica degli embrioni medesimi, questi ultimi non possono essere considerati ricadenti all’interno della delazione ordinaria, per cui un qualunque atto di accettazione o disposizione sui medesimi (per es. trasferimento in utero per inizio di una gravidanza) non dovrebbe costituire un caso di accettazione tacita o parziale in grado di attivare gli automatismi codicisticamente contemplati per tali evenienze.

Se dunque la tutela costituzionale dell’embrione si affievolisce dinnanzi alla superiore tutela della salute della donna come accade nel caso dell’interruzione volontaria della gravidanza, non si trova ragione giuridica sufficientemente adeguata per poter escludere che la tutela del principio di unitarietà del fenomeno successorio – di natura ordinariamente patrimoniale – non debba a sua volta “affievolirsi” dinnanzi alla superiore tutela della dignità dell’embrione il quale, quindi, dovrebbe poter seguire un binario successorio “parallelo” rispetto a quello comune in ragione della sua natura che non lo rende identificabile come una qualunque mera res.

 

  1. Conclusioni

 

In conclusione, non si può fare a meno di notare quanto ancora siano attuali le riflessioni iniziali a proposito delle tensioni che si registrano tra gli interrogativi che la realtà in evoluzione pone e la necessità di saper giungere all’acquisizione per il giurista di quella prudenza fondamentale necessaria per poter dare una risposta che sia effettivamente giuridica, cioè per poter ius-dicere.

Si evince con cristallina chiarezza quanto a volte sia opportuno mitigare la rigidità di alcuni principi in favore di altri superiori, così che sembra senza dubbio verosimile, prudente e giuridicamente fondata la prospettiva di dover ammettere il caso della successione degli embrioni crioconservati quale unica eccezione al principio di unitarietà del fenomeno successorio, e proprio in virtù di quella dignità umana che informa l’entità dell’embrione (a differenza di qualunque altra res della massa ereditaria) e che per motivi di giustizia gli deve essere riconosciuta anche nelle particolari circostanze della dinamica ereditaria.

Se così non fosse, oltre all’incombenza di dover comprendere come regolare il problema degli embrioni crioconservati nel fenomeno successorio, ci si infrangerebbe bruscamente contro quella antica, ma mai sopita sapienza giuridica che aveva insegnato e che ancora insegna a saper distinguere il diritto dalla giustizia, poiché, talvolta, il rispetto dello stretto diritto può comportare l’esecuzione di una terribile ingiustizia: «Summum ius summa iniuria»[36].

 

* Contributo sottoposto a valutazione.

 

[1] «L’umanità, malgrado lo smarrirsi delle sue origini nel tempo, è ancora bambina e il diritto ha rispetto ad essa la precisa funzione di un apparato ortopedico», in F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Camerino, 1998, p. 22.

[2] «Per sua essenza la Tecnica è disintegrazione della struttura delle cose al fine di ridurle, prive di forma propria, a pura energia quantitativa consegnabile alla piena disponibilità dell’uomo; la Tecnica allora è espressione radicale dell’oblio dell’essere, presente anche nell’essere e nel destino delle cose […]. L’individuo si ritrova perciò consegnato all’universo della separazione: separato dalla natura, dagli altri, dall’essere», in S. Cotta, L’uomo tolemaico, Rizzoli, Milano, 1975, pp. 140-141.

[3] Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Bari, 2008.

[4] K. Jaspers, La situazione spirituale del tempo, Jouvence, Roma, 1982, p. 62.

[5] G. Capozzi, Successioni e donazioni, Giuffrè, Milano, 2009, p. 234.

[6] G. Grosso-A. Burdese, Le successioni. Parte generale, Utet, Torino, 1977, p. 273.

[7] «Una stessa persona può essere chiamata alla successione per distinti titoli; e cioè, come erede testamentario, come erede legittimo, come erede legittimario (necessario)[…]. Si ha concorrenza nella stessa persona di delazioni distinte quando esse riguardano quote distinte dello stesso asse per titoli diversi», in A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità, Giuffrè, Milano, 1954, pp. 61-62.

[8] Corte Cass. n. 9513/2002.

[9] Corte Cass. n. 1933/1993.

[10] L. Ferri, Successioni in generale, Zanichelli, Bologna, 1964, pp. 216-217.

[11] «Con l’accettazione il fenomeno successorio si conclude definitivamente. L’accettazione, infatti, salvo che essa risulti invalida per qualche ragione ha sempre carattere definitivo, nel senso che si tratta di un “atto non ritrattabile”: semel heres, semper heres», in  M. Calogero, Disposizioni generali sulle successioni, Giuffrè, Milano, 2006, p. 171.

