Marianna Orlandi
Dottore di ricerca
Direttore esecutivo dell’Austin Institute per lo studio della famiglia e della cultura
 

 

Se l’educazione è veramente la questione più grande, allora senz’altro la vita domestica è la questione più grande; e la vita in ufficio o il commercio la questione meno importante[1].

G.K. Chesterton 

 

Questa frase di G.K. Chesterton, scritta nel 1923, è probabilmente la migliore introduzione al mio intervento. Un intervento che, lo confesso, mi è costato sacrificio in termini di redazione. Non solo i temi della famiglia e dell’educazione nella e alla famiglia, di cui mi occupo ogni giorno per lavoro, sono complessi e pieni di sfaccettature; a rendere la faccenda più complicata vi è che un qualsiasi lavoro di comparazione, quale è quello che mi accingo a presentare, richiede comprensione e sintesi di ogni aspetto storico, culturale e di costume che contraddistingue le nazioni, i paesi, i popoli a confronto. Non nascondo di aver spesso pensato, mentre scrivevo questo testo e mentre cercavo disperatamente di riassumerne i contenuti, al capolavoro in tema comparatistico che è l’ancora insuperabile ma decisamente voluminoso Democrazia in America di Tocqueville. Prometto, tuttavia, che resterò all’interno del tempo concessomi, scusandomi per tutto ciò che ho dovuto omettere. Ironico, peraltro, che il lavoro che a tutt’oggi meglio descrive virtù e difetti europei e statunitensi, anche in tema di famiglia e di istruzione, sia stato scritto proprio da un giurista, la cui primigenia intenzione era quella di osservare il sistema penitenziario di oltreoceano. Formata in Italia come penalista, mi propongo quindi anche io di abbozzare qualche pensiero sulle lezioni apprese in tema di famiglia durante i miei anni di studio e di lavoro negli Stati Uniti.

In particolare, scopo del mio intervento è sottolineare l’importanza, per la rinascita della famiglia, della libertà educativa, e di una educazione che prima di tutto rimetta i genitori al centro: detentori primari di questo ruolo e solamente aiutati dallo Stato nell’adempimento del proprio compito. Ritengo questa una delle più importanti “best practices” da me osservata nel corso degli ultimi anni, fondamentale per la rinascita della famiglia e indispensabile difesa contro derive ideologiche di ogni forma e colore. Una libertà che, tuttavia, è ampiamente assente in Italia, da troppi decenni.

 

La libertà educativa e la sua centralità in terra statunitense

 

Nel suo recente intervento, la Professoressa ha indicato che quel che sembra essere costante nella vita delle famiglie numerose americane sia la libertà religiosa, dei singoli e delle famiglie. Una libertà capace di contribuire a un alto tasso di natalità molto più di quanto non facciano gli incentivi statali. Ebbene, lungi dallo smentire tale tesi, il mio intervento la conferma. L’importanza della libertà educativa, infatti, sta nel fatto che la prima non sopravvive senza la seconda.

Al fine di giustificare questa affermazione, e volendo vestire nuovamente i panni della giurista – dismessi da qualche tempo, ma pur sempre miei – sottopongo anzitutto alla vostra attenzione una famosissima sentenza della Corte Suprema americana del 1972: la sentenza Wisconsin v. Yoder[2], famosa in tema di libertà religiosa, ma emblematica per il tema che mi occupa.

Il caso specifico riguardava il diritto asseritamente costituzionale dei membri di una comunità Amish di educare i propri figli conformemente al proprio credo religioso ma in violazione di una legge del Wisconsin secondo la quale l’educazione formale era obbligatoria fino a 16 anni. I genitori dei ragazzi coinvolti nel caso avevano invece smesso di mandare i propri figli a scuola una volta completato l’ottavo anno di istruzione, avvenuto per due di essi a 15 e per uno a 14 anni. Compito della Corte era dunque quello di bilanciare i “police powers” dello stato (ovvero i poteri di ordine pubblico) ed il diritto di libertà religiosa dei singoli, garantito dal primo emendamento della costituzione americana. Secondo i genitori, infatti, la protratta frequentazione della scuola pubblica superiore era contraria alla religione ed al modo di vivere della comunità Amish. La scuola pubblica, in particolare, insegnava ai ragazzi valori del mondo secolare: enfatizzando l’apprendimento scientifico e tecnologico, il prestigio personale, la competitività, il successo. Per gli Amish, invece, i valori erano quelli dell’apprendimento attraverso il fare, di una vita di buone opere anziché di intelletto, della saggezza al posto del sapere tecnico, del bene comune anziché della competizione e della segregazione dal mondo esterno anziché dell’integrazione[3].

La conclusione della Corte, che ad una prima lettura mi scioccò, fu la seguente: lo Stato non poteva arrogarsi il diritto di decidere in loco parentis ed estendere ai loro figli il beneficio di una educazione secondaria contrariamente al loro volere. La legge statale non poteva violare un rifiuto dei genitori basato su un legittimo e dimostrato diritto di libertà religiosa ove si fosse dimostrato che la diversa scelta educativa dei genitori non danneggiava la salute fisica o mentale del ragazzo né risultava nell’incapacità di quest’ultimo di provvedere a se stesso e di adempiere alle responsabilità ed ai doveri di cittadino, o in qualsiasi altro modo gli impedisse di godere dei benefici di uno stato sociale[4].

Lo ripeto: la prima volta che lessi questa sentenza restai scioccata. Orgogliosissima del mio liceo classico, conscia dell’alto livello dell’educazione statale italiana, e forse confusa quanto al significato della laicità dello Stato, mi chiedevo, in particolare, come potesse uno stato concedere ai genitori una tale libertà. A distanza di quindici anni, tuttavia, comprendo che la domanda era mal posta, frutto di un errore. Era la domanda di un’italiana poco formata in tema di diritto naturale e di scienza politica, incapace di riconoscere non solo il primario ruolo educativo dei genitori (che non ricevono poteri in tal senso dallo Stato, semmai li delegano), e con esso la centralità della vita domestica di cui parla Chesterton; ma anche il rischio di dittatura ideologica che contraddistingue qualunque forma centralizzata del sapere.

Anche a prescindere dalla natura religiosa del conflitto, il principio del primario ruolo parentale nella cura, custodia, ed educazione dei figli era stato affermato dalla giurisprudenza americana molto prima del 1972. Già nel 1925, nel caso Pierce v. Society of Sisters[5], la Corte Suprema affermava, in particolare, che «il figlio non è mera creatura dello stato; coloro che lo accudiscono e ne dirigono il destino hanno il diritto, cui corrisponde l’alto dovere, di riconoscere e di prepararlo per i suoi ulteriori obbligh[6]. In Stanley v. Illinois, decisa anch’essa nel 1972, la stessa Corte affermava il diritto fondamentale dei genitori «alla compagnia, cura, custodia e direzione» dei propri figli. Nella già citata Wisconsin v. Yoder si legge testualmente che «La storia e la cultura della civiltà occidentale riflettono una forte tradizione del ruolo parentale nella cura e nell’educazione dei propri figli. Questo ruolo primario dei genitori nell’educazione dei figli è oggi stabilito ed è fuori discussione quale perdurante tradizione americana»[7].

Sulla base di questi principi e di queste pronunce, l’America è oggi ricca di scuole e di sistemi di istruzione che in Italia risultano impensabili (e illegali). Scuole i cui programmi riflettono i valori ed i principi di chi le ha istituite e dei genitori che le scelgono. Scuole in cui non necessariamente si sta in classe tutti i giorni, in cui non ci sono materie obbligatorie o programmi ministeriali da rispettare. Se ci sono esami, sono esami di ammissione: per chi voglia frequentare le scuole migliori e l’università; e di abilitazione professionale. In Texas, per esempio, l’obbligo scolastico va dai 6 ai 19 anni[8]. Ma tutto quel che si chiede è che i genitori garantiscano che i loro figli sappiano «leggere, scrivere, conoscere la grammatica, far di conto (per usare un’espressione nostra antica)» ed «essere buoni cittadini»[9]. Non solo non esistono orari o giornate obbligatorie: ma non ci sono nemmeno autori, filosofi, o artisti che debbano obbligatoriamente far parte del curriculum.

Grazie a questa libertà, che è sempre sinonimo, se reale, di responsabilità, i genitori tornano ad essere educatori. Essi possono scegliere la scuola pubblica, ovviamente; ma se per qualche motivo non la ritengono adatta, possono scegliere tra scuole private che si competono gli studenti non in base alla esoticità della gita di fine anno, ma in base alla ricchezza del curriculum, e soprattutto alla possibilità che esso preveda o meno un’educazione affine a quella che i genitori vogliono impartire. Un’educazione che, magari, preveda anche la valorizzazione della vita umana dal concepimento alla morte naturale e della natura procreativa del matrimonio. Educazione conforme, in altri termini, al fiorire di nuove e giovani famiglie. Scuole e genitori, che possono anche optare per l’homeschooling, sono liberi di insegnare la storia dell’arte durante un viaggio in Europa; la geometria nel corso di un unico anno; la biologia utilizzando documentari. La scelta, in altri termini, non è dello Stato, e non è predeterminata. Personalmente, ho pensato a quanto più facile mi sarebbe stato imparare il greco se ad insegnarmelo fosse stato mio padre e a quanto più stretto sarebbe oggi il nostro legame. In termini più generali, penso a quanti adolescenti beneficerebbero di un più approfondito studio di Aristotele, magari leggendone direttamente i testi anziché i compendi; e a quanti di noi non avessero alcun bisogno di leggere Sartre e Nietzsche nel momento stesso in cui cominciavamo a capire il miracolo della nostra stessa esistenza.

 

La mancanza di libertà educativa in Italia ed il rischio delle ideologie

 

Tornando a Chesterton − secondo il quale «se glorificate l’educazione, dovete glorificare con essa il potere dei genitori. Se ingigantite l’educazione, dovete ingigantire con essa il potere dei genitori» − potremmo dire che l’Italia ha urgente bisogno di rileggere i suoi scritti. Nel nostro Paese, il diritto all’istruzione, garantito dall’articolo 34 della Costituzione, ha del tutto oscurato quel “dovere e diritto” (sic!), rendendolo forse solo dovere, dei genitori di istruire ed educare i figli, previsto dall’articolo 30 della medesima Carta. Diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, il nostro sistema scolastico, fortemente centralizzato, prevede curricula estremamente dettagliati, totalmente controllati dal Ministero. L’educazione genitoriale è allora poco più che una locuzione retorica, interamente sostituita, con minima possibilità di voce in capitolo, dalla frequentazione di istituti che trasmetteranno la cultura che lo stato riterrà più opportuna. Anche scegliendo scuole private, libri e programmi cambiano limitatamente. E mentre aumentano i costi (la scuola privata costa!), non aumentano le ore che i figli trascorreranno con madri e padri. Forse sono queste le uniche vere vestigia dello Stato fascista, uno Stato che concede ai genitori italiani di “colorare entro i margini,” ma mai di scegliere realmente quel che è meglio per i propri figli. Ci pensa lo Stato: quasi che i figli fossero suoi.

Se questa è assenza di libertà educativa, come mi pare difficile negare, non stupisce allora così tanto la forte denatalità di un paese “cattolico”. Non stupisce, in particolare, ricordando come almeno dagli anni ‘70 ad oggi la stragrande maggioranza dei nostri esponenti politici, di ogni partito, abbia abbracciato, difeso e promosso un’idea di pari dignità della donna che si riduce all’averle chiesto di rinunciare a quel che più la rende insostituibile: la propria maternità.  Non sorprende se con onestà guardiamo come il nostro Paese, statalista, ha trattato ogni forma di istruzione libera e privata: con scetticismo e ostilità. Non sorprende se ammettiamo che il nostro welfare state non ha mai goduto di un governo realmente liberale: in cui al centro stiano l’individuo e la sua famiglia.

Non si tratta allora di suggerire alle scuole italiane di cambiare i propri programmi, rendendoli più “family friendly”. Qualunque forma centralizzata del sapere, per quanto benintenzionata, è veicolo di ideologia e come tale non ci mette al riparo da derive autoritarie e illiberali. In effetti, qualunque politica di controllo statale sulla famiglia e sull’educazione dovrebbe metterci in guardia. Prendiamo, ad esempio, il famoso caso della Russia comunista, nella quale l’obiettivo disintegratore della famiglia era chiaro ed esplicito (ostacolo al cambiamento sociale desiderato)[10]. Come molti forse sanno, l’indebolimento della famiglia passò anzitutto attraverso la massima liberalizzazione di divorzio e aborto, quasi eliminando il ruolo del matrimonio; ed a questi seguì immediatamente l’obbligo di educazione dei figli al di fuori dalla famiglia. Tramite le scuole pubbliche, ed in aggiunta alla distanza dei figli dai genitori e dalla loro influenza ed al controllo di ciò che si insegnava, il regime otteneva anche una nuova forma di segregazione: quella delle diverse fasce di età. Una segregazione capace di recidere i legami tipici della famiglia, che sono per natura intergenerazionali[11]. L’istruzione non si fondava più sul sapere passato, sulla tradizione; ma diventava tutta presente ed asservita agli scopi del momento. Preme sottolineare, tuttavia, che la stessa Russia comunista, una volta accortasi dello sfacelo causato dal calo delle nascite, dal diffondersi di una classe di bambini orfani, e dal propagare della prostituzione, non tardò ad abbracciare politiche quasi opposte, che includevano pubblici riconoscimenti alle “madri eroine”: ovvero alle donne che avessero partorito molti figli[12].

La proposta che avanzo non è di programmi statali più family friendly. Tantomeno credo si tratti di permettere alla donna di delegare ad altri l’educazione della prole, aumentando la spesa per i servizi pubblici. L’obiettivo è quello di rimettere la famiglia a capo della scelta. La libertà “religiosa” di cui parlava la professoressa Pakaluk, che sembra motivare le scelte delle famiglie numerose, non può esistere o continuare ad esistere se quel che gli adulti possono decidere e insegnare vale solamente per sé stessi; se madri e padri solo tangenzialmente possono influire sulle idee dei propri figli in tema di famiglia e matrimonio, trascorrendo con loro poche ore prima e dopo la scuola, e nei ritagli di tempo tra i compiti per casa. Quel che la schizofrenia della politica statale sovietica mi sembra evidenziare è che non esistono una cultura o una politica realmente pro-famiglia se non dove la famiglia stessa sia davvero, come riconosciuto dalle carte internazionali (che ormai si citano quasi solo a sproposito), nucleo fondamentale della società umana. La famiglia è libera dove e quando responsabile: dove decide quel che è bene per sé stessa e per i propri membri; sia pur, ovviamente, avendo a cuore il bene comune e pertanto nei limiti dell’ordine pubblico.

Le nuove politiche educative dovrebbero, a mio parere, far pace con l’idea che non si tratta di scegliere tra stato o famiglia, ma di riconoscere le rispettive sfere di autorità. Ciascuno di noi appartiene direttamente ed immediatamente alla società familiare: prima responsabile del benessere e dell’educazione dei figli; e solo indirettamente allo stato, responsabile dell’educazione civica dei singoli e solo sussidiariamente chiamato a sostituire l’autorità parentale in caso di abusi o di abbandono[13].

 

Riflessioni conclusive

 

Per chiudere questo intervento, che spero possa essere una provocazione per i politici in sala ed uno spunto che li inviti a pensare in termini davvero nuovi − e davvero liberali − alla famiglia ed all’educazione, mi piacerebbe ricordare, anche in onore del Beato Livatino, le parole di un pontefice in tema di educazione. Parole di cui forse troppi di noi si sono dimenticati, e troppo a lungo.

«La famiglia ha dunque immediatamente dal Creatore la missione e quindi il diritto di educare la prole: diritto inalienabile, perché inseparabilmente congiunto con lo stretto obbligo; diritto anteriore a qualsiasi diritto della società civile e dello Stato, e quindi inviolabile da parte di ogni potestà terrena» (Divini Illius Magistri, Pio XI, 1929).

A mio parere, l’esempio statunitense suggerisce che per frenare il calo delle nascite e risollevare i destini della famiglia, per crescere figli che in essa credano e per i quali la natalità sia un dono, padri e madri italiani debbono occuparsi quotidianamente di tutto quel che i propri figli leggono, studiano e scrivono; e non solamente nelle ore di educazione sessuale.

[1] Cfr. G.K. Chesterton, Turning Inside Out, in Fancies and Fads, 1923.

[2] US Supreme Court, Wisconsin v. Yoder. (n.d.). Oyez. 406 U.S. 205 (1972).

[3] «La scuola superiore tende a enfatizzare i risultati intellettuali e scientifici, l’autodistinzione, la competitività, il successo mondano e la vita sociale con altri studenti. La società Amish enfatizza l’apprendimento ‘attraverso il fare’ informale; una vita di “bontà”, piuttosto che una vita di intelletto; saggezza, piuttosto che conoscenza tecnica; benessere della comunità, piuttosto che concorrenza; e separazione dalla, piuttosto che integrazione con, la società mondana contemporanea» Id., p. 406 U. S. 211.

[4] Id., p. 234: «I dati indicano con forza che accogliere le obiezioni religiose degli Amish rinunciando a uno, o al massimo due anni aggiuntivi di istruzione obbligatoria non comprometterà la salute fisica o mentale del bambino né comporterà l’incapacità di essere autosufficiente o di dimettersi. i doveri e le responsabilità della cittadinanza, o che in qualsiasi altro modo vadano a sminuire materialmente il benessere della società».

[5] U.S. Supreme Court, Pierce v. Society of Sisters, 268 U.S. 510 (1925).

[6] Id, p. 535: «Il bambino non è la semplice creatura dello Stato; coloro che lo allevano e dirigono il suo destino hanno il diritto, unito all’alto dovere, di riconoscerlo e prepararlo ad ulteriori obblighi».

[7] Wisconsin v. Yoder, cit., p. 232: «La storia e la cultura della civiltà occidentale riflettono una forte tradizione di preoccupazione dei genitori per la cura e l’educazione dei propri figli. Questo ruolo primario dei genitori nell’educazione dei propri figli è ormai stabilito senza alcun dubbio come una tradizione americana duratura».

[8] Texas Education Code, Sec. 25.085: «Frequenza scolastica obbligatoria. (…) (b) A meno che non sia espressamente esentato dalla Sezione 25.086, un bambino che ha almeno sei anni di età, o che ha meno di sei anni di età ed è stato precedentemente iscritto in prima elementare, e che non ha ancora raggiunto l’età del bambino Il diciannovesimo compleanno dovrà frequentare la scuola».

[9] Id., Texas Education Code, Sec. 25.086.: «Esenzioni. (a) Un bambino è esente dall’obbligo di frequenza scolastica se: (1) frequenta una scuola privata o parrocchiale che includa nel suo corso uno studio di buona cittadinanza». A stabilire i requisiti minimi dell’istruzione è stata da ultimo la Corte Suprema del Texas, nella decisione Tea v. Leeper, 15 giugno 1994, relativa all’homeschooling, 37 Tex.Sup.Ct.J. 968,893 S.W.2d 432.

[10] Sul punto ampiamente v. L.K. Hall, Family and the Politics of Moderation. Private Life, Public Goods, and the Rebirth of Social Individualism, Baylor University Press, 2014, pp. 24-32.

[11] Id., p. 30.

[12] Vedi C.E. Piano, Autocratic Family Policy, in Constitutional Political Economy, 2022, Springer.

[13] Ampiamente in proposito v. M. Moschella, To Whom Do Children Belong? Parental Rights, Civic Education, and Children’s Autonomy, 2016.