Anthony Borg Barthet
Giudice della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

il giudice e i suoi limiti *

 

Ringrazio anzitutto il Centro Studi Rosario Livatino e i suoi dirigenti per avermi invitato e ospitato qui a Roma per questo convegno. Enrico IV di Francia aveva detto che Parigi val bene una Messa, io direi che Roma vale molto di più, e sicuramente più della mia umile partecipazione a questo convegno.

Non ho l’intenzione di proporre a quest’assemblea qualche grande relazione accademica sulla giustizia e sul diritto. Mi limiterò, invece, a condividere con loro dei pensieri, talvolta sfuggenti e quasi mai approfonditi, che mi sono passati per la testa durante un’abbastanza lunga carriera, prima nell’Avvocatura dello Stato della Repubblica di Malta, e in questi ultimi 14 anni, come giudice alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Pensieri che riguardano il tema di questo convegno, cioè la domanda: Giudici senza Limiti?

Il quesito mi fa ricordare un pranzo di tanti anni fa a Malta, dove oltre a me partecipavano un giudice della Corte maltese di ultima istanza e un avvocato siculo-americano di una certa età, che parlava poco, ma quando parlava faceva effetto. Il giudice ad un certo punto, forse solo per fare conversazione, disse che essendo già giudice di ultimo grado da più di 10 anni, e non essendovi nessun altro grado di appello oltre i suoi giudizi, doveva sempre sforzarsi di ricordare che non era un dio nel giudizio di semplici mortali.

Il siculo-americano subito rispose: «Le consiglio, signor giudice, di cominciare ogni giornata leggendo uno o due dei suoi giudizi. Siccome le divinità sono per natura infallibili, subito si accorgerà che è umano!».

È proprio nella nostra natura umana e fallibile con tutte le sue debolezze che si trova il limite del quale un giudice, sia nazionale che internazionale, deve sempre essere conscio. Come tutti, un giudice può essere afflitto da narcisismo, mancanza di coraggio, voglia di essere popolare, pigrizia o iperattivismo.

Ma anche prendendo tutte le cautele necessarie ci saranno sempre dei casi per i quali il giudice, nell’esercizio della sua vocazione, sarà accusato di aver straripato i limiti della sua funzione, andando oltre la semplice interpretazione della legge e imponendo invece il proprio personale arbitrio.

La Corte di giustizia dell’Unione Europea, della quale ho l’onore di essere membro, è spesso accusata di superare i confini e di essere troppo attivista. Secondo i trattati la Corte ha il compito di assicurare che, nell’adempimento degli stessi trattati, la legge sia osservata. Per mezzo del rinvio di domande pregiudiziali dalle Corti degli Stati membri alla nostra Corte in Lussemburgo, abbiamo il compito e il dovere di dare un’interpretazione del diritto europeo che sia valida per e debba essere seguita in tutti gli Stati membri.

Questa procedura è intesa proprio per non avere una Babele del diritto europeo, dove si lasci a ogni sistema giuridico nazionale il compito di interpretare le norme del diritto europeo, nell’ambito delle peculiarità e tradizioni del diritto nazionale, in tal modo che invece di un diritto Europeo unico a valevole in tutti gli Stati membri, finiamo con 28 o più interpretazioni di quel diritto, nuocendo così all’unità e all’univocità del diritto nel nostro continente.

In questi casi la nostra competenza è limitata all’interpretazione della norma Europea. La legge nazionale è interpretata dal giudice nazionale che valuta anche i fatti del caso, e noi siamo legati da quell’interpretazione e da quella valutazione.

Poiché il potere di porgere un quesito pregiudiziale non è limitato alle Corti di ultima istanza, ma è esteso a tutte le Corti, può accadere che il giudice di rinvio dia un’interpretazione della legge nazionale differente da quella fornita da un altro giudice in un altro rinvio, o da quella ritenuta corretta da tutte le parti in causa. Il massimo che può fare la Corte europea in questi casi è di chiedere dei chiarimenti al giudice di rinvio: ciò fatto, l’ultima parola sarà sempre del giudice di rinvio.

Dall’altro lato è dato alla Corte europea il compito di interpretare la legge dell’Unione. E qui molte volte, non sempre giustamente – ma ammetto, delle volte, anche con valida ragione – siamo accusati di un attivismo giudiziario che va oltre i confini di quello che è lecito fare a una Corte, assumendo invece il compito del legislatore spesso lento o inattivo.

In molti studi sul diritto europeo si parla spesso del modo in cui la Corte di giustizia ha sviluppato la legge ed è stata strumentale nella costruzione dell’Europa.