[12] «Nel caso di devoluzione di eredità in favore dello stesso soggetto, in parte per testamento ed in parte per legge in forza della coincidenza del chiamato per testamento con il chiamato per legge, si ha una unica delazione ancorché complessa», in G. Capozzi, op. cit., pp. 236-237.

[13] G. Perlingieri, L’accettazione dell’eredità dei cosiddetti chiamati non delati, in Famiglia, Persone e Successioni, giugno 2009, p. 505.

[14] G. Capozzi, op. cit., p. 237.

[15] Corte Cass. n. 12575/2000.

[16] D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1969, p. 137.

[17] «Lex esse non videtur quae iusta non fuerit», in Agostino (Sant’), De libero arbitrio, I, 5, 11.

[18] A. Rosmini, Filosofia del diritto, Giuffrè, Milano, 1961, p. 222.

[19] J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Fabbri Editori, Milano, 1996, p. 111.

[20] R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, Lindau, Torino, 2011, p. 63.

[21] A. R. Vitale, Cristianesimo e diritto. Sull’anima della civiltà giuridica occidentale, Algra Editore, Catania, 2017, p. 45.

[22] «L’uomo non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale», in N. Berdjaev, Schiavitù e libertà dell’uomo, Bompiani, Milano, 2010, p. 105.

[23] E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 2006, p. 30.

[24] Ex plurimis si veda:  G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e il testamento biologico, in Vita notarile, n. 1/2007, pag. 3-9; L. Palazzani, Il testamento biologico: riflessioni biogiuridiche, in Divinitas, n. 1/2011, p. 111-121.

[25] Comitato Nazionale per la Bioetica, Donazione del corpo post mortem a fini di studio e ricerca, 19 aprile 2013.

[26] A. Matas, Incentives for organ donation: proposed standards for an internationally acceptable system, in American Journal of Transplantation, n. 12/2012 pp. 306–312.

[27] G. Cassano, Diritto di procreare e diritto del figlio alla doppia figura genitoriale nella inseminazione artificiale post-mortem, in Famiglia e diritto, n. 41/1999, pp. 384-393; A. Schuster, Quale riconoscimento per la fecondazione post-mortem? Commento a Astrue v. Capato, in Quaderni costituzionali, n. 4/2012, pp. 886-889.

[28] Per una più ampia disamina cfr. A. R. Vitale, I diritti di fine vita come problema biogiuridico, in Medicina e Morale, n. 1/2018.

[29] A. R. Vitale, Il diritto alla salute tra selezione eugenetica e dignità della persona, in Medicina e Morale. Rivista internazionale di bioetica, 3/2017, pp. 345-369.

[30] Cfr. https://rb.gy/e2te3u, p. 14.

[31] «Nessuna proposta ontologica colloca l’embrione sul piano delle cose, dal momento che la sua stessa natura materiale e biologica lo colloca fra gli esseri appartenenti alla specie umana», in Comitato Nazionale per la Bioetica, Identità e statuto dell’embrione umano, 22 giugno 1996, p. 16.

[32] «La legge ammette, in casi determinati, la conservazione e l’attribuzione di diritti per l’evento della nascita anche a favore del nascituro non concepito, sebbene qui manchi pur quel minimo substrato naturalistico che è nel concepimento. La diversità della realtà naturale si riflette nella disciplina giuridica», in F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, Napoli, 2002, p. 27.

[33] «Deve escludersi che risulti, per tali profili, censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di “soppressione di embrioni”, ove pur riferita – ciò che propriamente il rimettente denuncia – agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. Anche con riguardo a detti embrioni, la cui malformazione non ne giustifica, sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani creati in “numero[…] superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto”, ex comma 2 del medesimo art. 14, nel testo risultante dalla sentenza n. 151 del 2009, si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico», in Corte costituzionale n. 229/2015.

[34] «Con la citata sentenza n. 151 del 2009, questa Corte ha già, del resto, riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.; e l’ha bensì ritenuta suscettibile di «affievolimento» (al pari della tutela del concepito: sentenza n. 27 del 1975), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti», in Corte costituzionale n. 229/2015.

[35] Cfr. A. R. Vitale, Escursioni biogiuridiche in tema di maternità surrogata, in Medicina e Morale, 2016/2; A. R. Vitale, Il diritto alla salute tra selezione eugenetica e dignità della persona, in Medicina e Morale, 2017/3; A. R. Vitale, Profili problematici della maternità surrogata, in L’arco di Giano, 93/2017; A. R. Vitale, Comparing feminist and catholic opposition to surrogacy, in The National Catholic Bioethics Quarterly, 4/2017; A. R. Vitale, Rilievi biogiuridici su onerosità e gratuità della maternità surrogata, in L-JUS, 1/2018.

[36] Cicerone, De officiis, Utet, Torino, 2009, I, 33, p. 596.