Leonardo Giordano
Saggista e cultore di Storia contemporanea
Una riflessione sul ruolo dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI) a settant’anni dalla sua fondazione e a sessant’anni dalla tragica morte del suo fondatore, Enrico Mattei
Il 10 febbraio 2023 sono ricorsi i settant’anni dalla promulgazione della legge che istituiva l’Ente nazionale idrocarburi (ENI). Questa ricorrenza segue di poco quella concernente i sessant’anni dalla tragica morte del suo fondatore e primo presidente, Enrico Mattei (1906 – 1962), caduta il 27 ottobre 2022. La figura di Enrico Mattei è tornata, dopo decenni di “nascondimento” mediatico, ad interessare opinione pubblica e media anche a causa della crisi economica che si è accompagnata allo scoppio del conflitto tra Russa e Ucraina, nonché per le continue citazioni ed i frequenti riferimenti del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ad un «piano Mattei» finalizzato a risolvere le forti criticità che segnano un autonomo e adeguato approvvigionamento energetico per l’economia italiana.
Spesso a Enrico Mattei e alle sue politiche aziendali sono state rivolte accuse di “statalismo”. Tali accuse sono frutto di una lettura sbrigativa e superficiale dell’operato del manager e politico marchigiano. Del resto, sarebbe sufficiente ripercorrere la lunga carriera professionale di Mattei per comprendere come la questione necessiti di un approccio meno sbrigativo, scevro dai pregiudizi indotti dai luoghi comuni e più approfondito.
Mattei iniziò a lavorare, minorenne ancora, in un laboratorio artigianale che fabbricava letti in metallo come addetto alla verniciatura delle parti metalliche[1]. Successivamente fu assunto come fattorino nella conceria “Fiore” di Matelica, l’anno dopo divenne operaio, poi operaio specializzato e “aiutante chimico”, a 20 anni nel 1926, fu fatto vice-direttore e l’anno dopo divenne addirittura direttore di fabbrica[2]. Dopo la chiusura della conceria si ritrovò con ottime referenze ma senza lavoro. Cercò fortuna in quel di Milano iniziando come agente di commercio delle note aziende tedesche di coloranti, la “Max Meyer” e la “Loewenthal” e concludendo con l’apertura di una propria fabbrica chimica, “Industria Chimica Lombarda Grassi e Saponi”, nel 1931. Con la sua azienda riuscì a brevettare un composto chimico utilissimo ed innovativo in alcune operazioni industriali degli zuccherifici e fece fortuna[3].
Insomma, ne emerge la figura di un vero e proprio self made man, un uomo “fattosi da solo”, come nella più classica delle oleografie liberiste: «Era uno che si era fatto da solo, un italiano nutrito di amor di patria, di passione, uno che riteneva che la fortuna bacia i forti, convinto che bisogna sapersi arrangiare perché le cose camminano non nel senso degli interessi particolari ma generali».[4] Poteva siffatta personalità, di botto, all’improvviso, passare armi e bagagli allo statalismo? A concepire l’attività economica egemonizzata, controllata e gestita dallo Stato, nel senso socialista o addirittura marxista delle presenti espressioni?
A contatto con studiosi ed intellettuali che operavano negli anni Quaranta in Università Cattolica a Milano egli iniziò a maturare l’idea che in alcuni settori strategici dell’economia nazionale, laddove l’industria privata si presentava debole e fragile, lo Stato avesse, in funzione integrativa e sussidiaria, addirittura il dovere di intervenire, pena il perdurare di una situazione di soggezione, minorità e dipendenza dell’economia nazionale rispetto a quella di altre nazioni europee. In un discorso tenuto a Pechino il 9 dicembre 1958, Mattei ebbe ad affermare: «In considerazione di ciò, con l’ENI noi rappresentiamo la punta avanzata di un movimento, il quale si propone come fine dell’attività economica piuttosto il bene pubblico che il profitto ed assume, a seconda dei casi, una funzione sostitutiva oppure integratrice dell’iniziativa privata.[…] Si deve aggiungere che, per la sua origine programmatica, l’ENI rappresenta in Italia il modello di un ente idoneo a realizzare la coesistenza della iniziativa privata con quella statale. […] Naturalmente, una politica economica regolata dallo Stato mediante l’azione di enti economici da esso dipendenti conduce a modernizzare le strutture produttive, ma fa ulteriormente recedere il mito dell’economia di mercato, a cui il mondo occidentale non crede più, e gli sostituisce un sistema misto in cui le grandi attività regolatrici emanano dallo Stato, e le funzioni esecutive vengono affidate ai privati in perfette condizioni di uguaglianza ed elasticità»[5].
In verità la convinzione che dovesse essere lo Stato ad occuparsi pienamente di un settore così delicato, particolare e strategico, quale quello dell’energia, era già apparsa nelle vedute di Francesco Saverio Nitti (1868 – 1953) il quale, nel 1911, aveva parlato di «demanio statale» cui devolvere almeno un miliardo di lire in dotazione per «la produzione e la distribuzione governativa dell’energia»[6]. Il processo di industrializzazione sostenuto dal Governo Giolitti trovava infatti nel costo dell’energia e nella dipendenza dal carbone tedesco e britannico notevoli e, talvolta, insormontabili ostacoli. Nello stesso anno Luigi Einaudi (1874 – 1961), certo insospettabile di particolari propensioni stataliste o socialisteggianti, riconosceva l’inadeguatezza del capitalismo petrolifero privato italiano che, a fronte di risultati irrilevanti nella ricerca e nell’esplorazione petrolifera, reclamava ad ogni piè sospinto erogazioni di soldi pubblici e finanziamenti statali a sostegno delle proprie poco significative attività. L’economista teorico del laissez faire coniò il termine di «trivellatori di stato» i quali «si lagnano di dover fare delle buche troppo fonde per non trovar petrolio, e chieggono protezione allo Stato contro i produttori a buon mercato di petrolio genuino straniero»[7].
Il Fascismo cercò, con l’Agip, di dare una risposta a tale problematica con una legislazione semplice, stringata, ma sufficiente a creare le premesse per l’istituzione di un’azienda di «diritto pubblico» la cui ragione sociale consisteva nello «svolgimento di ogni attività relativa all’industria e al commercio dei prodotti petroliferi»[8]. All’uopo, all’articolo 6 del Regio Decreto istitutivo, lo Stato affidava all’A.G.I.P. il compito di «eseguire ricerche petrolifere in Italia e nelle colonie in base a programmi quinquennali da approvarsi di concerto fra i ministri per l’economia nazionale e per le finanze»[9]. Per l’occasione venivano stanziati 60 milioni di lire per la costituzione del capitale azionario della società. Per altri 20 milioni di lire di capitale sociale erano chiamati ad intervenire l’Istituto Nazionale Assicurazioni e la Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali, vale a dire due Enti previdenziali ed assicurativi pubblici. Di particolare interesse risulta l’articolo 3 del detto Decreto che riconosce all’Azienda la facoltà, ai fini di un’eventuale ricapitalizzazione, di poter far ricorso ad «apporti di singole attività mobiliari o immobiliari in possesso dell’amministrazione stessa»[10]. Prerogative del genere furono riconosciute anche all’Eni in virtù degli articoli 3 e 4 della legge istitutiva dell’Ente, n. 556 del 10 febbraio 1953.
Non è il caso di esaminare in questa sede i risultati prodotti dalle attività dell’Agip fascista. Preme però sottolineare la costituzione in quell’azienda di una competente tecnostruttura e di un patrimonio di ricognizioni e conoscenze con relativa mappatura dei giacimenti di idrocarburi in Italia, delle quali gli stessi Americani erano alla spasmodica ricerca e che costituiranno il non irrilevante punto di partenza dell’Agip ereditata e rilanciata da Enrico Mattei nel dopoguerra[11].
Per certi versi la legge che nel 1953 istituì l’Ente nazionale idrocarburi (ENI), al netto delle differenze dovute ai tempi e alle esigenze diverse del mercato dell’energia, si pone nello stesso alveo normativo del Regio Decreto Legge n. 556 del 1926, nel senso che entrambi i dispositivi legislativi prevedono varie forme di controllo da parte dello Stato sulla costituzione e sull’attività degli organi direttivi e simili modalità di ricapitalizzazione.
La legge, che sortiva da un Disegno di legge presentato dal Ministro Ezio Vanoni (1903 – 1959) nel 1951, dopo una condivisione in Commissione Industria, riunita in sede referente, fu approvata alla Camera il 9 luglio 1952. Al Senato doveva passare senza emendamenti e modifiche poiché, dato l’approssimarsi dello scioglimento delle camere per la scadenza della legislatura, non vi era il tempo per un nuovo passaggio alla Camera. I più strenui oppositori della legge furono Luigi Sturzo (1871 – 1959) e il liberale Pasquale Jannaccone (1872 – 1959) che accusavano il governo e Mattei di voler reinserire una forma di statalismo nel settore dell’industria petrolifera dopo l’esperienza che essi consideravano fallimentare dell’Agip fascista. Essi presentarono in Commissione Industria al Senato vari emendamenti puntando soprattutto a cancellare il regime di monopolio delle concessioni esplorative nella Valle Padana che la legge, all’art. 2, riconosceva all’Eni. Don Sturzo doveva illustrare in Senato la relazione di minoranza ma non si presentò.
Votarono contro la legge Liberali, Monarchici, MSI, PCI e PSI. In verità non ci fu un’opposizione serrata ed ostruzionistica perché sarebbe bastato moltiplicare gli interventi in aula da parte dei singoli soggetti politici di opposizione e non vi sarebbe stato il tempo per approvare definitivamente la legge prima dello spirare della legislatura. Molti commentatori spiegarono questa forma “morbida” di opposizione col fatto che in fin dei conti la legge riconosceva all’Eni il monopolio delle ricerche e delle estrazioni in Valle Padana, situazione che si era oramai consolidata nel tempo sin dalle prime ricerche dell’Agip negli anni Trenta, insomma un dato storico oramai ritenuto irreversibile[12].
A distanza di anni, così Mattei avrebbe commentato il significato di quella sua battaglia politica e parlamentare: «Questa decisione (quella di istituire con legge dello stato l’Eni n.d.r.) era motivata fondamentalmente da tre considerazioni: 1) solo un’azienda pubblica dà garanzia di sfruttare a fondo le nuove risorse senza adottare pratiche restrittive; 2) attraverso l’impresa pubblica, lo Stato acquisisce la rendita mineraria e la destina a fini d’interesse nazionale; 3) la presenza dell’impresa pubblica evita concentrazioni di potere privato, che eserciterebbero una pericolosa pressione sulla vita nazionale. L’esperienza di questi anni ha dimostrato la bontà della decisione presa. Infatti, la politica di produzione dell’ENI, ispirata al criterio di fornire il massimo contributo al reddito nazionale, si è concretata in un volume di attività molto maggiore di quello che sarebbe stato realizzato da imprese private intente al conseguimento del massimo profitto aziendale»[13].
A leggerla ed interpretarla letteralmente, fuori dal contesto storico in cui fu partorita ed operò, questa legge si presterebbe facilmente alle accuse di “statalismo” per le numerose forme di controllo, di indirizzo, oltre che di finanziamento, da parte dello Stato. All’articolo 10, per esempio, si prevedeva che «Le direttive generali che l’Ente deve seguire per l’attuazione dei propri compiti sono determinate da un Comitato composto dal Ministro per le finanze, dal Ministro per il tesoro e dal Ministro per l’Industria e il commercio che lo presiede»[14]. Dalla composizione di questo comitato si comprende come essa fu frutto anche di una lunga e puntigliosa trattativa tra le varie anime della Democrazia Cristiana. Ezio Vanoni, maggior sponsor politico di Mattei, dal cui disegno di legge partì il lungo processo di elaborazione, dovette cedere la presidenza del Comitato al Ministro dell’Industria e del commercio, l’economista Pietro Campilli (1891 – 1974), per soddisfare quella logica di centellinato equilibrismo che, all’epoca, soprintendeva al processo decisionale e legislativo.
Il Consiglio di Amministrazione dell’Eni era nominato, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta, per 12 componenti su 14, del Ministro delle finanze e del Ministro dell’industria e del commercio. (Art. 12). Lo stesso meccanismo presiedeva alla nomina dei componenti della Giunta esecutiva (Art. 13) e del Collegio sindacale (Art. 14)[15]. Vi sono però elementi, non del tutto trascurabili, che danno l’idea di come Enrico Mattei non intendesse cedere ad una logica di mera nazionalizzazione. All’articolo 18, al fine di consentire una gestione di tipo “privatistico” dell’Ente e sfuggire all’equazione che vorrebbe un’impresa pubblica per forza di cose rispondente ad inefficienza e diseconomia, si stabilì che i rapporti coi dipendenti dovessero essere regolamentati da «contratti di impiego privato»[16].
Sempre all’articolo 12, laddove si disciplina la composizione del Consiglio di Amministrazione, l’ultimo comma prevede che due dei componenti del Cda siano «un dirigente o un impiegato e un operaio in servizio all’Ente Nazionale Idrocarburi, designati dai dipendenti stessi»[17] Insomma viene introdotto un elemento di partecipazione alla gestione dell’impresa che deriva, per “li rami” dei mentori di Mattei all’Università Cattolica, dalla Dottrina sociale della Chiesa[18].
Spesso si annovera l’Eni all’interno di quel complesso di aziende, una volta definite “parastatali”, che tra anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso portarono ad innescare un serio e grave processo inflattivo con il loro spreco di risorse pubbliche, l’inefficienza dei servizi forniti e gli scarsi livelli di produttività. In quest’ottica si assimila il ruolo e la funzione assolta dall’Eni a quello delle “partecipazioni statali” e dell’Istituto per la ricostruzione industriale (I.R.I.), anch’esso nato, come l’Agip, durante il Ventennio. Giulio Sapelli (1947), economista e studioso formatosi in ambito Eni, si è occupato del tema e sostiene che fra I.R.I. e Eni vi è una sostanziale differenza. Mentre l’I.R.I. aveva la funzione di salvare aziende private in odore di fallimento ed in crisi ed interveniva a ricapitalizzarle e a programmarne una più corretta gestione, l’Eni costituiva una sorta di “costellazione” aziendale (holding) che raggruppava intorno alla vecchia Agip una serie di aziende interessate a coprire l’intero ciclo di lavorazione degli idrocarburi: dal così detto upstream (la ricerca e la captazione degli idrocarburi), al downstream, la lavorazione e la trasformazione della risorsa energetica per farne carburante (benzina, gasolio ed altro), oppure prodotti industriali come i fertilizzanti e i filati sintetici con relativa commercializzazione di questi prodotti. L’intervento pubblico, nel caso dell’Eni non aveva valore temporaneo e provvisorio, ma strutturale, «con la presenza di subholding operative anziché di subholding finanziarie»[19].
Al di là, però, di questa analisi “testuale” e piuttosto teorica della legge istitutiva dell’Eni, è interessante comprendere se il suo propugnatore e, per certi versi, beneficiario principale abbia usato l’Eni davvero come strumento di politica economica sussidiaria oppure come esperimento di mascherata e surrettizia nazionalizzazione di alcune attività economiche per aprire la stagione delle partecipazioni statali e di tutto ciò che ne è conseguito dopo la degenerazione di questo indirizzo di politica industriale.
Già con l’Agip, dopo aver vinto la battaglia contro la sua messa in liquidazione, avendo intuito con decenni di anticipo l’importanza strategica del metano e del gas, Mattei arrivò a costruire un’ampia rete di metanodotti nel Nord Italia e a metanizzarne il comparto produttivo. Il gas era fornito alle aziende, che sarebbero state protagoniste del boom industriale a cavaliere tra anni Cinquanta e Sessanta, a costi inferiori del 30% rispetto al costo dell’energia prodotta da carbone o da petrolio importato. Basti solo pensare che dal 1948 al 1952, alla vigilia della fondazione dell’Eni, si passò da una rete di metanodotti di 257 km, del diametro di 96 mm che trasportava 20 milioni di metri cubi ad una rete di 2064 km, del diametro di 197,5 mm, in grado di trasportare 1,2 miliardi di metri cubi di gas[20]: «È estremamente improbabile che una delle compagnie petrolifere internazionali che avevano tanto premuto per entrare nell’affare (quello di estrarre in Valle Padana n.d.r.) […] avrebbe compiuto l’opera con la stessa rapidità. L’altra alternativa, una impresa privata nazionale, avrebbe molto difficilmente potuto eguagliare la grande rapidità dell’Eni nel portare all’industria italiana tutto il gas naturale appena scoperto che essa era in grado di usare. Ogni normale impresa privata avrebbe attuato un tale compito con la rapidità consigliata da criteri commerciali ‒ come il desiderio di risparmiare le riserve o di non disturbare l’offerta degli altri combustibili ‒ che avrebbero rallentato il processo»[21].
Quando nel 1958 (l’Eni era stata già istituita) fu scoperto il metano nella valle del Basento in Basilicata, con i pozzi di “Ferrandina 1” e “Grottole 1”, Mattei voleva realizzare subito un metanodotto per portare il gas alla zona industriale di Bari e fornire energia a buon mercato alla “Pignone Sud”, consorella meridionale del “Nuovo Pignone” che faceva parte della “costellazione Eni”, l’industria metalmeccanica “Officine Calabresi” ed altre piccole e medie aziende di quella che iniziava ad apparire come “la Milano del Sud”. Fu l’opposizione della classe politica lucana, con il Ministro Emilio Colombo (1920 – 2013) in prima linea, a ritardare questo processo per ottenere la costruzione di un petrolchimico nella medesima valle in cui era stato scoperto il gas. Questa dialettica è emblematica dello scontro tra una visione “sussidiaria” dell’apporto dell’Eni ed una visione, quella dei politici, di ordine più che altro “assistenzialistica”.
«Con questa iniziativa l’approccio di Mattei ai problemi del Sud fu completamente diverso rispetto alla cultura politica del momento: la fabbrica (Pignone Sud), infatti, fu ubicata ai margini dell’area di sviluppo industriale, strumento che negli ordinamenti e nei programmi dell’epoca, doveva assicurare infrastrutture e fornire servizi alle imprese che in tale area si andavano a posizionare. Però, in molti casi, tali organismi erano strumenti di potere in mano a notabili del posto e politicanti emergenti il cui obiettivo principale non era certo quello di assicurare infrastrutture e servizi»[22].
Nel petrolchimico di Ravenna si arrivò a produrre 350.000 tonnellate di fertilizzanti all’anno al costo di 19,31 lire al kg, rispetto alle 29 lire al kg della concorrenza rappresentata dal duopolio di Montecatini e Edison. Ciò consenti all’Anic di Ravenna (un’altra azienda della costellazione Eni) di stimolare e sostenere, in funzione di sussidiarietà, l’agricoltura del Meridione ancora largamente restìa all’utilizzo razionale dei fertilizzanti chimici. Questa attività fu favorita dall’intuizione di sottoscrivere con Federconsorzi (la federazione dei consorzi agrari) una convenzione che affidava, in cambio di prezzi ribassati del prodotto, l’esclusiva delle forniture allo stabilimento petrolchimico ravennate[23].
Dal 1954 (l’anno successivo a quello dell’istituzione dell’Eni) al 1962, l’anno della tragica morte di Mattei, l’Eni passò da 5.000 tonnellate di greggio prodotto e raffinato in Italia a 6.500[24]. Dal 1953 agli inizi del 1963 la rete di trasporto del gas messa in opera dall’Eni passava da 2000 km a 4.400 km, cui sono da aggiungere altri 1570 km di reti urbane, con un incremento degli impieghi industriali del 169% e degli impieghi civili del 707%[25]. Non c’era in Italia un tessuto industriale privato in grado di ottenere tali successi e produrre questi risultati. Operava solo una rete di piccole aziende che acquistavano greggio dal cartello delle “Sette sorelle” e lo lavorava per immetterlo nel mercato ai prezzi stabiliti dal cartello. Queste aziende private (definite dagli americani minors) non mostravano interesse alcuno ad emanciparsi da quella condizione, perché i loro profitti, in quel ruolo che si erano ritagliato, erano già abbastanza remunerativi per loro.
Alcuni detrattori del “Principale”, come lo chiamavano i suoi dirigenti in Eni, hanno valutato negativamente il sentimento di rivalsa ed il desiderio di riscatto che spesso era alla base dell’attivismo di Mattei e che egli non esitava a manifestare pubblicamente. Ma al fondo di questo sentimento vi era un forte senso della giustizia e della solidarietà, uniti ad un nobile orgoglio di italiano che amava la propria Patria non astrattamente ed ideologicamente ma, più concretamente, nelle persone e nei cittadini che questa comunità nazionale componevano.
«Ci raccontavano che eravamo un Paese povero e destinato a rimanere povero; un Paese carico di braccia che erano destinati alla emigrazione; un Paese dove non si sarebbe mai potuto fare niente. Ma la realtà è un’altra. A mano a mano mi sono reso conto che molti di questi insegnamenti erano falsi e che noi non eravamo il Paese del dolce far niente come ci dipingevano. Ho potuto vedere in questi anni come in Italia si lavori moltissimo, come ci si impegni enormemente. E abbiamo cercato nei limiti di quelle che erano le nostre possibilità, di esportare lavoro e non lavoratori»[26].
L’Eni di Mattei non è stata l’opera di un artefice solitario, destinata a sparire e a soccombere nel difficile mercato dell’energia e degli idrocarburi, una volta morto il suo “Principale”; insomma, una sorta di imbarcazione che, perduto il suo “solo uomo al comando”, si sarebbe infranta sugli scogli al primo mare agitato. Negli anni tra il 1953 e il 1962 era stata costruita una tecnostruttura con 200 dirigenti dell’età media di 38 anni, 1600 ingegneri e 2000 chimici e fisici, 3000 geometri e periti tecnici. «Rappresentammo, giovani com’eravamo, un grande serbatoio futuro di Eni, la sua stessa stabilità: eravamo il braccio destro e la mente del Fondatore anche se lui non c’era più», asserì Giuseppe Accorinti (1929 – 2019) un dirigente Eni tra i più stimati da Mattei.[27]
Così Daniele Pozzi (1969), forse lo studioso più acuto e documentato di questi aspetti dell’opera di Enrico Mattei, ha riassunto la notevole eredità che egli ha lasciato all’Italia: «Dubito che Mattei auspicasse che il suo sforzo rimanesse un caso unico, è più probabile che vedesse l’Eni come un apripista, che avrebbe indicato allo Stato e alle altre aziende italiane la via da seguire per portare il paese a un livello di sviluppo economico e civile pari alle prime nazioni del mondo. Un percorso, insomma, che si poteva e si doveva imitare, perché basato su intelligenza e impegno quotidiano e non sul ruolo messianico dell’imprenditore. L’Eni è rimasta in pratica l’unica grande impresa nazionale, in Italia esistono oggi qualche centinaio di medie imprese che sono leader globali all’interno della propria nicchia di prodotto; tuttavia è praticamente impossibile ritrovare nel paese un progetto industriale in grado di raccogliere attorno alla propria espansione impegno politico, energie intellettuali, cognizioni economiche e sapere tecnico – scientifico in maniera paragonabile a quando l’Eni di Mattei calamitava giovani promettenti ansiosi di mettersi alla prova nello strano mondo del petrolio»[28].
[1] Cfr. I. Pietra, La pecora Nera, Sugarco Edizioni, Milano, 1987, p. 24
[2] Cfr. F. Bovo, Enrico Mattei. L’uomo della rinascita, Anteo Edizioni, Caviaga 2016, p. 14.
[3] Cfr. Ivi, p. 15.
[4] G. Accorinti, Quando Mattei era l’impresa energetica io c’ero, Hacca Edizioni, Matelica, 2006, p. 259.
[5] E. Mattei, Dualismo tra capitalismo e socialismo: il capitalismo privato e statale in Italia, discorso pronunciato a Pechino durante la sua visita il 9 dicembre 1958, in Id., Scritti e discorsi, Rizzoli, Milano, 2012, p. 624.
[6] G. Volpe, Storia d’Italia Moderna 1898 – 1910, Vol. 2, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 2002, p. 166.
[7] M. Magini, L’Italia e il petrolio tra storia e cronologia, Mondadori, Milano, 1976, p. 51. Einaudi ovviamente pensava, da liberale classico e smithiano, che la “invisibile mano del mercato”, attraverso le importazioni di “genuino petrolio straniero” avrebbe potuto risolvere il problema. Ciò che sta accadendo in questa contingenza storica sta a dimostrare il fondamento ideologico ed irrealista di quell’assunto.
[8] Regio Decreto Legge 3 Aprile 1926, n. 556, Articolo 1: https://bit.ly/40rAiqO
[9] Ivi, articolo 6.
[10] Ivi, articolo 3.
[11] F. Bovo, op.cit., pp. 39-40. Per una più ampia ricognizione sui risultati dell’Agip fascista mi permetto di segnalare il mio Enrico Mattei. Costruire la sovranità energetica: dal gattino impaurito al cane a sei zampe, Historica Giubilei Regnani Editore, Roma, 2022.
[12] Cfr. L. Giordano, Enrico Mattei, op. cit., pp. 175-184.
[13] E. Mattei, L’impresa pubblica nel campo delle fonti di energia, in Id., op.cit., p. 709.
[14] Regio Decreto Legge 3 Aprile 1926, n. 556, Articolo 10.
[15] Cfr. Ivi.
[16] Ivi, Articolo 18.
[17] Ivi, Articolo 12.
[18] M. Romano, Mattei, Boldrini e i paesi “emergenti” in M. Bocci (a cura di), Cultura in Azione. L’Eni e l’Università cattolica per lo sviluppo dei popoli, Ed. “Vita e Pensiero”, Milano, 2017, pp. 30-31. In verità tra le varie personalità che influirono sul pensiero economico di Mattei vi furono anche quegli esponenti democristiani, come A. Fanfani (1908-1999), M. Ferrari Aggradi (1916-1997) e A. Moro (1916 -1978) stesso, che si erano “formati” durante i “Littoriali” del Ventennio con lo sforzo di favorire una sintesi tra il corporativismo di radice fascista e quello di stampo cattolico. Al riguardo suggerisco la consultazione del mio Enrico Mattei, op. cit., pp. 115-116.
[19] G. Sapelli – F. Carnevali, Uno sviluppo tra politica e strategia. Eni (1953 – 1985), Franco Angeli editore, Milano, 1992, p. 11.
[20] Cfr. M. Magini, op. cit., pp. 97-104.
[21] Ivi, p. 104.
[22] B. Li Vigni, Enrico Mattei. L’uomo del futuro che inventò la rinascita italiana, Editori Riuniti, Roma, 2014, p. 116.
[23] Cfr. L. Giordano, Enrico Mattei, op. cit., pp. 234-235.
[24] Cfr. D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe. Tecnologia, conoscenza e organizzazione nell’Agip e nell’Eni di Enrico Mattei, Marsilio, Venezia, 2009, p. 439.
[25] M. Magini, op. cit., p. 134.
[26] E. Mattei, Conferenza stampa presso l’Associazione della stampa estera, Roma 14 febbraio 1962, in Id., op. cit., p. 828.
[27] M. Verdenelli, I settemila eredi del Fondatore: conversazione con Giuseppe Accorinti, l’ultimo degli “enfants di Mattei”, in LA NOTIZIA.net, Grottammare 5 giugno 2019, pp. 2-4. Si tratta di un periodico on line marchigiano in cui Giuseppe Accorinti veniva intervistato sull’eredità in termini di tecnostruttura lasciata da Mattei all’Eni.
[28] D. Pozzi, op. cit., pp. 508-509.