Non mi sento lusingato da questi commentatori. Le legge è fatta dai trattati costitutivi e dal legislatore dell’Unione, e non è nostro compito legiferare, anche perché noi non siamo tenuti a rispondere agli elettori. Il nostro compito deve limitarsi a individuare la norma applicabile, e interpretarla e applicarla al caso in esame. Se in una vicenda concreta non si può applicare una particolare regolamentazione europea, dobbiamo resistere alla tentazione di fare delle analogie forzate, solo perché crediamo che sarebbe opportuno estendere l’applicazione di una legge e riteniamo di dover “correggere” gli “errori” del legislatore.

Detto questo, però, si deve riconoscere che non è facile applicare la legge dell’Unione senza essere accusato di attivismo.

Per prima cosa, i trattati sono redatti in modo generale da gente che normalmente redige documenti governati dal diritto internazionale pubblico e sono interpretati da Corti di diritto internazionale.

Ma la Corte di giustizia dell’Unione Europea non ha la natura di Corte di diritto internazionale col compito di interpretare i trattati. In un certo modo, come il dottor Frankenstein creò un mostro con un pensiero ed un volere indipendente e autonomo dal suo creatore, gli autori dei trattati costitutivi dell’Europa hanno creato un sistema indipendente e autonomo da loro, che prevale pur quando si trova di fronte un volere contrario e unanime di tutti gli Stati membri. Gli stessi Stati membri non hanno alcun altro rimedio che quello estremo di cambiare o modificare trattati.

In secondo luogo, pur se una grande parte della vita europea è regolata dalla legge europea, molte volte c’è carenza di norme precise che raccordino le norme generali dei trattati alle specificità del caso in esame.

C’è chi ha paragonato la situazione ad una grande centrale elettrica da un lato, e dall’altro un piccolo lumino in una piccola capanna, con il compito di trovare e individuare i fili che congiungono l’una all’altro. Ma se una cosa è retta dai trattati si devono colmare le lacune e non si può dire che non voglio decidere perché la legge non è facile da individuare.

Un altro fenomeno che richiede un certo attivismo della Corte europea è da un lato la rapidità del cambiamento della vita commerciale e privata familiare e dall’altro lato la lentezza del processo legislativo europeo e la difficoltà con cui si deve arrivare ad un consenso tra Commissione, il Consiglio con tutti gli Stati membri e il Parlamento Europeo. Molte volte l’unico modo per arrivare ad un accordo è di essere generali e nebulosi, lasciando alla Corte il compito di interpretare. Spesso ancora si devono applicare leggi formulate in un periodo pre-Internet al commercio elettronico, e per esempio individuare il Foro di competenza per cause trattando di acquisti sul net o cause riguardanti diffamazione sulla rete. Poi non è sempre facile applicare leggi fatte in periodi di prosperità economica e relativa sicurezza internazionale in un periodo di crisi e di terrorismo.

Detto tutto questo però, non dobbiamo oltrepassare i confini della causa che ci viene sottoposta. Ho imparato dagli inglesi a essere prammatico e a non tentare di inserire in un caso più di quel che è necessario per risolverlo.

I miei colleghi più mitteleuropei, specialmente quelli provenienti dal mondo accademico, sono propensi a proporre una soluzione che non regoli solo il problema del caso specifico, ma tutti gli aspetti dell’istituto per il quale è sorto il quesito.

Si spera sempre che con il mix di giudici provenienti da sistemi e tradizioni legali differenti si arrivi ad un equilibrio accettabile tra i due estremi.

Finalmente, e chiudo con questo pensiero, c’è un limite molto importante che ogni giudice deve rispettare; deve lasciare il suo ego fuori dalla causa! Non deve il giudice per narcisismo o ambizione straripare e tentare di prendere il posto del legislatore: colmata la lacuna, non deve andare oltre, non deve più preoccuparsi del seguito del suo giudizio. Il giudice deve dimenticare i pregiudizi, personali o nazionali, perché rimangono certe diffidenze tra est ed ovest e tra nord e sud della nostra Europa. Dopo più di settant’anni di pace europea rimangono tracce subconscie di periodi storici infelici.

Stare decisis. Si deve, forse, sempre tenere in mente il consiglio di quel siculo-americano che ho menzionato all’inizio, e leggere ogni tanto le nostre sentenze per ricordarci che noi siamo fallibili, abbiamo dei limiti e non siamo dei.

 

* Trascrizione della relazione svolta da Anthony Borg Barthet, giudice della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, al Convegno Giudici senza limiti? organizzato dal Centro Studi Livatino a Roma il 20 ottobre 2017, presso l’Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari.